Don Andrea Santoro, prete romano. Testi e lettere dalla Turchia con l’omelia del card.Camillo Ruini per i suoi funerali (tpfs*)

Ripresentiamo on-line i testi sulla vita e la morte di don Andrea Santoro, prete romano martirizzato il 5 febbraio 2006 a Trabzon, che abbiamo presentato su Incontro. Potete leggere di seguito la trascrizione dell’omelia di S.Em. il card.Camillo Ruini per i suoi funerali, l’ultima lettera scritta da d.Andrea al Papa sei giorni prima della sua morte, un articolo, “La mia Turchia”, scritto da d.Andrea per l’Opera Romana Pellegrinaggi per presentare i motivi di un pellegrinaggio cristiano in Turchia, ed infine un breve articolo, sempre di d.Andrea, sul senso del dolore dopo la tragedia dello tsunami. I titoli nell’omelia sono redazionali.

L’Areopago


Indice


Omelia del card. Camillo Ruini per i funerali di d.Andrea Santoro, celebrati nella Basilica di S.Giovanni in Laterano in Roma il venerdì 12 febbraio 2006

D.Andrea Santoro, un prete di Roma

Celebriamo la Messa di suffragio per un sacerdote romano, don Andrea Santoro. Uno dei tanti, perché questa Diocesi ha circa 900 sacerdoti e ogni anno alcuni di loro fanno ritorno al Signore. Eppure questa Basilica è straordinariamente affollata, e tutti sappiamo il perché. Don Andrea aveva 60 anni, era originario di Priverno ma come sacerdote era totalmente romano: nato in una famiglia profondamente cristiana, si era formato nel Seminario Romano Minore e poi in quello Maggiore. Era diventato sacerdote 35 anni fa, il 18 ottobre 1970. Poi aveva percorso le tappe consuete della vita e del ministero di un sacerdote romano: vicario parrocchiale nella parrocchia dei Santi Marcellino e Pietro al Casilino e poi in quella della Trasfigurazione. In seguito parroco della parrocchia di Gesù di Nazareth e finalmente di quella dei Santi Fabiano e Venanzio, fino all’Anno Santo del 2000. E tuttavia già da molti anni don Andrea manifestava una strana inquietudine, che poteva sembrare un’instabilità di carattere. Ha chiesto infatti a più riprese e con forte insistenza, prima al Cardinale Poletti e poi a me, di poter lasciare Roma per dedicarsi a esperienze nuove e diverse, sempre però incentrate sulla ricerca della prossimità a Cristo e sulla preghiera. Così già nel 1980 ha passato un periodo a Gerusalemme e anche nel 1993-94 ha trascorso un anno sabbatico, guidando vari pellegrinaggi dell’Opera Romana con meta la Terra Santa e in genere il Medio Oriente.

Il cristianesimo non è occidentale, poiché è giunto a noi dall’Oriente

Ma la sua propria strada, la sua chiamata specifica e definitiva don Andrea l’ha individuata con certezza soltanto in età matura, attraverso le esperienze dei pellegrinaggi che continuava a guidare in Medio Oriente e l’affettuosa insistenza dell’allora Vicario Apostolico dell’Anatolia, la parte orientale della Turchia, mons. Ruggero Franceschini, che lo voleva con sé, come sacerdote “fidei donum”, dono della fede, mandato da Roma a rendere presente Cristo in quelle terre dove la fede cristiana aveva messo agli inizi robuste e feconde radici, giungendo da lì ben presto fino a Roma. Proprio questo era l’animo e lo spirito con cui Don Andrea chiese di andare in Anatolia: intendeva essere una presenza credente e amica, favorire uno scambio di doni, anzitutto spirituali, tra l’Oriente e Roma, tra cristiani, ebrei e musulmani.
All’inizio la sua richiesta di partire per l’Anatolia mi ha lasciato perplesso e ha trovato in me una certa resistenza: mi rincresceva privare Roma di un ottimo parroco e temevo che don Andrea, uomo pieno di iniziative, non reggesse a lungo in una situazione che non consentiva, invece, molti margini di azione e nemmeno una ricchezza di relazioni. Tra l’altro don Andrea ignorava del tutto la lingua turca. Egli però era un uomo tenace nel domandare, quando riteneva di dover corrispondere a una chiamata del Signore. Così è partito e ricordo l’insistenza con la quale, allora, e tante volte in seguito, mi chiedeva conferma che però egli non andava di propria volontà e nel proprio nome, ma nel nome e per mandato della Chiesa di Roma. Sì, perchè don Andrea era, istintivamente, un uomo della Chiesa; nemmeno concepiva di poter appartenere a Cristo senza appartenere alla Chiesa.
È cominciato così, nel 2000, il suo soggiorno in Anatolia, dapprima ad Urfa, vicino alla località biblica di Harran, la terra di origine del Patriarca Abramo: ad Urfa don Andrea era intimamente felice, pur nella solitudine in cui viveva e nelle grandi difficoltà dell’apprendimento della nuova lingua. Sentiva infatti compiersi misteriosamente in se stesso le parole della chiamata di Abramo, che spesso ripeteva: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò” (Gen 12,1).

