Presentazione del libro di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret ai catechisti della Diocesi di Roma
di d.Andrea Lonardo

Presentiamo on-line la trascrizione della relazione tenuta da d.Andrea Lonardo durante il Convegno dei catechisti della Diocesi di Roma, che si è svolto in Vicariato il sabato 29 settembre 2007. L’Antologia di testi allegata è stata utilizzata durante l’incontro. I diritti dei testi dell’antologia sono dei rispettivi autori ed editori. Pertanto la riproduzione è riservata.

Il Centro culturale Gli scritti (13/11/2007)


Indice


Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI,
di d.Andrea Lonardo

Vorrei fare questa mattina con voi una presentazione del libro di Benedetto XVI Gesù di Nazaret in chiave catechetica. I fogli che vi sono stati distribuiti sono una antologia di testi per la vostra lettura personale. Sono disposti secondo lo schema di questa relazione e vi aiuteranno ad approfondire le singole parti.

I/ Prolegomena (cose dette prima)

Ho diviso la trattazione in varie tappe e vorrei dedicare più spazio ad una serie di premesse per situare il senso del libro in relazione alla catechesi –che è ciò che ci interessa in questo incontro introduttivo dell’anno- ed in rapporto al tema che la nostra diocesi ci propone quest’anno: Gesù è il Signore. Educare alla fede, alla sequela, alla testimonianza, provocandoci ad una rinnovata attenzione ai giovani. Per questo, all’analisi del libro, ho premesso un capitolo di Prolegomena, questo antico termine che vuol dire semplicemente premesse, cose dette prima, ma vedrete che già in questa prima parte rifletteremo su Gesù di Nazaret.

1/ Gesù di Nazaret ed il primo annuncio: pro-porre la fede, non presupporla

Cominciamo con la questione del cosiddetto primo annuncio. Questa espressione sta diventando sempre più centrale nell’ambito della catechesi. Perché una persona si accosti ad un cammino di fede illuminato dalla catechesi, deve prima aver fatto un incontro con il cristianesimo che ha destato in lei l’interesse. Deve aver intuito, a motivo di questo incontro, la bellezza della fede e deciso, fosse pure solo per curiosità, di approfondire nella catechesi il cammino. Questo è decisivo. Sarebbe da approfondire, ma non è questo il luogo, tutto il cammino della riflessione catechetica sull’evangelizzazione, con l’utilizzo delle espressioni nuova evangelizzazione, missionarietà e poi primo annunzio. Il cammino della catechesi ha alla base, comunque, questo incontro con il fatto cristiano che ti interessa, ti conquista, per cui decidi di approfondirlo.

Il libro del Papa ci aiuta a capire che il primo annuncio non è semplicemente un fatto cronologico, per cui esso deve essere premesso alla catechesi, come una tappa previa. Il problema è molto più serio e molto più bello: la fede deve sempre essere annunziata. Anche se una persona stesse già da venti anni in parrocchia, deve capire che la fede cristiana è nuova. Per questo ho scelto come titolo di questa prima tappa della nostra riflessione l’espressione pro-porre la fede, non presupporla, che proprio l’allora cardinal Ratzinger propose al Sinodo di Roma quando presentò in cattedrale il Catechismo della Chiesa Cattolica. E’ un testo bellissimo –potete leggerlo integralmente nell’antologia che avete fra le mani- in cui si racconta di un biglietto che il grande teologo svizzero Hans Urs von Balthasar gli inviò poco dopo la fine del Concilio. Sul biglietto era scritto: “Non presupporre, ma proporre la fede”. Perché questa affermazione? Perché noi non possiamo mai presupporre la fede? Perché la fede è viva, perché la fede è qualcosa che cresce con la persona, quindi va sempre proposta di nuovo, perché la persona ne capisca la novità. Essa deve essere sempre di nuovo rivissuta, approfondita, testimoniata.

Il libro Gesù di Nazaret nasce chiaramente con questo intento di essere un annunzio. Vuole essere un testo che provochi alla scoperta della bellezza e della verità del cristianesimo. Il suo intento non appare innanzitutto quello di porsi all’interno della discussione teologica o esegetica di singoli punti particolari, ma piuttosto quello di rendere testimonianza del perché si è diventati cristiani.

Questo orizzonte è una caratteristica del magistero di Benedetto XVI. Egli vuole proporre, presentare, motivare, mostrare. Già questo fatto è per noi catechisti una provocazione. Ci invita a stare non in un luogo protetto - ma insieme angusto e ristretto, sempre e solo con chi già è credente - quanto piuttosto ad essere a proprio agio proprio quando si è chiamati alla proposta della fede a chi non crede o a chi appartiene ad un’altra religione. L’incontro con chi non è cristiano non deve generare la paura, ma dobbiamo anzi capire che è proprio il nostro posto!

Il catechista è colui che ha il gusto di proporre la fede, è colui che sa che essa va sempre mostrata, motivata, spiegata. Essa non viene mai presupposta, ma sempre proposta di nuovo. Proposta a chi ancora non crede e proposta a chi già crede, perché ne divenga ancora più convinto. È quell’atteggiamento per il quale il catechista non si limita ad enunciare le cose, ma si pone come domanda centrale la questione: “Colui che non crede capisce ciò che sto dicendo? Capisce il mio linguaggio? Riesco io a mostrargli che ciò che è proprio del cristianesimo è straordinariamente bello?” Insomma il catechista consapevole della necessità del primo annuncio non presuppone la fede di colui che lo ascolta, ma la suscita, la motiva, la rinnova.

Il Papa vuole mostrare con il suo libro chi è Gesù, perché sa bene che le persone spesso ne hanno una idea poco chiara o, comunque, non ne hanno una conoscenza che li abbia portati a comprendere la sua novità con meraviglia. E, per questo, propone! Se voi guardate anche solo l’indice è evidente che lo sguardo va direttamente a Gesù ed al significato della sua esistenza fin dall’inizio. Basta leggere, ad esempio, a pag.28, dove si afferma:

La famosa affermazione di Adolf von Harnack secondo la quale l’annuncio di Gesù sarebbe un annuncio sul Padre, di cui il Figlio non farebbe parte – e dunque la cristologia non apparterrebbe all’annuncio di Gesù – è una tesi che si smentisce da sola. Gesù può parlare del Padre, così come fa, solo perché è il Figlio e vive in comunione filiale con il Padre. La dimensione cristologica, cioè il mistero del Figlio come rivelatore del Padre, la «cristologia», è presente in tutti i discorsi e in tutte le azioni di Gesù... Ed è questo che davvero salva: il trascendere i limiti dell’essere uomo – un passo che, in lui, per la sua somiglianza con Dio è già predisposto, come attesa e possibilità, fin dalla creazione.

Il libro di Benedetto XVI non vuole arrivare dopo tortuose vie a difficilissime conclusioni, ma anzi, fin dall’inizio, fin dall’Introduzione intitolata Un primo sguardo sul mistero di Gesù –da cui vi ho letto quel passaggio– vuole proporre la persona di Gesù e mostrare poi, via via, il dispiegarsi di tutti i particolari. Anche strutturalmente il volume si apre trattando subito dell’intera figura di Gesù. Non è, quindi, concepito come una dimostrazione alla quale si arrivi solo al termine dell’ultimo capitolo.

Quante volte sentiamo dire da un catechista: “Questi bambini non sanno fare più neanche il segno della Croce! I genitori non glielo hanno insegnato!”. Ma per questo ci sei tu, catechista! La cosa straordinaria è che tu devi allora proporre ai bambini per la prima volta questo segno. Per questo devi soffermarti sulle cose essenziali, prima che sulle cose particolari, a cominciare proprio dal significato della croce e dalla rivelazione del Dio Padre, Figlio e Spirito che quel segno indica. Comprendere che la catechesi è oggi primo annunzio vuol dire che è necessario convincere, che non basta dire: “Devi fare il segno della croce”. Il catechista spesso annunzia per la prima volta a quella persona che proprio quel segno della croce è il segno della salvezza perché manifesta la misericordia di Dio che prende su di sé il male del mondo.

Prendiamo ancora l’esempio della realtà sacramentale e, più ampiamente ancora, della presenza dei segni nella trasmissione della fede cristiana. Un catechista si trova a dover spiegare perché esiste il sacramento della confessione, perché un cristiano debba confessarsi, cosa c’entra il prete, ecc. ecc. Ma c’è un problema ancora più radicale di cui deve essere consapevole! Noi veniamo da un periodo che ha decostruito culturalmente i segni. Pensate a un certo tipo di cultura post-sessantottina con frasi slogan del tipo: “La fede è nel cuore, puoi pregare nel segreto della tua camera. L’amore è nel cuore, è un fatto privato non serve il sacramento e nemmeno la celebrazione in comune. Il tuo amore per tuo marito è sufficiente che sia nel tuo cuore, così il tuo amore per Cristo”.

Queste espressioni indicano una decostruzione dei segni che è divenuta come un´atmosfera che si è respirata. Pensate –è lo stesso problema visto con gli occhi del mondo scolastico- alle difficoltà che un insegnante incontra a spiegare l’abc delle regole di comportamento a scuola e del valore dei classici: che i cellulari vanno spenti in classe o che Dante è importante. Ora che Benigni ha cominciato, grazie a Dio, a parlare di Dante, tutti ne parlano, ma quando Paolo VI parlava della Divina Commedia o quando qualcuno affermava che nella scuola non bastano i moduli, ma che la Divina Commedia era un pilastro imprescindibile della cultura –e per questo il liceo aveva dedicato un anno per ogni cantica- una certa mentalità culturale subito ribatteva che leggere Dante nella scuola significava parlare di cose vecchie!

La conoscenza di Dante è e deve restare un passaggio fondamentale della formazione culturale in Italia; qualunque studente, da qualsiasi provenienza culturale giunga, deve essere aiutato a conoscere Dante. Lo stesso vale per un crocifisso di Cimabue o di Giotto: tu devi conoscerlo e comprenderlo, al di là se sei credente o non credente, altrimenti sei un ignorante. Noi dobbiamo recuperare questa consapevolezza, la consapevolezza di passaggi obbligati, perché importantissimi. E questo c’entra con il sacramento della confessione! Perché anch’esso, oltre ad avere il suo specifico valore sacramentale, appartiene a quell’universo di segni con il quale si trasmettono i valori.

Un altro esempio ancora. Nella celebrazione dei matrimoni e nella catechesi preparatoria è importante sottolineare le cose più semplici, ma fondamentali espresse dai segni. Vedete il segno dell’anello? A molti, soprattutto agli uomini, non abituati a portare anelli, dà fastidio. Eppure io vi assicuro, che anche se quel segno apparentemente non vuol dire molto, perché l’amore è nel vostro cuore, quando vedrete un uomo o una donna che in un viaggio di lavoro si toglie la vera nuziale, siate sicuri che quella cosa significa moltissimo! Il segno non è la cosa in sé, ma dice tantissimo della cosa stessa.

La fede cristiana è una fede sacramentale, espressa in riti e segni, continuamente significata. Tutto questo oggi va annunziato; quando un catechista parla dei segni, potrebbe sembrare una cosa scontata, una scoperta dell’acqua calda, mentre è straordinariamente affermare, come se fosse un primo annunzio, che vivere la fede senza segni è impoverente, addirittura impossibile.

La convinzione che ci deve animare –è la prima cosa che volevo sottolineare come riflessione sul senso del libro Gesù di Nazaret- è che questo testo ci invita a pro-porre, non a pre-supporre.

Una ultima sfumatura in questa premessa: la proposta di Gesù di Nazaret si differenzia da altre forme di annunzio su Gesù che sembrano simili, ma non lo sono. Ne indico sinteticamente tre:

1/ Una presentazione moralistica nella quale ci si limitasse a dire che Gesù è venuto, che per questo noi siamo cristiani e dobbiamo vivere la fede con coerenza. Questo vorrebbe dire partire dal presupposto che la fede già c’è e che si deve solamente, attraverso una insistenza sulla necessità del dovere, realizzarla. Questa impostazione è estremamente povera.

2/ Una seconda deriva impoverente è una lettura puramente kerygmatica (da kerygma, parola greca che vuol dire annunzio) del vangelo. Negli Atti degli Apostoli come in ogni altro libro neotestamentario c’è certamente l’annunzio che Gesù è risorto, che è il Signore, ecc. Proporre la fede significa certamente dire che Gesù è risorto, ma non è semplicemente questo.
Il Papa ci fa capire come noi dobbiamo convincere, non semplicemente affermare una cosa. Non basta lanciare un annuncio, lasciandolo lì, come se l’altro dovesse da solo fare la fatica di capirne il significato. Pensate alla parola convincere che è bellissima, vuol dire vincere insieme. Quando io ti convinco? Quando realmente ti ho aiutato ad arrivare a comprendere una cosa e tu dici: “E’ vero, hai ragione, quello che dici è bello ed è vero!” La catechesi è convinzione. Vince convincendo, non vince con la paura –pensate all’opposto al terrorismo che vuole vincerti facendoti paura. Vince solo quando ha catturato liberamente la tua mente, il tuo cuore, la tua vita. E tu dici: “Che meraviglia questa cosa!”. Questo è il cristianesimo, non c’è un altro accesso a Cristo che dire: “Che meraviglia!”.

3/ Terza forma parziale di catechesi da cui questo libro ci mette in guardia è quella –siamo all’estremo opposto di una proposta puramente kerygmatica- basata su di una proposta puramente antropologica. Posso parlare dell’uomo, delle sue esigenze, della sua legge naturale, dei suoi dubbi, dei suoi affetti -cose fondamentali che la catechesi deve affrontare- ma senza mai illuminarle con l’opera di Dio che trascende l’uomo stesso e che è sempre una sorpresa per l’uomo. La catechesi non è simile ad un gruppo di autocoscienza, perché è una proposta che non emerge direttamente dal cuore della persona, ma proviene da Gesù Cristo. Prima di Gesù Cristo, nessuno è mai stato cristiano. Tutti erano liberi di esserlo, ma finché non c’è stata la sua proposta, nessuno ha potuto essere cristiano. Tu sei cristiano perché c’è un altro che prima di te è stato cristiano e lui, a sua volta, lo è perché è venuto il Cristo. Ci sono stati uomini saggi, buoni, cercatori di Dio, fra i filosofi ed i poeti prima della venuta di Cristo, ma nessuno di loro è mai riuscito neanche ad immaginare cosa volesse dire essere cristiani!

Questa estate al convegno degli uffici catechistici organizzato dalla CEI c’è stata una bellissima relazione di mons. Ermenegildo Manicardi, biblista, che ha trattato della ricerca di Dio nel Nuovo Testamento. La sua affermazione, fondatissima a livello biblico, è che la ricerca di Dio ha un grande valore nella Sacra Scrittura, ma non è l’elemento decisivo perché Gesù, accogliendo la ricerca che gli uomini fanno di lui, mostra poi loro i limiti della loro ricerca e li conduce altrove.

Nella sua relazione, basandosi anche sulle ricerche di un altro biblista, Roberto Vignolo, affermava che l’ascolto e poi la contemplazione del Cristo sono più decisive della ricerca stessa. E’ come se Gesù dicesse ai due discepoli che lo seguono dopo che il Battista ha indicato loro in lui l’agnello di Dio oppure alla Maddalena che va al sepolcro a cercare il corpo del crocifisso: “Fate bene a cercarmi, ma ciò che io sono è diverso da quello che vi aspettate di trovare”. Cristo sorprende; ed è per questo che la fede è sempre proposta, è per questo che esiste la missionarietà: perché non si arriva da soli alla fede, ma è la Chiesa che annuncia Gesù Cristo, che me lo fa comprendere. Ed è solo allora che io posso dire che quella è la mia verità, che io sono nato per questo incontro. In questo libro perciò il Papa vuole proporre Gesù Cristo.

2/ Gesù di Nazaret: un libro sull’essenza del cristianesimo

Di cosa tratta questo libro? Come potremmo definirlo? Il Card. Ruini, in maniera estremamente precisa nella Relazione conclusiva al Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma, lo ha definito un libro sull’essenza del cristianesimo. A mio avviso questa è la chiave di lettura fondamentale.

Pur trattando di esegesi e di teologia speculativa Gesù di Nazaret non è, tecnicamente parlando, né un libro di esegesi, né di teologia speculativa. E sbaglia chi, ponendosi da quel punto di vista, si sofferma su di una cosa evidente, cioè che l’apparato critico delle note non è quello di un testo che presenta tutte le differenti interpretazioni possibili.

Questo libro è prezioso proprio perché si pone da un punto di vista sintetico e non solo analitico. L’Autore racconta, proprio all’inizio del volume, di essere stato conquistato da ragazzo da volumi che presentavano il senso globale della persona di Gesù e, fra gli altri, cita Romano Guardini autore di L’essenza del Cristianesimo e de Il Signore.

Che cosa propone la fede cristiana? Qual è la sua essenza? Perché si crede ad essa? A queste domande risponde il libro. Fra l’altro, per noi catechisti, è esattamente la prospettiva del Documento di Base sul rinnovamento della catechesi in Italia con le sue riflessioni sulla persona di Gesù come cuore della catechesi.

Fermiamoci un attimo sulla parola essenza, perché la prima obiezione che si potrebbe fare è quella di scegliere con la parola essenza un termine filosofico ed entrare nel campo della filosofia. Essenza, invece, è qui qualcosa di molto più prezioso: indica semplicemente il cuore del cristianesimo, il centro da cui tutto dipende. Qual è il punto decisivo che noi proponiamo alla vita degli uomini dopo averlo capito noi stessi, dopo averlo amato e averlo accolto?

Proprio Romano Guardini, nel brano che vi ho trascritto nell’antologia, spiega come le interpretazioni ideologico-filosofiche del cristianesimo nascono dal non averne capito bene l’essenza! Alcuni, infatti, affermano che il cristianesimo consiste nell’amore del prossimo -questo è un concetto!- altri che il cristianesimo è il perdono o il rispetto dell’alterità o ancora il valore della persona umana. Questi modi di proporre l’essenza del cristianesimo sono in realtà letture concettuali ed ideologiche che lo rendono un’idea od una morale e lo impoveriscono, lo distruggono dall’interno. Ne conseguono quelle letture semplificatorie che riducono la fede alla proclamazione fatta ai bambini che debbono volersi bene.

Certo il volersi bene ed il valore supremo della carità balzano in primo piano proprio con il cristianesimo e l’amore per il prossimo è così fondamentale nella nostra cultura perché c’è stato il cristianesimo: ma tutto questo non è l’essenza del cristianesimo. E’ legato indissolubilmente ad esso, tanto è vero che in nessun’altra cultura si parla del perdono come della chiave di lettura della vita, però il perdono non è l’essenza del cristianesimo.

Il Papa risponde -sulla stessa linea di Guardini- che l’essenza del cristianesimo è Gesù Cristo. Non un’idea, ma una persona. Il cristianesimo ha un cuore, ma non è un sistema filosofico; ha un ordine che nasce da una vita che non è la mia, ma la Sua, ed anzi consiste nello scoprire che la mia vita è originata dalla Sua e non la Sua dalla mia. Il cristianesimo è la persona del Cristo. Il Papa ci invita, innanzitutto, a contemplare questa realtà: Cristo è il cuore di tutto l’esistere, alla sua persona è legata qualsiasi creatura, l’intero universo ha un centro e l’insieme del reale non è disarticolato, ma tutto sarà ricapitolato in Cristo. Ogni uomo comprende in pienezza cosa voglia dire essere persona, guardando alla persona di Cristo.

3/ Il cuore della personalità di Gesù di Nazaret

A questa domanda, però,ne segue immediatamente un’altra: qual è il cuore della personalità di Gesù? Gesù è l’essenza del Cristianesimo, ma se noi dovessimo comprendere chi è Gesù, perché ha questo significato unico, cosa potremmo dire ancora? Chi è Gesù? Così si esprime l’Autore:

Qui sorge però la grande domanda che ci accompagnerà per tutto questo libro: ma che cosa ha portato Gesù veramente, se non ha portato la pace nel mondo, il benessere per tutti, un mondo migliore? Che cosa ha portato?
La risposta è molto semplice: Dio. Ha portato Dio. Quel Dio, il cui volto si era prima manifestato a poco a poco da Abramo fino alla letteratura sapienziale, passando per Mosè e i Profeti – quel Dio che solo in Israele aveva mostrato il suo volto e che, pur sotto molteplici ombre, era stato onorato nel mondo delle genti – questo Dio, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio vero Egli ha portato ai popoli della terra.

Il cuore della vita di Gesù sta nel suo rapporto con Dio. La caratteristica che sta a fondamento dell’esistenza di Gesù –caratteristica che è essenziale nel senso personale che abbiamo appena visto- sta in questo rapporto. Il libro afferma questo fin dalle prime pagine quando, parlando del rapporto tra Mosè e Gesù, afferma la differenza fra Mosè che non poteva vedere Dio in volto e Gesù che lo rivela. Gesù ha preteso di conoscere il vero volto di Dio e di volerlo rivelare agli uomini.

Questa convinzione nasce dalla storia, nel senso che questa è stata la pretesa di Gesù nella sua vita terrena, ma è anche esistenziale nel senso che questa rivelazione portata da Gesù corrisponde anche al desiderio più grande dell’uomo. Dobbiamo essere convinti, come catechisti, per esperienza e per riflessione, che ogni uomo, dall’infanzia all’età adulta, ha bisogno di sentirsi dire che il suo desiderio più grande è quello di Dio.

Alle domande sui veri bisogni dell’uomo –“Di cosa hai bisogno? Cosa ti manca? Cosa ti darà la forza di vivere la giustizia, la povertà, l’amore, l’intelligenza, la vocazione?”- la catechesi risponde che l’uomo ha bisogno di Dio, e non di un dio qualsiasi, ma del Dio rivelato da Gesù Cristo.

Il cristiano sa bene che il volto di Dio rivelatoci dalla persona di Gesù è assolutamente diverso da ogni altro modo precedente, ma anche successivo e futuro. Questo è il cuore di tutto e la catechesi, qualsiasi tema specifico affronti, ha in mente questo, mira a questo e lo fa emergere continuamente. Dinanzi ai problemi, ai desideri, alla ricerca dell’uomo, torna sempre a dire: “Non c’è nessuna cosa all’infuori del Dio rivelatoci dal Signore che appagherà mai il desiderio dell’uomo”. E’ il vero motivo del perché non ci basta mai niente. Quando, con il passare dell’età, il coniuge scopre che il marito o la moglie non gli basta, non è perché ha sbagliato la sua scelta, come frequentemente si conclude operando una sorta di cortocircuito. La limitatezza di ogni cosa e di ogni persona, rimanda, invece, all’Unico che manca! Manca tutto a chi non ha Dio nel cuore.

Questo non vuol dire disconoscere che possono esserci problemi specifici con le persone, ma il catechista vede che c’è una mancanza più grande, una assenza che porta a non comprendere più il reale valore delle persone e dell’amore per loro.

C’è una frase bellissima del libro, che invita a riflettere sul fatto che l’uomo cerchi altrove e non nella rivelazione del volto di Dio il cuore della vita di Gesù:

Solo la nostra durezza di cuore ci fa ritenere che ciò sia poco.

Affermare che Gesù ci ha portato Dio ci sembra una cosa di poco conto perché abbiamo il cuore duro. Se noi comprendessimo che questa è la realtà più grande che potesse esserci donata ne apprezzeremmo l’enorme portata. Questo è l’amore di Cristo per noi: Cristo ci ha amato proprio portandoci Dio. E’ perché ci ha amato che ci ha portato Dio ed è portandoci Dio che ci ha amato.

4/ L’intima armonia della fede (che non è un sistema filosofico, ma nemmeno una massa disarticolata di esperienze)

Questo nucleo vitale della fede -la persona di Gesù ed il suo rapporto con il Padre- è il vero motivo dell’intima armonia della fede. E’ importante che ogni persona attraverso la catechesi comprenda perché c’è una sintesi della fede, perché c’è il Credo. E’ una cosa straordinaria che ci sia il Credo! Ma perché c’è il Simbolo della fede? Come la fede arriva a fare sintesi?

Benedetto XVI ha usato questa espressione, nella sua relazione introduttiva al Convegno della diocesi di Roma di giugno:

Dall’affermazione Gesù è il Signore si è sviluppato il Credo”.

Dire “Gesù è il Signore”, dire “Gesù ci ha portato Dio”, dire “Gesù è il Figlio di Dio”, dire “Io credo in Dio Padre Onnipotente”, è la stessa identica cosa, in una forma armoniosamente declinata, spiegata.

Nell’antologia che vi è stata distribuita trovate un brano bellissimo del grande teologo H.U.von Balthasar nel quale egli paragona il Credo allo sviluppo dell’uomo dalla prima cellula embrionale:

Ogni molteplicità proviene da qualcosa di semplice. Le molte membra dell’uomo, da un uovo fecondato. Le dodici enunciazioni del credo apostolico, anzitutto da queste tre domande particolari: Credi in Dio Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo? Ma anche queste tre formule sono espressione – ed è Gesù a fornircene la prova – del fatto che l’unico Dio è, nella sua essenza, amore e donazione... Queste tre “vie di accesso” a loro volta si diramano in dodici “articoli” (“articulus” indica in latino la giuntura che tiene unite fra loro le membra). La nostra fede non si affida mai a delle frasi, ma ad un’unica realtà che si dispiega davanti a noi: una realtà che è al tempo stesso la verità più alta e la più profonda salvezza.

