Mettiamo a disposizione on-line sul nostro sito, per sua gentile concessione, il testo che don Massimo Serretti, professore di Dogmatica e Cristologia presso la Pontificia Università Lateranense, aveva preparato per gli incontri di formazione dell'OCST (organizzazione cristiano-sociale ticinese) tenutisi tra il 1998 e il 1999 a Lugano, in Svizzera. I neretti sono nostri ed hanno l’unica finalità di rendere più facile la lettura on-line del testo.
Il Centro culturale Gli scritti (16/1/2007)
La riflessione che intraprendiamo insieme non ha un carattere astratto e puramente teorico o
  dottrinale. Anche se faremo uso di concetti e di categorie che non sono sempre quelle che adoperiamo quotidianamente,
  il nostro tentativo sarà quello di recuperare alla chiarezza della nostra coscienza e consapevolezza alcuni
  aspetti della nostra esperienza. Sarà in fondo un tentativo di comprendere meglio noi stessi, in quella
  particolare sfera del nostro vivere e del nostro agire che è rappresentata dal lavoro. La riflessione che
  nasce da un'esperienza e che ha un'esperienza come sua finalità è di un'importanza estrema, dato che
  non c'è nessuna esperienza veramente umana che non abbia in se stessa un momento riflessivo e conoscitivo. La
  riflessione e la conoscenza fanno parte dell'esperienza che l'uomo ha di sé, degli altri, della storia, della
  società. Josef Tischner, il primo assistente nazionale di Solidarnosc, scriveva all'inizio degli anni '80 che
  «la comprensione del lavoro fa parte dell'essenza del lavoro stesso»[1]. Dobbiamo quindi «pensare il lavoro», se non vogliamo che altri lo
  facciano per noi, oppure a nostro discapito. Questo lavoro sul lavoro ha un significato riappropriativo.
  Intendiamo far più nostra un'esperienza che svolge un ruolo così rilevante ed essenziale nella nostra
  vita e ciò rende ancor più indispensabile il nostro tentativo e la nostra scommessa liberandoli da ogni
  patina di possibile oziosità.
  C'è poi un altro riferimento concreto che è fornito dal quadro entro cui la nostra riflessione comune
  si colloca: il sindacato. Esso, in quanto espressione di una esplicita soggettività sociale, nel cimentarsi in
  una comprensione più adeguata della realtà del lavoro nelle sue dimensioni obiettive e soggettive, si
  accresce in quel processo di autoformazione che gli fornisce originalità e senso all'interno di una
  società e di una economia sempre più complesse. E' anche per la sua capacità autoformativa
  che un corpo sociale come quello di un sindacato può situarsi in maniera creativa nel tessuto nel quale
  è inserito. Qualora esso smarrisse questa potenzialità esso diverrebbe una pura e semplice appendice di
  un apparato e non avrebbe più alcuna identità propria. Al contrario, quanto più esso diventa
  capace di crescere nella formulazione di giudizi, di comprendersi nel suo ruolo specifico e di comprendere le
  dinamiche entro le quali si trova ad operare, tanto più la sua fisionomia sarà chiara e non
  immediatamente omologabile in maniera strumentale.
  La riflessione che andiamo ad aprire sull'esperienza del lavoro è quindi connaturale e coessenziale alla
  vitalità del sindacato stesso e rappresenta un suo modo d'essere. Senza un punto di vista proprio, qualsiasi
  sindacato verrebbe a svolgere, suo malgrado, una semplice funzione riproduttiva di quel che viene stabilito altrove e
  quindi entrerebbe in una pura gregarietà, tradendo in qualche modo la sua vocazione originaria. L'orientamento
  di fondo è parte integrante della specificità del sindacato e ne giustifica l'esistenza a livello
  sociale, diversamente esso verrebbe ad assolvere mansioni di routine che, prima o poi, potrebbero essere altrettanto
  bene espletate da altre formazioni e imprese. Verrebbe cioè a mancare la ragion d'essere.
  Un sindacato "cristiano" possiede un metodo e dei contenuti di riferimento nel Magistero e soprattutto nella dottrina
  sociale della Chiesa. Da questa fonte cercheremo di trarre insieme qualche spunto.
Due affermazioni che noi assumiamo come metodologiche stanno al principio della nostra
  riflessione. Entrambe si trovano nella Lettera Laborem exercens sul significato del lavoro umano. La prima
  di esse suona così: «Il lavoro è la chiave di tutta la questione sociale». La seconda:
  l'uomo quale persona è il soggetto del lavoro e quindi ogni processo lavorativo non può mai prendere
  l'uomo come mezzo, ma sempre come fine del lavoro stesso. «In ultima analisi lo scopo del lavoro, di qualunque
  lavoro eseguito dall'uomo - fosse pure il lavoro più "di servizio", più monotono, nella scala del
  comune modo di valutazione, addirittura più emarginante - rimane sempre l'uomo stesso» (Laborem
  exercens § 6).
  La concretezza di questo primo ordine di riflessioni è data proprio da ciò che di più concreto e
  reale ci sia al mondo: la nostra umanità, il nostro essere uomini. Seguendo una corrente di pensiero
  socialmente diffusa noi potremmo essere portati a ritenere come più reali le strutture, le istituzioni, le
  forme sociali di organizzazione, mentre esse acquistano una valenza reale solo in quanto ineriscono alla nostra
  umanità, solo in quanto sono in grado di favorirla e incrementarla. Dobbiamo quindi guardarci da quel sistema
  di apparenze sociali che tendono ad autopresentarsi come realtà e riescono ad affermarsi come tali riscuotendo
  un ampio assenso. Queste apparenze sociali possono divenire una "dura realtà", talmente dura da far male,
  proprio perchè fondate su una falsificazione di partenza: quella del realismo della persona umana. Ma ogni
  sistema che si fonda su di una menzogna sull'uomo, ricordava Giovanni Paolo II a Bratislava (1990) è destinato
  a fallire e a crollare su se stesso.
  Per questo intendiamo partire, in questo nostro itinerario di incontri dal significato antropologico elementare
  dell'agire umano e quindi del lavoro dell'uomo.
L'uomo è un essere in azione. In ogni atto l'uomo a) compie se stesso e b) cambia
  qualcosa del mondo a lui esterno. L'aspetto per cui agendo l'uomo trasforma il mondo a lui circostante, trasforma la
  materia e ne ricava dei prodotti è quello più immediatamente evidente. Con la sua forza e il suo
  intelletto l'uomo è in grado di raggiungere un dominio sulla natura e sul mondo circostante che gli consente
  di migliorare le sue condizioni materiali di vita. Questo dominio non è arbitrario e assoluto. L'uomo oggi
  è sufficientemente cosciente del fatto che esso deve attenersi alle leggi immanenti al creato per non
  rischiare di vedersi rivolgere contro il suo stesso lavoro.
  Ma l'aspetto più decisivo è quello per cui in ogni atto che compie l'uomo determina se stesso nel
  bene o nel male, nella verità o nella menzogna. Dobbiamo soffermarci un pò a considerare più da
  vicino questa dinamica dell'azione. Un atto è veramente umano, e non solo un atto dell'uomo, per il fatto
  che in esso è chiamato in questione tutto l'uomo che lo compie. Ogni atto dell'uomo è umano anche
  perchè esso parte da una motivazione. Allora ci si deve chiedere come un uomo perviene a quella motivazione e
  qual'è il suo contenuto. Normalmente prima di agire l'uomo esercita un giudizio con la sua ragione e compie un
  duplice movimento interiore: usa un criterio di valutazione e una volta valutato quel che gli si presenta in quella
  determinata circostanza sceglie con la sua volontà. Già questa semplice dinamica dell'agire chiama in
  causa la verità del riconoscimento e la libertà dell'adesione a quel che si è riconosciuto come
  vero. In questo modo, già al livello della motivazione, l'uomo afferma o nega un senso. L'atto dell'uomo
  è riempito di senso sia dal contenuto della sua scelta motivazionale, sia dal nesso che tale contenuto ha con
  la verità della sua e altrui umanità. La motivazione riempie quindi l'atto, per così dire, di un
  suo significato umanistico. Oggi si parla spesso di demotivazione nel lavoro. E' evidente, a partire da queste
  poche osservazioni che abbiamo fatto insieme, che un'azione lavorativa privata della motivazione viene a smarrire la
  sua valenza umanistica, il suo potere di costituzione e incremento dell'umano nell'uomo.
  Nella dinamica della motivazione sono presenti schematicamente due fattori che a noi preme sottolineare: il rapporto
  con il bene e con il vero, e il nesso del vero e del bene con sé: l'implicazione personale. L'uomo è
  fatto per la verità e per il bene e quando sceglie il male e la menzogna allora nell'agire determina se stesso
  negativamente. Ma non bisogna tralasciare la correlazione del bene e del vero con la propria e le altrui persone
  altrimenti la loro affermazione diviene astratta e l'agire impersonale. Noi viviamo in una società stracolma
  di beni, soprattutto materiali, ma non sempre essi servono ad edificare nella verità le persone, perchè
  il nesso non è posto correttamente. In un determinato momento, nella varietà dei beni presenti alla
  scelta, alcuni sono adeguati alla verità della mia o dell'altrui persona, altri no. Perchè l'azione
  dell'uomo sia secondo verità è necessario scegliere il "vero bene" e non un bene qualsiasi. La
  motivazione giusta o, se si vuole, la giustizia della motivazione è data dalla proprio dalla preferenza per il
  "vero bene".
  Non è nostro compito ora ricostruire tutte le dinamiche dell'agire dell'uomo, cosa comunque utile per arrivare
  a guardare con un orizzonte più vasto la realtà del lavoro, sinteticamente possiamo dire che ogni
  azione umana passa attraverso l'interiorità e la coscienza dell'uomo, la sua capacità di giudizio e la
  sua volontà e quindi agendo l'uomo decide anche di questo suo volto interiore, decide della verità
  della sua umanità. E' quel che dicevamo poc'anzi riprendendo la distinzione fondamentale tra dimensione
  oggettiva e dimensione soggettiva del lavoro che Giovanni Paolo II riporta nella sua Lettera enciclica (Laborem
  exercens §§5-6).
Ci preme adesso mostrare un altra faccia della preminenza del soggetto del lavoro nel lavoro
  stesso. Partiamo ancora una volta dalla considerazione dell'agire in senso lato. In ogni atto l'uomo pone qualcosa
  di sé, la sua libertà, la sua intelligenza, la sua energia, il suo talento personale, il suo tempo,
  etc. Nel prodotto e negli effetti della sua azione trapassa tutto questo portato personale. Per certi versi l'uomo
  agendo obiettivizza se stesso nei suoi atti e nei prodotti di essi. C'è una transitività
  nell'agire dell'uomo (san Tommaso d'Aquino). Ma c'è anche una intransitività, cioè l'uomo
  da un lato precede l'agire, precede il lavoro e dall'altro non si risolve interamente in esso, rimane come
  trascendente ogni suo atto e la sommma di essi. Karol Wojtyla ne conclude che «l' "intransitivo" è
  più importante di ciò che è "transitivo"»[2]. Cerchiamo di connotare più da vicino questa superiorità o
  questo primato dell'uomo nell'agire.
  Ci sono tre significati che voglio segnalare. Il primo è quello più palese e di cui abbiamo già
  parlato: l'uomo agisce perchè c'è e il suo esserci resta sempre fondamentale. I medievali dicevano
  che l'agire consegue all'essere. Il secondo è quello per cui in ogni atto l'uomo si rapporta con il vero, il
  bene, il bello. Con il vero perchè esercita il suo giudizio, con il bene perchè è chiamato a
  scegliere, con il bello perchè quel che vede e quel che incontra esercitano su di lui un fascino che è
  come una bellezza cui può aderire o meno. Il terzo significato che giustifica l'intransitività del
  soggetto nell'azione è il fatto che l'uomo è un essere comunionale e in ogni suo atto, in ogni suo
  lavoro porta con sé tutti coloro con i quali vive e per i quali vive la sua vita e che pur "riempiendo" il suo
  agire, stanno però al di là di esso, lo motivano senza trapassare in esso.
  Cerchiamo di trarre da queste osservazioni alcune conseguenze che, come vedremo, contrastano con la
  mentalità piattamente utilitaristica che domina gran parte della nostra società e dei nostri
  ambienti lavorativi e che, come uomini del nostro tempo, possiamo ritrovare presente in noi stessi, quasi senza
  averla scelta.
  
  a. Dalla prima annotazione, sul primato dell'uomo, possiamo subito dedurre il fatto che è l'uomo stesso
  a conferire dignità al suo agire e quindi al suo lavorare e non viceversa. E' per il fatto che nel lavoro
  è in questione l'uomo che il lavoro ha una così grande importanza. Dunque ogni logica di
  subordinazione, di qualsiasi genere, del soggetto del lavoro al lavoro stesso, è in se stessa falsa,
  perchè rovescia l'ordine gerarchico dei valori. Ogni umiliazione e ogni svilimento dell'uomo nel lavoro, a
  qualsiasi livello essi si pongano, vanno contro la verità del lavoro stesso e non porteranno in nessun caso
  buoni frutti alla società nel suo insieme. Ogni benessere che si appoggi sulla menzogna e sulla disfatta
  dell'uomo è in se stesso marcio e velenoso. Giovanni Paolo II da venti anni sta ricordando al mondo intero che
  l'uomo e non il profitto è il criterio di misura del lavoro. L'uomo è fine in sé e non deve
  essere finalizzato a nulla di estraneo alla sua dignità e alla sua vocazione.
  