Testimone di Cristo con il piccolo gregge di Trabzon

Dopo tre anni però si apriva per lui una possibilità nuova, dove avrebbe potuto avere una sia pur piccola comunità cristiana e una chiesa da riaprire e restaurare. Andava dunque a Trebisonda – Trabzon in turco –, con gioia e con fiducia, e lì continuava a pregare e a cercare di fare del bene, nel rispetto delle leggi locali, fino a domenica scorsa, a quella fine improvvisa che tutto il mondo conosce ma di cui, nell’ottica di don Andrea, non è importante approfondire i particolari. Dobbiamo soltanto respingere con sdegno le accuse e insinuazioni assurde e calunniose riguardo a mezzi non leciti per ottenere conversioni, escluse in radice dalla sua rigorosa coscienza di cristiano e di sacerdote.
Vorrei soffermarmi piuttosto sulla sostanza vera della sua vita e della sua missione, che è anche il significato e l’insegnamento della sua morte. Don Andrea ha preso tremendamente sul serio Gesù Cristo e, da quell’uomo tenace, rigoroso, addirittura testardo che era, ha cercato con tutte le sue forze di muoversi sempre e rigorosamente nella logica di Cristo, e ancor prima di affidarsi a Cristo nella preghiera, non presumendo certo delle proprie forze umane. Per lui dunque valgono davvero le parole che l’Apostolo Paolo ha detto di se stesso: “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21).
Per questo don Andrea è stato, inseparabilmente, uomo di fede e testimone dell’amore cristiano. Uomo di fede, anzitutto: nei molti anni del suo ministero di sacerdote a Roma non si stancava di cercare persone da condurre, o ricondurre, all’incontro con il Signore. Lo spingeva la certezza profonda che Gesù Cristo è il Figlio unigenito di Dio e il nostro unico Salvatore: una certezza che sosteneva la sua vita e gli chiedeva imperiosamente di conformarsi a Cristo in tutte le scelte e i comportamenti quotidiani. Perciò don Andrea viveva poveramente, era esigente con se stesso, e non di rado anche con gli altri. Le sue richieste, però, erano dettate dall’amore, nascevano dalla carità di Cristo che ardeva in lui e che a volte sembrava fargli dimenticare un poco il senso della misura.

Accettare le limitazioni nel nome di Cristo

Al centro dei suoi comportamenti stava infatti una semplice convinzione: Gesù Cristo ha dato per tutti la sua vita sulla croce e quindi un discepolo di Cristo, e massimamente un sacerdote, deve a sua volta voler bene a tutti e spendersi per tutti, senza distinzioni. Come scrive l’Apostolo Paolo, “l’amore di Cristo ci spinge al pensiero che uno è morto per tutti” (2Cor, 5,14).
Così, forse, possiamo comprendere più profondamente la sua scelta di andare a vivere e a svolgere il ministero in Turchia, anzi, nella parte per noi più remota della Turchia. Don Andrea era un uomo di intelligenza penetrante, e all’occorrenza anche molto concreto. Sapeva bene che in quella terra e tra quelle popolazioni il suo slancio apostolico avrebbe dovuto accettare moltissime limitazioni e di fatto, serenamente, le aveva accettate e interiorizzate. Era convinto infatti che una presenza di preghiera e di testimonianza di vita avrebbe parlato da sé, sarebbe stata segno efficace di Gesù Cristo e fermento di amore e riconciliazione.