Il rapporto tra il cuore della fede e le singole verità che crediamo come cristiani non va compreso come una specie di patchwork nel quale vengono legate cose diverse tra loro. Il libro Gesù di Nazaret indica come ciò che crediamo –lo Spirito, la Chiesa, i sacramenti, ecc.- tutto dipenda da quel centro e vi sia indissolubilmente connesso. E’ questo che anche la catechesi deve mostrare (troviamo indicazioni in questa direzione nel Documento di base) indicando nel Credo l’armonica realtà della fede, che lascia trasparire tutte le sfaccettature di quell’unico cuore, che è il rapporto fra il Figlio ed il Padre nello Spirito, il cristocentrismo trinitario, che si articola poi nel credere la chiesa, la resurrezione dei morti, la vita eterna, il perdono dei peccati, ecc. ecc.

Similmente al processo per il quale da un embrione si sviluppa l’uomo. Balthasar sottolinea come il termine articolo –nell’analisi del Credo si utilizza l’espressione articoli della fede- venga dal termine anatomico articolazione. Il mio braccio non è una cosa a parte che mi è stata successivamente attaccata, ma sono io stesso che nello sviluppo del mio corpo ho articolato il braccio, sono io nel mio braccio! La catechesi deve mostrare che ciò che annunzia è connesso a Gesù di Nazaret, come un’articolazione del corpo con la totalità di esso. E’ la famosa affermazione della gerarchia delle verità del Concilio Vaticano II, che non significa che ci sono cose più vere e meno vere, ma, piuttosto, che le verità sono legate in un ordine, sono espressione della verità personale che è la Parola di Dio, Gesù Cristo stesso.

Questo libro ci conduce per mano a comprendere che la fede non è un sistema filosofico. La teologia e la catechesi non sono delle enunciazioni di causa-effetto, di conseguenze e nessi razionalistici, ma non sono neanche una massa disarticolata di esperienze, di affermazioni che vengono accolte senza alcuna relazione fra loro.

Piuttosto noi dobbiamo riportare continuamente ogni aspetto della verità della fede cristiana al suo significato di espansione vitale di quel centro che è la presenza del Figlio in mezzo a noi. Mi raccontavano in questi giorni delle espressioni con le quali Salvatore Marsili, benedettino e grande liturgista, utilizzava per spiegare cosa fosse la liturgia cristiana: egli diceva che la liturgia è l’ultimo atto della storia della salvezza. La storia della salvezza non è terminata con l’ascensione di Cristo presso il Padre, ma il Cristo risorto oggi ci salva, ci ama, ci parla, ci dà se stesso nell’Eucaristia. La liturgia è la storia della salvezza che continua. E’ estremamente chiaro come questa visione leghi il sacramento che celebriamo a Gesù stesso. Anche noi possiamo, nella catechesi che introduce alla celebrazione alla comunione, mostrare che proprio essa annunci che il Cristo non è un filosofo morto tanti anni fa.

Il sacramento non può essere tolto all’unità della fede: esso realizza oggi per la nostra generazione la salvezza compiuta dal Cristo. E’ vero così che il sacramento dell’eucarestia è un’articolazione della fede, un’articolazione legata essenzialmente alla fede stessa, indispensabile ed indissolubile da essa.

5/ L’uomo cerca sempre, al di là dell’apparenza, ciò che è essenziale per vivere

Non solo Gesù di Nazaret vuole portarci a contemplare questo Gesù che annunzia il vangelo della figliolanza divina, ma vuole anche confermarci nella consapevolezza che è solo questo annunzio che in maniera suprema ci conduce alla vera nostra umanità. In un passo che trovate più ampiamente nell’antologia, l’Autore scrive:

Sì, le Beatitudini si contrappongono al nostro gusto spontaneo per la vita, alla nostra fame e sete di vita. Esigono «conversione» - un’inversione di marcia interiore rispetto alla direzione che prenderemmo spontaneamente. Ma questa conversione fa venire alla luce ciò che è puro, ciò che è più elevato, la nostra esistenza si dispone nel modo giusto...
In una parola: la vera «morale» del cristianesimo è l’amore. E questo, ovviamente, si oppone all’egoismo – è un esodo da se stessi, ma è proprio in questo modo che l’uomo trova se stesso.

Questo è l’altro pilastro della catechesi: essa annuncia la fedeltà di Dio all’uomo. Proponendo Cristo il Papa vuole anche mostrare che proprio di questo Gesù ha bisogno l’uomo per essere pienamente se stesso.

Il libro è pieno di riferimenti al contesto odierno, ma, più ancora, alla condizione dell’uomo in quanto uomo che, nella sua sostanza, non si è mai modificata nel corso dei secoli. C’è così, da un lato, nelle parole del Papa il riferimento al linguaggio attuale ed ai drammi ed alle gioie del nostro tempo, ma insieme l’invito a recuperare la consapevolezza che l’uomo, nei suoi problemi e nei suoi desideri, è sempre lo stesso.

La catechesi si trova dinanzi al nostro contemporaneo, che respira gli atteggiamenti culturali odierni con le loro peculiarità –e questo contesto deve essere da noi conosciuto. Ma d’altro canto non dobbiamo farci fuorviare da una sopravvalutazione dei fenomeni attuali, che spesso sono solo espressioni di una moda passeggera che si dilegua rapidamente come rapidamente è comparsa.

Non è perché la televisione è piena di reality show che la realtà profonda del cuore umano viene ad essere modificata. Certo quella serie di interventi mediatici si propone di rendere diversa la percezione della vita, ma noi dobbiamo essere convinti che la profondità del desiderio umano è più forte di questi tentativi di modificarlo!

Un determinato contesto culturale non ha la forza di far sparire dall’uomo il suo desiderio di Dio, il suo desiderio di una vita ricca di senso, capace di rispondere ad una vocazione, capace di generare e di amare un bambino, ecc. ecc. La catechesi affronta il contesto culturale nel quale viviamo, ma si radica anche su di una certezza, che c’è qualcosa nell’uomo che è così essenziale che neanche il peccato originale -che è la cosa più disastrosa che sia mai avvenuta- è riuscito a distruggere sostanzialmente. Il libro del Papa ha questo indirizzo, cerca di andare a cogliere quegli elementi che sono permanenti nel cuore dell’essere umano.

Così l’altra domanda che si pone la catechesi e sulla quale il Papa ci invita a riflettere è: “Qual è il cuore dell’uomo? Cosa è scritto nel profondo di questo cuore?”. Non sarà che noi non riusciamo ad entrare in contatto con un adolescente, non perché non conosciamo la sua musica, le sue mode, i suoi gusti -questo può anche avvenire nel passaggio da una generazione all’altra- ma più profondamente perché non riusciamo a capirlo più profondamente, in ciò che realmente desidera e di cui spesso non è neanche consapevole e che noi non riusciamo a rivelargli?

Come può un nonno capire un nipote? Solo aggiornandosi sulle nuove mode o, piuttosto, essendo se stesso e sapendo mostrare dal tesoro della ricchezza della propria vita ed esperienza cos’è ciò che nella vita è contato davvero per essere pienamente uomini? E’ lì che il giovane capisce di essere davvero compreso al di là dell’apparenza. Questo non vuol dire che un catechista non debba essere informato, leggere i giornali, ma questo non è sufficiente. Ci sono nonni che non sanno niente delle tendenze del momento, ma davanti al problema di un ragazzo sanno cogliere il punto, sanno leggere nel cuore.

La catechesi sbaglierebbe così due volte se dicesse che al cuore della persona di Gesù non c’è il suo rapporto con Dio. Commetterebbe innanzitutto un errore storico, perché a questo livello storico-scientifico non c’è dubbio –afferma Gesù di Nazaret- che a muovere tutta la vita di Gesù sia stata la sua consapevolezza del suo rapporto con Dio. Ma, dall’altro, perderebbe ogni reale interesse presso il nostro contemporaneo. Che interesse, infatti, avrebbe un Gesù che non dicesse all’uomo che il suo bisogno più profondo è il desiderio di Dio? E che non ne rivelasse il vero volto? E che interesse avrebbe un Gesù che non venisse a dire: “Io sono l’unico che ti conduco in pienezza a capire chi è Dio”.

Se Gesù fosse un ripetitore di ciò che altri hanno già detto o che può essere detto da altri dopo di lui, indipendentemente da lui, perché dovremmo essere suoi discepoli? Noi non conquistiamo l’interesse dicendo che Gesù è l’amico del cuore -cosa che possiamo anche dire, perché Gesù è anche l’amico!- ma piuttosto mostrando la sua unicità.

6/ L’indissolubile unità di Logos ed Agape

Il Papa ha spesso ripetuto nel suo magistero l’affermazione che la fede cristiana è Logose Agape, poiché Dio è amore, ma insieme è sapienza e verità. L’esigenza umana di amore e di verità gli derivano proprio dal suo essere a immagine di quel Dio che è Logos e Agape. Ed è per questo che la fede cristiana ha da subito scelto la via della ricerca attraverso la ragione e del dono di sé attraverso l’amore come le due vie che le sono proprie indissolubilmente unite. La vita di fede è così indissolubilmente cammino di amore e di verità, di conoscenza reale, ma conoscenza amante, di amore vero, ma amore che conosce.

In Gesù di Nazaret questo traspare continuamente. Proprio le pagine finali del libro, dedicate alla presentazione delle espressioni “io-sono” caratteristiche del vangelo di Giovanni, mostrano come il quarto evangelista –vedremo fra breve perché ed in che senso debba essere considerato attendibile storicamente- abbia compreso che quelle espressioni che portano a compimento la rivelazione del nome di Dio veterotestamentario (cfr.Es3,14) esprimano la manifestazione della verità, ma della verità divina che è costitutivamente amore e bene per gli uomini:

Schnackenburg osserva che tutte queste espressioni figurate non sono che «variazioni sull’unico tema: Gesù è venuto nel mondo affinché gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (10,10). Egli concede il dono unico della vita, e lo può concedere perché in Lui è presente in un’abbondanza originaria e inesauribile la vita divina» (vol. II, p. 101). L’uomo desidera e abbisogna, in fin dei conti, di una cosa sola: la vita, la vita piena – la «felicità». In un passo del Vangelo di Giovanni Gesù definisce questa cosa unica e semplice che aspettiamo: la «gioia piena» (cfr. 16,24).
Quest’unica cosa di cui si tratta nei tanti desideri e nelle tante speranze dell’uomo è espressa anche nella seconda domanda del Padre nostro: «Venga il tuo regno». Il «regno di Dio» è la vita in abbondanza – proprio perché non è solo «felicità» privata, gioia individuale, bensì il mondo giunto alla sua giusta forma, l’unità tra Dio e il mondo.
L’uomo, in fondo, ha bisogno di un’unica cosa che contiene tutto; ma deve prima imparare a riconoscere attraverso i Suoi desideri e i suoi aneliti superficiali ciò di cui necessita davvero e ciò che vuole davvero. Ha bisogno di Dio. Così possiamo ora vedere che dietro tutte le espressioni figurate c’è in ultima istanza questo: Gesù ci dà la «vita» perché ci dà Dio. Ce lo può dare perché è Egli stesso una cosa sola con Dio. Perché è il Figlio. Egli stesso è il dono – Egli è «la vita». Proprio per questo è, secondo l’intera sua natura, comunicazione, «pro-esistenza». E’ proprio questo che sulla croce appare come il suo vero innalzamento.

Le diverse espressioni “io-sono” –io sono la luce, io sono la vita, io sono la resurrezione, io sono il cibo, ecc.- confluiscono nell’affermazione “Io Sono” in assoluto, manifestazione della presenza di Dio in Gesù. Gesù pretende di affermare la verità, dicendo di essere la luce, il pane, la resurrezione, ma questa verità è verità di amore: perché l’uomo ha bisogno della luce, è nella cecità! C’è qui un nesso indissolubile della verità con l’amore. Gesù è, ed amando offre ciò che è, ed offrendolo nell’amore ne dimostra ulteriormente la verità.

Nel suo discorso iniziale al Convegno diocesano ancora una volta Benedetto XVI ha mostrato come nell’educazione delle nuove generazioni contenuto ed esperienza non debbono mai essere separati. Spiegava come è caratteristica dell’adolescenza e della giovinezza quella curiosità intellettuale, quel desiderio di conoscere la verità, che non possono essere trascurati da chi è educatore, pena lo svilimento del cammino formativo. Un giovane si accorge immediatamente se la persona che ha di fronte è in grado di dare risposte sensate e ragionevoli al suo desiderio di verità, al suo bisogno di capire il perché, il fondamento di ciò che gli viene proposto. Ma, insieme, il Papa chiedeva alle comunità cristiane quell’accompagnamento amoroso, fatto di accoglienza e di disponibilità a camminare insieme, in modo da mostrare che quella verità è concretamente vivibile e generatrice di vera gioia.

Nell’antologia distribuita trovate un passaggio, a mio avviso molto importante del discorso di Benedetto XVI al Convegno di Verona, nel quale si dice che la Chiesa dei primi secoli ha convinto del cristianesimo scegliendo insieme la via della verità e quella dell’amore senza mai disgiungerle, anzi mostrandone i legame –ha scelto di dialogare con la filosofia e non con il mito ed ha scelto il servizio di coloro che avevano bisogno come proprie connotazioni caratteristiche. Così ha detto Benedetto XVI in quella circostanza:

La forte unità che si è realizzata nella Chiesa dei primi secoli tra una fede amica dell'intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall'amore reciproco e dall'attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti ha reso possibile la prima grande espansione missionaria del cristianesimo nel mondo ellenistico-romano.

Gesù di Nazaret vuole mostrare in Gesù stesso l’unità indissolubile di amore e verità, di Logos e Agape.

7/ La questione della verità (e della libertà)

In un passaggio del libro che trovate anche nell’antologia, Benedetto XVI osserva come sia insostenibile affermare che tutte le verità sono uguali. E’ incredibile come si debba talvolta ricordare cose come questa, ovvie come il sole! Pensate solo se sarebbe accettabile per una persona appassionata di politica l’affermazione che, in fondo, Prodi, Berlusconi e Beppe Grillo hanno giustamente ognuno la sua verità e si equivalgono! Chiunque vive capisce che il discorso sulla verità è una cosa seria. Molto di più questo vale nel campo della religione. Il cristiano è appassionato dal tema della verità e delle differenze.
Benedetto XVI afferma continuamente che non si può togliere l’esigenza di verità dal cuore delle persone. E Gesù di Nazaret si inserisce proprio in questa direzione come ricerca di verità:

Il pensiero contemporaneo tende a dire che ognuno dovrebbe vivere la propria religione, o forse anche l’ateismo in cui si trova. In questo modo arriverebbe la salvezza. Un’opinione simile presuppone un’immagine molto strana di Dio e una strana idea dell’uomo e del modo corretto dell’essere uomo. Cerchiamo di chiarirci questo punto con un paio di domande pratiche. Forse qualcuno diventa beato e verrà riconosciuto come giusto da Dio perché ha rispettato secondo coscienza i doveri della vendetta di sangue? Perché si è impegnato con forza per la e nella «guerra santa»? O perché ha offerto in sacrificio determinati animali? O perché ha rispettato abluzioni rituali o altre osservanze religiose? Perché ha dichiarato norma di coscienza le sue opinioni e i suoi desideri e in questo modo ha elevato se stesso a criterio? No, Dio esige il contrario: esige il risveglio interiore per il suo silenzioso parlarci, che è presente in noi e ci strappa alle mere abitudini conducendoci sulla via della verità; esige persone che «hanno fame e sete della giustizia» - questa è la via aperta a tutti; è la via che approda a Gesù Cristo.

Non è vero, allora, che offrire animali in sacrificio o essere cristiani siano la stessa cosa: sono realtà costitutivamente differenti. Gesù di Nazaret vuole presentare in sintesi l’originalità di Gesù, la verità della sua persona. La catechesi non deve così aver paura di parlare delle differenze. Nel politically correct sembra quasi una offesa quella di far emergere le differenze, sebbene ognuno sappia di esse.
Ed è proprio l’esigenza di verità che rende vera la libertà, che rende importante il confronto e la discussione e proprio sui temi religiosi. La chiesa insiste continuamente sull’importanza della libertà religiosa nel mondo, perché crede nel valore che la verità ha di convincere se a tutti viene concesso di accostarsi ad essa. C’è chi vuole sapere cos’è il cristianesimo e non può fare domande, questo è il grande dramma! Dall’amore alla verità nasce il gusto e la libertà della discussione. Si discute perché c’è una verità, altrimenti che discutiamo a fare?

Chi è veramente Gesù? Gesù è morto in croce sì o no? Il Corano sembrerebbe dire di no, così come affermava già lo gnosticismo. Nella seconda parte del libro emergerà certamente la questione della consapevolezza di Gesù di offrire sulla croce la propria vita per la salvezza. Sono convinto che la scuola, dove si educa al senso della verità, proprio per educare al dialogo inter-religioso, dovrebbe affrontare seriamente il discorso su questi temi, con le fonti alla mano. Il crocifisso non è solo una cosa da appendere, ma è qualcuno di cui parlare. Storicamente non vi è alcun dubbio che Gesù sia morto in croce e che sia stato consapevole dell’offerta della sua vita. Gesù di Nazaretfa emergere continuamente la questione della verità, proprio perché sceglie la via della storia e non quella dello gnosticismo, che prescinde dalla corporeità e dalla storicità. Il libro vuole invitare a non aver paura della verità, sebbene l’uomo moderno possa diffidarne. Proprio su questo tema, nel suo recente viaggio in Austria, il Papa, nell’omelia tenuta durante la messa al Santuario di Mariazell, ha detto:

Noi abbiamo bisogno della verità. Ma certo, a motivo della nostra storia abbiamo paura che la fede nella verità comporti intolleranza. Se questa paura, che ha le sue buone ragioni storiche, ci assale, è tempo di guardare a Gesù come lo vediamo qui nel santuario di Mariazell. Lo vediamo in due immagini: come bambino in braccio alla Madre e, sull’altare principale della basilica, come crocifisso. Queste due immagini della basilica ci dicono: la verità non si afferma mediante un potere esterno, ma è umile e si dona all’uomo solamente mediante il potere interiore del suo essere vera. La verità dimostra se stessa nell’amore. Non è mai nostra proprietà,un nostro prodotto, come anche l’amore non si può produrre, ma solo ricevere e trasmettere come dono. Di questa interiore forza della verità abbiamo bisogno. Di questa forza della verità noi come cristiani ci fidiamo. Di essa siamo testimoni. Dobbiamo trasmetterla in dono nello stesso modo in cui l’abbiamo ricevuta, così come essa si è donata.

II/ Lo sviluppo interno del libro Gesù di Nazaret

Veniamo finalmente al libro in se stesso. Come è strutturato? E’ diviso in dieci capitoli.
I capitoli I e II trattano del Battesimo di Gesù e delle sue Tentazioni; potremmo definirli introduttori, insieme alla Introduzione vera e propria che presenta la figura di Gesù in relazione a Mosé ed alla Premessa che affronta le questioni del metodo insieme storico e credente con cui si deve leggere la Sacra Scrittura.
I capitoli dal III al VII trattano dei sinottici –anche se con l’aiuto del quarto vangelo- con i seguenti titoli:

La scelta è cioè quella di presentare la figura di Gesù a partire da alcuni nuclei tematici storicamente sicuri ed insieme centrali dal punto di vista teologico[1].
Il capitolo VIII tratta, invece, del vangelo di Giovanni con il titolo:

E’ l’Autore stesso ad indicarci questa scansione introducendo l’VIII capitolo con queste parole:

Il nostro ascolto del Gesù dei sinottici ci ha insegnato che il mistero della sua unità con il Padre è sempre presente e determina il tutto, ma che resta anche nascosto sotto la sua umanità. Con vigile attenzione se ne sono accorti, da una parte, i suoi avversari e dall’altra, i discepoli, che vedevano Gesù mentre era in preghiera e potevano avvicinarsi interiormente a Lui; essi, nonostante tutti i fraintendimenti, hanno progressivamente – e in momenti importanti anche all’improvviso – cominciato a riconoscere quella realtà inaudita. In Giovanni la divinità di Gesù appare in modo non velato. Le dispute di Gesù con le autorità giudaiche del tempio costituiscono, per così dire, nel loro insieme già il futuro processo di Gesù davanti al Sinedrio, una vicenda che poi, a differenza dei sinottici, Giovanni non cita più come tale.

I capitoli IX e X potremmo definirli sintetici. Tornano a trattare insieme dei sinottici e di Giovanni, soffermandosi in particolare sulle affermazioni esplicite sull’identità di Gesù pronunciate dagli altri ed, infine, da Gesù stesso (i cosiddetti titoli cristologici).

Come abbiamo già visto –ma è importante ora riprenderlo- il libro, fin dalla Premessa, fin dall’Introduzione così come nei due capitoli iniziali, ci mette di fronte ad uno sguardo globale di Gesù. Vuole aiutare a percepire l’unità della sua persona, vuole indirizzare ad uno sguardo non atomizzato, non frammentato su Gesù. Questo sarà ripreso dai due capitoli finali sui titoli che Gesù si è attribuito, quelli di Figlio e di Figlio dell’uomo, ma viene enunciato subito. Gesù di Nazaret sceglie così la via non di un accumulo progressivo di dati per giungere solo alla fine ad una lettura unitaria, ma propone questa lettura fin dall’inizio. E, per farlo, sceglie una via estremamente convincente, quella del rapporto con Dio:

Senza il radicamento in Dio la persona di Gesù rimane fuggevole, irreale e inspiegabile” (R.Schnackenburg). Questo è anche il punto di appoggio su cui si basa questo mio libro: considerare Gesù a partire dalla sua comunione con il Padre. Questo è il vero centro della sua personalità. Senza questa comunione non si può capire niente e partendo da essa Egli si fa presente a noi anche oggi.

E ancora:

L’insegnamento di Gesù non proviene da un apprendimento umano, qualunque possa essere. Viene dall’immediato contatto con il Padre, dal dialogo «faccia a faccia», dalla visione di Colui che è «nel seno del Padre». E’ parola del Figlio. Senza questo fondamento interiore sarebbe temerarietà. Così la giudicarono i sapienti al tempo di Gesù, proprio perché non vollero accoglierne il fondamento interiore: il vedere e conoscere faccia a faccia.

C’è una premessa in cui già il Papa dice tutto, perché questo libro è costruito così, non si deve arrivare all’ultima pagina per capire cosa si vuole dire, ma è già detto nella prima pagina.
Si comincia con una sintesi perché –credo- l’Autore vuol dire esattamente questo: dinanzi a Gesù, per comprenderlo ed amarlo, non basta farne un’analisi, ma occorre giungere ad uno sguardo sintetico che ne mostri la sua reale unicità. Non basta seguire un procedimento di avvicinamento, ma è possibile giungere a delle conclusioni entusiasmanti.

In particolare, nel capitolo sulle Tentazioni, l’Autore si sofferma a mostrare come questo sguardo sintetico sulla pretesa di Gesù di parlarci di Dio offra una chiave di lettura estremamente significativa anche per comprendere l’unilateralità nella quale talvolta il nostro tempo si rinchiude, trascurando la centralità della domanda su Dio presente nel cuore dell’uomo:

A questo proposito c’è una frase del gesuita tedesco Alfred Delp, messo a morte dai nazisti: «Il pane è importante, la libertà è più importante, ma la cosa più importante di tutte è la costante fedeltà e l’adorazione mai tradita».
Laddove questo ordine dei beni non viene rispettato, non ne consegue più la giustizia, non si bada più all’uomo che soffre, ma si creano dissesto e distruzione anche nell’ambito dei beni materiali. Laddove Dio è considerato una grandezza secondaria, che si può temporaneamente o stabilmente mettere da parte in nome di cose più importanti, allora falliscono queste presunte cose più importanti. Non lo dimostra soltanto l’esito negativo dell’esperienza marxista.
Gli aiuti dell’Occidente ai Paesi in via di sviluppo, basati su principi puramente tecnico-materiali, che non solo hanno lasciato da parte Dio, ma hanno anche allontanato gli uomini da Lui con l’orgoglio della loro saccenteria, hanno fatto del Terzo Mondo il Terzo Mondo in senso moderno. Tali aiuti hanno messo da parte le strutture religiose, morali e sociali esistenti e introdotto la loro mentalità tecnicistica nel vuoto. Credevano di poter trasformare le pietre in pane, ma hanno dato pietre al posto del pane. E’ in gioco il primato di Dio. Si tratta di riconoscerlo come realtà, una realtà senza la quale nient’altro può essere buono. Non si può governare la storia con mere strutture materiali, prescindendo da Dio. Se il cuore dell’uomo non è buono, allora nessuna altra cosa può diventare buona. E la bontà di cuore può venire solo da Colui che è Egli stesso la Bontà, il Bene.

Se già la situazione mondiale odierna ci richiama al primato di Dio, a maggior ragione questa chiave di lettura è centrale nella considerazione della persona di Gesù.