  b. Dalla seconda annotazione sulla presenza della relazione con il vero, il bene e il bello in ogni atto
  umano, dobbiamo ricavare che nel lavoro, anche nel più duro e meno gratificante, l'uomo può
  affermare un senso che risignifica il suo impegno lavorativo nel suo insieme. Affermando qualcosa che va al di
  là della transitività del suo agire l'uomo lavorando fa cultura. Nella sua azione c'è una
  contemplazione, un disinteresse che ha la sua radice in un interesse superiore, intransitivo, immortale. Non per
  nulla alle radici dell'Europa c'è il motto di san Benedetto ora et labora che coniuga la preghiera e il
  lavoro. Che cosa significa per noi questo connubio? Qual'è la sua valenza esistenziale? La preghiera sta
  proprio ad indicare che l'uomo è costituito nella sua umanità da Qualcuno che è più
  grande di lui e che tutta la sua vita e il suo agire hanno senso solo dentro questa relazione che motiva tutto il suo
  essere e tutta la sua vita, e, in essa, anche il suo lavoro. Solo per un uomo per il quale ogni gesto e ogni
  momento della sua esistenza sia spalancato sul mistero della sua definitività, del suo destino, dell'eterno,
  anche il particolare del lavoro può diventare un particolare nel quale non muore, nel quale non trapassa
  (transitività) interamente, può non diventare la sua tomba, la sua chiusura mortale, ma piuttosto il
  luogo della sua risurrezione, cioè il luogo nel quale si riafferma la sua intransitività, il suo essere
  al di là della morte. Diversamente, come ha messo in luce Karol Wojtyla, il lavorare diventa solo un
  aspetto del proprio lottare con la morte e il prodotto del lavoro una traccia di morte in una cultura che diventa una
  cultura di morte. Voglio rileggere insieme a voi una pagina di Wojtyla nella quale tale pensiero è
  espresso in maniera precisa: «L'uomo, nonostante tutto, muore - muore continuamente in tanti prodotti del suo
  lavoro, in tanti effetti "transitivi" del suo operare. Ciò che è transitivo, già sulla base
  etimologica di questa parola, suggerisce il pensiero del passare, della morte. Alla stessa necessità sono
  sottoposti tutti i prodotti dell'operare umano che per un certo tempo brillano e poi si spengono, cadono in
  rovina. "Perchè passa l'apparenza di questo mondo" (ICor 7,31), "Essi periranno ma Tu rimani, e tutti come una
  veste si consumeranno: li cambierai come un vestito e........ (Salmo 102,27). Alcuni di questi prodotti fin
  dall'inizio portano in sé le stigmate della consumazione - e nella gerarchia dei valori non possono andare
  oltre questo livello. Una civilizzazione che dà la precedenza assoluta a tali prodotti, che si concentra su
  ciò che l'uomo consuma, è una civilizzazione delle "morte dell'uomo".»
  «Per la cultura umana è molto caratteristico tutto quel dinamismo della lotta con la morte. Questa lotta
  si svolge al livello della praxis umana, perchè in essa (cioè nella praxis) si nasconde
  la forza per oltrepassare ciò che è solamente "utile", che una volta usato è destinato a morire.
  E' proprio questa forza di una disinteressata comunione con la verità, il bene e il bello che genera le opere
  che non si consumano mai (GS 57. 59). In queste opere vive non solo il Creatore stesso, il cui nome gli uomini
  ricordano di generazione in generazione, ma anche in queste opere l'uomo di tutte le generazioni sempre di nuovo
  ritrova ciò che in lui stesso è "intransitivo". E 'intransitivo', in un certo senso, vuol dire:
  'immortale'».[3]
  
  c. Dalla terza annotazione sulla natura comunionale dell'uomo e quindi del suo agire possiamo trarre altri
  spunti di giudizio sul nostro presente. All'inizio abbiamo parlato di motivazione. L'uomo infatti non agisce se
  non è motivato. Ma che cosa può motivare l'uomo? Una presenza che gli riempia il cuore di speranza. Un
  uomo disperato non lavora. Un uomo che non vive per altri rimane astenico. Di qui gran parte delle patologie del
  lavoro nel nostro tempo. La messa in questione della bontà dell'unità dell'uomo e della donna e
  della fecondità che ad essa il Creatore ha assegnato, portano con sé anche una svalutazione del senso
  del lavoro. Esso tende a perdere quell'aspetto di gratuità che lo sottrae dal divenire pura merce da
  vendersi in cambio di un salario, prestazione monetizzabile e nient'altro. Al contrario l'uomo che lavora per la
  famiglia, lavora per altri e dunque per lui il lavoro è una modalità della donazione di sé, in
  una prospettiva che va al di là del suo interesse puro e semplice, si protende verso le generazioni che
  verranno e che già crescono. Chi lavora al di fuori dell'amore e della speranza si trova ad operare in uno
  spazio angusto, innaturale e prima o poi diviene cinico e quindi nihilista. Questi identificherà il lavoro con
  una mera funzione e siccome il lavoro occupa normalmente una quota non indifferente del nostro tempo e delle nostre
  energie, sarà portato ad un certo momento a guardare a se stesso come ad un essere funzionale, cioè
  senza senso.
  L'uomo che non vive la sua vita dinanzi a una presenza che lo chiama rimane inattivo e inerte anche quando la sua
  giornata sia piena di un apparenza di lavoro. Gli uomini del nostro tempo, spesso sono molto affacendati, pur
  rimanendo "disoccupati". E' emblematica da questo punto di vista la parabola evangelica della vigna e della chiamata
  di operai nelle diverse ore del giorno. Uscendo verso le cinque del pomeriggio il padrone della vigna vide che in
  piazza c'erano degli uomini che se ne stavano lì senza far nulla, estenuati, inermi. Allora chiese loro il
  perchè di quello stato in cui si trovavano ed essi rispondono: «Nessuno ci ha chiamati a
  lavorare!». Perchè l'uomo lavori veramente è necessario che qualcuno lo chiami, che lo susciti
  dalla sua apatia. Dice Péguy che non si lavora se non per i bambini, cioè per quella presenza di quei
  piccoli che più di ogni altro sono in grado di suscitare la speranza e dare sprone all'azione creativa.
  Diversamente uno fa (facere), ma non agisce (agere). C'è un aneddoto polacco che racconta di un
  pavimentatore di strade che viene assunto a lavorare. Questi aveva un'abilità straordinaria. Connetteva
  talmente bene le lastre l'una con l'altra, che la strada sembrava uno specchio. Ma il sovrintendente ai lavori
  osservando come nei gesti che compiva non metteva niente di sé, lo licenziò, perchè era un
  fannullone. Un uomo che non lavora per amore, per altri, è un uomo che non è presente in quel che fa, e
  fa quel che fa da alienato. Un tale uomo è in pericolo.
  La natura originariamente comunionale dell'uomo si manifesta anche nel fatto che lavorando l'uomo entra in un sistema
  complesso di comunicazione sociale e quindi entra in rapporto con una società che tende sempre più ad
  allargarsi. Sempre di più oggi il lavoro mette in relazione tutti con tutti. Bisognerebbe riflettere anche
  su questa dimensione del lavorare non solo "per altri", ma anche "con altri" per esaminare le forme sociali che essa
  va assumendo. Sarà l'oggetto di un prossimo incontro.
«Nella maggior parte dei laboratori si cantava. Oggi si sbuffa». Così
  Charles Péguy descrive il modo di vivere il lavoro degli uomini della sua generazione. E parlando della loro
  partenza, il mattino presto, per andare a lavorare, dice: «Andavano, cantavano. Lavorare era la loro gioia e la
  radice profonda del loro essere. E la ragione del loro essere. C'era un onore indicibile nel lavorare, il più
  bello di tutti gli onori, il più cristiano, il solo, forse, che stia in piedi». Ma chi può
  accingersi al lavoro con questo spirito, con questo gusto, se non chi è ricolmo di una speranza fondata? Solo
  chi sappia di essere al suo posto facendo quel che fa, solo chi possa riconoscere con evidenza la positività e
  l'utilità del suo lavoro, solo chi sia certo non tanto di sé e della sua abilità, ma
  altresì dell' essere inserito in una compagine sociale complessivamente sensata e la cui sensatezza sia
  apertamente riconoscibile, solo costui potrà avvertire gioia ed avere in sé il sentimento dell'onore
  nello svolgere un lavoro, di qualunque genere esso sia. «Durante tutta la mia infanzia - prosegue ancora
  Péguy - ho visto impagliare delle sedie esattamente con lo stesso spirito, con lo stesso cuore, con la stessa
  mano con cui questo popolo aveva dato forma alle cattedrali. (...) Quei lavoratori non servivano. Essi lavoravano.
  Avevano un onore assoluto, com'è proprio di un onore. Il piolo della sedia doveva essere ben fatto. Era
  inteso. Era una priorità. Non doveva essere ben fatto per il padrone né per gli intenditori, né
  per i clienti del padrone. Esso stesso doveva essere ben fatto, in se stesso, per se stesso, nel suo essere. Una
  tradizione venuta, salita dal più profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore voleva che questo
  piolo fosse ben fatto. Ogni parte non visibile della sedia era fatta esattamente con la stessa perfezione di quella
  che si vedeva. E' lo stesso principio delle cattedrali».[4]
  Nel nostro mondo, oggi, si è spesso separato il lavoro dalla speranza e il risultato è stato quello
  della divisione del lavoro dal gusto, della sfera del lavoro dalla sfera del gusto o dell'affermazione di un gusto
  disonorevole, per dirla con Péguy.
  Il fatto che, insieme alla fatica e alla pesantezza nel lavoro, possa esserci un gusto, sta ad indicare che in esso
  l'uomo può impiegarsi nella pienezza di sé, non solo per certe sue particolari attitudini, e ciò
  in maniera non servile, senza "vendere" se stesso "vendendo" il suo lavoro.
  Se per un verso il gusto è legato alla speranza, per un altro esso consente di vivere nel lavoro la dimensione
  dell'offerta e della donazione di sé. Il lavoro "si ammala" o quando pretende di assurgere ad essere "il
  tutto", oppure quando non arriva ad essere neppure "qualcosa". Il cristiano sa che il lavoro è qualcosa di
  molto importante, perchè ne và di sé, della famiglia, della società, perfino della
  verità della relazione con Dio (l'accidia e la pigrizia sono due vizi capitali), ma sa anche che il lavoro non
  è "il tutto" e questo richiede che esso venga offerto al "Tutto", non per relativizzarlo e ridurlo, ma, al
  contrario, per aprirne i confini oltre il suo orizzonte immanente. Non per nulla i sacerdoti ogni giorno in tutto il
  mondo offrono sull'altare il pane e il vino al Signore e Creatore, ricordando espressamente che essi sono
  «frutto della terra e del lavoro dell'uomo». Quei frutti della terra e del lavoro dell'uomo divengono
  nella Consacrazione che segue l'Offerta, Corpo e Sangue di Cristo. Così ogni uomo e ogni donna che offrano il
  loro lavoro a Dio, esercitano il loro ministero sacerdotale, in quanto battezzati, e santificano il lavoro
  stesso.
  Il lavoro vissuto nella speranza e nella gioia (e «il Signore ama chi dona con gioia»), nel momento in
  cui viene offerto come primizia al Signore, consacra la storia, la vita, il tempo e la società degli uomini
  con i quali viviamo e lavoriamo. Un uomo che lavori così diviene, di fatto, una presenza di benedizione per
  tutti, quand'anche non lo sappiano o non lo vogliano riconoscere.
Con queste nostre riflessioni abbiamo voluto evidenziare il significato antropologico fondamentale
  della prassi umana mostrando in breve come essa sia rilevante per il compiersi della verità dell'uomo. Il
  lavoro quale modo dell'agire riveste anch'esso un ruolo di primo piano non solo per l'edificazione dell'umano
  nell'uomo (autodeterminazione) ma anche per la potenzialità culturale che esso reca in sé. Nel modo di
  lavorare, nell'organizzazione sociale del lavoro, nei significati personali ed esistenziali che esso contiene ed
  esprime si afferma una concezione dell'uomo, della vita e della società. Nel modo in cui una società
  lavora essa lascia trasparire qual è il suo senso del vero, del bene e del bello, essa lascia intendere se
  è animata da una cultura di morte, cioè da una non cultura o se è guidata da quella
  "intransitività" che caratterizza per natura la persona umana in quanto tale. Se cultura è forma della
  vita, forma del vivere, il lavoro è uno dei principali fattori di cultura. La forza di un popolo si intravvede
  dalla grandezza della speranza dalla quale è animato e da come essa è in grado di informare
  capillarmente ogni singolo aspetto e ogni singola forma del vivere concreto e storico.
  Una civiltà che coltivi dei grandi ideali e che non sappia trasformare il suo modo di lavorare in maniera
  organica al fascino del vero, del bene e del bello, è una civiltà divisa e destinata a soccombere
  dinanzi ad altre che, pur essendo meno potenti, sono però più unite in se stesse. L'occidente possiede
  un ricco patrimonio dal punto di vista della cultura del lavoro, ma in esso sono subentrate logiche e forme contrarie
  alla verità dell'uomo che rischiano di minare sia l'integrità della personalità, sia la
  compagine sociale. C'è da auspicarsi che il nesso lavoro\cultura sia reso oggetto di una rinnovata attenzione
  soprattutto da parte di una organizzazione sindacale come la Vostra. Ciò non potrà avvenire senza una
  previa messa in questione della propria personale esperienza lavorativa e della relazione nella quale essa si trova
  con la realtà familiare. Solo in seguito si potrà estendere acutamente lo sguardo alle patologie
  sociali del lavoro e alle questioni di ordine strutturale.
  Nella nostra società e nella nostra vita il lavoro è spesso troppo e troppo poco. Troppo perchè
  le grandi imprese tendono sempre più a "comprare" la persona più che non ad assumere un dipendente per
  un certo numero di ore giornaliere (vedi il modello asiatico o quello adottato dai grandi trust internazionali
  che responsabilizzando il singolo al contempo lo incentivano a dare tutto all'azienda della quale egli diventa come
  un'appendice). Troppo poco perchè sempre meno evidente e costatabile è il rapporto che il singolo
  è in grado di stabilire tra le ragioni della ditta e quelle della sua vita, per cui tanto più razionale
  diventa la logica interna ai singoli settori produttivi, tanto meno chiare diventano le ragioni del perchè si
  debba produrre quel che si produce, se si eccettua la logica del puro profitto. In questa situazione quel che
  è più importante è che l'uomo non smarrisca se stesso, dato che non serve a niente se l'uomo
  guadagna il mondo intero e poi smarrisce se stesso (Lc 9,25). Credo che questo incontro di questa sera avesse come
  scopo quello di iniziare di nuovo a ritrovare, almeno un pò, noi stessi. Nessuno di noi può fare questo
  se non recuperando il senso del proprio lavorare. Spero che il mio contributo, quale modesta ripresa
  dell'insegnamento ricchissimo di Giovanni Paolo II sul tema, possa agevolare questo nuovo inizio.
Nel nostro primo incontro ci siamo soffermati a considerare il lavoro dal punto di vista della
  persona e quindi dal punto di vista del soggetto e dell'agire di questo soggetto. Abbiamo quindi considerato le prime
  premesse del gesto lavorativo quali la motivazione, la speranza, il gusto, il senso ed anche le prime conseguenze di
  un'etica appropriata del lavoro, quali la forma della vita, la cultura, in senso lato.
  Oggi ci occuperemo invece delle dimensioni interpersonali del lavoro, cioè di quelle dimensioni che pur non
  essendo estranee alla persona, la vedono però implicata con altre persone e in un organismo collettivo
  più ampio. Già nel primo incontro abbiamo avuto modo di far cenno alla natura comunionale dell'uomo e
  quindi di ogni sua attività. La persona infatti non è mai esistita come entità a sé fuori
  dalla comunione, dalla comunità e dalla società con altre persone. Quindi quello che diremo oggi
  andrà ad integrare e a rendere ancor più concreto quel che abbiamo affermato la volta scorsa.
Se l'esperienza del lavorare non deve diventare alienante per l'uomo, essa deve corrispondere
  alla sua natura, a quel che egli è, e fa parte della natura dell'uomo l'essere in relazione con gli altri
  uomini e il comunicare con loro. Dunque per essere veramente umano il lavoro deve essere anche un modo di relazione e
  di comunicazione interpersonale e sociale, in caso contrario esso diverrebbe tendenzialmente disumano e
  deformante.
  