Il coraggio di d.Andrea

La sua fine violenta potrebbe portare a concludere che si illudeva. Ma egli una simile fine l’aveva sicuramente messa nel conto, considerata una possibilità concreta: molte sue parole, e forse ancor più alcuni suoi silenzi, ci rendono certi di questo; anch’io ne sono testimone. Il fatto è che don Andrea credeva fino in fondo alle parole di Gesù che abbiamo ascoltato nel Vangelo di questa Messa: “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. In realtà don Andrea era un uomo a cui il coraggio non mancava, un uomo abbastanza lucido e animoso da affrontare giorno dopo giorno, inerme, il rischio della vita. Il suo, infatti, era un coraggio cristiano, quel tipico coraggio di cui i martiri hanno dato prova, attraverso i secoli, in innumerevoli occasioni: un coraggio cioè che ha la sua radice nell’unione con Gesù Cristo, nella forza che viene da lui, in maniera tanto misteriosa quanto vera e concreta.
Di un coraggio analogo ciascuno di noi ha bisogno, se vuole affrontare da cristiano il cammino della vita. E ne abbiamo bisogno tutti insieme, se vogliamo, nell’attuale situazione storica, affermare il diritto alla libertà di religione, madre di ogni libertà, come valido in concreto ovunque nel mondo, davvero senza discriminazioni.
Noi siamo oggi, pur con tutti i nostri difetti, infedeltà e peccati, i cristiani di Roma, e don Andrea era certamente un autentico cristiano di Roma. Ci fa bene perciò ascoltare le parole della Lettera di San Paolo ai Romani che sono state lette nella seconda lettura: “Io sono infatti persuaso che né morte né vita … potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore”. Così saremo aiutati anche noi a non cedere alla paura, ricordando l’ammonimento di Gesù: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima: temete piuttosto Colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna” (Mt 10,28).
Ho messo l’accento sul coraggio di don Andrea e sul significato del coraggio cristiano. Questo coraggio, però, non è per colpire ed uccidere, ma per amare e per costruire, in concreto per costruire la comprensione, l’amicizia e la pace là dove troppo spesso regnano l’intolleranza, il disprezzo e l’odio. Ripeto qui le commosse parole pronunciate mercoledì da Papa Benedetto, dopo aver ricordato la lettera di don Andrea che aveva appena ricevuto: “Il Signore … faccia sì che il sacrificio della sua vita contribuisca alla causa del dialogo fra le religioni e della pace tra i popoli”. Questo era certamente l’animo con il quale don Andrea è andato a vivere in Turchia e questo è il senso che egli intendeva dare a una sua eventuale morte violenta e prematura.

Nella morte di d.Andrea gli elementi costitutivi del martirio cristiano

Spesso si pensa che per ogni singolo uomo, nel nostro caso per don Andrea, con la morte tutto sia terminato. Già la Sapienza dell’Antico Testamento, che abbiamo ascoltato nella prima lettura, è però di diverso avviso. Essa ci assicura che “le anime dei giusti sono nelle mani di Dio” e “nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti … la loro fine fu ritenuta una sciagura”, ma invece “la loro speranza è piena di immortalità”. Don Andrea era nutrito di questa certezza; anzi, aveva una speranza ancora più grande: quella speranza e quella certezza che Gesù stesso attesta nel Vangelo di questa Messa, quando parla del chicco di grano che morendo produce molto frutto. Dice infatti Gesù, riferendosi alla propria morte ormai imminente: “È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo”. Anche don Andrea, in unione con Gesù, può dire queste parole: la sua tragica morte è infatti, in realtà, la sua glorificazione; non solo la glorificazione effimera che possiamo attribuirgli noi, ma la gloria eterna che solo Dio può dare.
Permettetemi, a questo riguardo, di esprimere con franchezza la mia personale convinzione. Rispetteremo pienamente, nel processo di beatificazione e canonizzazione che ho in animo di aprire, tutte le leggi e i tempi della Chiesa, ma fin da adesso sono interiormente persuaso che nel sacrificio di don Andrea ricorrono tutti gli elementi costitutivi del martirio cristiano.

Il perdono offerto dalla madre di d.Andrea al giovane omicida

Termino ricordando con commozione le parole pronunciate da sua madre, Maria Polselli vedova Santoro: “La mamma di don Andrea perdona con tutto il cuore la persona che si è armata per uccidere il figlio e prova una grande pena per lui essendo anche lui un figlio dell’unico Dio che è amore”.
Alla mamma e alle sorelle di don Andrea siamo tutti vicini con l’affetto, la gratitudine e la preghiera. Esse condividono fino in fondo la fede del loro figlio e fratello e perciò sanno che egli, adesso, è a loro ancora più vicino, nel mistero del Dio che è amore. Allo stesso modo, don Andrea rimane nel cuore della Chiesa di Roma e questa Chiesa confida nella sua intercessione, come in quella di tanti altri propri figli che prima di Don Andrea hanno versato il sangue per il Signore.


