Mettiamo a disposizione il testo della relazione tenuta dal prof. Giancarlo Biguzzi il 7 novembre 2008 in
      occasione dell’inaugurazione della mostra La Bibbia a Roma organizzata dall’Ufficio
      catechistico della Diocesi di Roma, presso il Pontificio Seminario Romano Maggiore. In quella occasione il
      regista ed attore Francesco Brandi ha letto i testi dell’apostolo commentati dal prof. Biguzzi.
  Il catalogo della mostra sarà tra breve on-line su questo stesso sito. 
  Alcune immagini della mostra sono disponibili on-line al link Immagini 
  della mostra La Bibbia a Roma 
Il Centro culturale Gli scritti (24/11/2008)
      L’anno paolino sta suscitando grande interesse e grande fervore a tutti i livelli nella Chiesa Cattolica.
      Il motivo è che, per la concettosità dei suoi scritti e per le controversie con Lutero e i
      protestanti, Paolo è tra noi cattolici poco conosciuto e ora lo si vuole imparare a conoscere.
      Nella sua complessa personalità c’è anche qualche elemento di disturbo e di antipatia
      (è accusato di “egomania”, talvolta è focoso, mordace, sarcastico), ma nella storia
      cristiana, dopo Gesù, senza alcun dubbio Paolo è il numero due. Questa sera propongo a voi la sua
      figura come esemplare. È esemplare per il fatto di essere unitaria, - non miscellanea, eterogenea,
      raccogliticcia. Paolo ha avuto un centro attorno al quale ha saputo disporre i valori in gerarchia, e ha avuto
      una sorgente inesauribile da cui attingere per le battaglie della sua vita e per la sua vorticosa corsa
      apostolica.
    
*
      Joachim Jeremias, noto studioso tedesco del secolo scorso (+ 1979), in uno scritto brevissimo (= Per
      comprendere la teologia dell’apostolo Paolo, Brescia 1973) esprime in modo incisivo quella che è
      la convinzione comune, che cioè a spiegare Paolo, la sua opera e il suo pensiero, non sono né Tarso
      dove è nato, né Gerusalemme dove è stato educato alle Scritture, né Antiochia di
      Siria dove è stato coinvolto in modo decisivo nel movimento cristiano. Ma soltanto Damasco. Su tutte le
      componenti della personalità di Paolo (ellenismo di Tarso, giudaismo di Gerusalemme, chiesa primitiva di
      Antiochia di Siria), domina dunque l’evento di Damasco, solitamente detto ‘conversione’ ma che
      è meglio definibile come ‘vocazione’.
      Siamo informati su quello che accadde a Damasco: (a) dai tre racconti lucani in At 9,1-22 (narrazione dello
      scrittore, 22 versetti), At 22,6-21 (autodifesa di Paolo nell’episodio dell’arresto a Gerusalemme, 18
      versetti), At 26,9-18 (autodifesa di Paolo davanti al re Agrippa, 10 versetti); (b) - da testi che si trovano in
      lettere considerate di solito deutero-poaoline (Ef 3,1-12; 1Tm 1,12-16); (c) da brevissimi accenni dello stesso
      Paolo nelle sue lettere (1Cor 9,1ss; 15,8ss; Gal 1,15-16; Fil 3,12ss).
      Sono evidentemente questi testi i più illuminanti perché costituiscono una testimonianza diretta,
      anche se sono stati scritti almeno venti anni dopo i fatti. Sono però preziosi proprio perché il
      tempo che è intercorso tra i fatti e lo scritto ha condotto Paolo a una comprensione sempre più
      profonda dell’evento damasceno.
    