1/ I sinottici nel libro Gesù di Nazaret (analisi esemplificativa di un capitolo: cos’è il regno di Dio)

I capitoli che vanno dal III al VI raccolgono dai sinottici per raggruppamenti tematici le principali dimensioni della vita e dell’opera di Gesù, durante la sua vita pubblica. E’ evidente che l’Autore concorda con i moderni studi biblici che, in via critica, ritengono impossibile giungere ad una cronaca dettagliata, scadenzata mese per mese della vita di Gesù, ma insieme ritengono possibile giungere ad una chiara identificazione delle caratteristiche salienti dell’opera e della predicazione di Gesù.
Il procedimento di sviluppo di ogni capitolo è simile. Si analizza tutta una serie di dati, cercando di individuarne la giusta prospettiva di lettura. E’ sempre in questione, come già abbiamo detto, quella che è stata definita l’essenza del cristianesimo ed essa traspare in ogni tema analizzato. L’Autore non si preoccupa tanto, dato il taglio prescelto, della completezza bibliografica, quanto piuttosto di una enumerazione molto più complessa, quella delle differenti ipotesi di lettura globale che sono state via via proposte in merito al tema del capitolo. Anche qui ci troviamo dinanzi ad una chiave di lettura sintetica, estremamente feconda per la catechesi.
Ho scelto come esempio per mostrarvi il modo di procedere di Gesù di Nazaret il III capitolo, che tratta dell’annunzio del Regno di Dio.
All’inizio della vita pubblica, nel racconto dei sinottici, Gesù proclama: “Il Regno di Dio è vicino”. Nessuno storico serio dubita che questo corrisponda alla realtà degli eventi. Ma cosa vuol dire questo annunzio? Cos’è questo regno? E’ diverso da ciò che la chiesa annuncerà dopo la Pasqua?
L’Autore domanda:

Tutto dipende da come dobbiamo interpretare l’espressione “regno di Dio” pronunciata da Gesù, in che rapporto l’annuncio stia con Lui, l’annunciatore: è solo un messaggero che deve sostenere una causa in ultima istanza indipendente da Lui, o il messaggero è Lui stesso il messaggio? La domanda sulla Chiesa non è la questione primaria. La questione fondamentale riguarda in realtà il rapporto tra il regno di Dio e Cristo: da questo dipende poi come dobbiamo intendere la Chiesa”.

In Gesù di Nazaret troviamo allora innanzitutto una sintesi delle letture date negli ultimi due secoli alla questione del regno (e chiunque conosce le elaborazioni catechetiche degli ultimi decenni sa bene quanto queste letture abbiano influenzato le differenti proposte):

L’Autore misura queste diverse letture con il dettato del testo evangelico. Esso ha una accentuazione che invita, piuttosto, a vedere la presenza del regno che viene nella stessa persona di Gesù. La venuta del Regno di Dio non è un mero enunciato, ma piuttosto la proclamazione di una signoria di Dio presente, l’annuncio di un già effettivo regnare di Dio.

Di recente la parola «vangelo» è stata tradotta con l’espressione «buona novella». Suona bene, ma resta molto al di sotto dell’ordine di grandezza inteso dalla parola «vangelo». Questa parola appartiene al linguaggio degli imperatori romani che si consideravano signori del mondo, suoi salvatori e redentori. I proclami provenienti dall’imperatore si chiamavano «vangeli», indipendentemente dalla questione se il loro contenuto fosse particolarmente lieto e piacevole. Ciò che viene dall’imperatore –era l’idea soggiacente– è messaggio salvifico, non è semplicemente notizia, ma trasformazione del mondo verso il bene.
Se gli evangelisti riprendono questa parola, tanto che a partire da quel momento diventa il termine per definire il genere dei loro scritti, è perché vogliono dire: quello che gli imperatori, che si fanno passare per dèi, pretendono a torto, qui accade veramente: un messaggio autorevole, che non è solo parola, ma realtà. Nell’odierno vocabolario proprio della teoria del linguaggio si direbbe: il Vangelo è discorso non solo informativo, ma operativo, non è solo comunicazione, ma azione, forza efficace, che entra nel mondo salvandolo e trasformandolo. Marco parla del «Vangelo di Dio»: non sono gli imperatori che possono salvare il mondo, bensì Dio. E qui si manifesta la parola di Dio che è parola efficace; qui accade davvero ciò che gli imperatori solo pretendono, senza poterlo adempiere. Perché qui entra in azione il vero Signore del mondo: il Dio vivente”.

Questo regnare di Dio viene proclamato in maniera nuova e assolutamente sconcertante da Gesù: il regno è già in mezzo a noi. Per capire questa novità –afferma Benedetto XVI- noi dobbiamo pronunciare il nome Gesù. I testi del Nuovo Testamento ci mostrano chiaramente la coscienza di Gesù che il regno giungeva agli uomini attraverso la sua presenza (Gesù di Nazaret si sofferma in particolare su Lc17,20ss. e Lc11,20, ma i riferimenti potrebbero essere ampliati all’infinito; solo per una corrispondenza a conferma di questo, si veda un’affermazione estremamente concisa del card.C.M.Martini che trovate citata estesamente nell’antologia: “Possiamo dire: è Gesù il Regno che viene, è lui!). È in Gesù che il regno di Dio viene a noi, è in lui che Dio regna, è in lui che salva il mondo, e lo fa compiutamente.

Qui si può allora comprendere il corretto rapporto fra Gesù, il regno e la chiesa. L’Autore richiama qui una riflessione che ritroviamo spesso nei suoi scritti precedenti, come, ad esempio, in un brano anch’esso citato nella nostra antologia:

Partiamo dal fatto che l’annuncio di Gesù riguardava direttamente non la Chiesa, ma il regno di Dio (o “regno dei cieli”). Lo dimostra una circostanza puramente statistica: il regno di Dio ricorre nel Nuovo Testamento centoventidue volte: di queste, ben novantanove nei vangeli sinottici, novanta delle quali si trovano in parole di Gesù. Possiamo così comprendere l'affermazione di Loisy, divenuta col tempo popolare: Gesù ha annunciato il regno, ed è venuta la Chiesa. Ma una lettura storica dei testi dimostra che questa contrapposizione tra regno e Chiesa non è obiettiva... Dove è Gesù, ivi è il regno. A tale riguardo, la frase di Loisy va così modificata: È stato promesso il regno ed è venuto Gesù. Solo in questo modo si comprende rettamente il paradosso di promessa e compimento”.

Solo per mostrarvi come questa prospettiva di lettura sia veramente una chiave di volta voglio fare riferimento al capitolo dedicato alle parabole. Lì si dice, analogamente a quanto già abbiamo visto per il regno, che le parabole non possono essere comprese senza il loro riferimento diretto a Gesù stesso. Quando l’Autore commenta la parabola del padre e dei suoi due figli egli afferma che può essere spiegata pienamente solo a partire da Gesù. Il cuore di quella parabola non è chiaramente né nel figlio che se ne va né in quello che resta, ma neanche, semplicemente, nella figura del padre: piuttosto quel padre è colui che ha inviato Gesù ad accogliere i due figli, per mostrare loro il suo vero volto di misericordia.
Gesù può rivelare quel padre proprio perché lui stesso ne è la presenza nel mondo. Infatti, il capitolo 15 di Luca inizia con il banchetto di Gesù con i peccatori, quel banchetto che realizza il banchetto del Padre. Nella parabola Gesù manifesta il senso profondo della sua opera in mezzo agli uomini; non si limita a raccontare una bella storiella che riguarda semplicemente gli altri! Lui è la presenza di quel Padre in mezzo agli uomini, che fa festa con i peccatori ed invita anche i criticoni a quella gioia (anche qui potete leggere un brano più esteso nell’antologia).

2/ Sottolineature

Ci sono due sottolineature che si ripetono costantemente come trasversalmente nei diversi capitoli e che mi sembra importante farvi cogliere.

2.1/ La prima è l’universalità.

Il Papa non affronta direttamente la questione esegetica dibattutissima se Gesù sia andato esplicitamente verso i pagani oppure no (i sinottici non sono chiari su questo, anche se una frequentazione di non ebrei sembra da riconoscersi comunque). Sottolinea per un’altra via che Gesù aveva la chiara coscienza di essere venuto per tutti. Gesù ha posto come criterio del rapporto con Dio, non più l’ebraismo, non più l’appartenenza a quel concreto popolo, ma la sua stessa persona. Chiunque accoglie Gesù entra nel regno, chiunque accoglie Gesù trova il Padre. Il vangelo è costitutivamente aperto all’universalità, non è solo per gli ebrei; è per il popolo eletto, in quanto Israele è il figlio primogenito, ma attraverso Gesù quel regno raccoglie ormai tutti i figli, oltre il primo. Anche il tema del rapporto fra Gesù e l’ebraismo è un tema che ricorre nella riflessione precedente dell’Autore. Egli è un grande estimatore dell’ebraismo e la sua lettura del complesso rapporto fra ebraismo e cristianesimo illumina ampiamente le diverse dimensioni del problema, poiché Gesù è ebreo, ma ha anche superato l’ebraismo e, soprattutto, è uomo! Leggete il breve testo sintetico che trovate nell’antologia:

“Intanto anche nella Chiesa è diventata patrimonio comune l'affermazione che Gesù era ebreo. Ma non si dovrebbe dire "Dio è diventato ebreo " invece di "Dio è diventato uomo "? La fede cristiana non deve dunque accettare l'ebraismo anche nella sua vocazione storica?
Anzitutto è importante essere chiaramente consapevoli che Gesù è stato ebreo. Al riguardo vorrei riferire quanto segue. Sono andato a scuola durante il periodo nazista e ho conosciuto direttamente la tendenza dei "deutsche Christen" [i cristiani filonazisti] a fare di Cristo un "ariano": in quanto originario della Galilea non sarebbe stato affatto ebreo. Nel nostro corso di religione, come anche nelle prediche, veniva invece detto con energia: questa è una falsificazione; Cristo era figlio di Abramo, figlio di Davide, è stato un ebreo, ciò fa parte delle promesse, è parte della nostra fede. Si tratta indubbiamente di un punto importante, al quale noi, come cristiani ed ebrei, siamo davvero reciprocamente legati. Ma rimane significativa e vera anche l'altra affermazione: Dio è diventato uomo. E' interessante il fatto che nel Nuovo Testamento siano presenti due genealogie di Gesù: quella di Matteo risale ad Abramo e indica Gesù come figlio di Abramo, come figlio di Davide e quindi come realizzazione della promessa di Israele. Quella di Luca risale ad Adamo e indica Gesù soprattutto come l'Uomo. E' decisamente un elemento importante che Gesù sia un uomo e che la sua vita e la sua morte siano state per tutti gli uomini. Proprio l'eredità di Abramo nella fede fa sì che l'eredità promessa si estenda a tutta l'umanità. Perciò la semplice asserzione originaria "Egli è diventato un uomo" è sempre importante. Infine, in terzo luogo, si deve aggiungere che Gesù, come ebreo personalmente ossequiente alle leggi ha anche superato l'ebraismo e ha voluto interpretare ex novo tutta l'eredità ebraica in una fedeltà più grande e nuova. Questo è proprio il punto di conflittualità. A riguardo esistono anche buoni spunti di dialogo. Penso soprattutto a un bel libro del rabbino americano Jacob Neusner, che è intervenuto con serietà e correttezza nel dibattito sul discorso della montagna. Qui egli evidenzia con grande franchezza i punti di contrasto, ma li assume con amore e mette infine in rilievo il sì comune al Dio vivente. Non dobbiamo dunque nascondere i contrasti. Sarebbe una via sbagliata, perché una via che lascia da parte la verità non è mai una vera via verso la pace. I contrasti esistono. Dobbiamo imparare a trovare amore e pace proprio nei contrasti”.

Le tre affermazioni su Gesù sono tutte vere, perciò non si può fare una catechesi solo sull’ebraicità di Gesù, o fare una riflessione teologica solo sul suo essere uomo. Gesù si inserisce in questa promessa al popolo ebraico, allarga quella promessa all’umanità intera facendosi uomo -allargamento che apparteneva intrinsecamente a quella stessa promessa- e supera per questo l’ebraismo, aprendolo alla rivelazione piena di Dio.

L’universalità è sottolineata anche in un altro senso, e precisamente nell’indicazione della via laicale nella quale è possibile vivere pienamente il vangelo. Nel capitolo dedicato alle Beatitudini, nel commento alla beatitudine dei poveri in spirito, ci sono due pagine che trattano del Terz’ordine francescano. Alla prima lettura del libro non riuscivo a capire perché fosse stata inserita questa questione apparentemente lontana dal testo evangelico. Poi credo di averne capito l’importanza. L’Autore invita, con quel riferimento, a fare attenzione al fatto che proprio coloro che più hanno vissuto la lettera della povertà evangelica, come san Francesco, hanno però capito che non era quella la forma che Gesù intendeva per ogni uomo. Francesco, fondando il Terz’Ordine, ha chiaramente indicato che tutti sono chiamati alla povertà, ma che ne esiste la forma di chi sceglie la vita di consacrazione celibataria insieme ad altri fratelli e ne esiste la forma di chi è chiamato alla famiglia e ad un lavoro nel mondo.
Una coppia di coniugi, che divengono genitori, non si allontanano da quella beatitudine indicata dal vangelo se hanno un conto in banca e se cercano di avere una casa di proprietà per non pagare più in eterno un affitto, anzi è bene che desiderino questo.
Se dei genitori non lavorassero in questa direzione –purtroppo non sempre è possibile realizzare questo- mancherebbero nel reale amore verso i figli che hanno bisogno di qualcuno che prepari il loro futuro. La povertà di una persona sposata è una povertà legata alle persone cui ha promesso l’amore –le statistiche ci dicono oggi che far nascere un figlio in più vuol dire diventare poveri! E’ una povertà legata ai figli. Io sono sacerdote e non ho una casa di proprietà, ma è giusto che mio fratello debba cercare di averla per i propri figli e per poterla aprire agli amici dei figli. E’ il suo modo di vivere la povertà, non usando del proprio denaro solo per sé, ma per amore della famiglia. Questo dono di sé alla famiglia troverà un suo equilibrio aprendosi anche al dono ai poveri, ma non può essere sbilanciato solo all’esterno, come se i propri familiari non fossero da amare in primo luogo.
Insomma, con questa piccola nota sul Terz’ordine, il Papa vuole aprire la prospettiva dell’universalità del vangelo. Esso non è solo per i celibi, ma per tutti. Un’interpretazione pauperistica di quella beatitudine renderebbe il cristianesimo non più vivibile per i laici e san Francesco per primo se ne è accorto, istituendo il Terz’ordine.
Mi permetto di segnalarvi, per chi volesse approfondire questa questione dal punto di vista della storia dello sviluppo del movimento francescano una recensione di p.Pietro Messa, un francescano, allo studio di Giacomo Todeschini, Ricchezza francescana. Dalla povertà volontaria alla società di mercato, un volume in cui si dimostra che è proprio nel movimento francescano, e non innanzitutto con il calvinismo -come aveva proposto Max Weber nella sua famosa opera L’etica protestante e lo spirito del capitalismo- che si supera il problema dell’usura. Siccome i francescani erano amici di coloro che vivevano nelle città, capivano che non si poteva semplicemente dire loro di non commerciare più; questo avrebbe voluto dire la fine della civiltà comunale! Francesco decide di abbandonare personalmente l’attività del commercio, ma deve trovare, con il suo movimento, un modo cristiano di proporre il commercio. Nasce così un etica cristiana ed evangelica dell’uso dei mezzi economici.

2.2/ La dimensione pubblica e sacramentale

La seconda dimensione che emerge a più riprese in Gesù di Nazaret e che voglio sottolineare è quella della dimensione pubblica e sacramentale della fede.
Troviamo una riflessione in merito nel capitolo su Giovanni. Nel quarto vangelo è
fortemente connotata la dimensione ecclesiale e sacramentale, anche a motivo del progressivo emergere di quelle correnti che, alcuni decenni dopo, avrebbero dato vita allo gnosticismo. Spirito e chiesa, Spirito e sacramento, Spirito ed istituzione, se rettamente intesi, non si oppongono minimamente: e questo proprio nel ‘vangelo spirituale’! Ma già nei capitoli dedicati ai sinottici, in particolare nel IV dedicato al discorso della montagna, due paragrafi sono dedicati esplicitamente al sabato ed alla famiglia, cioè uno all’istituzione del tempo liturgico ed un altro alla realtà fondamentale della vita sociale, il nucleo familiare.
Riguardo al sabato l’Autore anche qui ci conduce, innanzitutto, al senso cristologico delle affermazioni evangeliche. Se Gesù non si attiene alle norme veterotestamentarie del sabato è esattamente perché è egli in persona ad essere il sabato di Dio.

Gesù di Nazaret riprende qui il volume di Jacob Neusner appena ristampato dalla casa editrice San Paolo con il titolo Un rabbino parla con Gesù (San Paolo, Cinisello Balsamo, 2007). Il rabbino americano Neusner, profondo conoscitore dei testi rabbinici contemporanei alle origini del cristianesimo, immagina un possibile dialogo fra Gesù ed un maestro ebreo dell’epoca e conclude su questo tema: “Il Figlio dell’uomo è veramente signore del sabato, perché il Figlio dell’uomo è ora il sabato d’Israele: il nostro modo di comportarci come Dio” (A Rabbi talks with Jesus, Jacob Neusner, p.72, citato da Gesù di Nazaret, p.137). Gesù di Nazaret riprende queste espressioni di Neusner per mostrare che una interpretazione secondo i dettami della scuola liberale dei primi del secolo scorso dell’insegnamento di Gesù, sarebbe assolutamente superficiale. Gli autori di questa corrente avevano visto nella libertà di Gesù dinanzi al sabato semplicemente il segno di un rifiuto delle istituzioni, del culto, delle istituzioni del giudaismo –e, con il rifiuto di esse, l’analogo rifiuto di ogni altra istituzione successiva. Questo rifiuto dell’istituzione sarebbe stata, a loro dire, una caratteristica della persona di Gesù che avrebbe così fondato una esistenza volta all’impegno morale e indipendente da ogni forma pubblica e da ogni espressione sacramentale, una religione del cuore o, come si dirà successivamente, una fede contrapposta ad una religione, ad ogni religione.

L’Autore sottolinea, invece, in pieno accordo con la lettura di Neusner, che quando Gesù afferma che “il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”, egli non si basa su di una nuova interpretazione di stampo liberale che potrebbe essergli attribuita; l’affermazione, invece, ha un alto contenuto teologico e nasce dalla pretesa di Gesù di porsi al livello di Dio, pretesa che Neusner riconosce essere appartenuta storicamente a Gesù e che è esattamente il motivo per cui egli non può seguirlo, a motivo della sua fede ebraica.
Il vero riposo di Dio, il vero sabato, si trova nella sequela di Gesù; egli pretende di dettare le nuove leggi del riposo gradito a Dio, chiedendo che si diventi suoi discepoli.
Proprio perché il messaggio di Gesù non è un linguaggio che abolisce i segni per una pura religione del cuore, ma è altrove la novità dell’atteggiamento di Gesù verso il sabato, i cristiani hanno capito che è importante recuperare la funzione significativa e pubblica del sabato nella celebrazione della domenica.

Il valore sociale del sabato non è annullato, poiché Gesù non è il riformatore liberalizzante che dice: “Basto io; distruggiamo allora tutti i segni e la liturgia”. Gesù è il nuovo culto, non l’abolizione del culto. È possibile richiamare qui le riflessioni sul culto cristiano, più volte proposte da Benedetto XVI, dove egli ha indicato che, se prima di Cristo, era l’uomo ad offrire sacrifici a Dio, nel Nuovo Testamento è Dio che si offre all’uomo e questo dono prosegue nell’ “io-non più io” che caratterizza la liturgia cristiana. In essa è Cristo che continua a donarsi attraverso i segni sacramentali.
Una catechesi avrà sempre bisogno dei segni, avrà sempre bisogno della domenica. Sarebbe un grave errore –sostiene a ragione Gesù di Nazaret- considerare la domenica un’aggiunta esteriore; esiste, piuttosto, una dinamica interna della fede che porta a valorizzare i segni, anche nella loro espressività sociale più alta.
Lo stesso dicasi dell’altro tema che non possiamo qui affrontare in dettaglio: quello della famiglia. Anche qui è Gesù che, dicendo “Seguimi”, manifesta come la fede consista nella sua sequela. Chi lo segue, cammina nella via di Dio. Nessuno aveva mai osato tanto, nessuno aveva mai immaginato di identificare la propria sequela con il servizio di Dio, con la conseguente richiesta agli uomini di abbandonare la propria casa e la propria famiglia. Solo Gesù può proporre questa pretesa, che altrimenti sarebbe follia. Ma pure questa centralità della sequela non abolisce la famiglia umana, ma la salva e la rinnova. La famiglia, donata da Dio fin dalla creazione, viene anzi restituita alla sua bellezza ed al suo splendore dal Cristo ed indicata come pilastro della vita sociale e della stessa educazione alla fede.

3/ Giovanni

L’ottavo capitolo di Gesù di Nazaret è dedicato a Giovanni. Il quarto vangelo è di una bellezza straordinaria, ma il problema che subito l’Autore desidera affrontare è quello della sua attendibilità. Cosa rispondere a chi afferma che Gesù non abbia mai utilizzato il linguaggio con cui è presentato da Giovanni, poiché esso è chiaramente differente da quello dei sinottici che appaiono, a prima vista, più storici? In alcune letture esegetiche si accentua, infatti, talmente la non-storicità di Giovanni per cui non resta poi che presentare questo vangelo come pura creazione letteraria.
Gesù di Nazaret accetta tranquillamente il fatto che Gesù non abbia parlato con le precise parole che troviamo nel quarto vangelo. Ci fa, però, al contempo, subito capire che il vangelo di Gv appartiene alla tradizione di quel discepolo amato che ha compreso più profondamente degli altri il vero senso di ciò che Gesù ha detto e operato. Se gli altri evangelisti hanno riportato con maggiore fedeltà le parole espressamente pronunciate da Gesù, Giovanni è colui che ne ha espresso immediatamente il loro significato che, presente anche nei sinottici, è, però, in loro meno esplicitato.
Ci sono così delle differenze nel linguaggio di Giovanni e dei sinottici, ma questo non ci deve far perdere il senso della profonda unità che li accomuna e della concorde testimonianza che rendono.
Per giungere a queste conclusioni l’Autore innanzitutto illumina la questione dell’autore del quarto vangelo. Benedetto XVI scrive:

Dietro il testo vi è, ultimamente, un testimone oculare, e anche la redazione concreta è avvenuta nella vivace cerchia dei suoi discepoli e con l'apporto determinante di un discepolo a lui familiare.

Il punto determinante di questo passaggio non sta nel tentativo di identificazione precisa di chi sia questo personaggio, quanto piuttosto nell’affermazione che chiunque esso sia egli è attendibile, perché radicato nel rapporto con l’apostolo e con i discepoli a lui familiari. È l’affermazione dell’ “origine apostolica” dei quattro vangeli che è la scelta caratteristica della Dei Verbum, quando vuole fornire i motivi del perché la chiesa riconosce e proclama la credibilità storica ai vangeli.
Dei Verbum 18, affermando l’ “origine apostolica” dei vangeli (Quattuor Evangelia originem apostolicam habere Ecclesia semper et ubique tenuit ac tenet), volle lasciare libero campo alla ricerca su chi fossero i diversi redattori degli scritti neotestamentari, ma, al contempo, indicare che essi non furono liberi battitori, bensì espressione della predicazione apostolica, poiché gli apostoli e gli uomini della loro cerchia esercitarono una precisa influenza sulla formazione di questi testi scritti. Ne furono gli ispiratori ed, insieme, ne espressero la conferma di persona o attraverso la tradizione che alla loro testimonianza si richiamava.
Il vangelo di Giovanni, afferma Gesù di Nazaret, ha così un “particolare tipo di storicità”, poiché la “voluta impostazione teologica dell’autore” si serve di altri quattro elementi che concorrono alla formazione del quarto evangelo:

Questi due fattori - la realtà storica e il ricordo - conducono tuttavia da sé [agli altri due elementi] menzionati da Hengel: la tradizione ecclesiastica e la guida da parte del Paraclito”.

Ed essi non si oppongono a vicenda, come se dovessimo separare la storia e l’apporto dello Spirito Santo o la comprensione propria di Giovanni e quella degli altri apostoli. Facciamo solo un esempio, non potendo dilungarci in questa sede.
E’ vero che i racconti della moltiplicazione dei pani nei sinottici ed in Gv esprimono sottolineature diverse. Solo in Gv e non nei sinottici alla moltiplicazione dei pani fa seguito il discorso nella sinagoga di Cafarnao nel quale Gesù dice: “Io sono il pane della vita”.
Ma –è qui il passaggio importante- Gv non ha inventato una bella storiella infedele alla realtà, ma ha espresso più esplicitamente degli altri la verità profonda di ciò che storicamente Gesù ha detto e fatto. Come quando una persona che ha grande amore per un altra ed insieme grande intuito, quando questa esplicita finalmente la scelta di voler entrare in seminario che aveva nel cuore già da tempo, le dice: “L’avevo già capito da quella espressione a metà che avevi detto un anno fa”. Oppure, come qualcuno di voi mi ha raccontato: “Avevo capito che il mio parroco avrebbe cambiato parrocchia prima che lo dicesse agli altri perché aveva detto quella frase così particolare sull’anno prossimo a cui gli altri non avevano dato peso”. Quella persona non era stata esplicita nel suo dire, pure chi si esprime così dimostra di essere uno “storico” più profondo degli altri che non avevano ancora capito.
Tutti gli evangelisti comprendono pienamente il senso della moltiplicazione dei pani alla luce dell’ultima cena, che manifesta ciò che Gesù aveva nel cuore.
Mc dice: “Prese i pani, levò gli occhi, pronunziò la benedizione, li spezzò, li diede”, riprendendo parole della cena.