  a. Ruolo di formazione dell'uomo
  
  Il primo ambito di relazioni significative e costruttive per ogni uomo, per l'uomo così come il Creatore lo ha
  pensato, è sicuramente la famiglia. Nel disegno originario di Dio ogni uomo nasce all'interno dell'amore
  dell'uomo e della donna e in questo luogo di accoglienza e di amore gratuiti egli inizia a diventare se stesso, a
  formare la sua personalità, i suoi talenti ed apprende a metterli a frutto. Dentro la famiglia ognuno ha
  appreso a conoscere se stesso, a sviluppare le proprie capacità ed abilità particolari e a dar forma ad
  esse. Sappiamo anche troppo bene come un ragazzo, quand'anche fosse molto dotato dal punto di vista delle
  facoltà personali, ma non avesse un ambito naturale di affetti e di cure, normalmente non riesca ad impiegarle
  in modo proficuo e costante. La famiglia essendo il luogo di relazioni umane fondamentali è di un'importanza
  insostituibile per la formazione dell'umano nell'uomo e quindi anche della sua capacità di lavoro. Per questo
  le società nelle quali la famiglia è malata, sono società nelle quali anche il lavoro lo
  è. Al contrario, laddove la famiglia è sana, quand'anche le strutture economiche siano deboli o
  inadeguate, essa viene a rappresentare un importante fattore per una potenziale ripresa. (Si confronti al riguardo la
  situazione irlandese rispetto a quella inglese). Qui il criterio di valutazione non è il reddito pro capite,
  né il prodotto interno lordo di un paese o la redditività delle singole aziende, ma un fattore umano
  che può convergere con questi indicatori, come può divergere da essi.
  Oggi anche gli autori economicamente più liberalisti riconoscono il ruolo che la famiglia giuoca nel
  processo economico globale, salvo fare poi di questo riconoscimento un ulteriore fattore di
  strumentalizzazione.
  Tutte le diverse relazioni intrafamiliari hanno un loro significato in ordine alla formazione della dimensione
  lavorativa della personalità. Facciamo alcuni semplici esempi. Il rapporto col padre è quello che fa
  intendere al bambino che non tutto si può fare e che quel che si può fare va fatto in un certo modo e
  non in un altro. In altre parole, la figura paterna è quella che favorisce l'interiorizzazione della norma
  e quindi consente al figlio di comprendere come l'ottenimento di un determinato obiettivo non sia possibile se non
  passando attraverso una serie di mediazioni che, se in primo momento sembrano allontanarlo, in realtà
  costituiscono il percorso attraverso il quale esso può essere realmente conseguito. Da questo punto di
  vista, l'indebolimento della figura paterna comporta l'accrescersi del numero di ragazzi che non si sanno adattare
  al rispetto della legge e della norma, senza la quale in realtà non è possibile alcun tipo di lavoro,
  perchè la sentono come troppo riduttiva (ribelle), oppure, al contrario di ragazzi che piegano supinamente ad
  essa senza alcuno spirito critico e creativo (omologato). Sia nel primo caso che nel secondo, da un difetto di
  relazione intrafamiliare, si hanno conseguenze negative nell'ambito lavorativo.
  Se guardiamo adesso al significato del rapporto con la madre, possiamo dire, in generale, che esso insegna
  un'accoglienza senza condizioni, gratuita e tendenzialmente illimitata. Questa esperienza forma nel bambino la
  capacità di non bloccarsi davanti ai propri limiti, ma di riconoscerli e quindi anche il tentativo di
  superarli, proprio in forza di qualcosa di più grande e determinante: il valore della propria persona che
  eccede ogni sua possibile prestazione. Questa magnanimità che egli ha esperimentato come rivolta a sé,
  egli la saprà in seguito rivolgere anche verso altri, non facendo della competitività e dell'efficienza
  l'unico registro della relazione con gli altri, e ciò in particolare in quel luogo del paragone e del
  confronto che è il lavoro. L'assenza o la insufficienza della presenza della figura materna provoca la durezza
  e l'intolleranza, l'incapacità di gratuità e di percezione del valore di sé e dell'altro come
  trascendente ogni singola prestazione.
  
  Osservazioni analoghe potrebbero essere fatte sul significato della relazione fraterna e sul fatto che oggi in Europa
  la presenza di figli, nella più parte dei nuclei familiari, non supera l'unità o le due
  unità.
  
  b. Ruolo esperienziale che motiva ("per altri")
  
  La realtà della famiglia può essere guardata oltre che dal punto di vista della figliolanza, come
  abbiamo brevemente fatto finora, anche dal punto di vista della coppia genitoriale, e quindi dell paternità e
  della maternità.
  Da questo punto di vista dobbiamo subito rilevare che è nell'unità dell'uomo e della donna, e quindi
  nel formarsi a sua volta una famiglia, che l'uomo entra nel livello più maturo della sua umanità. Non
  c'è, dal punto di vista dell'esperienza umana, qualcosa che possa essere paragonato al diventar padre e al
  diventar madre. In questo mistero della generazione all'uomo e alla donna è dato qualcosa che sorpassa d'un
  colpo tutta la dimensione del "fare", del "lavorare". Per quanto essi possano fare e lavorare nell'arco di tutta
  la loro vita, nulla potrà mai portarsi all'altezza di quel che è loro donato nella generazione. Nessuna
  loro opera, nessun loro lavoro sarà all'altezza di quel figlio e di quei figli che sono loro dati.
  Questo semplice rilievo riveste un significato straordinario dal punto di vista del lavoro e consente di collocarlo
  esperienzialmente nel modo giusto. Se generare è più che lavorare, se nel mistero della generazione
  c'è racchiuso ed esplicitato qualcosa di più e di diverso di quel che è implicito nel lavorare e
  produrre, allora è lecito chiedersi se nella nostra vita, nella nostra famiglia, nella nostra
  società sia riconosciuto e ossequiato questo primato della generazione sul lavoro, o se non si identifichi
  piuttosto la fecondità con la produzione.
  Nella paternità e nella maternità l'uomo e la donna sono veramente fecondi e di una fecondità
  che è donata da Dio, il quale non essendo in sé sterile, ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza,
  e quindi capace di generare. La paternità e la maternità introducono l'uomo e la donna in un modo
  diverso d'essere: essi non sono più soli, la loro esistenza non è più circoscritta solo a se
  stessa, ma hanno fatto dono della vita ad un altro, ad altri e vivono il prosieguo di quella donazione che è
  stata la generazione nella donazione del lavoro. Con la paternità e la maternità loro sono cambiati e
  con loro è cambiato anche il lavoro, il senso del loro lavoro. Adesso essi non lavorano più solo per se
  stessi. Nel loro lavoro entra la presenza dei loro figli. Questo significa che il loro lavorare è
  abbracciato dal loro generare, che il significato minore (lavoro, produzione, creatività) sta dentro quello
  maggiore (generazione). Essi lavorano adesso per altri, lavorano per qualcosa di più grande del lavoro e
  proprio per questo possono lavorare bene, sia nel senso di fare un buon lavoro, sia nel senso di avvertire il lavoro
  come qualcosa di ancora più buono.
  Si può intuire, anche da questi brevi accenni, come l'impoverimento dell'esperienza del lavoro sia nella
  nostra società dovuta in gran parte all'isterilimento delle nostre famiglie e quindi alla perdita del giusto
  nesso tra paternità, maternità e lavoro. La generazione è sempre più estraniata dalla
  produzione. In un numero esorbitante di casi noi possiamo documentare il conflitto aperto tra la logica della
  paternità e della maternità e quella lavorativa e produttiva. Ma l'uomo che non lavora più
  "per un altro", che lavora solo "per sé", tende ad identificarsi con il suo ruolo lavorativo, quasi a
  coincidere con esso e quindi a diventare un pezzo del sistema nel quale si inserisce, un'appendice del processo
  globale. Nel suo lavorare non è più presente alcuna trascendenza perchè non è più
  presente la dimensione del "per altri", non è più presente l'altro. Così il lavoro smarrisce
  anche il suo carattere donativo e di gratuità, tutto si risolve nell'equazione tra quel che si presta e quel
  che si è pagati. Come se il lavoro dell'uomo si potesse pagare e non avesse invece un valore così alto
  da risultare in realtà impagabile. L'uomo che lavora solo per sé, senza avere l'altro nel suo
  orizzonte, tende a diventare uno schiavo, uno che è succube di quel che fa e di chi lo paga.
  