In 1Cor 8 Paolo scrive di essere pronto ad astenersi in eterno dal mangiare carne, per riguardo a qualsiasi fratello cristiano. Ma quella rinuncia alla libertà poteva essere facilmente criticata dagli avversari Corinzi che potevano obiettare: «Se non ha autorità e libertà, Paolo non è apostolo!». Paolo previene questa possibile obiezione con quattro domande retoriche (1Cor 9,1), tutte introdotte da particelle interrogative che lasciano in attesa di una riposta affermativa:
      Nel contesto seguente poi Paolo rivendica con molti argomenti di avere i diritti dell’apostolo: (i) Ogni
      lavoratore (soldato, vignaiolo, pastore, aratore, trebbiatore) vive del suo lavoro; (ii) Anche la Legge mosaica
      chiede che il bue possa mangiare del suo lavoro (Deut 25,4), per cui a fortiori l’apostolo ha quel
      diritto; (iii) Il Signore stesso ha detto che chi annuncia il Vangelo, da quell’annuncio ha diritto di
      trarre il sostentamento.
      Paolo poi fornisce i motivi per cui non si avvale di quel diritto: perché egli non vuole porre
      ostacoli al Vangelo, e perché annuncia il Vangelo non di sua volontà ma, come gli antichi profeti
      (Amos 3,8; Ger 1,6; 20,7-9), per necessità: perché non può resistere o sottrarsi
      all’azione di Dio in lui.
      In 1Cor 9 l’episodio di Damasco è fondamento dell’apostolicità di Paolo ed è
      l’investitura apostolica di Paolo e la sua opera missionaria ne è la comprova. Paolo dunque pensava
      l’evento di Damasco più in chiave di chiamata al ministero apostolico che di conversione.
    
      Il problema che Paolo discuterà sino alla fine del lungo capitolo XV della Prima lettera ai Corinzi
      è esposto in 15,12: «Se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire
      alcuni tra voi che non esiste resurrezione dei morti?». Infatti come gli altri apostoli, così anche
      Paolo («Sia io che loro, così predichiamo», 15,11) annuncia un Vangelo incentrato su
      Morte-Sepoltura di Gesù e Resurrezione-Apparizioni (1Cor 15,3-3-8).
      Per noi è importante il fatto che nell’elenco dei destinatari delle apparizioni del Risorto, Paolo
      mette anche se stesso: «… apparve (i) a Kefa- Pietro, e (ii) ai Dodici; in seguito apparve (iii) a
      più di 500 fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti;
      inoltre apparve (iv) a Giacomo, e quindi (v) a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me (= vi),
      come a un aborto». Anche qui l’evento di Damasco è per Paolo investitura apostolica,
      nonostante che egli occupi l’ultimo posto nell’elenco dei destinatari delle apparizioni, anzi
      nonostante sia indegno di quel titolo perché ha perseguitato la Chiesa (15, 11).
      In 1Cor 15 l’evento di Damasco più che visione è apparizione (Paolo è passivo, mentre
      in 1Cor 9 era attivo: «Io ho visto il Signore»). La cristofania è fondamento
      dell’apostolicità e - elemento nuovo che si trova nei versetti seguenti - è
      “grazia” (v. 10a: «Per grazia di Dio sono quello che sono e la sua grazia in me non è
      stata vana»): è l’iniziativa gratuita e misericordiosa di Dio che da un persecutore trae un
      apostolo travolgente. Quella grazia lo ha lanciato in un impegno apostolico senza pari: proprio il feto abortivo,
      in virtù della grazia che ha ricevuto e assecondato, è colui che per il Vangelo si è
      affaticato più di tutti (15,10).
    