Lettera inviata da d.Andrea Santoro a Sua Santità il Papa Benedetto XVI, pochi giorni prima della morte

Roma 31 gennaio 2006

Santità,
le scrivo a nome di alcune signore georgiane della mia parrocchia "Sancta Maria" a Trabzon (Trebisonda) sul Mar Nero in Turchia. Me l'hanno dettata in turco, la traduco come è uscita dalla loro bocca così gliela faccio avere in occasione della mia venuta a Roma. Io sono don Andrea Santoro, prete "Fidei donum" della chiesa di Roma in Turchia, nella diocesi di Anatolia, qui residente da 5 anni. Il mio gregge è formato da 8/9 cattolici, i tanti ortodossi della città e i musulmani che formano il 99 per cento della popolazione. Sarebbe lei Santità, sia il vescovo della mia diocesi di partenza (Roma) sia il vescovo della mia diocesi di arrivo dal momento che si tratta di un "Vicariato apostolico". È a questo doppio titolo che le recapito la lettera delle tre georgiane.

CARO PAPA,
a nome di tutti i georgiani la salutiamo.
Da Dio chiediamo per te salute nel nome di Gesù.
Siamo molto contenti che Dio ti ha scelto come Papa. Prega per noi, per i poveri, per i miseri di tutto il mondo, per i bambini. Crediamo che le tue preghiere arrivano dirette a Dio. I Georgiani sono molto poveri, hanno debiti, senza casa, senza lavoro. Siamo senza forze.
Viviamo in questo momento a Trabzon e lavoriamo. Tu prega che Dio ci benedica e crei in noi un cuore nuovo e pulito. Noi non dimentichiamo la vita cristiana e per i turchi cerchiamo di essere un buon esempio nel nome di Dio, perché per mezzo nostro vedano e glorifichino Dio.
Noi abbiamo molte cose da dire e da raccontare ma, Inshallah, se verrai a Trabzon potremo parlare faccia a faccia. La tua venuta sarà una festa felice. Da Dio chiediamo e auguriamo per te salute e pace e vita cristiana. Baciamo le tue mani. Saremo contenti che tu ci risponda e ci mandassi una foto con la tua firma.
Tu come papà comune prega per don Andrea e Loredana, che Dio dia loro forza e a Trabzon per mezzo loro la chiesa cresca e si moltiplichi.
Maria, Marina e Maria".
A nome degli altri cristiani georgiani ti invitiamo a Trabzon per la tua prossima venuta a Novembre in Turchia.

Santità,
mi unisco a queste tre donne per invitarla davvero da noi. È un piccolo gregge, come diceva Gesù, che cerca di essere sale, lievito e luce in questa terra. Una sua visita, se pur rapida, sarebbe di consolazione e incoraggiamento. Se Dio vuole... a Dio niente è impossibile.
La saluto e la ringrazio di tutto. I suoi libri mi sono stati di nutrimento durante i miei studi di teologia. Mi benedica. E che Dio benedica e assista anche lei.

don Andrea Santoro
Prete "Fidei donum" della diocesi di Roma in Turchia,
diocesi di Anatolia, città di Trabzon sul Mar Nero,
chiesa di "Sancta Maria


La mia Turchia
di d.Andrea Santoro

Perché andare in Turchia? Vorrei rispondere partendo dalla mia esperienza personale e passando per l’area geografica di cui la Turchia fa parte: il Medio Oriente. Sono venuto in contatto la prima volta con il Medio Oriente (Palestina, Giordania, Siria, Egitto, Libano, Turchia) circa 20 anni fa. Vi trascorsi sei mesi di seguito. Era un tempo in cui cercavo di fare chiarezza nella mia vita. Cercavo un luogo dove scendere alle radici del mio cuore e delle ragioni della vita. Cercavo una vicinanza con Dio e pensavo di poterla trovare dove Dio aveva cercato una vicinanza con noi, nella terra, come dice l’apostolo Giovanni, dove la Vita si è fatta «visibile» e dove il verbo si è fatto carne ed è venuto ad «abitare» in mezzo a noi. Ecco, questa è la parola giusta: cercavo un luogo in cui «abitare con Dio» e avere il tempo per ascoltarlo, per parlargli, per capirlo, per farmi prendere in custodia da lui. L’ho trovato e questo mi ha lasciato un segno indelebile, che ritrovo intatto ogni volta che mi guardo dentro.