  Questo primo livello d'implicazione dell'uomo nelle relazioni fondamentali con la famiglia è quello che
  possiamo chiamare comunionale.
Una caratteristica costante che definisce insieme ad altre il lavoro dell'uomo è quella per
  cui si lavora sempre "con altri". Dobbiamo considerare ora la dimensione del "noi". La mondializzazione del
  mercato e lo sviluppo informatico per certi versi hanno reso maggiormente evidente questo aspetto del lavoro, per
  altri versi invece l'hanno impoverito di contenuti.
  Lavorare significa inserirsi in una comunità di lavoro. Ciò vale per ogni tipo di lavoro. Pertanto il
  lavoro viene ad essere come un linguaggio (Tischner) mediante il quale si comunica. Ogni perturbazione che attraversi
  questo linguaggio si riverbera come alterazione del lavoro e viceversa. La coscienza di questa comune appartenenza ad
  un "banco di lavoro comune", come lo ha chiamato Giovanni Paolo II nella Enciclica sul lavoro, stringe gli uomini del
  lavoro in una solidarietà che è tanto più forte quanto più chiaro è il senso di
  essere membri di una comunità.
  Il fatto che io lavori "con altri" lungi dall'essere un elemento estrinseco al lavoro, è invece uno degli
  aspetti antropologicamente più rilevanti e quindi più decisivi per la qualità dell'esperienza.
  Lo spessore umano del lavoro si può dire compreso 1) dal nesso che esso ha con la mia persona, 2) dal fatto
  che è "per altri" ed 3) insieme "con altri".
  Il lavoro è un luogo specifico di relazione e favorisce una modalità specifica di rapporto. Il fatto
  che molto spesso coloro con i quali si lavora non siano persone che si sono scelte reciprocamente, ma che si sono
  trovate a lavorare insieme, mette alla prova l'effettiva capacità di relazione e la stessa verità delle
  relazioni che si vivono all'interno del nucleo di rapporti privilegiato e preferenziale che è la famiglia. Una
  relazione vera infatti tende a comunicarsi e ad ampliarsi rendendo capaci di incontrare anche l'estraneo o il
  concorrente, superando lo schema dei ruoli ed andando verso la persona. Il lavoro può diventare dunque il
  luogo di un amplificazione delle relazioni e di incremento della verità e della giustizia, oppure una palestra
  di esercizio all'indifferenza e al misconoscimento.
  Un'illusione che oggi facilmente prende piede è inoltre quella di chi crede che nel mondo del lavoro o
  nell'ambiente di lavoro non solo le relazioni personali non siano auspicabili, ma che siano addirittura da rifuggire,
  essendo semplicemente sufficiente uno scambio basato sulla materia di lavoro. In sostanza per essere lavorativamente
  "corretti" sarebbe sufficiente fare dell'oggetto del lavoro specifico il "medio" della comunicazione. In questo modo
  il lavoro diverrebbe più importante dei soggetti del lavoro stesso. Ma questo capovolgimento è
  inammissibile. Quel che c'è di più "serio" nel lavoro è che in esso vi sono impegnati degli
  uomini. Quel che c'è di più prezioso nel lavoro è che in esso ne va dell'uomo.
  Il rischio grave in cui incorrono le società occidentali, non meno di quelle del grande oriente, è
  quello di concepire il lavoro come un "medio impersonale" nel quale l'umanità e la personalità
  dell'uomo sono inessenziali e quindi puramente funzionali. Tutto ciò che va affermandosi a livello
  macroscopico potrebbe trovare un tacito, benchè colpevole assenso, in chi pensasse in questo modo di potersi
  assentare dal rischio dell'incontro e della relazione, per spostare l'essenziale sulla retribuzione (moneta contro
  forza lavoro) e sull'incremento della relazione di dominio (uomo\natura). Coloro, invece, che vivono in modo non
  alienato dalla loro umanità la dimensione lavorativa, ricercano sempre attivamente in essa le relazioni che
  rendono comunità una massa di uomini e che trasformano in storia il tempo quantificato e mercificato delle
  aree asettiche di lavoro ripartite in nicchie molto collegate ma non comunicanti. E' questa a cui siamo chiamati una
  lotta per il senso del lavoro. E' una lotta che dobbiamo condurre per tutti a favore del senso umano del lavoro. E'
  una lotta altrettanto importante rispetto a quella contro la disoccupazione e la sanità degli ambienti di
  lavoro, perchè, lo sappiamo bene, «non di solo pane vive l'uomo», e inoltre, anche il pane
  può essere avvelenato. Un lavoro cui sia sottratto il suo significato vitale è un lavoro che ci
  dà un pane inquinato. Dunque la nostra lotta per il senso, la nostra lotta quotidiana volta a spezzare le
  pareti del non senso nel lavoro, è una lotta per un pane vero, per un pane che nutre, senza avvelenare giorno
  dopo giorno la nostra e l'altrui umanità. La costruzione della nostra trama di rapporti e di relazioni
  all'interno di ogni ambiente lavorativo è volta innanzitutto ad affermare la vita che è presente nelle
  nostre famiglie, che costituiscono il primo ambito di verità delle relazioni, ad affermare altresì la
  verità delle relazioni che viviamo in quella comunità nuova, che è anche un luogo di relazioni
  nuove, che è la comunità cristiana. Dalla novità dei rapporti che noi viviamo negli ambiti
  "comunionali" ci viene anche l'energia morale e l'intelligenza necessaria a resistere alla cattiva inversione,
  secondo la quale la logica dell'impersonale dovrebbe sovrastare quella delle persone. Il lavoro deve restare e deve
  sempre di più essere un lavorare "con altri".
La terza dimensione sulla quale vogliamo richiamare l'attenzione è quella sociale, a
  questo punto chiaramente distinta e distinguibile sia da quella comunionale che da quella che abbiamo chiamata
  comunitaria. Ogni lavoro non si svolge solo in un contesto comunionale e comunitario, ma anche in un contesto sociale
  ben definito. Il vostro lavoro si svolge all'interno del sistema lavorativo che è proprio della
  società svizzera e quindi, all'interno dell'Europa, in uno dei paesi più avanzati e più
  ricchi.
  Che cosa comporta l'inserimento del lavoro in un sistema sociale determinato? Come si configura storicamente questo
  inserimento? Noi siamo chiamati a considerare tutto ciò dal punto di vista della dottrina sociale della
  Chiesa, cioè da un punto di vista che tiene conto dei fattori strutturali in quanto vengono ad assumere un
  significato e un rilievo antropologico ed esistenziale. Tutta la dottrina sociale della Chiesa infatti è un
  tentativo di apportare un giudizio su delle forme sociali storicamente determinate, a partire dalla verità e
  in vista della verità sull'uomo e sulla relazione tra gli uomini. La persona e quella modalità di
  unità fondamentale voluta dal Creatore tra l'uomo e la donna che è la famiglia, costituiscono i criteri
  principali a partire dai quali e sui quali modellare il giudizio su tutte le forme e i modi di strutturazione sociale
  e lavorativa. Il primo e più grave pervertimento nel giudizio è proprio quello che fa seguito ad uno
  scambio indebito dei criteri e dei riferimenti del giudizio stesso.
  
  Cerchiamo un inizio di risposta alla domanda che ci siamo posti additando quattro livelli nei quali si gioca la
  complessa articolazione lavoro/società, senza pretesa alcuna di esaustività.
  Il primo concerne proprio la realtà familiare. Siamo costretti a interrogarci sulla qualità del nesso
  che c'è e su quello che dovrebbe sussistere tra la forma sociale che il lavoro va concretamente assumendo,
  modificandosi di ora in ora, e la natura, la vita, le esigenze della famiglia. Troppo spesso, e ormai sembra quasi
  normativamente, la famiglia deve subire, senza possibilità di replica, le condizioni che un certo apparato
  economico e una certa logica sociale che gli tien dietro, di fatto impongono. La realtà familiare non
  dovrebbe, secondo taluni, poter dire nulla sulle forme sociali che il lavoro assume e dovrebbe assecondarle,
  adattandosi ad esse, e quindi modificando di volta in volta il proprio assetto e il proprio volto, nel tentativo di
  conformarsi ad una logica che può anche contravvenire, per certi suoi aspetti, l'etica propria della vita e
  dei rapporti familiari, o addirittura contraddirla apertamente.
  Nelle nostre società occidentali, sempre più la forma del lavoro è concepita prendendo come
  interlocutore il singolo individuo che ipoteticamente disporrebbe atomisticamente del proprio tempo e delle proprie
  risorse e non la realtà della famiglia con i suoi ritmi e le sue specificità relazionali.
  Ciò alla lunga ha prodotto una vera e propia sfigurazione delle relazioni intrafamiliari, le quali stanno alla
  base sia di alcuni fenomeni di disagio e di disordine sociale, sia di una diminuzione della capacità
  lavorativa.
  Una buona definizione sociale del lavoro richiede dunque una seria presa in considerazione delle esigenze della vita
  della famiglia. Perchè ciò sia possibile è necessaria una politica della famiglia che diventi
  regolativa per l'ordinamento dei processi lavorativi. Questo chiama in causa un ordine di problemi ancor più
  vasto che sta sulla linea dei rapporti tra economia e politica.
  Il secondo livello cui vogliamo accennare è direttamente conseguente al primo e riguarda l'educazione, la
  formazione e, in generale, la dimensione culturale. Il sistema lavorativo è sempre connesso con una fase di
  iniziazione al lavoro che è rappresentata, se non in tutto, almeno in buona parte, dall'istituzione scolastica
  e da centri formativi di vario genere che veicolano i contenuti che in una dterminata società vengono
  ritenuti come fondamentali e caratterizzanti l'appartenenza ad essa.
  Anche qui, come nel livello che riguardava la famiglia, è in questione qualcosa di essenziale per la persona
  umana e quindi si dovrà rifuggire sia da una funzionalizzazione eccessiva dell'educazione e dell'istruzione
  all'ingresso nel mondo del lavoro, sia da uno stacco totale tra questi due mondi. Quel che è veramente
  importante è che lo snodo concreto tra scuola e lavoro possa svolgersi entro una garanzia di libertà e
  che esso non venga appropriato unilateralmente da un soggetto unico e monopolistico. Il monopolio dell'istituzione
  educativa e formativa è una cattiva premessa per una società che voglia essere realmente pluralistica e
  rispettosa delle diversità che in essa di fatto vengono a coabitare. In Europa oggi è in corso una vera
  e propria battaglia dei cristiani per la libertà di educazione e tale battaglia non è affatto estranea
  al mondo del lavoro.
  Il terzo livello cui ci richiamiamo è quello della persona. In verità dalla persona si sarebbe
  dovuto partire perchè essa resta sempre il fine: sia la comunità familiare, sia la comunità
  sociale hanno come loro scopo il bene delle persone. Dobbiamo però costatare che spesso, anche in questo
  piano, si verifica un rovesciamento delle priorità, che può essere riconosciuto e smascherato proprio
  prendendo l'uomo come criterio di giudizio della strutturazione socialmente vigente del lavoro. I punti critici sono
  tali e tanti che sarebbe impervio in questa sede anche solo elencarli. E' nostro compito rilevarli e collaborare al
  superamento delle incongruenze tra la verità dell'uomo e le concrete forme sociali del lavoro.
  Il quarto livello che intendiamo menzionare è quello delle associazioni dei lavoratori e in particolare dei
  sindacati. Tali aggregazioni in quanto possiedono una identità, da un lato non dovrebbero risultare facilmente
  soggiogabili da parte dei centri di gestione dei diversi poteri, siano essi economici o politici, dall'altro
  potrebbero svolgere una funzione di mediazione di istanze che potrebbero contribuire fattivamente ad una regolazione
  del lavoro secondo criteri e giudizi non totalmente omologati alle logiche del mero profitto e della pura
  redditività. Un sindacato che abbia una sua fisionomia e che non si asserva completamente agli interessi
  dominanti una determinata stagione e determinate congiunture, potrebbe certamente favorire una maggiore umanizzazione
  del mondo del lavoro e quindi della qualità del legame sociale. La divaricazione crescente tra la
  verità dell'uomo e i modi socialmente egemoni del lavoro e della produzione, costituisce di fatto una cattiva
  premessa per tutta la compagine sociale, foriera di tensioni che prima o poi verranno alla luce nei modi più
  disparati. Una sana dialettica previa può evitare lo scoppio successivo cui stiamo assistendo in tutte le
  società occidentali più avanzate. In questo il sindacato possiede un suo ruolo insostituibile.
  