      Secondo le accuse dei suoi avversari Paolo predicherebbe la libertà per i pagani dalla Legge mosaica
      “per piacere agli uomini”: «È forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o
      non piuttosto quello di Dio? [Come è possibile pensare che] io cerchi di piacere agli uomini? Se
      ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo!» (Gal 1,10).
      Nella sua replica Paolo anzitutto nega di avere facilitato e addomesticato il Vangelo («il Vangelo da me
      annunziato non è secondo l’uomo [= addomesticato perché piaccia all’uomo]», v.
      11). Poi nega di avere ricevuto il Vangelo da uomini, e cioè dalla catechesi di qualche apostolo o di
      qualche comunità (v. 12a). Prima di Damasco infatti era accanito persecutore della Chiesa (vv. 13-14), e
      quindi di certo non era catecumeno. Dopo Damasco si è recato in Arabia senza salire a Gerusalemme per
      incontrare gli Apostoli (vv. 16b-17). Egli invece ha ricevuto il Vangelo “per rivelazione, -
      di’apokalypseōs” (a Dio «è piaciuto rivelarmi il suo Figlio»).
      A questo scopo Dio lo ha selezionato «fin dal seno della madre» e lo ha «chiamato per
      grazia». Il tema della vocazione, quindi, qui è esplicito. Tutto questo in vista dell’annuncio
      aipagani. In Gal 2,7-8 Paolo espliciterà il carattere particolare di questa sua missione
      mettendo a confronto il suo mandato ai gentili con quello di Pietro ai circoncisi.
      In Gal 1 l’evento di Damasco è “apocalisse” o “rivelazione” a Paolo del
      Figlio, quale centro assoluto della storia salvifica (Gal 1,16a). È “apocalisse” o
      “rivelazione” dell’Evangelo o buona notizia che riguarda Gesù, e che Paolo ha ricevuto
      non dagli uomini ma direttamente da Dio (v. 12). Poi, è chiamata all’apostolato totalmente gratuita
      (v. 15b) e in nulla meritata. È chiamata all’apostolato dei pagani, come quella di Pietro è
      chiamata all’apostolato dei circoncisi (2,8). È chiamata profetica perché descritta con le
      parole della vocazione di Geremia (Ger 1,5: «Prima di formarti nel seno materno ti conoscevo… ti ho
      stabilito profeta delle nazioni»), o, ancora più, con le parole della vocazione del Servo di Adonay
      (Is 49,1: «Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunciato
      ecc.»).
    
      Nella serena lettera ai Filippesi che è la lettera della gioia (cf. le 15 ricorrenze di
      “gioia”, e “gioire”), il cap. 3 è, invece, duramente polemico contro missionari
      probabilmente cristiani, sostenitori della circoncisione. Nella replica contro di loro Paolo inserisce due
      allusioni a Damasco: nel v. 3,7 e nel v. 3,12.
      La prima volta Paolo si confronta con il loro vanto: «Se qualcuno ritiene di potere confidare nella carne,
      io più di lui» (3,4). Paolo allora elenca prima tre motivi di vanto «nella carne»
      ereditati dalla nascita, e poi tre motivi di vanto conquistati personalmente: egli è
    
      All’inizio del v. 7 c’è un «ma» che segna la svolta del ragionamento e che
      introduce la prima allusione all’evento di Damasco: «… ma quello che poteva essere per
      me un guadagno l’ho considerato una perdita, a motivo di Cristo». Quel rovesciamento di valori
      è avvenuto a Damasco. La contrapposizione di guadagno e di perdita dice che a Damasco si è operato
      un capovolgimento di giudizio circa i privilegi storici e morali del giudaismo.
      Passando a parlare del presente, Paolo conferma quella mutazione di prospettiva e la rafforza dicendo di
      considerare come perdita e sterco non solo i privilegi del giudaismo, ma “ogni cosa”,
      di fronte alla conoscenza superiore o sublime di Gesù Cristo (v. 8). Lasciando perdere ogni altro valore,
      ora Paolo cerca di conquistare il Cristo, di esperimentare la potenza della sua resurrezione, e la comunione alle
      sue sofferenze «con la speranza di giungere alla resurrezione dai morti».
      Con queste parole Paolo è passato a parlare del futuro, ed è passato al secondo confronto coi suoi
      avversari. Sembra che dal testo di Filippesi si possa ricavare che essi si consideravano già
      perfetti, pienamente salvati e partecipi della resurrezione di Cristo. Paolo, servendosi dell’immagine
      della corsa nello stadio, dice di sé invece di essere ancora impegnato nella corsa: «Non però
      che io abbia già conquistato il premio o che sia oramai arrivato alla perfezione. Solo mi sforzo di
      correre per conquistarlo». E aggiunge il secondo riferimento a Damasco scrivendo:
      «…perché anch’io sono stato conquistato dal Cristo» (v. 12).
      In Fil 3 Damasco per Paolo in qualche modo, se si vuole, è conversione, perché è
      capovolgimento di valori e di scelte morali. Per questo i Filippesi, che possono essere disorientati da un
      insegnamento nuovo e da modelli di vita sbagliati come quelli introdotti dagli avversari di Paolo, hanno un
      esempio nell’Apostolo. Egli infatti sente il bisogno di invitarli alla sua imitazione: «Fratelli,
      fatevi miei imitatori, e guardate a quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi» (v.
      17). Il cambiamento di vita in Paolo è avvenuto a motivo del Cristo (v. 7) e a motivo della
      sublimità della conoscenza di Gesù Cristo (v. 8). L’espressione significa
      probabilmente, come in Gal 1, la rivelazione del Cristo a Paolo per apocalisse. Dunque, Damasco è
      conoscenza (data gratuitamente e poi lentamente assimilata) del Cristo quale valore assoluto che relativizza i
      privilegi di Israele e tutto. Per Paolo l’evento di Damasco significa infine essere stato afferrato e
      conquistato dal Cristo, per cui ora, a sua volta, egli cerca di conquistare lui e la resurrezione.
    