Ma quando Gv mostra Gesù che dice “Io sono il pane della vita” presenta in una parola sintetica tutto ciò che è contenuto nella moltiplicazione dei pani e nell’eucaristia.
Giovanni ha così compreso il senso del gesto di Gesù e lo esprime con il suo linguaggio. Quindi noi possiamo tranquillamente discutere delle diverse sottolineature, ma non dobbiamo dimenticare che, per certi aspetti, Gv è più storico degli altri evangelisti.

III/ La storicità dei vangeli

1/ L’origine apostolica dei vangeli

Con quanto abbiamo detto sulla storicità di Giovanni abbiamo già introdotto la questione dell’attendibilità dei vangeli. Gesù di Nazaret si muove in questo campo in una linea di piena conformità al Concilio Vaticano II, che ha trattato questo problema sempre nella Costituzione dogmatica Dei Verbum che già abbiamo citato. Nel paragrafo immediatamente successivo a quello che tratta dell’origine apostolica dei vangeli, Dei Verbum19 esplicita i tre stadi successivi che hanno portato alla formazione dei vangeli: in primo luogo ciò che effettivamente Gesù fece ed insegnò, in secondo luogo ciò che gli apostoli trasmisero ai loro ascoltatori, in terzo luogo il lavoro degli autori dei testi neotestamentari, apostoli o uomini della loro cerchia (troviamo nel prologo di Luca, Lc1,1-4, questo triplice passaggio).

In più punti –abbiamo visto come questi passaggi siano esplicitati nella riflessione su Giovanni- Gesù di Nazaret vi fa riferimento, evidenziando le peculiarità proprie di ciascun vangelo. Il Concilio ha voluto indicare esplicitamente che questo lavoro redazionale dei diversi scrittori e la tradizione apostolica orale che precede la scrittura dei diversi testi, non inficia, però, la storicità di ciò che viene riferito. Fu in particolare Paolo VI a scrivere una lettera di suo pugno al Concilio, negli ultimi mesi della discussione conciliare e precisamente il 17 ottobre 1965; in essa chiedeva espressamente che fosse affermato che l’iter formativo dei vangeli garantiva fiducia sulla loro veridicità in merito a Gesù. La proposta fu accolta dai padri conciliari ed il testo ora recita: “i Vangeli, dei quali la Chiesa afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (cfr At 1,1-2)” (“quorum historicitatem incunctanter affirmat”). Potete leggere nell’antologia un breve brano scritto dal prof.Caba che racconta in dettaglio questa vicenda.
In piena aderenza a questa linea si muove la riflessione del libro di Benedetto XVI, nell’unire tutta la ricchezza delle diverse prospettive dei singoli vangeli, ma, nel contempo, nell’indicarne l’unità e l’affidabilità.

2/ L’unico accesso possibile a Gesù è quello della Chiesa apostolica; il vicolo cieco degli apocrifi

Sono costretto, ora, a riassumere rapidamente, data la ristrettezza del tempo, gli ultimi punti, ma nell’antologia troverete il materiale per poterli approfondire. Gesù di Nazaret non si sofferma sugli apocrifi per l’ovvia ragione che essi sono tutti successivi agli scritti neotestamentari e dipendenti da essi. Ho voluto riprodurre, perché possiate leggerli, alcuni brani dagli apocrifi, proprio perché più li si legge, più ci si rende conto dell’abisso di affidabilità storica che intercorre tra essi e i testi del Nuovo Testamento. Pensate solo al loghion 114, l’ultimo del Vangelo copto di Tommaso, uno dei più antichi fra gli apocrifi, che recita:

Simon Pietro disse loro: "Maria deve andar via da noi! Perché le femmine non sono degne della vita". Gesù disse: "Ecco, io la guiderò in modo da farne un maschio, affinché ella diventi uno spirito vivo uguale a voi maschi. Poiché ogni femmina che si fa maschio entrerà nel Regno dei cieli".

L’affermata superiorità del maschio sulla femmina è qui evidentissima –è un tratto tipicamente gnostico- e ci testimonia subito una profonda lontananza dal Gesù storico. È veramente incredibile come coloro che si richiamano a questi testi non spiegano mai il loro tratto antifemminista, che si unisce al disprezzo per la carne, la materia e la sessualità che è tipico di questi testi apocrifi. Lo stesso termine apocrifo è estremamente interessante. Apocrifo vuol dire letteralmente nascosto (dal verbo krypto). Chi cerca di contrabbandarli per affidabili ne trae la conclusione che essi sono stati nascosti dalla chiesa. Il termine, invece, ha l’origine opposta. Poiché gli apocrifi sono scritti almeno 50 anni dopo i testi neotestamentari (alcuni addirittura secoli dopo) i loro autori hanno trovato un espediente per dargli un’autorevolezza che non avevano. Hanno detto, pressappoco: “Voi cristiani della grande chiesa non li avete mai potuti leggere, perché gli apostoli li hanno consegnati in segreto a noi. Noi li abbiamo tenuti nascosti per tutto questo tempo ed ora li rendiamo pubblici”. Si cercava così di dare credibilità, inventando una tradizione nascosta, a testi che esprimevano idee non appartenenti al Gesù storico, ma elaborate successivamente.

Questa inaffidabilità storica degli apocrifi non toglie interesse al loro studio; essi ci mostrano come il cristianesimo potesse essere interpretato dal II secolo in poi e come alcuni fenomeni siano comprensibili solo a partire dall’annuncio cristiano. In Italia il prof.Gaetano Lettieri, allievo di Manlio Simonetti, sta portando avanti la sua ricerca mostrando come lo gnosticismo sia un fenomeno chiaramente post-cristiano, che presuppone tutta l’impostazione teologica giovannea.

Gesù di Nazaret afferma con onestà storica che non c’è altro accesso possibile a Gesù, se non tramite la chiesa apostolica e gli scritti neotestamentari. I testi non cristiani, come le notizie latine relative ai cristiani sotto Claudio, Nerone, Traiano, negli anni 49, 64 e 111-113, così come le scarne notizie di fonte ebraica, in particolare da Flavio Giuseppe, confermano i dati interni del Nuovo Testamento.

L’Autore, nel VI capitolo, indica il motivo centrale che invita a dare credibilità alla testimonianza apostolica, sintetizzando anche qui studi e riflessioni precedenti, sulle quali vedete ancora l’antologia. Non v’è dubbio alcuno storico possibile che Gesù stesso abbia voluto e scelto i Dodici e li abbia scelti non semplicemente come suoi discepoli particolari, ma, ben più profondamente, con una precisa intenzione rivelativa della coscienza che aveva di sé:

Anzitutto dobbiamo tener conto del fatto che la comunità dei discepoli di Gesù non è un gruppo amorfo. In mezzo a loro c'è il nucleo compatto dei Dodici, accanto al quale, secondo Luca (10,1-20), si colloca altresì la cerchia dei settanta o settantadue discepoli. Va tenuto presente che solo dopo la risurrezione i Dodici ricevono il titolo di «apostoli». Prima di allora sono chiamati semplicemente «i Dodici». Questo numero, che fa di loro una comunità chiaramente circoscritta, è così importante che, dopo il tradimento di Giuda, viene nuovamente integrato (At1,15-26). Marco descrive espressamente la loro vocazione con le parole: «e Gesù ne costituì Dodici » (3,14). Il loro primo compito è quello di formare insieme i Dodici; a ciò si aggiungono poi due funzioni: «che stessero con lui e potesse inviarli a predicare» (Mc3,14). Il simbolismo dei Dodici è perciò di decisiva importanza: è il numero dei figli di Giacobbe, il numero delle tribù d'Israele. Con la formazione del gruppo dei Dodici Gesù si presenta come il capostipite di un nuovo Israele; a sua origine e fondamento sono prescelti dodici discepoli. Non poteva essere espressa con maggiore chiarezza la nascita di un popolo che ora si forma non più per discendenza fisica, bensì attraverso il dono di «essere con» Gesù, ricevuto dai Dodici che da lui vengono inviati a trasmetterlo.

L’intenzione della chiesa, insomma, è precedente alla Pasqua, viene storicamente prima della morte e resurrezione. I Dodici vengono formati da Gesù alla comprensione ed alla predicazione del suo vangelo già prima dei giorni di Gerusalemme.

Lascio al vostro studio personale gli ultimi punti. Nell’antologia troverete di seguito alcuni brani di Gesù di Nazaret radunati secondo i principali criteri di storicità, secondo quella griglia metodologica di indagine, cioè, elaborata dagli studiosi per la verifica storica dei vangeli. Su questi criteri di storicità potete leggere un bellissimo articolo che trovate citato, scritto dal biblista Ermenegildo Manicardi, sintesi di decenni di studi sull’argomento. Gesù di Nazaret non fa esplicito riferimento a questi criteri, anche se essi –così mi pare- traspaiono in filigrana nella sua analisi.

Infine gli ultimi brani raccolti nell’antologia, si riferiscono agli ultimi due capitoli, relativi ai modi in cui Gesù è stato chiamato e si è proclamato egli stesso (i cosiddetti titoli cristologici). Qui i vangeli sinottici ed il testo giovanneo vengono utilizzati insieme. In estrema sintesi l’Autore afferma che storicamente è possibile giungere all’affermazione che Gesù non si è auto-presentato, fino al momento della passione, con il titolo di Messia/Cristo, a motivo del fatto che questo titolo era letto dai suoi contemporanei come titolo di esaltazione terrena e non era passibile di quella storia di umiliazione che Gesù avrebbe vissuto, morendo sulla croce e “regnando dal legno”.

Gesù ha, invece, presentato se stesso come Figlio dell’uomo e come Figlio, semplicemente. In questi due termini sta tutta la ricchezza che la professione di fede della Chiesa ha concentrato poi nell’espressione Figlio di Dio. Figlio dell’uomo, l’antica espressione del libro del profeta Daniele che annunciava la venuta di uno simile ad un Figlio dell’uomo che sarebbe apparso sulle nubi del cielo presentandosi a Dio stesso che gli avrebbe dato un potere eterno, si mescola nelle parole di Gesù con le espressioni dei canti del servo sofferente di Dio, proclamati nel libro di Isaia: è attraverso la sofferenza e l’assunzione dei peccati degli uomini che il Figlio dell’uomo salverà. Figlio–con il corrispettivo termine di Padre- è espressione della coscienza di Gesù che traspare non solo in Giovanni, ma chiaramente anche nei sinottici e non solo nell’espressione Abba, Padre. Basti pensare alle parabole (la parabola degli inviati nella vigna). Un testo sinottico in particolare viene qui richiamato da Benedetto XVI come un gioiello che manifesta la persona di Gesù:

«Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio». Se esaminiamo l'esclamazione di giubilo dei sinottici in tutta la sua profondità, ci accorgiamo che, in realtà, essa contiene già tutta la teologia giovannea del Figlio.

Antologia di testi utilizzata per la presentazione del libro Gesù di Nazaret

I/ Prolegomena (cose dette prima)

1/ Il ‘primo annuncio’: pro-porre la fede, non presupporla

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.28
La famosa affermazione di Adolf von Harnack secondo la quale l’annuncio di Gesù sarebbe un annuncio sul Padre, di cui il Figlio non farebbe parte – e dunque la cristologia non apparterrebbe all’annuncio di Gesù – è una tesi che si smentisce da sola. Gesù può parlare del Padre, così come fa, solo perché è il Figlio e vive in comunione filiale con il Padre. La dimensione cristologica, cioè il mistero del Figlio come rivelatore del Padre, la «cristologia», è presente in tutti i discorsi e in tutte le azioni di Gesù... Ed è questo che davvero salva: il trascendere i limiti dell’essere uomo – un passo che, in lui, per la sua somiglianza con Dio è già predisposto, come attesa e possibilità, fin dalla creazione.

Dalla riflessione La fede della Chiesa di Roma tenuta dall’allora cardinal Joseph Ratzinger, durante il Sinodo Romano, il 18 gennaio 1993, per presentare il Catechismo della Chiesa Cattolica. Il testo è apparso sui Quaderni-Nuova Serie del Sinodo Romano, n.2, Vicariato di Roma, 1993, pagg.67-73 (il testo integrale è disponibile on-line nella sezione Approfondimenti del sito www.gliscritti.it con il titolo Che cosa crede la Chiesa?).
In quell’epoca [immediatamente dopo il Concilio]io avevo inviato un piccolo lavoro ad Hans Urs von Balthasar, il quale come sempre mi ringraziò immediatamente con un cartoncino ed al ringraziamento aggiunse una frase pregnante che per me divenne indimenticabile: non presupporre, ma proporre la fede. Fu un imperativo che mi colpì. L’ampio spaziare in nuovi campi era buono e necessario, ma solo a partire dal presupposto che esso stesso traesse origine dalla luce centrale della fede e da questa luce fosse sostenuto. La fede non ha permanenza di per se stessa. Non la si può mai semplicemente presupporre come una cosa già in se conclusa. Deve continuamente essere rivissuta. E poiché è un atto, che abbraccia tutte le dimensioni della nostra esistenza, deve anche essere sempre ripensata e sempre di nuovo testimoniata.
Perciò i grandi temi della fede - Dio, Cristo, Spirito Santo, Grazia e peccato, Sacramenti e Chiesa, morte e vita eterna - non sono mai temi vecchi. Sono sempre i temi, che ci colpiscono più nel profondo. Devono sempre rimanere centro dell’annuncio e quindi anche centro nel pensiero teologico.
I Vescovi del Sinodo del 1985 con la loro richiesta di un catechismo comune di tutta la Chiesa hanno avvertito esattamente ciò che Balthasar aveva allora espresso in parole nei miei confronti. L’esperienza pastorale aveva mostrato loro che tutte le molteplici nuove attività pastorali perdono il loro terreno portante, se non sono irradiamento e applicazione del messaggio della fede. La fede non può essere pre-supposta, essa deve essere pro-posta. Per questo c’è il nuovo Catechismo. Esso vuole pro-porre la fede con la sua pienezza e la sua ricchezza, ma anche nella sua unità e semplicità.
Che cosa crede la Chiesa? Questa domanda include le altre: chi crede? E come credere? Il Catechismo ha trattato entrambe le due domande fondamentali, la domanda del “che cosa” e quella del “chi” della fede, come un’unità interiore. Detto in altre parole: illustra l’atto della fede ed il contenuto della fede nella loro inseparabilità. Ciò suona forse un po’ astratto: cerchiamo di sviluppare un poco che cosa si intende con questo.
Si ritrova nelle confessioni di fede tanto la formula “io credo” come l'altra “noi crediamo”. Parliamo della fede della Chiesa, e parliamo del carattere personale della fede, e infine parliamo della fede come di un dono di Dio, come di un “atto teologale”, secondo un’espressione oggi corrente nella teologia. Che cosa significa tutto questo?
La fede è un orientamento della nostra esistenza nel suo insieme. È una decisione di fondo, che ha effetti in tutti gli ambiti della nostra esistenza. La fede non è un processo solo intellettuale, né solo di volontà, né solo emozionale, è tutto questo insieme. È un atto di tutto l’io, di tutta la persona nella sua unità raccolta insieme. In questo senso viene designato dalla Bibbia come un atto del “cuore” (Rom10,9). È un atto altamente personale. Ma proprio perché è il nostro io, afferma in un passo Sant’Agostino, laddove l’essere umano come un tutto è in gioco, egli supera se stesso; un atto di tutto l’io è nello stesso tempo anche sempre un divenire aperti per gli altri, un atto dell'essere con.
Ancor più: non può realizzarsi senza che noi tocchiamo il nostro fondamento più profondo, il Dio vivente, che è presente nella profondità della nostra esistenza e la sostiene. Laddove è in gioco l'essere umano come un tutto, insieme con l’io è in gioco il noi ed il tu del totalmente altro, il tu di Dio. Ciò significa però anche che in un tale atto viene superato l’ambito dell'agire puramente personale. L’essere umano come essere creato è nel suo più profondo non solo azione, ma sempre anche passione, non solo essere donante, ma essere accogliente.
Il Catechismo esprime questo così: Nessuno può credere da solo, così come nessuno può vivere da solo. Nessuno si è dato la fede da se stesso, così come nessuno da se stesso si è dato l'esistenza (166). San Paolo ha espresso questo carattere radicale della fede nella descrizione della sua esperienza di conversione e di battesimo con la formula: io vivo, ma non più io... (Gal2,20). La fede è uno scomparire del semplice io e così un risorgere del vero io, un divenire se stessi attraverso il liberarsi del semplice io nella comunione con Dio, che è mediata attraverso la comunione con Cristo.
Abbiamo cercato finora di analizzare con il Catechismo “chi” crede, quindi di individuare la struttura dell’atto di fede. Ma in tal modo si è già venuto delineando il contenuto essenziale della fede. La fede cristiana è nella sua essenza incontro con il Dio vivente. Dio è il vero ed ultimo contenuto della nostra fede. In questo senso il contenuto della fede è molto semplice: io credo in Dio. Ma la realtà più semplice è sempre anche la realtà più profonda e che tutto abbraccia.
Possiamo credere in Dio, perché Dio ci tocca, perché egli é in noi e perché egli anche dall’esterno si avvicina a noi. Possiamo credere in lui, perché esiste colui che egli ha mandato: “Egli ha visto il Padre (Gv6,46)”, dice il Catechismo; egli “è il solo a conoscerlo e a poterlo rivelare” (151). Potremmo dire che la fede è partecipazione allo sguardo di Gesù. Nella fede Egli ci permette di vedere insieme con lui, ciò che egli ha visto. In questa affermazione la divinità di Gesù Cristo è inclusa, così come la sua umanità. A motivo del fatto che egli è il Figlio, egli vede continuamente il Padre. A motivo del fatto che egli è uomo, noi possiamo guardare insieme con lui. A motivo del fatto che egli è entrambe le cose allo stesso tempo, Dio e uomo, egli non è mai una persona del passato e non è mai soltanto nell’eternità, sottratto ad ogni tempo, ma è sempre al centro del tempo, sempre vivo, sempre presente.
In tal modo però si tocca anche allo stesso tempo il mistero trinitario. Il Signore diviene presente per noi attraverso lo Spirito Santo. Ascoltiamo di nuovo il Catechismo: “Non si può credere in Gesù Cristo se non si ha parte del suo Spirito ... Dio solo conosce pienamente Dio. Noi crediamo nello Spirito Santo, perché è Dio” (152).
Se si considera bene l’atto di fede, si sviluppano in conformità con esso come da se stessi i singoli contenuti. Dio diviene per noi concreto in Cristo. Così da una parte diviene riconoscibile il mistero trinitario, dall’altra diviene visibile che egli stesso si è inserito nella storia fino al punto che il Figlio è divenuto uomo e dal Padre ci manda lo Spirito. Nell’incarnazione tuttavia è contenuto anche il mistero della Chiesa, poiché Cristo in realtà è venuto per “radunare in unità i dispersi figli di Dio” (Gv11,52). Il noi della Chiesa è la nuova, ampia comunità, nella quale ci attira (cfr. Gv12,32). Così la Chiesa è contenuta nell’inizio stesso dell’atto di fede. La Chiesa non è un’istituzione, che sopraggiunge alla fede dall’esterno e crea una cornice organizzativa per attività comuni dei fedeli; essa appartiene allo stesso atto di fede. L’ “io credo” è sempre anche un “noi crediamo”. Dice il Catechismo a questo proposito: “Io credo: è anche la Chiesa, nostra Madre, che risponde a Dio con la sua fede e che ci insegna a dire: ‘Io credo’, ‘Noi crediamo’ ” (167).
Avevamo precedentemente constatato che l’analisi dell’atto di fede ci rivela anche immediatamente il suo contenuto essenziale: la fede risponde al Dio trinitario, Padre, Figlio e Spirito Santo. Possiamo ora aggiungere che nello stesso atto di fede è contenuta anche l’incarnazione di Dio in Gesù Cristo, il suo mistero umano-divino e quindi tutta la storia della salvezza; si rende ora evidente che il Popolo di Dio, la Chiesa, come portatrice umana della storia della salvezza è presente nell’atto di fede stesso. Non sarebbe difficile dimostrare similmente come siano sviluppi dell’unico atto fondamentale dell’incontro con il Dio vivente anche gli altri contenuti della fede. Infatti la relazione con Dio proprio per la sua natura ha a che fare con la vita eterna. E supera necessariamente l’ambito puramente antropologico. Dio è veramente Dio solo se è il Signore di tutte le cose. Così creazione, storia della salvezza, vita eterna sono temi che fluiscono immediatamente dal problema di Dio. Se parliamo della storia di Dio con l’umanità, si tocca con questo anche il problema del peccato e della grazia. È toccato il problema di come noi incontriamo Dio, quindi il problema della liturgia, dei sacramenti, della preghiera, della morale.
Ma non vorrei ora sviluppare tutto questo nei particolari; ciò che mi stava a cuore era propriamente la considerazione dell’interiore unità della fede, che non è un cumulo di proposizioni, ma un semplice intenso atto, nella cui semplicità è contenuta tutta la profondità ed ampiezza dell’essere. Chi parla di Dio, parla del tutto; impara a distinguere l’essenziale da ciò che non è essenziale, e scopre qualcosa della logica interiore e dell’unità di tutto il reale, anche se sempre solo in frammenti e per enigma (1Cor13,12), finché la fede sarà fede e non diverrà visione.

2/ Gesù di Nazaret: un libro sull’essenza del cristianesimo

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.7
Al libro su Gesù... sono giunto dopo un lungo cammino interiore. Al tempo della mia giovinezza – negli anni Trenta e Quaranta – esisteva una serie di opere entusiasmanti su Gesù. Ricordo solo il nome di alcuni autori: Karl Adam, Romano Guardini, Franz Michel Willam, Giovanni Papini, Daniel-Rops. In tutte queste opere l’immagine di Gesù Cristo veniva delineata a partire dai vangeli: come Egli visse sulla terra e come, pur essendo interamente uomo, portò nello stesso tempo agli uomini Dio, con il quale, in quanto Figlio, era una cosa sola. Così, attraverso l’uomo Gesù, divenne visibile Dio e a partire da Dio si poté vedere l’immagine dell’autentico uomo.

Dalla Relazione conclusiva del 14 giugno 2007 del cardinal Camillo Ruini al Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma
Intendiamo porre il libro del Papa al centro dell’attenzione della Diocesi nel prossimo anno pastorale. Quest’anno potremmo concentrarci su due aspetti che stanno al cuore del libro del Papa. Il primo è costituito da quella che, con una formula classica, veniva chiamata «L’essenza del cristianesimo». Il libro si occupa molto di questo, chiedendosi qual è il volto di Dio che ci viene rivelato in Gesù Cristo, il compito e il destino dell’uomo, la nostra speranza come ce la propone Gesù Cristo. Il secondo aspetto è la credibilità dello stesso cristianesimo, che richiede anzitutto che l’uomo Gesù di Nazareth, nella sua realtà storica, sia stato effettivamente il Figlio di Dio e abbia avuto coscienza di esserlo, abbia avuto coscienza della missione che scaturiva da qui per la salvezza dell’umanità. In concreto il Papa chi ha detto che Gesù Cristo ci ha portato Dio, ha reso, in maniera nuova e unica, Dio presente nel mondo e così ci ha portato ciò di cui abbiamo realmente bisogno per vivere. Questo è il centro propulsore della vita e della crescita della persona cristiana, come della famiglia cristiana e del popolo cristiano, anzi della crescita dell’uomo in quanto tale e dell’umanità. Dobbiamo avere il coraggio di dire questo e il coraggio di pensarlo e di crederlo, la gioia di vivere di questo, perché il fulcro dell’educazione alla fede, in realtà, è anche il fulcro di una educazione umana piena e autentica.