Una vita «nuova» in luoghi nuovi

La mia vita è modificata, grazie a una terra dove la «grazia di Dio» ha lasciato le sue impronte stampate sulle zolle, sui paesaggi, sui luoghi, oltre che su un Libro sacro e su una comunità di uomini, dove si prolunga visibilmente l’umanità di Gesù. Il luogo e le presenza cristiane che in esso ho incontrato hanno reso più chiaro il Libro della Bibbia e me lo hanno fatto penetrare in tutta la sua profondità. A contatto con la concretezza di questa terra e con la concretezza della Parola, che in essa è risuonata, ho revisionato concretamente la mia vita. Non io, veramente, ho fatto questo ma la grazia di Dio che entrava in me, attraverso la Parola, la Terra e le persone provvidenziali che mi hanno aiutato a leggere e l’una e l’altra. Sono convinto che l’amore di Dio, come tutti i nostri amori – si dice spesso: «ci siamo incontrati lì in quel giorno» – ha delle coordinate storiche e geografiche. Lì Dio mi aspettava. Ognuno naturalmente ha i suoi appuntamenti con la grazia: per me questo è stato uno dei più importanti.

Il Medio Oriente, terra di Dio

È proprio questa una delle caratteristiche più peculiari del Medio Oriente (e in esso anche della Turchia): essere il luogo dove Dio storicamente ha deciso di posarsi, di parlare, di agire in modo speciale, di entrare a fondo nella storia degli uomini. Non soltanto la Palestina ed Israele, quindi, è Terra Santa ma, almeno per noi cristiani, anche la Turchia, per i motivi che vedremo più avanti. Il pellegrinaggio geografico ai Luoghi Santi perciò (come quello agli uomini santi) è, secondo me, una delle componenti della fede: il pensiero, la filosofia, l’interiorità, la lettura non bastano. Dio si è fatto visibile e tangibile, in un certo senso documentabile: nei luoghi, nelle persone, nei segni che dissemina sul nostro cammino. Questo andare «fuori» ci permette poi di entrare «dentro» di noi. È ciò che ho visto in tanti pellegrini. E anche la natura va guardata così.

La culla della civiltà

Ci sono altre caratteristiche che rendono importante il Medio Oriente e la Turchia: il luogo dove l’uomo si è affacciato alla civiltà (la cultura, l’arte, la religione, la scienza...); un luogo dove i popoli si sono incontrati o scontrati, dove le religioni hanno convissuto o si sono sfidate; un luogo dove gli imperi e il potere umano hanno mostrato la loro grandezza e la loro bassezza, dove si possono raccogliere i frutti e le conquiste più alte ma anche gli inganni e le illusorietà più perverse. Una buona scuola, insomma, per discernere il nostro tempo e sfatare i nostri inganni. Ma dove maggiore è la luce maggiori sono anche le tenebre: odi, divisioni, sopraffazioni, guerre religiose, spirito di conquista, egoismi, uso violento del nome di Dio, scontro di interessi, ambizioni. È come se il Medio Oriente fosse il segno di un contrasto che attanaglia il cuore dell’uomo e la storia dei popoli.