  L'inserimento del lavoro personale in una determinata società comporta inevitabilmente la necessità di
  prendere parte a quella cultura, a quel sistema di valori, di consuetudini, di evidenze morali che la regolano. Ne
  sanno qualcosa i nostri amici che lavorano nel volontariato internazionale e che cercano di far dialogare il nostro
  modo europeo di lavorare con le culture più diverse in tutti gli angoli della terra. Ma anche rimanendo in
  Europa, basta spostarsi in Ucraina o in Russia, per accorgersi di quanto sia determinante l'appartenenza culturale
  sulla concezione e la prassi lavorativa. Anche i processi più semplici ed apparentemente elementari
  nascondono una mentalità che li ha forgiati e senza la quale non si sarebbero mai conformati in quel modo.
  Ciò conferma il fatto che nessuna opera dell'uomo può essere trattata avalutativamente, come se potesse
  essere indifferente dal punto di vista del senso e del valore.
  La domanda che ora emerge come inevitabile è quella sulla qualità della cultura che domina la
  società nella quale viviamo e lavoriamo. Solo iniziando a rispondere a questa domanda potremo riappropriarci
  della molteplicità dei significati, dei valori e portare un giudizio sui non sensi e disvalori che sono
  presenti nel nostro ambito lavorativo. Nè il singolo uomo del lavoro, né un sindacato nel suo insieme,
  possono muoversi adeguatamente in assenza di un giudizio preciso e puntuale a questo interrogativo. La formulazione
  di un simile giudizio costituisce in verità la prima parte di quello che Tischner ha chiamato "il lavoro sul
  lavoro".
Innanzitutto dobbiamo dire, a mò di premessa, che il soggetto appropriato in grado di
  formulare un giudizio sulla cultura, che all'interno di una determinata società informa di sé la sfera
  lavorativa, può essere solamente un soggetto comunionale e comunitario. Il singolo può riuscire in una
  tale impresa solo in quanto membro organicamente vincolato ad un corpo che rechi già al suo interno
  un'esperienza di relazioni che già si svolgono secondo modalità più adeguate alla verità
  dell'uomo. Solo l'esperienza di una più grande umanità può effettivamente smascherare una
  insorgente e avanzante disumanità, riconoscerla e additarla a tutti. Da questo punto di vista si deve
  riconoscere alla famiglia, in quanto società sui iuris, uno straordinario e privilegiato potere nel
  fornire una intelligenza alternativa, capace di snidare la menzogna sociale, dovunque essa si attesti. Nelle
  relazioni familiari vissute in modo vero, santo e giusto, è contenuto un altissimo potenziale di giudizio e di
  verità per la società intera.
  Il sindacato dei lavoratori cristiani rappresenta senz'altro un altro ambito di rapporti umani, di amicizia, di
  compartecipazione di problematiche e di situazioni esistenzialmente significative che può e deve tentare
  sempre di fornire un giudizio culturalmente rilevante sulla situazione lavorativa con la quale si trova ad avere a
  che fare. Esso ha di per se stesso la natura di un soggetto sociale di grande importanza e il primo e più
  immediato modo in cui un soggetto testimonia la sua vitalità è proprio la capacità di
  formulazione di un giudizio autonomo, non dipendente dale centrali del potere finanziario ed ideologico, ma aderente
  alla vita dell'uomo reale e storicamente operante.
  Nelle società occidentali tale soggettività viene oggi tentativamente assoggettata a funzioni
  supplementari che vengono commissionate al sindacato, lasciando così sussistere l'apparenza di un ruolo
  sociale effettivo, ma riducendo l'effettualità alla elargizione di servizi di vario genere. Un sindacato
  che lasciasse identificare il suo ruolo sociale con la congerie delle prestazioni assistenziali, burocratiche e di
  altra natura, in realtà abdicherebbe al suo compito storico insostituibile che è quello di essere un
  soggetto sociale attivo, irriducibile e originale. In esso, infatti, nella qualità delle relazioni umane che
  lo caratterizza, si trova il principio e il presupposto di una visione d'insieme che non si può reperire
  altrove, neppure nella facoltà di sociologia o in quella di economia e commercio dell'università.
  Esse mancano normalmente di quella qualità della relazione che viene a costituire l'origine che giustifica
  l'originalità del punto di vista che muove l'intelligenza.
In queste poche battute conclusive tenteremo un giudizio sulla fisionomia attuale del lavoro
  prendendo come riferimento gli studi di Bernard Perret e Pierpaolo Donati.[5]
  In primo luogo dobbiamo notare, con Perret, come la sfera economica tenda sempre più ad appropriarsi di
  norme di relazione che tradizionalmente erano regolate dalla sfera sociale nel suo insieme. Gli esempi portati da
  Perret sono quelli del «rapporto tra il valore del denaro, il valore degli oggetti e quello del lavoro,
  all'identificazione e alla gerarchizzazione delle competenze, insomma a tutto ciò che fà delle
  attività economiche un sistema d'orientamento, di misura e di balisage di un mondo nel quale gli uomini
  possono agire insieme. Ad un livello più profondo l'organizzazione economica interferisce ugualmente con le
  norme di comportamento che guidano l'implicazione di ognuno all'interno del proprio lavoro, le regole di
  reciprocità non scritte che consentono lo sviluppo dei rapporti di cooperazione informale, il rispetto degli
  impegni assunti, ... Nelle nostre società l'apprendimento dei codici elementari che rendono possibile la
  gestione non violenta delle situazioni e transazioni relazionali ordinarie avviene in un grado sempre crescente sotto
  l'impresa dell'ordine economico» (110).
  Da un punto di vista d'insieme, questa preminenza che diviene sempre più strutturale dell'economico sul
  sociale, comporta una disumanizzazione progressiva delle dinamiche lavorative, distanziando la sfera
  dell'attività lavorativa da quella dell'appartenenza sociale e trasformando contemporaneamente sempre
  più la legalità economica in legalità sociale.
  Un secondo rilievo riguarda la forte variabilità che l'interferenza del piano economico induce. Essa, secondo
  Perret, tende a sostituire la modalità interpersonale di rapporto con l'astrattezza delle transazioni di
  mercato. «Finora la forma contrattuale - scrive Perret - è stata quella tipica nella regolazione dello
  scambio sociale. Ora il paradigma contrattuale è in disfatta. ... La convenzione basilare per cui la
  dichiarazione esplicita di due volontà faceva sì che un contratto fosse definitivamente acquisito sta
  saltando, con la scusante che ci sarebbero fattori fluttuanti che la possono mettere in questione. Viene quindi messa
  in questione la volontà come fonte unica d'obbligazione. La dimensione astratta degli scambi prenderebbe il
  sopravvento su quella concreta delle persone che si accordano su oggetti definiti» (112). «La ricerca
  della novità e dell'originalità diventa un valore in sé, accentuando ancor di più il
  carattere instabile, arbitrario e volatile della gerarchia dei simboli. Oggi si brucia quel che ieri si adorava (C.
  Goldfinger)» «Una tale economia non può pretendere di restare la grammatica naturale dell'agire
  insieme» (113). Per sopravvivere restando al passo con questa mutabilità eretta a metodo, è
  necessario indossare un abito relativista e imparare a conformarsi nel minor tempo possibile, senza presentare
  obiezioni.
  Un altro fattore di cambiamento è dato dall'emergere di nuovi tipi di lavoro che non rientrano così
  facilmente nei parametri classici e per i quali non è possibile usare i criteri obsoleti di valutazione. Essi
  richiedono in parte uno sforzo di nuova definizione per poter rientrare in quel che fino a ieri si chiamava lavoro,
  dato il carattere astratto delle nuove forme di produttività. Inoltre il lavoro tende in molti casi a smarrire
  il carattere stabile che aveva e a trasformarsi in una serie di prestazioni che vengono retribuite come tali.
  Ciò muta il soggetto del lavoro in un prestatore di servizi e il datore di lavoro in un elargitore di una
  retribuzione per ognuno di essi.
  Che ci sia una tendenza, in un numero sempre più crescente di occupazioni alla diminuzione di mansioni
  manuali e ripetitive e all'incremento di posti nei quali si richiedono «figure professionali più
  qualificate, più capaci di interagire con altri lavoratori, più in grado di adattarsi con
  flessibilità alle esigenze dei processi produttivi»[6]è sotto gli occhi di tutti. Che tutto ciò possa rappresentare per
  colui che lavora una maggiore possibilità di esplicitazione delle sue risorse umane, questo è da
  vagliare attentamente. Sempre di più, infatti, le qualità che finora venivano considerate come
  unicamente soggettive e personali (capacità di relazione, simpatia, creatività, ed altre virtù
  anche morali), vengono "prezzate" e acquistate dalle imprese. E' dubbio che a questa compra-vendita debba far
  seguito una superiore realizzazione di sé di colui che entra nel processo produttivo o di mercato in questa
  maniera.
  Perret nel suo studio documenta come una serie di dati e di circostanze rendano improbabile che determinati aspetti,
  antropologicamente rilevanti, possano trovare una loro regolamentazione in una fisiologia del lavoro abbandonata a se
  stessa. Egli propone quindi la ripresa di un controllo sociale su tali aspetti e una regolamentazione socialmente
  condivisa che li orienti, piuttosto che esserne orientata supinamente. Questa ripresa del controllo del sociale
  sull'economico sembra oggi fortemente problematica dato che si tende, al contrario, ad assecondare le dinamiche che
  lasciano intravvedere uno sviluppo e una crescita maggiore e, in secondo luogo, perchè le società
  occidentali sono gravemente segnate da una schizofrenia che divide in maniera innaturale l'etica privata da quella
  pubblica.[7] Tuttavia l'invito di Perret ad una
  ridiscussione dell' «potenziale normativo dell'ordine produttivo» si scontra con la frammentazione
  dell'universo del lavoro e l'asimmetria e l'asincronicità socialmente diffusa che esso promuove e che viene ad
  ostacolare l'aggregazione degli uomini del lavoro.[8]
  «L'eterogeneità dei mondi produttivi non consente più a questi di aggregarsi per costituire un
  luogo politico, cioè un terreno nel quale, grazie alla cooperazione, si determinano il conflitto o la
  negoziazione, l'identità dei gruppi sociali e la configurazione dinamica dei loro rapporti» (183).
  «Un minimo di sincronizzazione dei ritmi sociali è necessaria all'esistenza di una società
  civile distinta dal mercato: le persone devono poter avere la possibilità concreta di incontrarsi e di
  organizzarsi (nelle associazioni e nei partiti) al di fuori del loro lavoro. Se non si fa attenzione a questo, non
  solo il lavoro non genererà più dei legami sociali stabili, ma le condizioni entro le quali
  dovrà essere esercitato condurranno ad un indebolimento degli spazi di socializzazione che sfuggono ancora
  alla logica del mercato»(192).
  Il fenomeno della "terziarizzazione del lavoro", in notevole incremento, va anch'esso considerato attentamente in
  tutti isuoi risvolti. Esso si presenta come fondamentalmente ambiguo, perchè, se da un lato implica una certa
  liberazione dalla fatica e da orari insopportabili, dall'altro provoca una «crisi dell'integrazione sociale
  mediante il lavoro»: ineguaglianza retributiva; differenziazione degli orari; mobilità; etc. Ciò
  ha provocato una dispersione del mondo del lavoro e una dissoluzione delle forme di solidarietà collettiva
  legate al lavoro comune. Inoltre, rileva Perret, «l'impresa moderna è più spesso un'avventura
  che un'istituzione e le forme di socializzazione che essa consente non favoriscono necessariamente l'integrazione
  d'insieme della società» (191).
  