Da L’essenza del Cristianesimo, di Romano Guardini, Morcelliana, Brescia, ristampa 1984, pp.7-13
Nello svolgersi della vita cristiana c’è il tempo durante il quale il credente è cristiano spontaneamente. Essere cristiano significa per lui la stessa cosa che essere credente, anzi essere pio semplicemente. Il cristianesimo forma senz’altro tutto il suo mondo religioso e tutte le questioni sorgono nel suo ambito. Così fu in linea generale per la collettività occidentale durante il medioevo e ancora per i singoli fin tanto che essi crescono in una atmosfera cristiana unitaria. In seguito però il cristiano avverte che ci sono anche altre possibilità religiose. Il credente finora senza dubbi, comincia a domandarsi dove stia la verità. Egli confronta, giudica e si sente spinto a una decisione. In questo prendere coscienza e prendere posizione assume importanza decisiva la questione dove stia quello ch’è peculiare del cristianesimo. Che cosa costituisce la qualità particolare solo a esso propria, in virtù della quale il cristianesimo si fonda in se stesso e si distingue da altre possibilità religiose? Nella misura in cui la connessione immediata con la realtà cristiana si rallenta e altre possibilità non solo vengono considerate, ma vengono anche interiormente avvertite, la questione si fa sempre più urgente. Il problema relativo all’ “essenza” del cristianesimo è stato risolto in diverse maniere. Si è detto che tale essenza consiste nel fatto che la personalità individuale viene ad occupare il punto centrale della coscienza religiosa; che Dio si manifesta come Padre e il singolo sta dinanzi a lui in un rapporto di pura immediatezza; che l’amore del prossimo diventa il valore decisivo e simili, - fino ai tentativi di dimostrare il cristianesimo come la religione perfetta, semplicemente perché esso sarebbe al massimo conforme alla ragione, conterrebbe la moralità più pura e si accorderebbe nel modo migliore con le esigenze della natura.
Queste risposte sono tutte errate; innanzi tutto perché esse limitano la libera pienezza della totalità cristiana a favore di un particolare momento, che, per motivi diversi, viene sentito come il più importante. Quanto poco esse siano soddisfacenti emerge già da questo, che è quasi sempre possibile contrapporre ad esse altre soluzioni altrettanto sostenibili e naturalmente altrettanto insoddisfacenti. Così si può dire con fondati motivi che il nucleo del cristianesimo consiste nella scoperta della comunità religiosa, del “noi” inteso religiosamente, anzi addirittura della totalità sovraindividuale; che esso manifesta la inaccessibilità di Dio e quindi è senz’altro la religione di un mediatore; che mediante il primato dell’amore per Dio elimina il diretto amore del prossimo e così via, - fino alle affermazioni secondo cui esso sarebbe quella religione che nel modo più radicale contesta le pretese della ragione, nega il primato della morale e suggerisce alla natura di accogliere quello che nell’intimo le è contrario.
Quelle risposte però sono false anche per questo – e qui sta l’elemento decisivo – che sono date nella forma di astratta definizione, che riducono il loro “oggetto” a un concetto generale; ma proprio questo contrasta con la coscienza più profonda del cristianesimo perché in tale maniera esso è riportato a presupposti naturali: e precisamente a ciò che esperienza e pensiero intendono sotto il nome di personalità, immediatezza religiosa, amore, ragione, etica, natura ecc. In verità proprio il cristianesimo non si risolve in siffatte categorie naturali. Quel che Cristo predica come “amore”, quello che Paolo e Giovanni intendono quando essi parlano di amore alla luce della loro coscienza cristiana, non è quel fenomeno universale umano che si suole designare con questa parola e non è neppure la sua purificazione ovvero la sua sublimazione, ma qualcosa d’altro. Esso presuppone la figliolanza di Dio. Questa a sua volta si distingue nettamente da quello che s’intende col comune concetto della storia delle religioni, quando ad esempio si dice che l’uomo religioso si avvicina alla divinità nella forma del rapporto figlio-padre. Essa significa piuttosto la rinascita del credente nel Dio vivo, che si compie mediante lo Spirito di Cristo. Così l’amore del prossimo nel senso del Nuovo Testamento vuol significare quell’apprezzamento e quell’atteggiamento che sono possibili in quella prospettiva...
Il cristianesimo non è una teoria della Verità, o una interpretazione della vita. Esso è anche questo, ma non in questo consiste il suo nucleo essenziale. Questo è costituito da Gesù di Nazaret, dalla sua concreta esistenza, dalla sua opera, dal suo destino — cioè da una personalità storica. Una certa analogia di tale situazione avverte colui per il quale un uomo acquista un significato essenziale. Non «l’Umanità» o «l’umano» divengono in tal caso importanti, ma questa persona. Essa determina tutto il resto, e tanto più profondamente e universalmente quanto più intensa è la relazione. Ciò può avvenire in un modo così possente che tutto, mondo, destino, compito si attua attraverso la persona amata; essa è come contenuta in tutto, tutto la fa ricordare, a tutto essa dà un senso. Nell’esperienza di un grande amore tutto il mondo si raccoglie nel rapporto Io-Tu, e tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito. L’elemento personale a cui in ultima analisi intende l’amore e che rappresenta ciò che di più alto c’è fra le realtà che il mondo abbraccia, penetra e determina ogni altra forma: spazio e paesaggio, pietre, alberi, animali.
Tutto ciò è vero, ma ha una risonanza solo tra questo Io e questo Tu. A misura che l’amore si fa più illuminato, sempre meno pretenderà che ciò che costituisce per lui il centro focale del mondo debba esserlo anche per gli altri. Una simile pretesa potrebbe essere sincera dal punto di vista lirico, ma per il resto sarebbe stolta. Nel cristianesimo le cose stanno altrimenti. Non si fa dipendere dal presentarsi di un incontro d’amore che la persona unica di Gesù diventi per l’uomo la realtà religiosa decisiva, ma essa è tale incondizionatamente e per se stessa. E che essa sia afferrata come tale dal singolo uomo, non è una possibilità lasciata al libero accadere, come lo svegliarsi di una inclinazione, che viene quando viene, ma è un’esigenza posta alla coscienza.
Il cristianesimo afferma che per l’incarnazione del Figlio di Dio, per la sua morte e la sua risurrezione, per il mistero della fede e della grazia, a tutta la creazione è richiesto di rinunciare alla sua — apparente —autonomia e di mettersi sotto la signoria di una persona concreta, cioè di Gesù Cristo, e di fare di ciò la propria norma decisiva. Dal punto di vista della logica questo è un paradosso, perché sembra mettere in pericolo la stessa realtà della persona. Ma anche il sentimento personale si ribella contro questo. Poiché l’accettare una legge generale che si è dimostrata giusta — sia essa una legge della natura o del pensiero o della moralità — non è difficile per la persona. Essa avverte che in tale legge essa continua ad essere se stessa; anzi, che il riconoscimento di siffatte leggi generali può tradursi senz’altro in un’azione personale. Ma all’esigenza di riconoscere un’«altra» persona come legge suprema di tutta la sfera della vita religiosa e con ciò della propria esistenza — la persona contrasta con vivacità elementare, e si capisce che cosa può significare la richiesta di «rinunciare alla propria anima».

3/ Il cuore della personalità di Gesù di Nazaret

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.10
“Senza il radicamento in Dio la persona di Gesù rimane fuggevole, irreale e inspiegabile” (R.Schnackenburg). Questo è anche il punto di appoggio su cui si basa questo mio libro: considerare Gesù a partire dalla sua comunione con il Padre. Questo è il vero centro della sua personalità. Senza questa comunione non si può capire niente e partendo da essa Egli si fa presente a noi anche oggi.

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.27
L’insegnamento di Gesù non proviene da un apprendimento umano, qualunque possa essere. Viene dall’immediato contatto con il Padre, dal dialogo «faccia a faccia», dalla visione di Colui che è «nel seno del Padre». E’ parola del Figlio. Senza questo fondamento interiore sarebbe temerarietà. Così la giudicarono i sapienti al tempo di Gesù, proprio perché non vollero accoglierne il fondamento interiore: il vedere e conoscere faccia a faccia.

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.67
Qui sorge però la grande domanda che ci accompagnerà per tutto questo libro: ma che cosa ha portato Gesù veramente, se non ha portato la pace nel mondo, il benessere per tutti, un mondo migliore? Che cosa ha portato?
La risposta è molto semplice: Dio. Ha portato Dio. Quel Dio, il cui volto si era prima manifestato a poco a poco da Abramo fino alla letteratura sapienziale, passando per Mosè e i Profeti – quel Dio che solo in Israele aveva mostrato il suo volto e che, pur sotto molteplici ombre, era stato onorato nel mondo delle genti – questo Dio, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio vero Egli ha portato ai popoli della terra. Ha portato Dio: ora noi conosciamo il suo volto, ora noi possiamo invocarlo. Ora conosciamo la strada che, come uomini, dobbiamo prendere in questo mondo. Gesù ha portato Dio e con Lui la verità sul nostro destino e la nostra provenienza: la fede, la speranza e l’amore. Solo la nostra durezza di cuore ci fa ritenere che ciò sia poco. Sì, il potere di Dio nel mondo è silenzioso, ma è il potere vero, duraturo.

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, pp.55-56
A questo proposito c’è una frase del gesuita tedesco Alfred Delp, messo a morte dai nazisti: «Il pane è importante, la libertà è più importante, ma la cosa più importante di tutte è la costante fedeltà e l’adorazione mai tradita».
Laddove questo ordine dei beni non viene rispettato, non ne consegue più la giustizia, non si bada più all’uomo che soffre, ma si creano dissesto e distruzione anche nell’ambito dei beni materiali. Laddove Dio è considerato una grandezza secondaria, che si può temporaneamente o stabilmente mettere da parte in nome di cose più importanti, allora falliscono queste presunte cose più importanti. Non lo dimostra soltanto l’esito negativo dell’esperienza marxista.
Gli aiuti dell’Occidente ai Paesi in via di sviluppo, basati su principi puramente tecnico-materiali, che non solo hanno lasciato da parte Dio, ma hanno anche allontanato gli uomini da Lui con l’orgoglio della loro saccenteria, hanno fatto del Terzo Mondo il Terzo Mondo in senso moderno. Tali aiuti hanno messo da parte le strutture religiose, morali e sociali esistenti e introdotto la loro mentalità tecnicistica nel vuoto. Credevano di poter trasformare le pietre in pane, ma hanno dato pietre al posto del pane. E’ in gioco il primato di Dio. Si tratta di riconoscerlo come realtà, una realtà senza la quale nient’altro può essere buono. Non si può governare la storia con mere strutture materiali, prescindendo da Dio. Se il cuore dell’uomo non è buono, allora nessuna altra cosa può diventare buona. E la bontà di cuore può venire solo da Colui che è Egli stesso la Bontà, il Bene.

4/ L’intima armonia della fede (non un sistema filosofico, non una massa disarticolata di esperienze)

Dal discorso del Santo Padre Benedetto XVI dell’11 giugno 2007 all’apertura del Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma
«Gesù è il Signore» - è la confessione comune della Chiesa, il fondamento sicuro di tutta la vita della Chiesa. Da queste parole si è sviluppata tutta la confessione del Credo Apostolico, del Credo Niceno.

Da H.U.von Balthasar, Il Credo, Jaca Book, Milano, p.31.
Ogni molteplicità proviene da qualcosa di semplice. Le molte membra dell’uomo, da un uovo fecondato. Le dodici enunciazioni del credo apostolico, anzitutto da queste tre domande particolari: Credi in Dio Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo? Ma anche queste tre formule sono espressione – ed è Gesù a fornircene la prova – del fatto che l’unico Dio è, nella sua essenza, amore e donazione... Queste tre “vie di accesso” a loro volta si diramano in dodici “articoli” (“articulus” indica in latino la giuntura che tiene unite fra loro le membra). La nostra fede non si affida mai a delle frasi, ma ad un’unica realtà che si dispiega davanti a noi: una realtà che è al tempo stesso la verità più alta e la più profonda salvezza.

Da una lettera di J.R.R.Tolkien a Michael Tolkien in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.442.
[Alcuni] cercano nel passato la “semplicità” e il rapporto diretto che, naturalmente, benché presenti degli aspetti positivi o per lo meno comprensibili, è uno sbaglio inutile. Perché il “cristianesimo primitivo” è e rimarrà, nonostante tutte le ricerche, in gran parte ignoto; perché la “primitività” non è garanzia di valore ed è ed era per lo più riflesso di ignoranza. Gravi abusi erano un elemento del comportamento liturgico cristiano agli inizi come adesso (le restrizioni di San Paolo a proposito dell’eucarestia valgono a dimostrarlo!). Inoltre La “mia chiesa” non è stata concepita da Nostro Signore perché restasse statica o rimanesse in uno stato di eterna fanciullezza; ma perché fosse un organismo vivente (come una pianta), che si sviluppa e cambia all’esterno in seguito all’interazione fra la vita divina tramandatale e la storia – le particolari circostanze del mondo in cui si trova. Non c’è alcuna somiglianza tra il seme di senape e l’albero quando è completamente cresciuto. Per quelli che vivono all’epoca della sua piena crescita è l’albero che conta, perché la storia di una cosa viva fa parte della vita e la storia di una cosa divina è sacra. I saggi sanno che tutto è cominciato dal seme, ma è inutile cercare di riportarlo alla luce scavando, perché non esiste più e le sue virtù e i suoi poteri ora sono passati all’albero. Molto bene: le autorità, i custodi dell’albero devono seguirlo, in base alla saggezza che posseggono, potarlo, curare le sue malattie, togliere i parassiti e così via. (Con trepidazione, consapevoli di quanto poco sanno della sua crescita!) Ma faranno certamente dei danni, se sono ossessionati dal desiderio di tornare indietro al seme o anche alla prima giovinezza della pianta quando era (come pensano loro) bella e incontaminata dal male.

5/ L’uomo cerca sempre, al di là dell’apparenza, ciò che è essenziale per vivere

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, pp.124-125
Sì, le Beatitudini si contrappongono al nostro gusto spontaneo per la vita, alla nostra fame e sete di vita. Esigono «conversione» - un’inversione di marcia interiore rispetto alla direzione che prenderemmo spontaneamente. Ma questa conversione fa venire alla luce ciò che è puro, ciò che è più elevato, la nostra esistenza si dispone nel modo giusto...
In una parola: la vera «morale» del cristianesimo è l’amore. E questo, ovviamente, si oppone all’egoismo – è un esodo da se stessi, ma è proprio in questo modo che l’uomo trova se stesso.

Appunti dalle conclusioni del cardinal vicario Camillo Ruini nel consiglio dei prefetti del 7 maggio 2007. N.B. Sono solo appunti presi dalla viva voce e non la trascrizione dell’intervento
Qual è il nostro compito dinanzi alle giovani generazioni? Cosa possiamo donare loro? Come possiamo comunicare con loro?
L’atteggiamento giusto è quello di non perdere mai di vista che si deve educare alla responsabilità della vita; la vita è una cosa seria e non è un gioco. Il giovane deve sentirsi dire da noi questo.
Ed è per questo che è bene stare ai grandi temi della vita, senza preoccuparsi troppo di fenomeni che pure esistono, ma che sono conseguenti, non sono all’origine dei problemi. Non bisogna andare appresso a singoli fenomeni, all’ultima novità del momento, ingigantendone l'importanza. Non è bene, dal punto di vista educativo, rincorrere sempre i temi di attualità come la droga, ecc. ecc.
Questi fenomeni sono la conseguenza di una insufficiente motivazione. La vera prevenzione consiste nella attenzione alla serietà della vita ed alla sua bellezza.
L’altro aspetto che è necessario avere sempre presente è l’educazione alla fede cristiana. Essa va fatta rivolgendosi all’unità della persona ed alla concretezza della vita. Le domande grandi dell’uomo sono sempre le stesse; la sostanza delle domande è sempre la medesima. Qui è importante l’aspetto dell’organicità della proposta. Se si va avanti soltanto a spizzichi e bocconi, non si aiuta a formare quella visione unitaria ed armonica che è la vera esigenza dell’uomo.
Se non c’è una proposta organica non si riesce ad aiutare a formare nella persona una visione complessiva di sintesi. E’ solo questa che rende una persona capace di orientamento. Ed è questa la bellezza della fede. Il cristianesimo è veramente una sintesi, una visione armonica, unitaria.
Questo deve essere il nostro pane quotidiano. Noi dovremmo essere in grado di fare questa proposta; è qui che deve essere messo a frutto tutto il tempo della nostra vita che abbiamo dedicato allo studio in seminario.
Non possiamo non riuscire a presentare organicamente questa visione. Non dobbiamo preoccuparci troppo di ciò che dicono i media. La gente sembra estremamente critica, ma, purtroppo, non ha vero senso critico, ha una criticità superficiale. Segue gli slogan del momento, ma non riesce a maturare una visione profonda.
E’ questo, allora, lo spazio educativo che ci sta dinanzi. Si apre il campo di una educazione armonica, che poi sa valutare anche le singole cose particolari. Se comprendono questo le persone giungono a credere al cristianesimo, perché ne capiscono l’unicità e la grandezza. Non è al livello delle piccole questioni che nasce la fede.
Certo bisogna avere un po’ di padronanza della “materia” per poterne parlare in maniera organica e responsabile; il libro del papa, Gesù di Nazaret, può essere una grande fetta di questo lavoro, può aiutarci moltissimo, perché è un lavoro molto serio ed è originale proprio in questa direzione di sintesi e di una sintesi che vuole mostrare la rilevanza del vangelo nella vita dell’uomo.
Se spiegato bene diventa accessibile. E’ molto serio nell’andare al cuore del problema di Gesù: chi è Gesù e chi ha ritenuto essere Gesù. Abbiamo così anche un testo di riferimento, ma, come sempre, ci vuole quel minimo di elaborazione personale per proporlo, così come per proporre ogni altro contenuto. Non avrebbe senso ripeterlo pedissequamente, senza fare la fatica di una appropriazione personale.
Serve così naturalmente anche la passione. Dobbiamo coltivarla dentro di noi, altrimenti la nostra pastorale sarà sempre difficile e non sarà mai efficace.

6/ L’indissolubile unità di Logos ed Agape

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, pp.403-404
Veniamo ora alle affermazioni in cui l’«Io Sono» è contenutisticamente specificato da una parola figurata. In Giovanni vi sono sette di queste parole-immagini; e il fatto che siano proprio sette non è un caso: Io sono il pane della vita – la luce del mondo – la porta – il buon pastore – la risurrezione e la vita – la via, la verità e la vita – la vera vite. Schnackenburg sottolinea giustamente che è lecito aggiungere a queste grandi immagini anche quella della sorgente d’acqua che, pur non essendo direttamente collegata con il tipico «Io Sono», si trova tuttavia in affermazioni di Gesù in cui Egli si presenta come questa sorgente (cfr. 4,14; 6,35; 7,38; cfr. anche 19,34). Su alcune di queste immagini abbiamo già riflettuto a fondo nel capitolo dedicato a Giovanni. Basti pertanto indicare qui sinteticamente il significato comune di queste parole di Gesù in Giovanni.
Schnackenburg osserva che tutte queste espressioni figurate non sono che «variazioni sull’unico tema: Gesù è venuto nel mondo affinché gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (10,10). Egli concede il dono unico della vita, e lo può concedere perché in Lui è presente in un’abbondanza originaria e inesauribile la vita divina» (vol. II, p. 101). L’uomo desidera e abbisogna, in fin dei conti, di una cosa sola: la vita, la vita piena – la «felicità». In un passo del Vangelo di Giovanni Gesù definisce questa cosa unica e semplice che aspettiamo: la «gioia piena» (cfr. 16,24).
Quest’unica cosa di cui si tratta nei tanti desideri e nelle tante speranze dell’uomo è espressa anche nella seconda domanda del Padre nostro: «Venga il tuo regno». Il «regno di Dio» è la vita in abbondanza – proprio perché non è solo «felicità» privata, gioia individuale, bensì il mondo giunto alla sua giusta forma, l’unità tra Dio e il mondo.
L’uomo, in fondo, ha bisogno di un’unica cosa che contiene tutto; ma deve prima imparare a riconoscere attraverso i Suoi desideri e i suoi aneliti superficiali ciò di cui necessita davvero e ciò che vuole davvero. Ha bisogno di Dio. Così possiamo ora vedere che dietro tutte le espressioni figurate c’è in ultima istanza questo: Gesù ci dà la «vita» perché ci dà Dio. Ce lo può dare perché è Egli stesso una cosa sola con Dio. Perché è il Figlio. Egli stesso è il dono – Egli è«la vita». Proprio per questo è, secondo l’intera sua natura, comunicazione, «pro-esistenza». E’ proprio questo che sulla croce appare come il suo vero innalzamento.

Dal discorso di Benedetto XVI del giovedì, 19 ottobre 2006, ai partecipanti al Convegno di Verona
La forte unità che si è realizzata nella Chiesa dei primi secoli tra una fede amica dell'intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall'amore reciproco e dall'attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti ha reso possibile la prima grande espansione missionaria del cristianesimo nel mondo ellenistico-romano. Così è avvenuto anche in seguito, in diversi contesti culturali e situazioni storiche. Questa rimane la strada maestra per l'evangelizzazione: il Signore ci guidi a vivere questa unità tra verità e amore nelle condizioni proprie del nostro tempo, per l'evangelizzazione dell'Italia e del mondo di oggi.

Dalla testimonianza del prof.Francesco Nembrini al Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma, 11 giugno 2007
Un pomeriggio me ne stavo tranquillamente in casa con il mio primo figlio Stefano, che poteva avere 4 o 5 anni, correggendo i temi come ogni insegnante di italiano ed ero talmente assorto nel mio lavoro che non avevo notato che Stefano si era avvicinato al mio tavolo e in silenzio mi stava guardando. Non chiedeva nulla di particolare, non aveva bisogno di nulla, solo osservava suo padre al lavoro. Ricordo che quel giorno, nell’incrociare lo sguardo di mio figlio, mi folgorò questa impressione: che lo sguardo di mio figlio contenesse una domanda assolutamente radicale, inevitabile, cui non potevo non rispondere. Era come se guardandomi chiedesse: papà, assicurami che valeva la pena venire al mondo.
Questa, mi sono detto, è la domanda dell’educazione e da quel momento non ho più potuto neanche entrare in classe e incrociare lo sguardo dei miei alunni e non sentirmi rivolta questa domanda: quale speranza ti sostiene? Perché di questo io ho bisogno per dare credito ai tuoi suggerimenti, al tuo insegnamento, persino alle cose che mi dici di studiare. Ti posso dare credito solo per una grande speranza presente...
L’adulto è responsabile nell’introdurre il giovane alla realtà. Non basta che sia competente di singoli aspetti, ma la sua vocazione è quella di mostrare l’intimo significato della realtà.
Dante nel Paradiso, interrogato da San Pietro sulla fede, si sente chiedere:
“Quella cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda, dimmi, donde ti venne?”
Perché io potevo desiderare, bambino, di essere come mio papà? Perché presentivo, sapevo che mio papà sapeva le cose che nella via è importante sapere. Sapeva del bene e del male, della verità e della menzogna, della gioia e del dolore, della vita e della morte.
Cioè senza discorsi e senza prediche mi introduceva ad un senso ultimamente positivo dell’esistenza, di tutti gli aspetti della vita. Era la testimonianza vivente di una Verità conosciuta.
Se l’educazione, come dice don Giussani nel Rischio Educativo è “introduzione alla realtà totale, cioè alla realtà fino all’affermazione del suo significato”, bene mio papà faceva esattamente questo.
E questo, mi pare, è proprio ciò che manca ai giovani oggi: sono cresciuti senza che venisse loro offerta questa “ipotesi esplicativa della realtà” e perciò paurosi, trovandosi di fronte a tutto perennemente indecisi, e tristi, e perciò così spesso violenti. Perché, lo sappiamo bene noi adulti: non si può rimanere a lungo tristi senza diventare cattivi.
Ma rendiamoci conto che la tristezza dei figli è figlia della nostra, la loro noia è figlia della nostra.
Ecco, mio padre, lo dico volutamente con un paradosso, ci ha educati perché non aveva il problema di educarci, di convincerci di qualcosa. Lo desiderava, certo, certo pregava per questo, ma era come se ci sfidasse: “Io sono felice, vedete la mia vita, vedete se trovate qualcosa di meglio e decidete”...
Una volta mio figlio Andrea mi ha detto (era in prima liceo), serissimo: “Ma papà, noi siamo una famiglia normale?” Perché tutto fuori di qui dice il contrario: scuola, TV, amici.
Allora ho capito che sentiva una estraneità tra l’insegnamento in casa e la vita, la vita nel mondo normale. Si trattava di fargli veder un altro “mondo”, un altro mondo in questo mondo.
Ho capito che mi chiedeva di fargli vedere che la cosa funzionava davvero, che c’erano amici, famiglie, realtà, movimenti, chiese, oratori, parrocchie, missioni da cui poter capire e stare certo che quando fosse stato chiamato a sfidare il mondo avrebbe avuto ragioni sufficienti da portare, tutto il peso e la forza di tanti testimoni; che sarà un modo minoritario, quello che vive in un certo modo, ma che sia un mondo vero, famiglie vere, amici veri, case vere, ecc.

7/ La questione della verità (e della libertà)

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.117
Il pensiero contemporaneo tende a dire che ognuno dovrebbe vivere la propria religione, o forse anche l’ateismo in cui si trova. In questo modo arriverebbe la salvezza. Un’opinione simile presuppone un’immagine molto strana di Dio e una strana idea dell’uomo e del modo corretto dell’essere uomo. Cerchiamo di chiarirci questo punto con un paio di domande pratiche. Forse qualcuno diventa beato e verrà riconosciuto come giusto da Dio perché ha rispettato secondo coscienza i doveri della vendetta di sangue? Perché si è impegnato con forza per la e nella «guerra santa»? O perché ha offerto in sacrificio determinati animali? O perché ha rispettato abluzioni rituali o altre osservanze religiose? Perché ha dichiarato norma di coscienza le sue opinioni e i suoi desideri e in questo modo ha elevato se stesso a criterio? No, Dio esige il contrario: esige il risveglio interiore per il suo silenzioso parlarci, che è presente in noi e ci strappa alle mere abitudini conducendoci sulla via della verità; esige persone che «hanno fame e sete della giustizia» - questa è la via aperta a tutti; è la via che approda a Gesù Cristo.