Ecco la «mia» Turchia

Veniamo ora alla Turchia. La mia Turchia. Desiderai per la prima volta andarvi per capire il seguito della vicenda di Gesù, dal momento che molti dei suo apostoli, partendo dalla Palestina, si mossero verso l’Asia minore (la Turchia di allora). Mi incuriosiva rendermi conto di quello che fu il loro viaggiare in mondi per essi sconosciuti, misurarsi con mentalità totalmente differenti, affrontare fatiche immani. Così cominciai a trascorre il mio mese di ferie estivo in Turchia, muovendomi, Bibbia alla mano, nelle varie località da essi toccate. Per me fu un’autentica scoperta: mi resi conto delle distanze enormi da loro affrontate (se la Palestina è grande come una regione italiana, la Turchia è grande quasi tre volte l’Italia), delle differenze climatiche, delle differenti realtà di vita e di pensiero con cui dovettero fare i conti.
Mi resi conto che la Turchia è una autentica Terra Santa: in essa predicarono e soggiornarono a lungo gli apostoli (almeno otto di essi); in essa nacque e si sviluppò il cristianesimo primitivo; in essa furono celebrati i primi sette Concili della Chiesa; in essa vissero grandi personaggi della nuova Chiesa che usciva fortificata dalla prova delle persecuzioni; in essa soggiornò anche Maria insieme a Giovanni; in essa nacquero scritti come il Vangelo e l’Apocalisse; in essa vissero le comunità cristiane degli efesini, dei galati, dei colossesi, a cui sono indirizzate le lettere di Paolo o le lettere di Pietro e di Giovanni. Scoprii città che sembravano rivivere sotto i miei occhi, come Efeso, Antiochia, Bergama, Mileto, Nicea, Tarso o intere regioni come la Cappadocia, la Cilicia, la Lidia, la Panfilia. Scoprii la piccola e umile casa di Maria sulle colline di Efeso.

L’intreccio di religioni

Cominciai a capire l’intreccio e il confronto tra cristianesimo e paganesimo, visitando il grande santuario del Dio della salute e della medicina ai piedi di Bergama (l’Asclepeion), il santuario per consultare il parere e la volontà degli dèi (il tempio di Apollo a Didima), i santuari della dea-madre della vita (l’Artemision) e della dea della bellezza e dell’amore (Afrodisias). Mi resi conto di come il cristianesimo dovette misurarsi, proprio qui in Turchia (in tutta la costa del mar Egeo), con le più importanti scuole filosofiche, morali e scientifiche di allora e con un potere politico che reclamava spesso un culto assoluto ed esercitava, contemporaneamente, paura e fascino.
Nello stesso tempo, dopo aver frequentato un corso specialistico di islamologia, scoprivo nella pratica il volto dell’Islam: il senso istintivo di Dio e della sua provvidenza; l’accoglienza spontanea della sua parola e della sua volontà; l’abbandono fiducioso alla sua guida; la preghiera quotidiana nel pieno della propria attività; la certezza dell’aldilà e della risurrezione; la sacralità della famiglia; il valore della semplicità, dell’essenzialità, dell’accoglienza, della solidarietà. Accanto alle luci anche le ombre: la paura di una vera libertà; il limite posto a un rapporto più interpersonale e intimo con Dio, ritenuto troppo in alto per poter scendere tra gli uomini; una figura di donna ancora molto da scoprire e da valorizzare; una pratica individuale e pubblica di fede da coniugare maggiormente con l’interiorità; un atteggiamento troppo timoroso nel dialogo tra culture e religioni.

Un Paese giovane

Della Turchia ho potuto intravedere i vari e numerosi strati delle ricchezze antiche in essa depositate: la civiltà di Roma, la civilizzazione greca, romana e bizantina, la civilizzazione turca nella sua componente più antica (quella selgiuchida), e quella più recente (ottomana). C’è poi la Turchia di oggi, quella nata negli anni 20 dall’intelligenza, dal coraggio e dalla iniziativa audace di Ataturk: una Turchia molto fiera, tutta tesa – con slancio e con fatica – verso il progresso economico, sociale e culturale. Una Turchia molto giovane che si è lasciata alle spalle (ma ancora in parte ne risente) lotte, odi e guerre d’inizio secolo; che cerca al suo interno una sempre migliore convivenza tra etnie, culture, sensibilità e fedi diverse, con l’obiettivo non facile di un equilibrio tra unità nazionale, autonomie locali e libertà personali. Una nazione che ha capacità e risorse per farcela, evitando i pericoli di un progresso solo economico e tecnico (senz’anima) e il rischio opposto di una concezione accentratrice e/o confessionale dello Stato. L’Europa è la sponda a cui guarda la Turchia e in cui è favorevolmente attesa.