  Un altro aspetto di estrema importanza sul quale è necessario sensibilizzarsi, è quello della
  autonomizzazione tendenziale dell'ordine economico, non solo da quello sociale e politico, ma anche da quello
  giuridico. Questo rilievo è tanto più significativo per il fatto che nell'Europa occidentale sono
  in atto dei processi di autentica revisione e cancellazione di quelli che sono stati per secoli i capisaldi dello
  stato di diritto. Si pensi, ad esempio, alla centralità della nozione di 'persona'. Tutti i diritti
  fondamentali ruotano attorno a questo asse. La rimessa in discussione attuale va a scuotere proprio le fondamenta. Il
  diritto del lavoro non uscirà certo indenne da questo terremoto avviato.
Il Creatore ha stabilito un ordine di appartenenza ai diversi ambiti relazionali presenti nella vita di un uomo. Ognuno di essi riveste un ruolo e un significato specifico insostituibile e quindi irrimpiazzabile da un altro. Nella loro diversità e irriducibilità questi ambiti contemplano però anche una gerarchia la quale è definita dalla qualità della loro reciproca coappartenenza. Come c'è una natura dell'uomo che va rispettata se non si vuol sconvolgere la realtà umana stessa, allo stesso modo c'è una natura della comunionalità e della socialità che non può essere trasgredita senza che l'uomo ne subisca un contraccolpo. In questa gerarchia al primo posto c'è l'ambito comunionale. Esso rimane metodologicamente ed esperienzialmente il primo e quindi anche quello a cui in qualche modo restano legati quello comunitario e quello sociale. Oggi si tende a scardinare l'idea stessa che esista una natura dell'uomo e sempre meno si riflette sul fatto che esiste anche una natura della comunione, della interpersonalità, che chiede di essere rispettata e non reinventata, quasi fosse plasmabile indefinitamente e arbitrariamente. Il rispetto della natura assegnata all'uomo si compie o si nega soprattutto nell'ossequio delle relazioni entro le quali si determina di fatto la sua umanità. Immaginare di poter soprassedere alla logica creaturale delle relazioni, significa intraprendere il più grave misfatto nei confronti dell'uomo, creare una premessa pericolosissima di alterazione "genetica" dell'uomo. Di fatto le società avanzate prima di procedere alla manipolazione genetica di quello che chiamano con terminologia nazista il "materiale umano", hanno percorso lungamente la via della manipolazione della natura e della genesi spirituale dell'uomo, molto più pericolosa e distruttiva di quella biologica e, senza la quale, quella biologica non si sarebbe neppure potuta pensare.
Soffermandoci a riflettere sul nesso che esiste tra la nostra identità cristiana e la
  realtà lavorativa, intendiamo toccare alcuni fattori della nostra esperienza per riappropriarcene in una
  maniera più decisa e consapevole. La nostra preoccupazione principale non sarà quindi quella di
  approntare un'analisi strutturale e congiunturale su fatti e situazioni che ci potrebbero incontrare come dal di
  fuori della nostra vicenda personale, quanto di individuare quel punto della nostra vita e della nostra esperienza a
  partire dal quale possiamo riattivare la nostra soggettività, la nostra possibilità di essere soggetti
  attivi in una maniera non puramente funzionale alle richieste e alle pressioni della società
  contemporanea.
  L'orizzonte sullo sfondo del quale intendiamo muoverci è costituito da un lato dalla realtà delle
  nostre persone concrete, dall'altro da un'attività lavorativa che implica un altro livello della
  realtà, quello sociale, con il quale abbiamo a che fare e alla cui costruzione in parte noi stessi
  contribuiamo. Se considerassimo solo la realtà delle nostre persone, la nostra considerazione, in una certa
  misura, rimarrebbe astratta, se, al contrario, rivolgessimo la nostra attenzione unicamente alla conformazione
  sociale e al mondo del lavoro nella sua strutturazione attuale, la nostra riflessione in un modo o nell'altro
  rimarrebbe ideologica. La scommessa che ci si para dinanzi è quella di tenere presente i dati obiettivi con
  i quali abbiamo quotidianamente a che fare, ma in relazione al mistero della nostra umanità personale e
  comunionale, che tra tutte le cose del mondo è la "cosa" più reale. Infatti, come dice il Signore,
  «a che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde se stesso?».
La costatazione da cui intendiamo partire è che l'uomo è un essere che possiede
  un centro. La cultura del nostro tempo tende a far passare un'immagine di un uomo tendenzialmente manipolabile in
  maniera indefinita, di un uomo frammentato o fluido, diviso o policentrico, di un uomo che può estendersi e
  restringersi a piacimento in tutte le direzioni, di un uomo che non ha una natura sua propria, ma che può far
  di sé quel che vuole. Questa concezione dell'uomo, se in un primo momento può apparire come più
  affascinante e più emancipata, in realtà nasconde in sé una premessa fortemente nichilistica.
  Infatti, se l'uomo è una pasta plasmabile a piacimento, ciò sta ad indicare che egli non possiede una
  natura come data e quindi se la deve inventare di volta in volta da sé, o meglio, più realisticamente,
  secondo le indicazioni che gli vengono dai centri organizzati del potere, siano essi di tipo informativo, culturale,
  finanziario, ideologico, economico, etc.
  Secondo la nostra esperienza e secondo il nostro modo di vedere, invece, l'uomo possiede una natura che gli è
  assegnata ed essa è contrassegnata da un centro che possiamo chiamare 'Io'. Tutto quel che l'uomo fa, tutto
  quel che esprime, tutto quello che intraprende, che percepisce e che intuisce, tutto è legato al suo 'Io'.
  In ogni esperienza e in ogni circostanza della vita tutto acquista senso o rimane privo di senso, a seconda della
  relazione che si stabilisce con il proprio 'Io'. Anche la cosa più grande, più vera e più bella
  non ha senso per l'uomo, non è neppure buona, vera e bella finchè non entra in relazione con lui e
  finchè egli stesso non ne veda il nesso con sé. Al punto che la crescita dell'uomo si può
  definire come un rafforzarsi e un consolidarsi dell' 'Io' e tale consolidamento non avviene mai senza una correlativa
  confermazione della capacità di stabilire dei nessi con la realtà nei suoi particolari e nella sua
  globalità. In qualsiasi modo l'uomo voglia sviluppare se stesso e in qualsiasi modo sviluppi la sua
  relazione con il mondo a lui esterno, egli non potrà mai fare a meno di accrescersi a partire da un centro
  che non ha scelto e che non può nemmeno togliersi di dosso, quasi fosse un orpello inessenziale della sua
  umanità.
  Il fatto elementare che l'uomo abbia un centro, significa anche che possiede una identità. L'uomo non ha solo
  un 'Io', un centro di tutti i suoi atti, di tutte le sue percezioni, di tutti i suoi pensieri, i suoi giudizi e le
  sue scelte, ma possiede anche un volto, un nome, una personalità. L'uomo è persona e, in quanto
  persona, si rivela come non solo centrato su se stesso. Quando noi riconosciamo che qualcosa è
  indiscutibilmente vero o è indiscutibilmente giusto, riconosciamo che c'è una verità o una
  giustizia che è tale in se stessa e che ci giudica. Tanto è vero che noi giudichiamo sempre a partire
  da una verità che viene ad essere come un metro del giudizio, ma non giudichiamo la verità stessa. La
  verità la riconosciamo come tale e ci lasciamo misurare da essa, ammettendola come qualcosa che è
  più grande di noi. Nel caso noi potessimo giudicare non solo "secondo la verità", ma "la
  verità", allora essa non sarebbe più tale. Ogni volta che noi riconosciamo in qualcosa il vero o il
  bene, o il giusto, noi trascendiamo anche il nostro 'Io', andiamo al di là del cerchio chiuso del nostro
  semplice 'Io' per affermare qualcosa di "più grande" senza il quale noi stessi saremmo più piccoli e
  più miseri.
  Con questa semplice osservazione ci siamo avvicinati di un passo in più al mistero della identità
  personale, la quale si mostra nel fatto che l'uomo non è soprattutto chiuso e come avvolto nella sfera
  sigillata del suo proprio 'Io', ma è naturalmente disposto al riconoscimento di qualcosa di più grande
  di sé, che appare come essenziale e irrinunciabile alla verità di sé. Sembrerebbe un
  controsenso, perchè l'identità, come dice la parola, dovrebbe consistere unicamente nell'essere
  identico a sé. Invece nell'esperienza dell'uomo si dimostra essere di un'importanza fondamentale per il
  normale sviluppo del'identità personale, il fatto che sia data la possibilità di vivere la relazione
  con l'altro, con ciò che è oltre sé e più grande di sé. Tutta la pedagogia e la
  psicologia infantile, ma prima ancora l'esperienza quotidiana della vita familiare e sociale ci suggerisce questo
  dato. Tutto ciò è giustificato dal fatto che l'uomo, proprio nel suo punto di scaturigine, è
  creatura, cioè è voluto, amato e posto nell'essere da un Altro.
  L'uomo ha un'identità solo in quanto è creatura di Dio. L'uomo è persona perchè la
  realtà divina è una realtà personale. Se vogliamo scoprire qualcosa del mistero della nostra
  identità, siamo costretti a volgere lo sguardo al Mistero che ci ha creati. Noi infatti abbiamo un centro in
  noi stessi, ma questo centro non è centrato a sua volta in se stesso, ma in Dio. L'uomo è creato ad
  immagine e somiglianza di Dio e quando va al cuore del suo essere, non trova se stesso, ma è rinviato alla
  fonte da cui egli stesso proviene. Per questo l'uomo resta per se stesso, abbandonato a se stesso, una creatura
  inspiegabile e incomprensibile. Il mistero dell'uomo, la "grande domanda" che ognuno di noi è per se stesso,
  comincia a dischiudersi solo quando ci volgiamo all'Amore da cui proveniamo.
  Proprio per il fatto che noi abbiamo in Dio la radice prima ed ultima della nostra identità di persone ci
  permette di affermare questa verità come valida per tutti gli uomini e per ogni uomo in tutte le fasi della
  sua vita e di sostenere la dignità irriducibile di ogni persona. Non c'è circostanza e situazione che
  possa cancellare o deformare quella dignità, perchè il suo fondo è custodito e garantito in Dio
  stesso. Ma è per lo stesso motivo, o meglio, per l'assenza di questa Rivelazione sulla verità
  dell'uomo, che i popoli e le culture i quali non l'hanno ricevuta o non l'hanno accolta, non sanno del valore
  infinito e sacro della persona, non sono in grado di sostenere che ogni uomo possieda una identità personale
  unica, insostituibile e irriducibile.
  Il dibattito attuale sui temi di bioingegneria applicata a quel che con termine nazista viene da taluni chiamato
  "materiale umano", documenta ampliamente quel che stiamo dicendo. Se l'identità della persona non è da
  Dio, allora è in mano nostra e non si vede il motivo per cui non la si debba manipolare a piacimento, fin
  quando non si presentino delle controindicazioni esplicite.
  Un altro esempio di assenza di una coscienza e di un'esperienza matura della personalità ci viene da quelle
  culture che si rappresentano l'uomo, sì come un essere che possiede un centro, ma un centro vagamente
  spirituale e indefinito, senza un volto, un nome, una identità.
  Noi cristiani abbiamo un senso forte della identità della persona. Per noi la persona ha una dignità
  che è assoluta e insormontabile, per cui nessuna ragione superiore potrebbe giustificare o legittimare una
  violenza di qualsiasi genere anche ad una sola persona. Uno dei motivi per cui nell'ebraismo antico la
  schiavitù non prese piede stabilmente fu proprio la coscienza del fatto che l'altro appartiene a Dio e nessuno
  se ne può impossessare come se fosse sua proprietà per sempre. Il senso dell'appartenenza a Dio di
  ogni persona è un fortissimo elemento antitotalitario o, come si direbbe oggi, antiglobalizzante e, nella
  comunità cristiana, viene ad essere anche un fattore di critica sociale. Il cristiano possiede una
  sensibilità particolarmente acuta che gli consente di ravvisare gli episodi di non verità e di
  esplicita menzogna sociale, proprio in virtù dell'esperienza alta della identità personale. Il
  cristiano si accorge con facilità dove e perchè alla persona venga arrecato un torto, di qualsiasi
  genere esso sia. Tale sensibilità, per un verso ha una sua base "naturale", ma per un altro ha una suo
  fondamento nella umanità nuova, di cui egli ha esperienza in relazione al mistero di Cristo che si è
  fatto presente nella storia e nella vita.
  Sempre a questa esperienza fondamentale dell'essere persona si deve il fatto di vivere una certa unità tra i
  diversi aspetti dell'esistenza e dell'esperienza quotidiana e quindi dell'avere un centro riconoscibile e
  riconosciuto. Un uomo che accolga con più pienezza questo dono dell'essere persona, vivendo in maniera non
  frammentata i diversi aspetti ed ambiti del suo vivere e del suo agire (famiglia, lavoro, società,
  comunità), invera sempre più se stesso e diventa, per così dire, sempre più persona.
  Se l'identità personale è un dono incontrovertibile e irreversibile, la personalizzazione,
  l'inveramento nell'esperienza di quel che si è, è un compito che chiama in causa la nostra
  libertà e responsabilità.
  Il cristiano è uno che si assume ogni giorno ed in ogni istante il compito nobile di permanere in
  quell'unità donata e di integrare tutto in essa e in Colui che gliela dona. Questo principio di unità
  è anche un principio di forza che chi non ha incontrato il mistero di Gesù Cristo come presente e
  operante nella sua vita, di fatto non possiede e non immagina neppure, e che, nel migliore dei casi, può
  desiderare. L'incontro con Gesù Cristo nella sua Chiesa e quindi nella comunità di coloro che vivono di
  Lui, corrobora e fortifica l'umanità dell'uomo, lo rende più uomo, "uomo nuovo".
  I cristiani sono coloro che riconoscono la loro identità personale come dono di Dio e che vivono nella
  consapevolezza di avere il proprio centro e la propria consistenza nascosta in Dio. "Togli loro lo spirito - dice un
  Salmo - e ritornano alla terra. Mandi il tuo Spirito e sono creati ...". "Sei tu che hai creato le mie viscere -
  scrive Geremia - mi hai fatto come un prodigio. ... Sei tu che mi hai intessuto nel ventre di mia madre. Le mie ossa
  non ti erano nascoste quando ancora non ne esisteva una". Il riconoscimento e l'accoglienza della natura creaturale,
  dell'essere creatura nel fondo più profondo di sé (Agostino), nella origine, non solo non indebolisce
  il cristiano, ma lo irrobustisce nella sua identità di uomo. Al di fuori di questo riconoscimento fondamentale
  c'è solo una possibilità, che può essere più o meno marcata: l'alienazione,
  l'estraniazione, la non familiarità con il mistero centrale della propria vita e del proprio essere. Un uomo
  che non abbia avuto la grazia, perchè di grazia si tratta, di riconoscere di essere creatura di un Altro, vive
  anche una maggiore lontananza ed estraneità da sé e dagli altri, perchè non ha conosciuto la
  cosa più importante e decisiva che porta in sé. Dunque è come se fosse sconosciuto a se stesso e
  quindi non potesse conoscere e riconoscere negli altri quel che non ha potuto sperimentare e verificare in sé.
  Per questo motivo semplicissimo il cristianesimo nella storia del mondo è divenuto il fattore di maggiore
  umanizzazione ed anche di maggiore socializzazione. Avere incontrato la verità di sé, apre
  immediatamente a tutti gli altri, se non altro perchè la verità di sé consiste proprio nella
  comunione. Nessun altro principio si è manifestato nella storia così potentemente capace di
  abbattere tutte le barriere di cultura, di opinione, di diversità storica e di distanza geografica, come il
  cristianesimo. Il cristianesimo è per sua natura cattolico, cioè aperto all'universale e ad ogni
  particolare al contempo. La Rivelazione dell'uomo a se stesso che avviene in Gesù Cristo, apre a tutto l'uomo
  e a tutti gli uomini indiscriminatamente e fin dal primo istante coloro che seguivano Cristo si dimostrano capaci di
  una forza di relazione prima ignota.
Se l'essere cristiani riguarda il centro e l'identità della propria e altrui
  umanità, allora riguarda tutto, niente escluso. Non c'è un aspetto della vita o un ambito del nostro
  fare che possa rimanere estraneo a quel che siamo, ma se non può essere staccato da quel che siamo, non
  può esserlo neppure dal Mistero che abita il centro della nostra vita e della nostra persona. Di questa
  totalità fa parte anche il nostro lavoro.
  Tutto quel che nella nostra vita rimane sganciato e disorganico rispetto al nostro centro e alla nostra
  identità diventa principio di disintegrazione, di dispersione e quindi di dissipazione. L'unità della
  nostra vita e della nostra persona è minata da tutto quel che rimane privo di senso, cioè privo di un
  legame ragionevole e razionale con quel che noi siamo. Niente ha un potere distruttivo più formidabile nei
  confronti dell'uomo, degli aspetti di non-senso che si possono insinuare nella sua esistenza. Essi rappresentano
  delle vere proprie bombe ad orologeria che prima o poi scoppieranno. L'uomo ha necessità di vivere e di
  vedere il senso in ogni cosa, e un lavoro, un incontro, un impegno, un avvenimento, una circostanza qualsiasi,
  acquista un senso per noi, quando siamo posti in grado di coglierne il nesso con quel che noi stessi siamo e quindi
  con il Mistero che ci fa essere. "Chi non raccoglie con me, disperde". L'affermazione del Signore è perentoria
  e non ammette sfumature intermedie.
  D'altra parte, un uomo diviso e frammentato, che dimentica il proprio centro e la propria identità,
  è utile ad un apparato che lo voglia funzionalizzare ai suoi scopi, qualunque essi siano. L'indebolimento
  dell'identità personale sappiamo essere stato una delle premesse e delle finalità dei due grandi
  sistemi totalitari che hanno dominato parte del ventesimo secolo. Hanna Harendt e Aleksander Solzenicyn hanno
  descritto molto bene queste dinamiche di spersonalizzazione ed esse sono terribilmente affini a quelle che si stanno
  allargando a macchia d'olio nell'occidente democratico e liberale. Il mondo del lavoro è quello in cui la
  logica socialmente dominante tende ad affermarsi con più immediatezza ed anche con più violenza. Il
  mondo del lavoro rappresenta per certi aspetti un laboratorio di prova nel quale si riversano tutte le sollecitazioni
  cui l' "uomo funzionale" dovrebbe corrispondere semplicemente adeguandosi. Nel mondo del lavoro si convogliano
  sia le energie creative di una determinata società, sia le conflittualità di interessi attraverso le
  quali esse prendono forma concreta. Così il singolo viene a trovarsi nel punto d'incrocio di forze che lo
  sovrastano e che non può controllare e tantomeno pilotare.
  La domanda che ora ci poniamo è questa: qual'è il soggetto che può resistere a questa
  disintegrazione ripetutamente tentata? E quali sono le condizioni perchè ciò possa avvenire?
  Il contrario della disintegrazione è l'integrazione, cioè l'azione del ricondurre
  all'integrità, all'unità, all'identità. Ma come è possibile vivere tutto organicamente,
  unitariamente, senza cambiare mille volti al giorno, oppure facendo da principio a meno di averne uno? Questo
  interrogativo coincide con un altro: com'è possibile vivere nel mondo, nel lavoro, nella società senza
  abdicare alla propria identità di uomo e di cistiano, ma piuttosto incrementandola e rinvigorendola sempre di
  più? Tentiamo di definire una risposta a questa domanda articolandola in quattro punti.
  