Da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.224-240
Con la distinzione mosaica intendo l’introduzione della distinzione tra vero e falso nell’ambito delle religioni. Fino ad allora la religione era basata sulla distinzione tra puro ed impuro, o tra sacro e profano e non c’era assolutamente posto per l’idea di falsi dèi [...] che non si possono adorare...” (J.Assmann). Gli dèi delle religioni politeiste sarebbero stati in un rapporto di equivalenza funzionale tra loro e sarebbero dunque stati interscambiabili gli uni con gli altri. Le religioni avrebbero avuto la funzione di strumento di traducibilità interculturale. “Le divinità erano internazionali, perché erano cosmiche [...] nessuno metteva in discussione la realtà degli dèi stranieri e la legittimità di forme di venerazione straniere. Il concetto di una “religione non vera” era totalmente estraneo ai politeismi antichi”. Con l’introduzione della fede-in-un-Dio-unico accade dunque qualcosa di nuovo, di sconvolgente: questo nuovo tipo di religione sarebbe per sua natura un’ “antireligione”, che emargina tutto quello che la precede come “paganesimo”, e non il mezzo di una traducibilità interculturale, bensì di uno straniamento interculturale. Solo a questo punto si sarebbe costituito il concetto di “idolatria” come il supremo dei peccati: “Nell’immagine del vitello d’oro, del “peccato originale” dell’iconoclastia monoteistica [...] è espresso il potenziale di odio e di violenza, che si è sempre tradotto in atto nella storia delle religioni monoteistiche”. Il racconto dell’Esodo, con questo suo potenziale di violenza, appare come il mito di fondazione della religione monoteistica e al contempo come il ritratto permanente dei suoi effetti.
La conseguenza è chiara: l’Esodo deve essere annullato; dobbiamo fare ritorno in “Egitto” – vale a dire: la distinzione tra vero e non-vero nell’ambito delle religioni dev’essere abolita, dobbiamo tornare nel mondo degli dèi, i quali esprimono il cosmo in tutta la sua ricchezza e molteplicità, e di conseguenza non conoscono un’esclusione reciproca, anzi, al contrario, rendono possibile una reciproca comprensione...
Con la distinzione mosaica - così ci insegna Assmann – appare anche, inevitabilmente “la consapevolezza del peccato ed il desiderio di redenzione”; e aggiunge: “Peccato e redenzione non sono temi egizi”. Caratteristico per l’Egitto sarebbe piuttosto l’ “ottimismo morale che “mangia con gioia il suo pane” consapevole del fatto che “Dio ha già gradito le sue opere” – uno dei versetti egiziani della Bibbia (Qo 9,7-10). “Parrebbe – scrive Assmann – che con la distinzione mosaica il peccato sia entrato nel mondo. Forse sta proprio qui la ragione più importante per mettere in discussione la distinzione mosaica”. Con questo, un dato è stato visto in modo certamente esatto: la questione del vero e la questione del bene non possono essere separate. Se non si può più riconoscere il vero, né lo si può più distinguere dal non-vero, anche il bene diventa irriconoscibile; la distinzione tra bene e male perde il suo fondamento...
Innanzi tutto, già le religioni politeiste sono molto diverse fra di loro. Non poche intuiscono in qualche modo sullo sfondo l’unico Dio, che è realmente Dio... La questione della verità non è stata inventata da “Mosè”. Essa insorge immancabilmente quando la coscienza raggiunge una certa maturazione.
Nel suo importante libro Chrêsis, Christian Gnilka ha descritto in maniera approfondita l’irrompere della questione della verità nel mondo degli antichi dèi, e l’incontro del cristianesimo con questa situazione. Emblematica di questo procedimento è la figura, descritta da Cicerone, del pontefice massimo romano C.Aurelio Cotta, che, nella sua funzione di augure e capo del Collegium Pontificum, rappresentava la religione pagana di allora. Conformemente alla sua funzione, Cotta era garante dell’osservanza scrupolosa dei riti del culto pubblico e dichiarava che avrebbe difeso le “concezioni” (opiniones) sugli dèi ereditate dagli antenati e che non se ne sarebbe lasciato distinguere. Ma, lo stesso Cotta, a casa tra gli amici, si rivela uno scettico accademico che pone l’interrogativo sulla verità. Egli vorrebbe essere convinto, non sulla base di una semplice supposizione, ma secondo la verità e giunge alla conclusione che c’è da temere che gli dèi non esistano affatto. “Il criterio della verità, introdotto nel mondo antico degli dèi, agisce come una carica esplosiva”, constata Gnilka. Assmann stesso ha mostrato come questa schizofrenia abbia condotto ad una finzione difesa dallo Stato: per i non-iniziati gli dèi continuano a esistere come necessità di Stato, mentre gli iniziati riescono a scorgere la loro inconsistenza...
La questione della verità è inevitabile. Essa è indispensabile all’uomo e riguarda proprio le decisioni ultime della sua esistenza: esiste Dio? Esiste la verità? Esiste il bene? La “distinzione mosaica” è anche la distinzione socratica, potremmo dire. Qui si rendono visibili la motivazione interiore e la necessità interiore dell’incontro storico tra la Bibbia e l’Ellade. Ciò che le unisce è appunto l’interrogativo sulla verità e sul bene in quanto tale che pongono alle religioni, ossia, come noi ora potremmo chiamarla, la distinzione mosaico-socratica. Questo incontro ha preso avvio ben prima dell’inizio della sintesi tra fede biblica e pensiero greco della quale si preoccuparono i Padri della Chiesa.
Ma l’Asia non ci indica forse la via d’uscita? Una religione che si regge senza dover elevare una rivendicazione di verità? Tale questione diventerà senza dubbio uno dei temi principali nei dialoghi futuri. Qui solo un accenno. Anche il buddhismo ha il suo modo specifico di porsi la questione della verità. Esso chiede la liberazione dal dolore, il quale è provocato dalla sete di vita. Dov’è il luogo della salvezza? Il buddhismo giunge al risultato che esso non si trova nel mondo, nella totalità dell’essere che appare. Nella sua totalità l’essere è dolore, è un ciclo di reincarnazioni e di sempre nuovi intrecci di legami. La via dell’illuminazione è la via che porta dalla sete dell’essere a ciò che a noi appare come un non-essere, il Nirvana. Vale a dire: nel mondo stesso non c’è la verità. La verità “accade” nell’uscita da esso. In questo senso la questione della verità si risolve nella questione della liberazione o redenzione, o anche: si toglie e si sublima in essa. Ci sono gli dèi, ma essi fanno parte del mondo della provvisorietà, non della salvezza definitiva. Solo nell’Hinayana questa visione viene rigorosamente mantenuta. Il Mahayana conosce in modo molto più marcato la dimensione sociale, l’aiuto per la liberazione dell’altro e colui che aiuta. Ma l’attesa fondamentale dell’estinguersi dell’esistenza e della persona del singolo, è mantenuta, sebbene essa sia rinviata molto lontano. Qui non si può parlare di Deus sive natura. Il mondo come tale è dolore – e quindi anche assenza di verità – e infine solo il distacco dal mondo può essere la salvezza. Qui si tratta di atteggiamenti esistenziali che racchiudono in sé un’immagine del mondo lontanissima dalle visioni occidentali ed anche da quelle “egizie”, politeiste, e che si pone come alternativa alla comprensione cristiana del mondo con la sua accettazione del mondo in linea di principio in quanto creazione. Anche questa via non ci dispensa però dalla questione della verità.
Ora, è esatto che il Dio unico è un “Dio geloso”, come lo chiama l’Antico Testamento. Egli smaschera gli dèi perché nella sua luce si vede che gli “dèi” non sono Dio, che il plurale di Dio è di per sé una menzogna. La menzogna è sempre non libertà e non è un caso, soprattutto però non è falso, che nel ricordo di Israele l’Egitto appaia come una casa di schiavi, come un luogo di non-libertà. Solo la verità rende liberi. Dove l’utilità viene anteposta alla verità – come accade nel caso della doppia verità, di cui abbiamo parlato in precedenza - l’uomo diventa schiavo dell’utilità e di coloro che possono decidere quale sia l’utile. In questo senso è indispensabile anzitutto la “demitizzazione” che spogli gli dèi del loro falso splendore e quindi del loro falso potere, per poi mettere in luce la loro “verità”, ossia per spiegare quali siano i veri poteri e le vere realtà che stanno dietro di loro. Detto altrimenti: una volta avvenuta questa “demitizzazione”, questo smascheramento, anche la loro verità relativa può e deve venire alla luce. Conformemente a questo, vi sono all’interno dell’atteggiamento cristiano nei confronti delle religioni “pagane” due fasi, che tuttavia devono necessariamente concatenarsi l’una con l’altra e non possono essere nettamente distinte in una successione temporale. La prima fase è l’alleanza del cristianesimo con la ragione, alleanza che predomina negli scritti dei Padri, da Giustino ad Agostino ed oltre: coloro che annunciano il cristianesimo si pongono dalla parte dei filosofi, della ragione, contro le religioni, contro la doppia verità di un C.Aurelio Cotta. Essi vedono i semi del Logos, della ragione divina, non nelle religioni, ma nel movimento della ragione che ha dissolto queste religioni. Ma sempre più chiaramente appare anche un secondo punto di vista, con il quale vengono alla luce anche il legame con le religioni ed i limiti della ragione...
Una cosa tuttavia mi sembra importante ai fini del nostro discorso: i temi del vero e del bene effettivamente non sono separabili. Platone aveva ragione identificando il punto più alto del divino con l’idea del Bene. Inversamente: se non possiamo conoscere la verità riguardo a Dio, allora anche la verità riguardo a quel che è bene e a ciò che è male resta inaccessibile.
Il concetto biblico di Dio riconosce Dio come il Bene, come il Buono (cfr. Mc 10,18). Questo concetto di Dio raggiunge il suo culmine nell’affermazione giovannea: “Dio è amore” (1Gv 4,8). Verità e amore sono identici. Questa affermazione – se ne si coglie tutto quanto esso rivendica – è la più alta garanzia della tolleranza; di un rapporto con la verità, la cui unica arma è essa stessa e quindi l’amore.

Dall’omelia di Benedetto XVI nella messa al Santuario austriaco di Mariazell del sabato 8 settembre 2007
Di questo cuore inquieto e aperto abbiamo bisogno. È il nocciolo del pellegrinaggio. Anche oggi non è sufficiente essere e pensare in qualche modo come tutti gli altri. Il progetto della nostra vita va oltre. Noi abbiamo bisogno di Dio, di quel Dio che ci ha mostrato il suo volto ed aperto il suo cuore: Gesù Cristo. Giovanni, con buona ragione, afferma che Lui è l’Unigenito Dio che è nel seno del Padre (cfr Gv 1,18); così solo Lui, dall’intimo di Dio stesso, poteva rivelare Dio a noi – rivelarci anche chi siamo noi, da dove veniamo e verso dove andiamo. Certo, ci sono numerose grandi personalità nella storia che hanno fatto belle e commoventi esperienze di Dio. Restano, però, esperienze umane con il loro limite umano. Solo Lui è Dio e perciò solo Lui è il ponte, che veramente mette in contatto immediato Dio e l’uomo. Se noi cristiani dunque lo chiamiamo l’unico Mediatore della salvezza valido per tutti, che interessa tutti e del quale, in definitiva, tutti hanno bisogno, questo non significa affatto disprezzo delle altre religioni né assolutizzazione superba del nostro pensiero, ma solo l’essere conquistati da Colui che ci ha interiormente toccati e colmati di doni, affinché noi potessimo a nostra volta fare doni anche agli altri. Di fatto, la nostra fede si oppone decisamente alla rassegnazione che considera l’uomo incapace della verità – come se questa fosse troppo grande per lui. Questa rassegnazione di fronte alla verità è, secondo la mia convinzione, il nocciolo della crisi dell’Occidente, dell’Europa. Se per l’uomo non esiste una verità, egli, in fondo, non può neppure distinguere tra il bene e il male. E allora le grandi e meravigliose conoscenze della scienza diventano ambigue: possono aprire prospettive importanti per il bene, per la salvezza dell’uomo, ma anche – e lo vediamo – diventare una terribile minaccia, la distruzione dell’uomo e del mondo. Noi abbiamo bisogno della verità. Ma certo, a motivo della nostra storia abbiamo paura che la fede nella verità comporti intolleranza. Se questa paura, che ha le sue buone ragioni storiche, ci assale, è tempo di guardare a Gesù come lo vediamo qui nel santuario di Mariazell. Lo vediamo in due immagini: come bambino in braccio alla Madre e, sull’altare principale della basilica, come crocifisso. Queste due immagini della basilica ci dicono: la verità non si afferma mediante un potere esterno, ma è umile e si dona all’uomo solamente mediante il potere interiore del suo essere vera. La verità dimostra se stessa nell’amore. Non è mai nostra proprietà,un nostro prodotto, come anche l’amore non si può produrre, ma solo ricevere e trasmettere come dono. Di questa interiore forza della verità abbiamo bisogno. Di questa forza della verità noi come cristiani ci fidiamo. Di essa siamo testimoni. Dobbiamo trasmetterla in dono nello stesso modo in cui l’abbiamo ricevuta, così come essa si è donata.

II/ Lo sviluppo interno del libro Gesù di Nazaret

I capitoli I e II trattano del Battesimo e delle Tentazioni

I capitoli dal III al VII trattano dei sinottici con i titoli:

Il capitolo VIII tratta del vangelo di Giovanni con il titolo:

I capitoli IX e X trattano delle affermazioni esplicite su Gesù e di Gesù su se stesso

1/ I sinottici nel libro Gesù di Nazaret (un esemplificazione: il tema del tema del regno)

Il libro espone una breve rassegna delle diverse interpretazioni degli ultimi due secoli.

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.71-72; 79; 84
E’ vero quello che asserisce Rudolf Bultmann, secondo il quale il Gesù storico nella teologia del Nuovo Testamento non c’entrerebbe, ma dovrebbe invece essere considerato ancora come un maestro ebreo che, pur essendo da annoverare tra i presupposti essenziali del Nuovo Testamento, tuttavia personalmente non ne farebbe parte?
Un’altra variante in queste concezioni, che individuano un fossato tra Gesù e l’annuncio degli apostoli, si trova nell’affermazione, divenuta famosa, del modernista cattolico Alfred Loisy: «Gesù annunciò il regno di Dio ed è venuta la Chiesa». Sono parola da cui traspare sì ironia, ma anche tristezza: invece del tanto atteso regno di Dio, del mondo nuovo trasformato da Dio stesso, è venuto qualcosa di completamente diverso – una misera cosa! -: la Chiesa...
La questione fondamentale riguarda in realtà il rapporto tra il regno di Dio e Cristo: da questo dipende poi come dobbiamo intendere la Chiesa...
Con parole più esplicite possiamo dire: parlando del regno di Dio, Gesù annuncia semplicemente Dio, cioè il Dio vivente, che è in grado di operare concretamente nel mondo e nella storia e proprio adesso sta operando. Ci dice: Dio esiste. E ancora: Dio è veramente Dio, vale a dire, Egli tiene in mano le fila del mondo. In questo senso il messaggio di Gesù è molto semplice, è del tutto teocentrico. L’aspetto nuovo ed esclusivo del suo messaggio consiste nel fatto che Egli ci dice: Dio agisce adesso – è questa l’ora in cui Dio, in un modo che va oltre ogni precedente modalità, si rivela nella storia come il suo stesso Signore, come il Dio vivente. Pertanto la traduzione «regno di Dio» è inadeguata, sarebbe meglio parlare dell’«essere Signore» di Dio oppure della signoria di Dio...
Con una sfumatura leggermente diversa un’altra affermazione di Gesù orienta nella stessa direzione: «Se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio» (Lc 11,20). Qui (come del resto anche nel testo predente) il «regno» non è semplicemente presente nella presenza fisica di Gesù, ma mediante il suo operare nello Spirito Santo. In questo senso il regno di Dio, in Lui e attraverso di Lui, qui e ora, diventa presenza, «si avvicina».
Così, in un modo per ora ancora provvisorio e da sviluppare poi in tutto l’itinerario del nostro ascolto della Scrittura, s’impone la risposta: la nuova vicinanza del regno di cui parla Gesù e la cui proclamazione costituisce l’aspetto distintivo del suo messaggio, questa nuova vicinanza è Lui stesso. Attraverso la sua presenza e la sua attività Dio è entrato nella storia in modo completamente nuovo qui e ora come Colui che opera. Per questo è ora «tempo compiuto» (cfr. Mc 1,15); per questo è ora, in un modo del tutto particolare, tempo di conversione e di penitenza, come anche tempo di gioia, perché in Gesù Dio viene incontro a noi. In Lui ora Dio è Colui che opera e regna – regna in modo divino, cioè senza potere mondano, regna con l’amore che va «sino alla fine» (Gv 13,1), sino alla croce.

Da Joseph Ratzinger, Origine e natura della Chiesa, in La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pagg.9-31
Partiamo dal fatto che l’annuncio di Gesù riguardava direttamente non la Chiesa, ma il regno di Dio (o “regno dei cieli”). Lo dimostra una circostanza puramente statistica: il regno di Dio ricorre nel Nuovo Testamento centoventidue volte: di queste, ben novantanove nei vangeli sinottici, novanta delle quali si trovano in parole di Gesù. Possiamo così comprendere l'affermazione di Loisy, divenuta col tempo popolare: Gesù ha annunciato il regno, ed è venuta la Chiesa. Ma una lettura storica dei testi dimostra che questa contrapposizione tra regno e Chiesa non è obiettiva. Secondo la concezione giudaica, difatti, la specificità del regno di Dio consiste nel radunare e purificare gli uomini per questo regno. «Proprio perché riteneva prossima la fine, Gesù dovette voler radunare il popolo di Dio del tempo della salvezza» (J.Jeremias, Teologia del Nuovo Testamento, vol. I, Paideia, Brescia, p.197). Nella profezia postesilica, la venuta del regno è preceduta dal profeta Elia o dall'«angelo» rimasto anonimo, il quale prepara il popolo per tale regno. Giovanni Battista, proprio perché è l'annunciatore del Messia, riunisce la comunità della fine dei tempi e la purifica. Così pure la comunità di Qumran, proprio a motivo della sua fede escatologica, si era riunita come comunità della nuova alleanza. Per questo J. Jeremias conclude con questa formulazione: «Ciò dev'essere puntualizzato fortemente: tutta l'opera di Gesù mira solo a raccogliere il popolo escatologico di Dio».
Di questo popolo Gesù parla in molte immagini, in particolare nelle parabole della crescita, nelle quali il «presto» dell'escatologia ravvicinata, caratteristica di Giovanni Battista e di Qumran, sfocia, nell'adesso della cristologia. Gesù stesso è l'opera di Dio, la sua venuta, la sua signoria. «Regno di Dio» in bocca a Gesù non significa qualche cosa o qualche luogo, ma l'agire attuale di Dio. Perciò non è errato tradurre l'affermazione programmatica di Mc1,15 « Il regno di Dio è giunto»: Dio è giunto. Di qui emerge ancora una volta la connessione con Gesù, con la sua persona: egli stesso è la vicinanza di Dio. Dove è Gesù, ivi è il regno. A tale riguardo, la frase di Loisy va così modificata: È stato promesso il regno ed è venuto Gesù. Solo in questo modo si comprende rettamente il paradosso di promessa e compimento.

Da una relazione di S.Em. il card. C.M.Martini ai preti del settore Sud di Roma, su invito di S.E.mons. Paolo Schiavon, nella Quaresima 2005, il 24 febbraio, dal titolo: Regno di Dio ed eucarestia.
Gesù fa capire che questo - il suo prendere su di sé il male del mondo - è il disegno nel quale si rivela la regalità di Dio. Gesù attua dunque il Regno, anzitutto nella prima parte della sua vita, sconfiggendo le malattie, le infermità, ma facendo intuire misteriosamente che egli vuole a un certo punto assumersele. Le infermità e le malattie sono conseguenze e immagine del peccato; Gesù perdona i peccati, ma soprattutto offre in debolezza, in povertà, in infermità la sua vita per noi, nella morte in croce e risorge per darci la certezza del perdono di Dio. Ecco dunque come il Regno si svela a poco a poco. Per cui il Regno non è come una macchina già fatta che viene dall’alto e si instaura sulla terra; il Regno è qualcosa che si manifesta progressivamente nella vita di Gesù. Possiamo dire: è Gesù il Regno che viene, è lui!

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.125
Grelot ha trovato un’interpretazione che è conforme al testo e va ancora più a fondo. Fa notare che Gesù con questa parabola [dei due figli], come con quelle precedenti, giustifica la propria bontà nei confronti dei peccatori, la sua accoglienza dei peccatori con il comportamento del padre nella parabola. Con questo atteggiamento Gesù «diventa rivelazione vivente di Colui che egli chiamava suo Padre». Lo sguardo al contesto storico della parabola delinea quindi da sé una «cristologia implicita». «La sua passione e la sua resurrezione hanno accentuato questo aspetto delle cose: in che modo Dio ha manifestato il suo amore misericordioso verso i peccatori? Perché “mentre noi eravamo ancora peccatori è morto per noi” (Rm 5,8) […] Gesù non può in nessun modo entrare nel quadro narrativo della sua parabola, perché vive identificandosi con il Padre celeste, ricalcando il suo atteggiamento su quello del Padre. Ora, il Cristo risorto resta ugualmente, in questo punto, nella stessa situazione di Gesù di Nazaret durante il suo ministero» (p. 228s). Di fatto Gesù giustifica, in questa parabola, il suocomportamento riconducendolo al quello del Padre, identificandolo con Lui. Così, proprio attraverso la figura del padre, Cristo si trova al centro della parabola come attuazione concreta dell’agire paterno.

2/ Sottolineature

-universalità
Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.89; 92
Matteo con la parola «discepoli» non restringe la cerchia dei destinatari del discorso, ma la allarga. Chiunque ascolti e accolga la Parola può diventare un «discepolo».
In futuro conteranno l’ascolto e la sequela, non la provenienza. A ognuno è possibile divenire discepolo, la chiamata è per tutti: così sulla base dell’ascolto della Parola si viene a formare un Israele più ampio, un Israele rinnovato, che non esclude o abolisce l’antico, ma lo oltrepassa aprendolo all’universale...
Per Luca lo stare in piedi è espressione della maestà e autorità di Gesù, il luogo pianeggiante espressione della vastità a cui Gesù manda la sua parola – una vastità che Luca sottolinea poi, quando ci dice che – oltre ai Dodici con i quali era disceso dalla montagna – era presente una «gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e Sidone, che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie» (6,17ss). Nel significato universale del discorso, reso percettibile da questo scenario, è tuttavia specifico che Luca – similmente a Matteo – dica poi: «Alzati gli occhi verso i suoi discepoli, Gesù diceva…» (Lc 6,20). Valgono i due aspetti: il Discorso della montagna è diretto a tutto il mondo, nel presente e nel futuro, ma richiede tuttavia il discepolato e può essere compreso e vissuto solo nella sequela di Gesù, nel camminare con Lui.

Da J.Ratzinger, Il sale della terra, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997, pp.281-284
Intanto anche nella Chiesa è diventata patrimonio comune l’affermazione che Gesù era ebreo. Ma non si dovrebbe dire “Dio è diventato ebreo” invece di “Dio è diventato uomo”? La fede cristiana non deve dunque accettare l’ebraismo anche nella sua vocazione storica?
Anzitutto è importante essere chiaramente consapevoli che Gesù è stato ebreo. Al riguardo vorrei riferire quanto segue. Sono andato a scuola durante il periodo nazista e ho conosciuto direttamente la tendenza dei “deutsche Christen” [i cristiani filonazisti] a fare di Cristo un “ariano”: in quanto originario della Galilea non sarebbe stato affatto ebreo. Nel nostro corso di religione, come anche nelle prediche, veniva invece detto con energia: questa è una falsificazione; Cristo era figlio di Abramo, figlio di Davide, è stato un ebreo, ciò fa parte delle promesse, è parte della nostra fede. Si tratta indubbiamente di un punto importante, al quale noi, come cristiani ed ebrei, siamo davvero reciprocamente legati. Ma rimane significativa e vera anche l’altra affermazione: Dio è diventato uomo. E’ interessante il fatto che nel Nuovo Testamento siano presenti due genealogie di Gesù: quella di Matteo risale ad Abramo e indica Gesù come figlio di Abramo, come figlio di Davide e quindi come realizzazione della promessa di Israele. Quella di Luca risale ad Adamo e indica Gesù soprattutto come l’Uomo. E’ decisamente un elemento importante che Gesù sia un uomo e che la sua vita e la sua morte siano state per tutti gli uomini. Proprio l’eredità di Abramo nella fede fa sì che l’eredità promessa si estenda a tutta l’umanità. Perciò la semplice asserzione originaria “egli è diventato un uomo” è sempre importante. Infine, in terzo luogo, si deve aggiungere che Gesù, come ebreo personalmente ossequiente alle leggi, ha anche superato l’ebraismo e ha voluto interpretare ex novo tutta l’eredità ebraica in una fedeltà più grande e nuova. Questo è proprio il punto di conflittualità. A riguardo esistono anche buoni spunti di dialogo. Penso soprattutto a un bel libro del rabbino americano Jacob Neusner, che è intervenuto con serietà e correttezza nel dibattito sul discorso della montagna. Qui egli evidenzia con grande franchezza i punti di contrasto, ma li assume con amore e mette infine in rilievo il sì comune al Dio vivente. Non dobbiamo dunque nascondere i contrasti. Sarebbe una via sbagliata, perché una via che lascia da parte la verità non è mai una vera via verso la pace. I contrasti esistono. Dobbiamo imparare a trovare amore e pace proprio nei contrasti.