Una Chiesa piccola e ricca

Ho conosciuto poi la Chiesa turca di oggi: piccola, dispersa, ricca di radici e di storia ma spesso ripiegata su se stessa e timorosa, bisognosa di ritrovare più la propria anima evangelica che una semplice identità confessionale. Infine, ho visto in parte la Turchia dell’Est e del Nord (la meno conosciuta in Occidente), con le sue bellezze naturali, le sue realtà popolari, le sue bellezze artistiche, le sue tradizioni culturali e religiose (sia cristiane che musulmane). Ho visto la Mesopotamia, sede dei racconti biblici della creazione, del peccato originale, della dispersione dei popoli, del diluvio universale, della presenza di Abramo e di tutti i patriarchi ebrei, luogo di passaggio del cristianesimo antico verso l’estremo oriente. Città come Urfa-Edessa, Harran, Mardin, Midiai, Malatia, Trabzon, Van, Dijarbachir o luoghi come le valli del Tigri e dell’Eufrate e il Nemrut Dag meritano di essere visti.
Così un anno fa, dopo quattro anni di preparazione, è nata la «finestra per il medio oriente»: l’idea di aprire uno spazio di comunicazione, di conoscenza e di scambio tra il nostro mondo occidentale e il mondo medio orientale...

Pellegrini non turisti

Io per primo con la mia comunità, in mezzo alla quale ho maturato questo progetto, mi son messo alla «finestra» per cominciare a dischiuderla. Sono partito per risiedere nella città di Abramo (Harran) e vivere un amore pieno di gratitudine e rispetto per questa terra; per studiare e assorbire il meglio del patrimonio antico e contemporaneo qui presente; per accendere una piccolissima e umilissima scintilla di dialogo, di buone relazioni e scambio di doni spirituali tra ebraismo, cristianesimo e Islam. Amici lettori, venite a visitare questa terra! Venite a scavare nel suo cuore, venite ad assorbire la sua antica linfa biblica-storica-culturale, capace di rivitalizzarci ancora oggi. Il mondo ha bisogno più di pellegrini che di turisti. Questo mondo orientale, in particolare, ha bisogno che si allaccino fili di dialogo, di conoscenza, di stima reciproca, di riconciliazione; fili attraverso cui ci si possa parlare, capire e comunicare le reciproche ricchezze facendosi testimoni della propria fede, dei propri cammini di ricerca.
Arrivederci in Turchia dove, se Dio vuole, sarò ad accogliervi.


Dopo lo tsunami
di d.Andrea Santoro

Dov'era Dio? Molti se lo sono chiesti davanti alla tragedia del sud-est asiatico. È una domanda seria. Una domanda che ci facciamo quotidianamente davanti a sofferenze di ogni tipo. Una domanda spesso sommessa, segreta, non gridata ma sofferta silenziosamente nell'intimo.
Due risposte mi vengono in mente.

La prima: «Non credo in Dio perché tutto va bene, ma siccome credo in Dio credo che in tutto c'è un bene nascosto che prima o poi verrà a galla». «Non credo in Dio perché lo vedo ma siccome credo in Dio lo vedo sempre misteriosamente all'opera. Solo attendo di capirlo».

La seconda risposta: chiedere a Dio, davanti al dolore, dove si trova non è una bestemmia ma una preghiera, una legittima richiesta di un uomo piccolo davanti a un Dio troppo grande. La preghiera non è un'invocazione astratta ma la presenza concreta di tutto il nostro essere davanti a Dio, l'offerta di me a lui così come sono. Il mio urlo, il mio pianto, la mia imprecazione, il mio dubbio, il mio vuoto interiore, il mio peccato che mi umilia, l'ingiustizia che mi calpesta sono la mia preghiera. Li pongo davanti a Lui come li vivo. A Dio si può dire tutto, perché la preghiera è il mio vissuto e la fede è gettarmi addosso a Lui con tutto il mio peso. Nella Bibbia si legge: «Fino a quando Signore continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?». DiciamoGli dunque: “Dove sei?” PuntiamoGli pure il dito addosso in un impeto di collera e di dolore, ma poi stringiamoci addosso a Lui e facciamoci portare: questo fa la differenza.

C'è una terza risposta, la più difficile e la più complessa, quella che maggiormente piega la nostra sicurezza, spiazza le nostre logiche più razionali, spezza il nostro orgoglio, la nostra illusione di dominare il mondo, la nostra pretesa di uomini giusti. La risposta è: dietro ad ogni tragedia c'è una tragedia più profonda che coinvolge l'universo intero. Una tragedia le cui radici sono nascoste e antiche ma i cui frutti amari sono di ogni tempo e ben visibili. Questa tragedia si chiama peccato e la si può paragonare, per capirla, a un'infezione nascosta che dà come sintomi convulsioni e attacchi di febbre altissima che stremano l'organismo e lo portano ogni volta sull'orlo del collasso e della morte. Il mondo, dice la Bibbia, è in preda al dolore e alla morte perché è in preda al peccato, non il mio o il tuo ma quello "nostro", quello che passa di padre in figlio a partire dal primo "no" orgoglioso che si è annidato in noi come una malattia ereditaria: «Grazie no, Dio! Non ho bisogno di te. Se tu ci sei, fai ombra alla mia libertà, perciò se devo esistere io, devi sparire tu».