  a. Abbiamo considerato come l'identità umana e cristiana è un dono che il Creatore ci ha offerto
  e che il Redentore ci ha guadagnato. Essa dunque, in primo luogo, si mantiene viva mantenendo la relazione con
  Colui dal quale la si è ricevuta. Fin dalla sua prima origine l'uomo ha una natura comunionale
  perchè viene concepito, nasce e cresce entro delle relazioni. La principale di esse è proprio quella
  con Dio. Ciò fa sì che egli non possa accogliere pienamente il dono che è la sua persona e la
  sua umanità, se non accogliendo anche il Donatore e il rapporto con Lui.
  Dobbiamo interrogarci quindi sulla qualità e sulla effettività della nostra relazione con Gesù
  Cristo. Questa domanda ci rimanda immediatamente a quella correlativa sulla nostra appartenenza alla Chiesa e alla
  comunità cristiana. Oggi alcuni cristiani ritengono illusoriamente di poter amministrare la loro relazione con
  Cristo in maniera privata. Noi non possiamo scegliere per andare a Dio una via diversa da quella che Egli stesso ha
  scelto e stabilito per venire a noi e per stare con noi «fino alla fine del mondo». Fin dal principio
  Gesù ha scelto dodici uomini con i quali stare insieme, ai quali insegnare e ai quali consegnare i suoi doni e
  il dono di Sé. Egli stesso ha scelto la compagnia di questi Dodici per essere presente nella storia e nel
  mondo intero. Chi ritiene di poter fare ameno di prender parte a questa compagnia storica e concreta che è il
  corpo ecclesiale, illude se stesso e non è nella verità.
  L'effettività dell'appartenenza alla comunità cristiana si misura sulla concretezza dei rapporti che
  intratteniamo con essa, con gli altri cristiani e con il Magistero, con l'insegnamento che ci viene dal successore di
  Pietro. Qualora la nostra relazione sia solo ideale, la nostra identità cristiana è in pericolo. Il
  rimedio consiste nel cercare un'implicazione con la comunità cristiana esistenzialmente rilevante ed
  esperienzialmente significativa.
  
  b. Non è sufficiente mantenere l'identità cristiana, anzi è impossibile mantenerla,
  qualora non la si eserciti. La nostra identità in verità non è un patrimonio immobile e neppure
  un capitale depositato, benchè abbia una sua stabilità, indipendentemente da noi, nella volontà
  di Colui che ce l'ha assegnata. E' tuttavia necessario esercitarla per mantenerla in atto e l'esercizio attivo
  richiede un lavoro di paragone continuo e assiduo. Senza questo lavoro permanente essa perde a poco a poco la sua
  rilevanza fino a diventare quasi inconsistente. Quando invece si conduce un paragone sistematico e incessante con
  tutto quel che incontriamo, con tutte le situazioni, con tutte le circostanze, con tutte le scelte che operiamo e gli
  avvenimenti che ci accadono, allora essa emerge con sempre più forza e nettezza dimostrandosi capace di
  orientare l'intelligenza e la volontà, di penetrare e discernere la realtà in tutti i suoi aspetti e in
  tutta la sua complessità. Allora e solo allora la nostra identità cristiana acquista un chiaro rilievo
  esistenziale e perfino sociale. Allora la sua consistenza, che da principio ci era stata donata, si dimostra come
  storicamente feconda ed efficace. Allora diveniamo capaci, a poco a poco, di fornire sempre più e sempre
  meglio le ragioni del nostro credere, perchè esse sono diventate le ragioni degli aspetti importanti della
  nostra vita. Ma ci è necessario vedere come l'identità cristiana in atto sia capace di spiegare la
  vita, di far fronte ad essa, di attraversarla in tutti i suoi frangenti senza recedere e senza dover fare ricorso ad
  altre fonti, ad altre "cisterne screpolate che non tengono l'acqua". Abbiamo bisogno di vedere e di sperimentare
  questa forza della fede e della speranza cristiana, perchè è nell'esperienza concreta, nella storia
  feriale che essa dà prova di sé. Diversamente il credere rimane privo di ragioni e quindi debole ed
  esposto ad essere in ogni istante sostituito e surrogato con altre ragioni incongruenti o addirittura contrastanti
  con la nostra identità di cristiani. Su questa via, però, non si dura a lungo, perchè una
  identità inutile e inoperante tende a scomparire, a divenire storicamente ineffettuale e ad essere ammessa
  quasi di principio, ma come un principio di cui ad un certo punto non si sa più che cosa fare perchè
  giacente come infecondo, immotivato e immotivabile. E' in questo frangente che molti se ne sbarazzano, ma, in
  realtà, la loro identità cristiana, l'avevano già estinta molto prima. Quando decidono di
  liberarsene essa è già ridotta ad un ingombro sterile.
  
  c. Dobbiamo chiederci, ora, quali siano le condizioni perchè il lavoro del paragonare tutto con
  sé a partire dalla propria identità cristiana si possa verificare.
  Il primo punto che ci richiamiamo è quello della non solitarietà. Infatti, se l'identità
  cristiana, come abbiamo visto, rafforza e incentiva anche l'identità personale dell'uomo, tuttavia la natura
  della nostra identità è di per se stessa comunionale. Dunque il rafforzamento della nostra
  identità cristiana richiede sempre l'accrescimento della relazione, dell'interrelazione che nella
  comunità cristiana, fin dall'inizio è stata chiamata comunione. Noi non possiamo essere noi stessi al
  di fuori della relazione con l'altro e se questo vale della nostra identità di uomini, tanto più vale
  della nostra identità di cristiani. Il nostro Dio non si è rivelato in Gesù Cristo come un
  Dio solitario e individuale, ma come una Comunione di Persone. Gesù dice di se stesso, nel momento in cui il
  suo paragone, il suo agone e la sua agonia si stava approssimando, di non essere solo: «Io non sono
  solo». L'identità di Cristo era quella di Figlio, cioè quella di uno che vive una fortissima
  appartenenza nella comunione con il Padre mediante lo Spirito. Il cristiano solo è un controsenso.
  L'identità di un tale cristiano è destinata ad esaurirsi e ad estenuarsi fino, se possibile, alla
  sparizione.
  L'essere parte viva della comunità dei cristiani è una condizione irrinunciabile e quindi necessaria
  perchè ognuno possa esercitare il lavoro del paragone che rende l'identità cristiana storicamente
  rilevante e capace di giudizio su ogni particolare aspetto della vita personale e sociale.
  
  Il secondo punto l'abbiamo implicitamente già introdotto parlando di Cristo e della sua coscienza di essere
  unito al Padre: «Io e il Padre siamo una cosa sola». L'identità cristiana, in realtà, altro
  non è che l'aver parte all'identità di Cristo stesso e ciò non metaforicamente, quasi per modo
  di dire, ma sacramentalmente, cioè nel grado più alto della realtà, secondo un realismo
  estremo. Perciò ci è necessario guardare in direzione del mistero della coscienza di Gesù,
  così come Egli stesso ce l'ha aperta. Nel tempo della sua vita terrena Gesù ci ha svelato degli squarci
  sulla sua interiorità, sul segreto che albergava nella sua anima. Il colmo di questo squarcio è
  l'apertura del suo cuore quando in croce viene trafitto dalla lancia del soldato romano. Quel che costituiva la
  costante della sua identità di uomo era la consapevolezza ininterrotta di essere in relazione con il Padre, di
  fare quel che aveva visto dal Padre, di dire le parole che aveva udite dal Padre, insomma di compiere la
  volontà del Padre. Gesù è cosciente di sé come di uno che è inviato e che ritorna.
  Così è la coscienza del cristiano: è sempre in relazione con un Altro e con altri, è
  sempre nella comunione, proviene dalla comunione e ad essa fa sempre ritorno, come al suo luogo genetico, al luogo in
  cui nasce e viene generato di nuovo. Lo stare alla fonte da cui si scaturisce, rappresenta per il cristiano il
  segreto della novità permanente, della rinnovata energia dalla quale trae consistenza e acume il lavoro del
  paragone di cui parlavamo sopra. E' dalla potenza della vita che si diparte la forza di penetrazione e di
  chiarificazione del giudizio. Un cristiano nel quale la vita sia debole sarà capace solo di un giudizio opaco
  sulla realtà. Il segreto consiste allora molto semplicemente nello stare alla sorgente da cui scaturisce la
  vita. Quel che qui ci è richiesto è di valutare ed esaminare la qualità della relazione che ci
  stringe a Cristo. Egli dice di sé: «Io sono la vita», e Giovanni nel Prologo scrive: «e la
  vita era la luce degli uomini» (Gv 1).
  Il problema dell'identità cristiana e della sua probabilità di sussistenza in questo mondo, in questa
  società, in questa storia, è esattamente il problema della vita, della sussistenza o meno della vita,
  della nostra vita, per non «camminare nella morte» (Gv), non è un problema collaterale, che possa
  essere tralasciato senza grave danno. Senza identità si è senza volto e quando si è senza volto
  si cade inevitabilmente in balia di un potere. Nella nostra società sono presenti molte dinamiche che sembrano
  approntate apposta per far sbiadire l'identità. Ad esse noi ci opponiamo innanzitutto facendo crescere la
  positività di quel che già siamo, prima ancora che analizzandole e criticandole. Anche l'analisi e la
  critica prendono vigore dalla novità in atto nella nostra vita personale e comunitaria.
  