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.102
L’interpretazione della Scrittura non può essere una faccenda puramente accademica e non può essere relegata nell’ambito esclusivamente storico. La Scrittura porta in ogni suo passo un potenziale di futuro che si dischiude solo quando le sue parole vengono vissute e sofferte fino in fondo. Francesco d’Assisi ha colto la promessa di questa Beatitudine nella sua radicalità estrema – fino al punto di dare via anche il proprio vestito e farsene dare uno dal Vescovo, rappresentante della bontà paterna di Dio, che veste i gigli del campo meglio di come vestiva Salomone (cfr. Mt 6,28s). Per Francesco questa umiltà estrema significava soprattutto libertà di servire, libertà per la missione, estrema fiducia in Dio che non provvede solo ai fiori del campo, ma si prende cura proprio dei suoi figli; significava un correttivo alla Chiesa del suo tempo che con il sistema feudale aveva perso la libertà e la dinamica dello slancio missionario; significava un’intima apertura a Cristo a cui, mediante lo strazio delle stigmate, veniva totalmente conformato cosicché ora egli veramente non viveva più se stesso, ma, in quanto persona rinata, esisteva completamente da Cristo e in Cristo. Francesco non aveva intenzione di fondare un Ordine religioso, ma voleva semplicemente radunare di nuovo il popolo di Dio per un ascolto della Parola che non si sottraesse con dotti commenti alla serietà della chiamata. Tuttavia, con la fondazione del Terz’ordine ha poi accettato la distinzione tra l’impegno radicale e la necessità di vivere nel mondo. Terz’ordine significa accettare in umiltà proprio il compito della professione secolare e delle sue esigenze, laddove la profonda comunione interiore con Cristo, nella quale il santo di Assisi ci ha preceduti. «Avere come se non si avesse» (cfr. 1 Cor 7,29ss): apprendere questa tensione interiore come la sfida forse più difficile e poterla veramente vivere in modo sempre nuovo, sostenuti in ciò da coloro che hanno scelto di seguire Cristo in modo radicale – è questo il senso dei Terz’ordini e in ciò si rivela che cosa può significare la Beatitudine per tutti. Soprattutto diventa anche evidente in Francesco che cosa vuol dire «regno di Dio». Francesco era collocato totalmente dentro la Chiesa e, d’altra parte, in figure come lui la Chiesa si protende verso la sua meta futura, ma già presente: il regno di Dio si avvicina…

-dimensione pubblica e dimensione sacramentale (i segni)
Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.139
Era giusto mettere in pericolo la grande funzione sociale del sabato, rompere il sacro ordine di Israele a favore di una comunità di discepoli che, per così dire, viene definita solo a partire dalla figura di Gesù? Questa questione potrebbe e può chiarirsi solo all’interno della comunità dei discepoli che si viene formando: la Chiesa. Qui non possiamo seguirne lo sviluppo. La risurrezione di Gesù “il primo giorno della settimana” fece si che questo “primo giorno” – l’inizio della creazione – divenisse il “giorno del Signore”, nel quale confluirono da sé – attraverso la comunione della mensa con Gesù – gli elementi essenziali del sabato veterotestamentario.
Che nel corso di tale processo la Chiesa avesse assunto in modo nuovo anche la funzione sociale del sabato – sempre orientata al «Figlio dell’uomo» – si vide chiaramente quando Costantino, nella sua riforma giuridica cristianamente ispirata, associò a questo giorno anche alcune libertà per gli schiavi e introdusse così nel sistema giuridico basato su principi cristiani il giorno del Signore come il giorno della libertà e del riposo. Trovo molto preoccupante che i liturgisti moderni vogliano nuovamente mettere da parte, come travisamento costantiniano, questa funzione sociale della domenica, che sta in continuità con la Torah di Israele.

3/ Giovanni

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.257
Il nostro ascolto del Gesù dei sinottici ci ha insegnato che il mistero della sua unità con il Padre è sempre presente e determina il tutto, ma che resta anche nascosto sotto la sua umanità. Con vigile attenzione se ne sono accorti, da una parte, i suoi avversari e dall’altra, i discepoli, che vedevano Gesù mentre era in preghiera e potevano avvicinarsi interiormente a Lui; essi, nonostante tutti i fraintendimenti, hanno progressivamente – e in momenti importanti anche all’improvviso – cominciato a riconoscere quella realtà inaudita. In Giovanni la divinità di Gesù appare in modo non velato. Le dispute di Gesù con le autorità giudaiche del tempio costituiscono, per così dire, nel loro insieme già il futuro processo di Gesù davanti al Sinedrio, una vicenda che poi, a differenza dei sinottici, Giovanni non cita più come tale.
Questa diversità del Vangelo di Giovanni, in cui non udiamo alcuna parabola, bensì grandi discorsi centrati su immagini e in cui la scena principale dell’attività di Gesù si sposta dalla Galilea a Gerusalemme, ha indotto la moderna ricerca critica a disconoscere al testo – a eccezione del racconto della passione e di alcuni singoli particolari – la storicità e a considerarlo una ricostruzione teologica tarda. Secondo questo orientamento esso ci trasmette la posizione di una cristologia molto sviluppata, ma non può rappresentare una fonte per la conoscenza del Gesù storico.

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.266
Dietro il testo [di Giovanni]vi è, ultimamente, un testimone oculare, e anche la redazione concreta è avvenuta nella vivace cerchia dei suoi discepoli e con l'apporto determinante di un discepolo a lui familiare.

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.269-271
Possiamo definire più precisamente il particolare tipo di storicità di cui si tratta nel quarto Vangelo, se prestiamo attenzione alla correlazione dei vari fattori che Hengel reputa determinanti per la composizione del testo. A suo parere, in questo Vangelo confluiscono «la voluta impostazione teologica dell'autore, il suo ricordo personale», «la tradizione ecclesiastica e quindi, insieme, la realtà storica» che, sorprendentemente, Hengel giudica «modificata, anzi diciamo pure violentata» dall'evangelista; infine... ad avere «l'ultima parola» non è il «ricordo [...] degli avvenimenti passati, bensì lo Spirito Paraclito, che interpreta e guida verso la verità» (Die johanneische Frage, p. 322).
Nel modo in cui Hengel accosta e in certa misura contrappone questi cinque elementi, la loro composizione non dimostra un vero senso. Come può, infatti, il Paraclito avere l'ultima parola se l'evangelista ha prima violentato la realtà storica? Qual è il rapporto reciproco tra l'impostazione voluta dall'evangelista, il suo annuncio personale e la tradizione ecclesiastica? È l'impostazione voluta più determinante del ricordo, al punto che, in nome suo, la realtà possa essere violentata? Come si legittima allora questa volontà di impostazione? Come interagisce con il Paraclito?
A mio parere, i cinque elementi presentati da Hengel sono effettivamente le forze essenziali che hanno determinato la composizione del Vangelo, ma vanno visti in una differente correlazione interna e, di conseguenza, anche singolarmente con una importanza diversa.
Anzitutto il secondo e il quarto elemento - il ricordo personale e la realtà storica - vanno insieme. Essi costituiscono, l'uno con l'altro, ciò che i Padri definiscono il factum historicum che determina il «significato letterale» di un testo: il lato esterno degli avvenimenti che l'evangelista conosce in parte grazie al suo ricordo e in parte grazie alla tradizione ecclesiastica (senza dubbio conosceva bene i Vangeli sinottici nell'una o nell'altra versione). Egli vuole riferire l'accaduto nella veste di «testimone». Nessuno ha sottolineato proprio questa dimensione del veramente accaduto - la «carne» della storia - con altrettanta forza come Giovanni: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi» (1 Gv 1,1s).
Questi due fattori - la realtà storica e il ricordo - conducono tuttavia da sé al terzo e al quinto elemento menzionati da Hengel: la tradizione ecclesiastica e la guida da parte del Paraclito. Il proprio ricordo, infatti, da un lato reca nell'autore del Vangelo un accento molto personale, come ci mostra la parola alla fine della scena della crocifissione (cfr. Gv 19,35); dall'altro lato, però, non è mai un ricordo puramente privato, bensì un ricordo nel e con il «noi» della Chiesa: «Ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato...». In Giovanni, il soggetto del ricordo è sempre il «noi» - egli ricorda nella e con la comunità dei discepoli, nella e con la Chiesa. Per quanto l'autore si presenti come singolo in veste di testimone, il soggetto del ricordo che qui parla è sempre il «noi» della comunità dei discepoli, il «noi» della Chiesa. Poiché il ricordo, che costituisce la base del Vangelo, mediante l'inserimento nella memoria della Chiesa viene purificato e approfondito, la memoria puramente banale dei fatti viene effettivamente superata.

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.280
Il Battesimo come ingresso nella comunità di Cristo viene interpretato come rinascita, di cui – in analogia con la nascita naturale dalla inseminazione maschile e dal concepimento femminile – fa parte un duplice principio: lo Spirito divino e l’«acqua come “madre universale della vita naturale – innalzata nel sacramento mediante la grazia a immagine speculare della Theotokos verginale”» (Photina Rech, vol. 2, p. 303).
Per la rinascita ci vuole – in altre parole – il potere creatore dello Spirito di Dio, ma, col sacramento, ci vuole anche il grembo materno della Chiesa che accoglie e accetta. Photina Rech cita Tertulliano - «Mai vi era Cristo senz’acqua» (De bapt. IX 4) – e interpreta correttamente questa parola un poco enigmatica dello scrittore ecclesiastico: «Mai fu ed è Cristo senza l’ecclesia» (vol. 2, p. 304). Spirito e acqua, cielo e terra, Cristo e Chiesa vanno insieme: è così che avviene la «rinascita». L’acqua simboleggia, nel sacramento, la terra materna, la santa Chiesa che accoglie la creazione in sé e la rappresenta.

III/ La storicità dei vangeli

1/ L’origine apostolica dei vangeli

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.266
Dietro il testo vi è, ultimamente, un testimone oculare, e anche la redazione concreta è avvenuta nella vivace cerchia dei suoi discepoli e con l'apporto determinante di un discepolo a lui familiare.

Dalla Dei Verbum (DV nn.18-19)
Origine apostolica dei Vangeli
18. A nessuno sfugge che tra tutte le Scritture, anche quelle del Nuovo Testamento, i Vangeli possiedono una superiorità meritata, in quanto costituiscono la principale testimonianza relativa alla vita e alla dottrina del Verbo incarnato, nostro Salvatore. La Chiesa ha sempre e in ogni luogo ritenuto e ritiene che i quattro Vangeli sono di origine apostolica. Infatti, ciò che gli apostoli per mandato di Cristo predicarono, in seguito, per ispirazione dello Spirito Santo, fu dagli stessi e da uomini della loro cerchia tramandato in scritti che sono il fondamento della fede, cioè l'Evangelo quadriforme secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni.
Carattere storico dei Vangeli
19. La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e con la più grande costanza che i quattro suindicati Vangeli, di cui afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (cfr At 1,1-2). Gli apostoli poi, dopo l'Ascensione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli aveva detto e fatto, con quella più completa intelligenza delle cose, di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dallo Spirito di verità, godevano. E gli autori sacri scrissero i quattro Vangeli, scegliendo alcune cose tra le molte che erano tramandate a voce o già per iscritto, redigendo un riassunto di altre, o spiegandole con riguardo alla situazione delle Chiese, conservando infine il carattere di predicazione, sempre però in modo tale da riferire su Gesù cose vere e sincere. Essi infatti, attingendo sia ai propri ricordi sia alla testimonianza di coloro i quali «fin dal principio furono testimoni oculari e ministri della parola», scrissero con l'intenzione di farci conoscere la «verità» (cfr. Lc 1,2-4) degli insegnamenti che abbiamo ricevuto.

Da J.Caba, Storicità dei vangeli (DV19): genesi e frutto del testo conciliare, in R.Latourelle (a cura di), Vaticano II. Bilancio e prospettive venticinque anni dopo, 1962/1987, Cittadella editrice, Assisi, 1987, vol.I, pp.270-288
Il paragrafo sulla storicità dei Vangeli doveva ancora superare un’ultima difficoltà. Paolo VI venuto a conoscenza della posizione della commissione e della ragioni che la motivavano, pensava all’opportunità di rivedere la formula circa la storicità dei Vangeli; per questo il 17 ottobre fece preparare una lettera dove si proponeva che la verità storica dei Vangeli fosse difesa esplicitamente sostituendo l’espressione del n. 19 vera et sincera con la formula vera seu historica fide digne. La lettera giustificava tale proposta dicendo:
Sembra che la prima (espressione) non garantisca la reale storicità dei Vangeli; e su questo punto, come è ovvio, il Santo Padre non potrebbe approvare una formula che desse spazio a dubbi circa la storicità di questi santissimi libri (G. Caprile, Tre emendamenti allo Schema sulla Rivelazione. Appunti per la storia del testo, CivCat 117, 1966, I 228-229).
Il 19 ottobre, davanti alla commissione, il card. Bea sottolineava l’inconvenienza della formula vera et sincera sostenendo la proposta del Pontefice. Nel corso della seduta si tornò ad insistere sul fatto che la nuova formula non eliminava il problema, visto che molti protestanti, e in particolare Bultmann e i suoi seguaci, parlano di fides historica identificandola con l’atto del credente che proietta la sua esperienza esistenziale su di un racconto fittizio del quale l’esegeta deve eliminare ogni elemento mitico. Pertanto si propose di porre, all’inizio del n. 19, una formula che non fosse equivoca e garantisse tutto ciò che si voleva salvare. Questo nuovo suggerimento riprendeva la sostanza e la finalità dell’emendamento proposto dal Pontefice. Messa ai voti, quest’ultima richiesta ottenne 26 voti favorevoli dei membri della commissione e 2 contrari. Così, mentre la formula vera et sincera del n. 19 permaneva all’interno del testo, se ne aggiungeva un’altra per esprimere l’atteggiamento della Chiesa di fronte ai Vangeli: “quorum historicitatem incunctanter affirmat”. La commissione, per rispondere alle proposte di introdurre il termine storico, oltre a esporre la duplice interpretazione del termine “storia” come “Geschichte” o “Historie”, aggiunse:
Pertanto è sembrato preferibile affermare la realtà dei fatti o degli avvenimenti in modo concreto, aggiungendo il termine “storicità” che non si espone ad ambiguità: “La santa Madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e costanza massima, che i quattro suindicati Vangeli, di cui afferma senza alcuna esistenza la storicità, trasmettono fedelmente... Il 29 ottobre, durante la congregazione generale 155, si procedette alla votazione circa l’esame, eseguito dalla commissione dottrinale, delle formule proposte e delle correzioni inserite nel testo. La votazione fu fatta capitolo per capitolo. In quella del cap. quinto, che trattava la storicità dei Vangeli, su un totale di 2.139 votanti ci furono 2.115 “placet”, 19 “non placet”, 5 voti annullati.
Il n. 19 della Dei Verbum sulla storicità dei Vangeli completò un lungo cammino che portò a fondere in modo unitario i molteplici sforzi del Concilio facendo proprio il nucleo essenziale dell’istruzione della Pontificia Commissione Biblica Sancta Mater Ecclesia. Volendo sintetizzare l’apporto caratteristico di questo testo conciliare, bisogna tener conto di diversi aspetti. Innanzitutto esso implica una posizione ferma e decisa della Chiesa di fronte alla storicità dei Vangeli. E’ stato proprio per garantirla che si è rinunciato ad includere, nel testo conciliare, il termine “storia” o “storico” riferito ai Vangeli conservando, per contro, senza esitazione, l’affermazione della loro storicità. Vengono determinate in modo chiaro le tre fasi della formazione dei Vangeli: la prima, relativa alla loro prima origine, Gesù, al quale si può accedere attraverso gli scritti lasciatici dagli evangelisti; la seconda, relativa agli apostoli i quali, predicando, crebbero nella comprensione di ciò che Gesù aveva detto ed operato grazie agli avvenimenti pasquali e alla luce dello Spirito; la terza, dove gli autori hanno fatto delle scelte, delle sintesi, degli accomodamenti per trasmettere e proclamare la verità su Gesù. Certamente il testo conciliare non fa menzione del “metodo della storia delle forme”, come appare nell’istruzione Sancta Mater Ecclesia; anzi, il Concilio ha rinunciato alla semplice allusione ad uno dei principi viziati di quel metodo, cioè alla potenza creatrice della comunità. Tuttavia, attraverso tutto il processo di formazione che definisce i Vangeli, si intravede implicitamente il lato positivo del metodo.

2/ L’unico accesso possibile a Gesù è quello della Chiesa apostolica; il vicolo cieco degli apocrifi

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, pp.204-205
La chiamata dei discepoli è un evento di preghiera; essi vengono, per così dire, generati nella preghiera, nella dimestichezza col Padre. Così la chiamata dei Dodici, ben al di là di ogni aspetto soltanto funzionale, assume un senso profondamente teologico: la loro chiamata nasce dal dialogo del Figlio col Padre ed è in esso ancorata. E’ da qui che si deve anche partire per comprendere la parola di Gesù: «Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!» (Mt 9,38): gli operai della messe di Dio non si possono semplicemente scegliere come un datore di lavoro cerca i suoi dipendenti; devono sempre essere chiesti a Dio e da Lui stesso essere scelti per questo servizio. Questo carattere teologico viene ancora intensificato quando il testo di Marco dice: «Chiama a sé quelli che volle». Non ci si può fare discepoli da sé – è un avvenimento di elezione, una decisione di volontà del Signore ancorata, a sua volta, nella sua unità di volontà col Padre...
«Ne fece Dodici»: 12 era il numero simbolico di Israele – il numero dei figli di Giacobbe. Da loro derivavano le dodici tribù di Israele, delle quali però dopo l’esilio era rimasta praticamente solo la tribù di Giuda. Così il numero 12 è un ritorno alle origini di Israele, ma allo stesso tempo simbolo di speranza: viene ristabilito l’intero Israele, vengono radunate nuovamente le dodici tribù.
Dodici – il numero delle tribù – è insieme anche numero cosmico, in cui trova espressione l’universalità del popolo di Dio in rinascita. I Dodici sono presentati come i capostipiti di questo popolo universale fondato sugli apostoli. Nell’Apocalisse, nella visione della nuova Gerusalemme, il simbolismo dei Dodici è sviluppato in un’immagine brillante (cfr. Ap 21,9-14) che aiuta il popolo di Dio in cammino a comprendere, partendo dal suo futuro, il suo presente e lo illumina con spirito di speranza: nella prospettiva della figura dei Dodici, passato, presente e futuro si compenetrano.

Da Joseph Ratzinger, Origine e natura della Chiesa, in La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pagg.9-31
Anzitutto dobbiamo tener conto del fatto che la comunità dei discepoli di Gesù non è un gruppo amorfo. In mezzo a loro c'è il nucleo compatto dei Dodici, accanto al quale, secondo Luca (10,1-20), si colloca altresì la cerchia dei settanta o settantadue discepoli. Va tenuto presente che solo dopo la risurrezione i Dodici ricevono il titolo di «apostoli». Prima di allora sono chiamati semplicemente «i Dodici». Questo numero, che fa di loro una comunità chiaramente circoscritta, è così importante che, dopo il tradimento di Giuda, viene nuovamente integrato (At1,15-26). Marco descrive espressamente la loro vocazione con le parole: «e Gesù ne costituì Dodici » (3,14). Il loro primo compito è quello di formare insieme i Dodici; a ciò si aggiungono poi due funzioni: «che stessero con lui e potesse inviarli a predicare» (Mc3,14). Il simbolismo dei Dodici è perciò di decisiva importanza: è il numero dei figli di Giacobbe, il numero delle tribù d'Israele. Con la formazione del gruppo dei Dodici Gesù si presenta come il capostipite di un nuovo Israele; a sua origine e fondamento sono prescelti dodici discepoli. Non poteva essere espressa con maggiore chiarezza la nascita di un popolo che ora si forma non più per discendenza fisica, bensì attraverso il dono di «essere con» Gesù, ricevuto dai Dodici che da lui vengono inviati a trasmetterlo. Qui è già possibile riconoscere anche il tema di unità e molteplicità, dove nell’indivisibile comunità dei Dodici che solo in quanto tali realizzano il loro simbolismo - la loro missione - domina certamente il punto di vista del popolo nuovo nella sua unità. Il gruppo dei settanta o settantadue, di cui parla Luca, integra questo simbolismo: settanta (settantadue) era, secondo la tradizione giudaica (Gn10; Es1,5; Dt32,8), il numero dei popoli del mondo. Il fatto che l'Antico Testamento greco, nato in Alessandria, sia stato attribuito a settanta (o settantadue) traduttori doveva significare che con quel testo in lingua greca il libro sacro di Israele era diventato la Bibbia di tutti i popoli, come in effetti è poi avvenuto, avendo i cristiani adottato tale traduzione. Il numero di settanta discepoli manifesta la pretesa di Gesù nei confronti dell'intera umanità, che come tale deve formare la schiera dei suoi discepoli; essi stanno a indicare che il nuovo Israele abbraccerà tutti i popoli della terra.

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.394
Il titolo Figlio con quello corrispondente di PadreAbbà ci consente di guardare veramente nell’intimo di Gesù, anzi nell’intimo di Dio stesso. La preghiera di Gesù è la vera origine di questo titolo «il Figlio». E’ senza antecedenti nella storia, proprio come il Figlio stesso «è nuovo» sebbene Mosè è i Profeti confluiscano in Lui. Il tentativo di costruire antecedenti pre-cristiani, «gnostici», per questa espressione a partire dalla letteratura post-biblica, per esempio dalle Odi di Salomone (II secolo d.C.), e di dichiarare Giovanni dipendente da essi, è privo di senso, se in qualche modo si rispettano le possibilità e i limiti del mondo storico. C’è originalità di Gesù. Solo Lui è «il Figlio».

Dal vangelo apocrifo copto di Tommaso (gnostico; trovato a Nag Hammadi, ma già conosciuto; ca.150 d.C.)
[19] Gesù disse: "Beato colui che era prima di divenire. Se diverrete miei discepoli e ascolterete le mie parole, queste pietre saranno al vostro servizio...
[52] I suoi discepoli gli dissero: "In Israele parlarono ventiquattro profeti e tutti parlarono in te". Egli rispose loro: "Avete lasciato il Vivente che è davanti a voi e avete parlato dei morti".
[7 (8)] Egli disse: "L'uomo è simile a un pescatore saggio che gettò la sua rete in mare, e dal mare la ritirò carica di pesci piccoli. In mezzo a quelli il saggio pescatore scorse un bel pesce grosso; allora gettò via, in mare, tutti i pesci piccoli e scelse, senza sforzo, il pesce grande. Chi ha orecchie da intendere, intenda!".
[61] Gesù disse: "Due riposeranno su un letto: uno morirà e l'altro vivrà". Salome gli domandò: "Chi tu sei, uomo che, come colui che è dall'Uno, sei salito sul mio lettuccio e hai mangiato alla mia mensa?". Gesù rispose: "Io sono colui che proviene dall'Indiviso: a me furono date cose (che sono) del Padre mio". Salome disse: "Io sono tua discepola!". E Gesù a lei: "Perciò io dico: Quando (il letto) sarà indiviso sarà ricolmo di luce; ma quando è diviso sarà ricolmo di tenebre".
[87] Gesù disse: "Misero è il corpo che dipende da un corpo, e misera è l'anima che dipende da ambedue".
[114] Simon Pietro disse loro: "Maria deve andar via da noi! Perché le femmine non sono degne della vita". Gesù disse: "Ecco, io la guiderò in modo da farne un maschio, affinché ella diventi uno spirito vivo uguale a voi maschi. Poiché ogni femmina che si fa maschio entrerà nel Regno dei cieli".

Vangelo apocrifo di Giuda (originale fra il 120 ed il 180 d.C.)
51 Dalla nuvola comparve un [angelo], il cui viso mandava lampi di fuoco e con un aspetto contaminato dal sangue. Egli si chiamava Nebro, che significa ‘ribelle’; altri lo chiamano Yaldabaoth. Anche un altro angelo, Saklas, venne fuori dalla nuvola. Nebro quindi creò sei angeli—oltre a Saklas— perchè fossero aiutanti, e questi produssero dodici angeli nei cieli, ciascuno dei quali ricevette una porzione di cielo.
52 Allora Saklas disse ai suoi angeli, ‘Creiamo un essere umano a somiglianza ed immagine’. Essi formarono Adamo e sua moglie Eva, che dentro la nuvola viene chiamata Zoe.