Come l'uomo (il singolo come ogni comunità e ogni popolo) conosce gli attacchi distruttivi dell'ira, della gelosia, dell'invidia, della superbia, dell'egoismo, dello spirito di possesso, della sensualità, del culto del denaro e dell'apparenza, così la natura creata conosce attacchi ciechi e distruttivi, lo scatenarsi di forze incontrollabili che si abbattono all'improvviso, magari dopo aver covato a lungo, e seminano morte. Come non c'è sempre amicizia tra uomo e uomo, tra popolo e popolo, anzi una strana inimicizia e rivalità, così non c'è sempre amicizia tra uomo e natura, anzi spesso ostilità e guerra vera e propria. L'immagine di una natura idilliaca e di un uomo "buono" all'interno di essa, è falsa. Dio non c'entra perché Dio all'inizio, come dice la Scrittura, «ha fatto bene ogni cosa». C'entra il peccato che ha portato fuori centro l'asse dell'uomo e lo ha fatto impazzire. La creazione, casa dell'uomo, è rimasta sconvolta dal suo peccato come lo resterebbe una casa in preda a un pazzo. È stata sottomessa, senza sua volontà, alla caducità e al disordine e si è rivoltata contro l'uomo. È come impazzita essa stessa. Dio, per amore di libertà, ha lasciato spazio al peccato e alla morte che ne è il frutto e i cui segni sono evidenti tanto nell'uomo che nella natura. Ma Dio, per amore dell'uomo, non lo abbandona. Gli invia una forza illuminatrice, risanatrice e divinizzatrice e piega a suo favore le conseguenze tragiche del suo peccato.

Dio cioè, che non ha voluto né il male né la morte, lascia al male, alla sofferenza e alla morte il suo corso affinché l'uomo, attraverso essi, si interroghi, si purifichi, e rientri in se stesso.
Quando l'uomo chiede a Dio: «Dove sei?», Dio chiede all'uomo: «E tu dove sei? Dove sono io nella tua vita? Dove è il tuo cuore? Dove portano le tue vie?». Proprio la morte, da nemica, può diventare amica perché, appannando all'improvviso tutto, può portare alla luce cose nascoste e porre domande fino allora ignorate. Il dolore, che uccide e spesso all'inizio pone contro Dio, può aprire sentieri sconosciuti e produrre frutti inimmaginati, può riportare a quel Dio da cui ci eravamo allontanati e che per questo ci appariva inesistente o estraneo o muto.

Dio non veglia sulle nostre tragedie per inviarcele cinicamente, non è cieco o distratto da non accorgersene, non è impotente da non potercene salvare. Dio veglia sul nostro male perché ne nasca un bene.
Non teme il dolore dei suoi figli ma se ne serve affinché, come per un bambino condotto in sala operatoria, ne nasca una guarigione. Dio non guarda dal di fuori il nostro dolore ma ci è entrato dentro in Gesù, "uomo dei dolori", per mostrarci come trasformarlo in una via di luce, per viverlo in noi e farcelo vivere in lui come strumento di Redenzione e come fonte di vita.

Se non vogliamo allora sprecare una tragedia o una morte, o seppellire sotto le parole eventi dolorosi privati o pubblici dobbiamo sempre daccapo chiederci: dove stiamo andando? Attorno a cosa ruota la nostra vita? Siamo davvero giusti o siamo chiamati alla conversione? Dov'è davvero Dio? Farsi solo domande sui sistemi di allarme e di prevenzione, fare solo ricerche di natura medica o scientifica, indagare solo sui danni di natura economica, significherebbe sprecare la morte di tanti e buttare al mare un patrimonio di dolore. Le prime domande sono importanti e doverose. Ma le seconde lo sono ancora di più. Le prime sono difficili, le seconde ancora di più. Le prime permettono di ricostruire, le seconde permettono di rinascere.


[Approfondimenti]