  Dopo aver riflettuto un pò sulle condizioni che consentono all'identità di svilupparsi in un paragone
  serrato con tutte le realtà nelle quali viviamo ogni giorno, ci dobbiamo chiedere anche in che modo si
  esercita quel paragone, qual'è la sua modalità di esercizio. Articoliamo la risposta in tre punti.
  
  a. Il paragone avviene quando c'è un raffronto tra noi, tra quel che noi siamo ed ogni fatto,
  situazione e incontro nel il quale ci imbattiamo. Noi viviamo ordinariamente istituendo un paragone continuo tra noi
  e le cose, tra noi e la realtà, tra noi e tutto quel che ci circonda, dalle cose più banali a quelle
  più elevate e moralmente o spiritualmente nobili. Nell'attività del paragonare noi poniamo in
  relazione noi stessi con tutto quel che incontriamo e che ci viene incontro. E' dunque di grande importanza la
  posizione dell' 'Io', dell'identità, con la quale noi ci apprestiamo a stare di fronte ad ogni cosa, alla
  società, alla famiglia, al lavoro. La realtà nel suo insieme e nei suoi dettagli acquista un senso solo
  quando noi siamo in grado di comprenderne il nesso con noi stessi. Ci sono quindi due dimensioni del lavoro del
  paragone che si affaciano come decisive: la prima è quella che abbiamo già menzionato: qual'è
  l'identità, qual'è l'immagine e l'esperienza di noi stessi con la quale andiamo incontro alla
  realtà. La seconda sono i criteri di partenza con i quali definiamo il nesso tra noi e tutto il resto.
  Riguardo al primo punto ci dobbiamo chiedere da dove abbiamo mutuato e da cosa è definita la nostra
  identità e quindi se e come in essa sia entrata la esperienza e la Rivelazione che dell'uomo ci è data
  in Gesù Cristo e nell'appartenenza alla comunità di quelli che vivono di Lui. Riguardo al secondo punto
  dobbiamo chiederci qual'è il tipo di intelligenza e quindi di ragione di cui facciamo uso nell'istituzione
  incessante del paragone. In particolare ci domandiamo se tale ragione vive di un vincolo significativo con la nostra
  fede, oppure se è slegata e autonomizzata da essa. Chiamiamo 'giudicare' l'attività del paragonarsi
  e 'giudizio' l'esito del paragone in atto.
  L'identità cristiana può vivere ed essere esistenzialmente determinante solo nel caso che la fede
  diventi intelligenza, ragionevolezza e razionalità. «Lo stesso credere null'altro è che pensare
  assentendo. Chiunque crede pensa. La fede se non è pensata non è nulla» (FR §78) e in un
  altro passo così troviamo scritto: «Alla parresia [franchezza] della fede deve corrispondere l'audacia
  della ragione» (FR §48). La fede cristiana reca in sé una intelligenza profonda della realtà
  e in primo luogo della nostra realtà di uomini, dei misteri fondamentali della nostra vita. C'è dunque
  un "intelletto di fede" a partire dal quale noi possiamo portare il giudizio e comprende in maniera nuova ed
  originale dove c'è corrispondenza tra la verità di quel che siamo e dove invece c'è dissidio o
  contrasto aperto. La fede impegna la ragione in un lavoro continuo e irrinunciabile. Senza questo lavoro della
  ragione la fede stessa non può sopravvivere se non come residuato marginale e alla fine vuoto di contenuti
  esistenzialmente convincenti. Invece è proprio nel vaglio della corrispondenza che la fede si dimostra
  intelligente e come il fattore di maggiore promozione dell'umano nell'uomo. L'esercizio del giudizio diventa motivo
  di vitalità per la nostra fede e la nostra identità di cristiani ed è da questa esigito, non
  come facoltativo e accessorio, ma come necessario e fondamentale.
  
  b. Il secondo punto di risposta alla domanda su come si opera e si conferma il paragone, va a toccare la
  dimensione pubblica della nostra identità cristiana. La stessa nascita della nostra identità di
  cristiani è pubblica in quanto è comunionale. Lo sviluppo di essa va ad allargarsi ancora di più
  verso una socialità sempre più ampia.
  Quel che io riconosco come vero e come adeguato alla realtà del mio essere uomo non può restare
  qualcosa di puramente intimo e privato ed anzi chiede di essere partecipato a tutti. Il bene, il vero e il bello
  hanno in se stessi una natura autopartecipativa e perciò tendono a comunicarsi. E' naturale che quel che di
  positivo si riscontra nella propria esperienza diventi oggetto di proposta. Proprio seguendo questa
  inclinazione la identità cristiana tende a proporsi e il momento della proposta ad altri diviene anche un
  momento di inveramento della validità dei suoi contenuti propri.
  Non deve parer strano che si parli della necessità della proposta, mentre si sta riflettendo sulle
  modalità del paragone tra la propria identità e tutto il resto, perchè nel dare parte all'altro
  di quel che si è riconosciuto come vero, giusto e costruttivo nella propria vita, noi entriamo nel paragone
  con l'altro e non possiamo uscire da questo confronto nello stesso modo in cui ci siamo entrati: la proposta e
  l'annuncio richiedono di per se stessi un cambiamento, una purificazione e un'essenzialità che non possono
  essere attinte altrove. Quel che nell'esperienza cristiana mi si è presentato come vero, nel momento in cui lo
  presento ad un altro, che non conosce quell'esperienza e l'intelligenza del reale che essa porta con sé,
  innanzitutto io sono costretto per comunicarla a ripercorrerne i sentieri e i motivi, in secondo luogo sono obbligato
  a mostrarne l'evidenza di fronte a situazioni differenti con le quali io stesso potevo non aver ancora fatto i
  conti. Tutto questo arricchisce di nuove ragioni e di nuovi motivi le ragioni e i motivi iniziali. Per questo
  alla verità stessa del paragone è non solo utile, ma necessaria la verifica che sgorga dalla proposta.
  Si tratta di accogliere un'altra dimensione della sfida. Quella per cui ciò che nella vita concreta si
  è dimostrato vero per me, non può non esserlo anche per l'altro. Ma, finchè questo non si
  verifica, l'ammissione del valore universale e pubblico, della rilevanza sociale della mia identità cristiana
  e della mia esperienza di fede, resta una presupposizione che può anche rispondere a verità, ma che non
  è storicamente e soggettivamente comprovata. La proposta nasce dalla convinzione della rilevanza della fede
  cristiana per tutti gli uomini, infatti Cristo è venuto ed è morto e risuscitato «per
  tutti», ma si comprova di fatto nella sua capacità di messa in chiaro, di redenzione e di riscatto di
  ogni singola concreta persona e situazione. Non che la verifica storica renda vera una verità che
  altrimenti non lo sarebbe, ma nella coniugazione storica, potremmo dire, nell'incarnazione, si rende costatabile la
  potenza liberatrice della verità cristiana, già tutta presente nel mistero della vittoria di Cristo sul
  male e sulla morte.
  L'identità cristiana ci rende soggetti di storia e nel fare storia si manifesta il vigore umanisticamente e
  socialmente costruttivo della nostra fede. La proposta a tutti di quel che abbiamo scoperto e sperimentato è
  dunque parte integrante e inscindibile della verità della nostra identità.
  
  c. L'ultimo elemento necessario per la modalità cristiana del paragone è quello del confronto e
  della verifica sistematica con i fratelli a partire da un giudizio personale o comune e in vista di un giudizio
  comune più esteso e comprensivo dei multiformi aspetti delle diverse realtà con le quali si ha
  concretamente a che fare e che costituiscono la materia sulla quale il giudizio si esercita. La necessità di
  questo confronto metodico e sistematico con la comunità e, nella comunità, soprattutto con coloro che
  vivono le nostre stesse situazioni d'ambiente e di lavoro, ha la sua motivazione profonda nella radice comunionale
  della nostra stessa identità cristiana. Ovviamente questo confronto in vista di una verifica non solo non
  rimpiazza e non sostituisce il giudizio e la verifica personali, ma lo suppone come ineliminabile condizione previa.
  Siamo chiamati a vivere da uomini liberi e responsabili ogni situazione in prima persona e proprio questo divenire
  protagonisti nella propria vita richiede una maggiore coesione con la comunità.
  Qualora il confronto e la verifica insieme ad altri divengano una consuetudine e un metodo ordinario, allora la
  nostra stessa intelligenza degli avvenimenti e delle situazioni acquisirà un habitus comunionale e il giudizio
  che saremo in grado di portare su ogni cosa sarà arricchito anche della compresenza e dell'esperienza di tutti
  gli altri. Non si tratta però di una questione quantitativa, ma di una qualità del giudizio stesso e di
  una coscienza di non proporre solo se stessi, ma quel che un popolo intero vive, a partire dalla prima compagnia di
  quelli che stettero insieme a Gesù dopo che Egli stesso li aveva chiamati. Non essere soli nella formulazione
  del giudizio significa anche non essere soli nel farne una proposta socialmente rilevante, o anche solo nel parlarne
  ad un compagno di lavoro.
  Il confronto comunitario è quindi un luogo privilegiato che accresce e rende più vero il paragone che
  ciascuno è chiamato a svolgere nella sua irriducibile implicazione personale. Esso va ricercato, praticato e
  ordinato nella maniera più adeguata. In esso si verifica ulteriormente, cioè si vede se è vero,
  se risponde a verità il nostro modo di porci nell'ambito lavorativo. La verifica comunitaria si avvale della
  rispondenza che quel che ognuno vive trova nell'altro, oppure dell'incongruenza, la quale diviene motivo di ulteriore
  riflessione e comprensione per tutti.
Un popolo che abbia una identità, un uomo o un soggetto sociale che abbiano una
  identità, possono essere avversati e contrastati, ma non cancellati. L'identità possiede infatti una
  forza comunicativa e costruttiva che la rende più forte di qualsiasi fattore antagonista. Essa pesca in una
  memoria e si slancia in una progettualità che si trasmettono in una testimonianza e in un'opera che la rende
  capace di attraversare il tempo e la storia. Mi torna alla mente ora il monastero dedicato a san Michele Arcangelo,
  protettore di Kiev (Ucraina). Lo strapotere che ha dominato nei decenni precedenti il 1990 lo aveva raso al suolo,
  aveva schiantato le sue cupole, abbattuto i suoi pinnacoli, bruciato le sue icone e gran parte dei suoi mosaici
  dell'inizio del secondo millennio. L'impero e i suoi imperatori sono passati con la loro furia devastatrice, sembrava
  che l'identità cristiana di quel popolo dovesse scomparire. Invece è scomparso l'impero e i suoi
  reggitori, ma l'identità del popolo è rimasta ed ha ricostruito tutto quel che era stato barbaramente
  distrutto. Oggi le cupole d'oro del monastero di san Michele brillano al sole e la comunità dei monaci
  è tornata ad abitare tra le mura rialzate sulle antiche fondamenta. La stabilità dell'identità
  cristiana dà prova di sé nella costruttività e nell'intraprendenza operativa.
  Ogni forma politica ed anche economica reca in sé una traccia seppur minima di elementi totalitari o
  quantomeno di elementi tendenzialmente globalizzanti. I cristiani dispongono di una particolare sensibilità
  per riconoscerli e smascherarli, e questa è anche una parte del lavoro a cui siamo chiamati, un lavoro che
  ritorna a beneficio di tutta la società nella quale viviamo e alla quale apparteniamo. Ai cristiani
  è possibile questo monitoraggio proprio perchè nella loro identità è presente un
  fattore di totalità non totalitario ed anzi liberante. Resta pur sempre vero che al mondo risulterebbe
  più comoda una identità più debole, meno marcata, più funzionale e malleabile, più
  acconsenziente, compiacente e accondiscendente, insomma, più disponibile al compromesso. Ma, quand'anche
  nascosta in un punto recondito della coscienza di coloro che non sono cristiani, resta non di rado una convinzione
  quasi inconsapevole che la presenza cristiana salvi il mondo e loro stessi dalla possibilità di una ultima e
  irreversibile caduta (cfr.: Lettera a Diogneto).
[1] Etica del lavoro, tr. it., Bologna 1982, p. 23).
[2] Il costituirsi della cultura attraverso la "praxis" umana, in Perchè l'uomo, Milano 1995, p. 184.
[3] Il costituirsi della cultura attraverso la praxis umana, cit. p. 190.
[4] C. PEGUY, L'argent, 16 febbraio 1913.
[5] B.Perret : "L'avenir du travail. Les démocraties face au chômage", Paris 1995; P. DONATI, Pensiero sociale cristiano e società post-moderna, Roma 1997.
[6] C. ROMITI, Qualità del lavoro, dramma del non lavoro, in "Nuntium" 6(1998)21.
[7] Cfr. in proposito le pagine mirabili contenute nella Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II Evangelium vitae.
[8] Op. cit. pp. 182-183.