Natività di Maria o Protovangelo di Giacomo (ca.200 d.C.)
XIX 3. Poi la levatrice uscì dalla spelonca e Salome s’imbattè con lei. Ella disse: Salome, Salome, devo raccontarti uno spettacolo nuovo: una vergine ha dato alla luce, cosa che la natura non permette. Salome rispose: Vive il Signore, mio Dio: se non pongo il mio dito e non scruto la sua natura, non crederò che una vergine abbia dato alla luce!.
XX 1. La levatrice entrò e disse a Maria: Mettiti in posizione: non lieve contrasto si presenta a tuo riguardo! Salome mise il suo dito nella natura di lei. Allora gettò un grido: Guai al mio peccato e alla mia incredulità! Ho tentato il Dio vivo; perciò la mia mano mi si stacca, consumata dal fuoco.
2. Allora piegò le sue ginocchia innanzi all’Onnipotente e pregò: Dio dei miei padri, ricordati che io sono discendenza d’Abramo, Isacco e Giacobbe. Non fare di me esempio pubblico per i figli di Israele, ma restituiscimi ai poveri. Tu sai difatti, o Onnipotente, che per amor del tuo nome prodigavo le mie cure e ricevevo la mia mercede da te.
3. Ed ecco, un angelo del Signore le si presentò e le disse: Salome, Salome: il Signore t’ha esaudita. Accosta la tua mano al bambino prendilo su e sarà per te salvezza e gioia.
4. Ella su accostò con gioia e lo prese su, dicendo: Voglio adorarlo, perché è nato un gran re per Israele. Salome guarì immediatamente ed uscì dalla grotta, giustificata. Ed ecco una voce disse: Salome, Salome non divulgare le cose meravigliose che hai viste prima che il bimbo arrivi a Gerusalemme.

Vangelo arabo dell’infanzia (originale del VI-VII secolo d.C.?)
LI 1. C’era là un sapiente, dotto in astronomia. Questi chiese al Signore Gesù se conoscesse quella scienza.
2. Gesù rispose esponendo il numero delle sfere e dei corpi celesti, la loro natura e le loro proprietà, la loro posizione per tre, quattro, sei, il loro moto progressivo e regressivo, la durata di esso in minuti, secondi e altre cose inaccessibili alla ragione.
LII 1. C’era pure tra e presenti un sapiente, molto versato nella medicina. Questi chiese al Signore Gesù: Mio caro, conosci la medicina?
2. Gesù rispose spiegandogli la fisica, la metafisica, l’ipofisica, e quindi le forze del corpo e i temperamenti con i loro influssi, le membra, le ossa, le vene, le arterie e i nervi, l’azione del calore e della siccità, del freddo e dell’umidità e gli effetti che ne derivano. Gli spiegò l’attività dell’anima, le sue percezioni e le sue facoltà, in che consiste l’atto della favella, dell’ira e dell’appetito, l’articolazione e la dissoluzione e così molte altre cose, irraggiungibili a intelligenza creata.

Vangelo dello pseudo-Matteo (VII-VIII secolo)
1. Allora il bambinello Gesù, seduto con lieto volto in grembo alla madre, ordinò alla palma: Piegati, o albero, e da’ forza a mia madre con i tuoi frutti”. A quella voce la palma si piegò subito la cima, fino ai piedi di Maria. Quelli raccolsero frutti sufficienti per saziare tutti. I datteri erano stati tutti raccolti e quella rimaneva china, in attesa dell’ordine di levarsi da parte di chi l’aveva fatta piegare. Allora Gesù le ordinò: Levati, o palma, riprendi il tuo vigore e sii compagna dei miei alberi che sono nel paradiso di mio padre. Dalle tue radici quindi schiudi la vena nascosta sotto terra, perché fluiscano di lì acque che ci dissetino. Subito la palma si levò e dalle sue radici cominciarono a sgorgare rivoli di acqua limpidissimi, freschi dolci assai. Alla vista di quelle fonti d’acqua, si rallegrarono grandemente e tutti, giumenti e uomini, si ristorarono rendendo grazie a Dio.
XXVI 1. Dopo il ritorno dall’Egitto, trovandosi Gesù in Galilea, capitò all’inizio del quarto anno di età che un giorno di sabato giocasse con i bambini presso il letto del Giordano. Egli sedette e fece sette laghetti di fango, provvisti di un canaletto per ciascuno, dove con un ordine faceva scorrere l’acqua proveniente dalla corrente per poi farla scorrere di nuovo indietro. In quel mentre uno dei bambini, figli del diavolo, chiuse invidioso gli ingressi, per cui passavan le acque dei laghetti, e distrusse ciò che Gesù aveva costruito. Gesù gli disse: guai a te, figlio della morte, figlio di Satana! Tu rovini ciò che ho costruito?. Sull’istante l’autore morì.
2. I parenti del morto cominciarono a gridare con voce tumulante contro Maria e Giuseppe. Vostro figlio – dissero loro – ha maledetto nostro figlio e questi è morto. Giuseppe e Maria, udita la cosa, si recarono subito da Gesù, spinti dal tumulto dei genitori del ragazzo e dall’assembramento dei giudei. Giuseppe disse in segreto a Maria: Io non oso dirgli niente; ammoniscilo tu e digli: perché hai eccitato contro di noi l’odio popolare e dobbiamo sopportare l’odio molesto degli altri?. La madre lo accostò e lo pregò così: Signore mio, che ha fatto costui per morire? Ed egli: Era degno di morte – rispose – per aver rovinato ciò che avevo costruito.
3. Ma la madre lo supplicava: Lascia stare, Signor mio: tutti insorgono contro di noi. Gesù non volendo addolorare sua madre, percotendo con il piede destro il sedere del morto, gli disse: Levati figlio iniquo; tu non sei degno di entrare nella requie di mio Padre, perché hai distrutto ciò che avevo costruito. Il morto si alzò subito e se ne andò e Gesù intanto continuava a far scorrere col suo comando le acque nei laghetti attraverso il fossatello.
XXVII. Poi, alla presenza di tutti, prese fango dai laghetti, che egli stesso aveva costruiti, e plasmò dodici passeri. Il giorno in cui Gesù fece questo era di sabato e c’erano con lui moltissimi bambini. Uno dei giudei l’aveva visto compiere la cosa perciò disse a Giuseppe: Giuseppe non vedi che il bambino Gesù fa di sabato ciò che non gli è permesso? Ha fatto dodici passeri con il fango! A quella nuova Giuseppe lo riprese, dicendo: Perché fai di sabato cose che non ci è lecito? Ma Gesù udì Giuseppe e quindi, percotendo una mano contro l’altra, ordinò ai suoi passeri: Volate. Al suo comando quelli cominciarono a volare. Mentre eran tutti là che vedevano e sentivano, continuò rivolto agli uccelli: Andate, volate per la terra e per il mondo tutto e vivete. Gli astanti, osservando i prodigi, furono presi da grande stupore. Alcuni lo lodavano e lo ammiravano; altri invece lo biasimavano. Ci fu pure chi si recò dai principi dei sacerdoti e dai capi dei farisei per raccontare loro che Gesù, figlio di Giuseppe, aveva compiuto grandi segni e prodigi, dinanzi a tutto il popolo d’Israele. La cosa fu risaputa in mezzo alle dodici tribù.

XXVIII. Per la seconda volta, il figlio di Anna, sacerdote del tempio, il quale era arrivato sul posto con Giuseppe, prese una verga e, montato in collera, chiuse, di fronte a tutti, le condutture dei laghetti, che Gesù aveva costruiti con le sue mani, e fece uscire fuori l’acqua,che quegli vi aveva raccolta prendendola dalla corrente. Distrusse pure la conduttura di ciascuno, per cui passava l’acqua. Gesù, a quella vista, disse al bambino che aveva guastato i suoi laghi: O pessimo germe di iniquità, o figlio della morte, officina di Satana, il frutto del tuo seme sarà sicuramente senza vigore, le tue radici senza umore, i tuoi rami aridi, infruttuosi. Sull’istante il fanciullo si inaridì e morì.
XXIX. Giuseppe allora tremò e, tenendo Gesù, andava a casa con lui. Anche la madre era insieme. Ed ecco che un altro bambino, lui pure artefice iniquo, correndo dalla parte opposta, andò a sbattere sulla spalla di Gesù, intendendo schernirlo o fargli del male, se fosse possibile. Gesù gli disse: Tu non devi tornare indietro sano per la strada che percorri. Quello cadde subito a terra morto. I parenti del defunto, testimoni del fatto, alzarono la voce dicendo: Ma da dove è venuto fuori questo ragazzo? E’ evidente che tutto ciò che proferisce è vero e spesso si adempie prima che finisca di parlare. Essi dunque si accostarono a Giuseppe e gli dissero: Porta via questo Gesù di qui. Egli non può abitare con noi in questo municipio. Altrimenti, insegnagli almeno a benedire e non a maledire. Giuseppe accostandosi a Gesù, cominciò ad ammonirlo in questo modo: Perché fai questo? Sono già parecchi quelli che si rammaricano a tuo riguardo, ci odiano a causa tua e per te siamo molestati. Gesù rispose a Giuseppe: Non c’è figlio saggio se non quegli che è stato ammaestrato da suo padre conforme alla scienza di questo tempo e la maledizione del proprio padre non nuoce ad alcuno, ma solo a chi fa male. Si radunarono allora (gli abitanti) contro Gesù e lo accusavano presso Giuseppe. Questi, a tale vista, si spaventò assai, temendo la violenza e il tumulto del popolo d’Israele. Ma in quel momento Gesù, afferrando il bambino morto per l’orecchio, lo sollevò da terra davanti a tutti. Videro che Gesù parlava con lui come padre e figlio. Quegli riebbe dunque lo spirito e rivisse. Tutti ne furono meravigliati.
XLII 1. Quando Giuseppe si recava a pranzo con i suoi figli: Giacomo, Giuseppe, Giuda e Simeone e le sue due figlie, c’eran sempre anche Gesù e la madre con la sorella di questa, Maria di Cleofa, che il Signore Dio aveva donato a suo padre Cleofa e ad Anna sua madre in cambio dell’offerta al Signore di Maria, madre di Gesù. Anche questa fu chiamata con lo stesso nome di Maria, a consolazione dei genitori

3/ I criteri di storicità (che il libro non cita esplicitamente)

Cfr. per un approfondimento su questo: E.Manicardi, Criteri di storicità e storia di Gesù oggi, in Rivista di teologia dell’evangelizzazione, 7 (2003), pp.421-442.

-criterio della molteplice attestazione

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, pp.14-15
Nella parola passata si può percepire la domanda circa il suo oggi; nella parola dell'uomo risuona qualcosa di più grande; i singoli testi biblici rimandano in qualche modo al processo vitale dell'unica Scrittura, che si attua in essi.
Proprio a partire da quest'ultima intuizione si è sviluppato circa trent'anni fa in America il progetto dell'«esegesi canonica», che intende leggere i singoli testi biblici nel complesso dell'unica Scrittura, facendoli così apparire in una nuova luce. Il numero 12 della Costituzione sulla Divina Rivelazione del Concilio Vaticano II aveva già messo chiaramente in risalto questo aspetto come un principio fondamentale dell'esegesi teologica: chi vuole comprendere la Scrittura nello spirito in cui è stata scritta deve badare al contenuto e all'unità dell'intera Scrittura. Il Concilio aggiunge che si deve tenere in debito conto anche la viva tradizione di tutta la Chiesa e l'analogia della fede (le corrispondenze interiori nella fede).
Soffermiamoci dapprima sull'unità della Scrittura. È un dato teologico che non è, tuttavia, attribuito solo dall'esterno a un insieme in sé eterogeneo di scritti. L’esegesi moderna ha mostrato come le parole trasmesse nella Bibbia divengano Scrittura attraverso un processo di sempre nuove riletture: i testi antichi, in una situazione nuova, vengono ripresi, compresi e letti in modo nuovo. Nella rilettura, nella lettura progrediente, mediante correzioni, approfondimenti e ampliamenti taciti, la formazione della Scrittura si configura come un processo della parola che a poco a poco dischiude le sue potenzialità interiori, che in qualche modo erano presenti come semi, ma si aprono solo di fronte alla sfida di nuove situazioni, nuove esperienze e nuove sofferenze.
Chi osserva questo processo - certamente non lineare, spesso drammatico e tuttavia in progresso - a partire da Gesù Cristo può riconoscere che nell'insieme c'è una direzione, che l'Antico e il Nuovo Testamento sono intimamente collegati tra loro. Certo, l'ermeneutica cristologica, che in Gesù Cristo vede la chiave del tutto e, partendo da Lui, apprende a capire la Bibbia come unità, presuppone una scelta di fede e non può derivare dal puro metodo storico. Ma questa scelta di fede ha dalla sua la ragione - una ragione storica - e permette di vedere l'intima unità della Scrittura e di capire così in modo nuovo anche i singoli tratti di strada, senza togliere loro la propria originalità storica.
L'«esegesi canonica» - la lettura dei singoli testi della Bibbia nel quadro della sua interezza - è una dimensione essenziale dell'esegesi che non è in contraddizione con il metodo storico-critico, ma lo sviluppa in maniera organica e lo fa divenire vera e propria teologia.

Solo se era successo qualcosa di straordinario, se la figura e le parole di Gesù avevano superato radicalmente tutte le speranze e le aspettative dell'epoca, si spiega la sua crocifissione e si spiega la sua efficacia. Già circa vent'anni dopo la morte di Gesù troviamo pienamente dispiegata nel grande inno a Cristo della Lettera ai Filippesi (cfr 2,6-11) una cristologia, in cui si dice che Gesù era uguale a Dio ma spogliò se stesso, si fece uomo, si umiliò fino alla morte sulla croce e che a Lui spetta l'omaggio del creato, l'adorazione che nel profeta Isaia (cfr. 45,23) Dio aveva proclamata come dovuta a Lui solo. La ricerca critica si pone a buon diritto la domanda: che cosa è successo in questi vent'anni dalla crocifissione di Gesù? Come si è giunti a questa cristologia? L'azione di formazioni comunitarie anonime, di cui si cerca di trovare gli esponenti, in realtà non spiega nulla. Come mai dei raggruppamenti sconosciuti poterono essere così creativi, convincere e in tal modo imporsi? Non è più logico, anche dal punto di vista storico, che la grandezza si collochi all'inizio e che la figura di Gesù abbia fatto nella pratica saltare tutte le categorie disponibili e abbia potuto così essere compresa solo a partire dal mistero di Dio? Naturalmente, credere che proprio come uomo egli era Dio e che abbia fatto conoscere questo velatamente nelle parabole e tuttavia in un modo sempre più chiaro, va al di là delle possibilità del metodo storico. Al contrario, se alla luce di questa convinzione di fede si leggono i testi con il metodo storico e con la sua apertura a ciò che è più grande, essi si schiudono, per mostrare una via e una figura che sono degne di fede. Diventano allora chiari anche la ricerca complessa presente negli scritti del Nuovo Testamento intorno alla figura di Gesù e, nonostante tutte le diversità, il profondo accordo di questi scritti.

-criterio della discontinuità

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, pp.204-205
«Egli [il rabbino immaginato da Jacob Neusner nel volume A Rabbi talks with Jesus]: “Che cosa ha tralasciato [Gesù]?”. Io [Neusner]: “Nulla”. Egli: “Che cosa ha aggiunto allora?”. Io: “Se stesso”» (pag. 96). Questo è il punto centrale dello «spavento» dell’ebreo osservante Neusner di fronte al messaggio di Gesù, ed è il motivo centrale per cui egli non vuole seguire Gesù e rimane fedele all’«Israele Eterno»: la centralità dell’Io di Gesù nel suo messaggio che imprime una nuova direzione a tutto. A dimostrazione di questa «aggiunta» Neusner cita qui la parola di Gesù al giovane ricco: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che hai e seguimi» (cfr. Mt 19,21; op. cit., p. 97). La perfezione, l’essere santi come Dio è santo (cfr. Lv 19,2; 11,44), richiesta della Torah, adesso consiste nel seguire Gesù.

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, pp.142-143
Anche i discepoli della Torah venivano chiamati dai loro maestri a lasciare casa e famiglia... Tuttavia, c’è una differenza fondamentale. Nel caso di Gesù non è l’adesione alla Torah che, unendo tutti, forma una nuova famiglia, ma si tratta dell’adesione a Gesù stesso, alla sua Torah. Nel caso dei rabbini tutti restano legati mediante i medesimi rapporti a un ordine sociale duraturo, mediante la sottomissione alla Torah restano tutti nell’uguaglianza dell’intero Israele. Così Neusner constata alla fine: «Ora mi rendo conto che solo Dio può esigere da me quanto Gesù richiede».

-spiegazione necessaria

N.B. Il criterio “del rifiuto e dell’esecuzione” di J.P.Meier è assimilabile ad esso, così come quello detto della plausibilità degli effetti che fa riferimento alla predicazione successiva degli apostoli, e quello detto dell’individualità che fa riferimento alla differenziazione rispetto all’ambiente

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p. 338
Tutte queste opinioni [Gesù è Elia o uno dei profeti o Giovanni Battista resuscitato] non sono semplicemente sbagliate; significano accostamenti più o meno vicini al mistero di Gesù, a partire dai quali è senz’altro possibile la via verso il nucleo essenziale. Non raggiungono tuttavia la vera natura di Gesù, la sua novità. Lo interpretano a partire dal passato e da quanto generalmente accade ed è possibile, non a partire da se stesso, non nella sua unicità, che non è inseribile in nessun’altra categoria.

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p. 339
[I grandi fondatori di religioni] possono così parlare di Dio agli altri uomini, a cui questa «disposizione religiosa» è stata negata, e coinvolgerli, per così dire, nella loro esperienza di Dio. In questa concezione resta tuttavia il fatto che si tratta, appunto, di un’esperienza umana di Dio, che rispecchia la realtà infinita di Dio nella dimensione finita e limitata di una mente umana e che pertanto è sempre e solo una traduzione parziale del divino, determinata anche dal contesto spazio-temporale. La parola «esperienza» rimanda così, da una parte, a un contatto reale con il divino ma, dall’altra, allude anche al limite del soggetto ricevente. Ciascun soggetto umano può afferrare soltanto un determinato frammento della realtà percepibile, un frammento che, per giunta, richiede ancora di essere interpretato. Con questa opinione uno può senz’altro amare Gesù, anzi può sceglierlo come guida della propria vita. Ma l’«esperienza di Dio» vissuta da Gesù, a cui in questo modo ci si aggrappa, resta in fondo relativa e da completare con i frammenti percepiti da altri grandi. Alla fine, dunque, il criterio rimane l’uomo stesso, il singolo soggetto: il singolo decide che cosa accettare delle varie «esperienze», che cosa lo aiuta o gli è estraneo. Non vi è in questo un impegno definitivo.

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.350
Qual è il risultato di tutto questo? Innanzitutto, occorre dire che il tentativo di ricostruire storicamente le parole originarie di Pietro e di attribuire tutto il resto a sviluppi successivi, magari alla fede post-pasquale, induce in errore. Da dove poteva essere scaturita la fede post-pasquale se il Gesù pre-pasquale non ne aveva fornito alcun fondamento? Con tali ricostruzioni la scienza pretende troppo. Proprio il processo contro Gesù dinanzi al Sinedrio mostra qual era il vero scandalo nei suoi confronti: non un messianismo politico – quello era presente in Barabba e poi di nuovo in Bar-Kochba. Entrambi trovarono un seguito, ed entrambi i movimenti vennero soffocati dai romani. Ciò che in Gesù dava scandalo era proprio ciò che abbiamo già visto nel dialogo del rabbino Neusner col Gesù del Discorso della montagna: il fatto che Egli sembrava mettersi sullo stesso piano del Dio vivente. Era questo l’elemento che la fede rigidamente monoteistica degli ebrei non riusciva ad accettare; era questo l’elemento che persino Gesù stesso poteva preparare solo lentamente e gradualmente. Era questo anche l’elemento che – ferma restando la continuità ininterrotta con la fede nell’unicità di Dio – pervadeva l’intero suo messaggio e ne costituiva l’aspetto nuovo, particolare e distintivo. Il fatto che il processo dinanzi ai romani sia stato trasformato in un processo contro un messianismo politico corrispondeva al pragmatismo dei sadducei. Ma anche lo stesso Pilato intuì che in realtà si trattava di qualcosa di molto diverso – che cioè un «re» politicamente davvero promettente non gli sarebbe mai stato consegnato per la condanna.

4/ Il capitolo finale sui ‘titoli’ cristologici

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.369; 372; 381
Dobbiamo prestare un’attenzione ravvicinata alle denominazioni che Gesù dà, di se stesso nei Vangeli. Sono due. Da una parte, Egli ama definirsi «Figlio dell’uomo»; dall’altra, vi sono – particolarmente nel Vangelo di Giovanni – testi in cui parla di sé semplicemente come del «Figlio». Gesù non ha utilizzato per sé il titolo di «Messia»; quello di «Figlio di Dio» lo troviamo sulle sue labbra in alcuni passi del Vangelo di Giovanni. Quando è stato designato con il titolo di Messia o con qualificazioni affini – da una parte, dai demoni cacciati e, dall’altra, nella confessione di Pietro -, Egli ha ordinato il silenzio. Sopra la croce appare infine – ormai pubblicamente per tutto il mondo – il titolo di Messia, Re dei giudei. E qui può tranquillamente apparire – nelle tre lingue del mondo di allora (cfr. Gv 19,19s) -, perché ormai al titolo è stata tolta la sua ambiguità. La croce come trono dà a esso la giusta interpretazione. Regnavit a ligno Deus – Dio ha regnato dal «legno», è così che la Chiesa antica ha celebrato questa nuova regalità...
L’espressione Figlio dell’uomo, con cui Gesù nascose il suo mistero e al tempo stesso lo rese lentamente accessibile, era nuova e sorprendente. Non era un titolo consueto della speranza messianica. Si inserisce perfettamente nel modo della predicazione di Gesù, che si esprime attraverso parole enigmatiche e parabole, cercando così di condurre pian piano verso il mistero che può dischiudersi veramente soltanto nella sequela...
L’esegesi più antica considerava la fusione tra la visione in Daniele del «figlio di uomo» venturo e quella delle immagini del «servo di Dio» sofferente tramandate da Isaia come l’elemento propriamente nuovo e particolare dell’idea che Gesù aveva del Figlio dell’uomo, anzi come il fulcro della sua autocoscienza. E questo con piena ragione.

Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.393
«Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio». Se esaminiamo l'esclamazione di giubilo dei sinottici in tutta la sua profondità, ci accorgiamo che, in realtà, essa contiene già tutta la teologia giovannea del Figlio. Anche lì l'essere Figlio è conoscenza reciproca e unità nel volere. Anche lì il Padre è il datore, che, però, ha affidato «ogni cosa» al Figlio e proprio così l'ha reso Figlio, uguale a se stesso: «Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie» (Gv 17,10). E anche lì questo «dare» del Padre raggiunge la sua creazione, il «mondo»: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16). La parola «unigenito» rimanda, da una parte, al Prologo, dove il Logos viene definito «l'unigenito Dio - monogenès theòs» (1,18). Dall'altra, ricorda tuttavia anche Abramo, che non rifiutò a Dio suo figlio, il suo «unico figlio» (Gn 22,2.12). Il «dare» del Padre si compie nell'amore del Figlio «sino alla fine» (Gv 13,1), ossia fino alla croce. Il mistero trinitario dell'amore che si delinea nel titolo «il Figlio» è una cosa sola con il mistero d'amore nella storia che si compie nella Pasqua di Gesù. Anche in Giovanni, infine, il titolo «il Figlio» trova la sua collocazione nella preghiera di Gesù, che però è diversa dalla preghiera della creatura: è il dialogo d'amore in Dio stesso - il dialogo che è Dio. Al titolo «il Figlio» corrisponde così il semplice appellativo «Padre» che l'evangelista Marco ha conservato per noi nella sua forma originaria aramaica «Abbà» nella scena nell'orto degli Ulivi.
Joachim Jeremias, in vari studi approfonditi, ha dimostrato la singolarità di questo appellativo di Dio che, nella sua intimità, era impensabile nell'ambiente di Gesù. In esso si esprime l'«unicità» del «Figlio». Paolo ci fa sapere che i cristiani, in base al dono da parte di Gesù della partecipazione al suo Spirito di Figlio, sono autorizzati a dire: «Abbà, Padre» (cfr. Rm 8,15; Gal 4,6). È chiaro, pertanto, che questo nuovo modo di pregare dei cristiani è possibile solo a partire da Gesù, a partire da Lui - l'Unigenito.


Note

[1] Solo per fare un esempio è la stessa impostazione seguita nella presentazione dei dati storici certi sulla figura di Gesù dal volume di Romano Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo, Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria, I. Gli inizi, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1996, pp.33-171.


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