      La ricchezza spirituale e storica dell’evento di Damasco è evidente anche dal linguaggio (o dai
      linguaggi, al plurale) cui Paolo ricorre per parlarne. Di volta in volta Paolo utilizza il linguaggio della
      vocazione profetica, delle teofanie, dell’apocalisse o rivelazione escatologica, della conquista militare o
      della vittoria sportiva, della conversione o cambiamento nella scala dei valori.
      Nei testi di Paolo l’insistenza sulla conversione morale, in ogni caso, non è così forte come
      nella nostra catechesi, nell’iconografia paolina, e come al 25 gennaio del nostro calendario liturgico. A
      Damasco Paolo non è un peccatore che ritrova i sentieri del bene: di sé stesso lui diceva infatti:
      «Quanto alla giustizia, quella che viene dalla Legge, [io sono] irreprensibile!» (Fil 3,6). Non
      è neanche una conversione da una religione a un’altra, perché Paolo considera Damasco come il
      momento in cui la sua fede di israelita giunge a maturazione e pienezza: si sente giudeo che fa il passo oramai
      necessario ad ogni giudeo. Tutt’al più, più che al cristianesimo Paolo si convertì
      dalla Legge mosaica al Cristo. Più che un convertito, Paolo fu un chiamato. E fu cercato da Dio
      più di quanto egli cercasse.
      L’Apostolo scrive a distanza di circa 20-25 anni, e questo dice come anche a distanza di decenni
      l’incontro di Damasco fosse la sua stella polare, sia per capire sé stesso, sia per perseverare tra
      le difficoltà innumerevoli della sua corsa apostolica. Quello di Damasco fu l’evento che divise la
      vita di Paolo in due. Paolo stesso parla di quello che era prima e di quello che fu poi: dunque Damasco ha una
      assoluta centralità nella esistenza e nella teologia di Paolo. Davvero, dunque, la personalità di
      Paolo, il suo pensiero, le sue lettere, la sua travolgente corsa apostolica per tutta la mezzaluna mediterranea
      (voleva andare in Spagna, Rom 15,24.28)… si spiegano non a partire dal luogo di nascita, né dagli
      studi fatti alla scuola di un grande maestro del giudaismo, né dalla catechesi ricevuta dalle fervorose
      comunità delle origini, ma dall’incontro con Gesù Risorto. Un solo giorno ha segnato,
      illuminato e determinato tutta una esistenza.
      Sempre di nuovo Paolo tornava all’evento di Damasco come alla segreta sorgente del suo apostolato e della
      sua perseveranza in mezzo alle difficoltà apostoliche e personali, egli che scrive: «battaglie
      all’esterno, timori al di dentro»! (2Cor 7,5). Si richiama a Damasco quando lo criticano a Corinto e
      in Galazia, quando a Filippi qualcuno è subentrato a rovinare il suo lavoro apostolico, e quando qualcuno
      si vanta di titoli umani e di grandezze non vere. E soprattutto si richiama a Damasco quando gli vogliono negare
      il titolo di apostolo. Damasco è la sua risorsa inesauribile per superare scoraggiamenti, incomprensioni,
      ostilità, debolezze ecc. e per rilanciare sé stesso nell’annuncio evangelico, nella
      fondazione di Chiese là dove il vangelo non era stato ancora annunciato (Rom 15,20), per lanciarsi alla
      conquista perfino dell’estremo occidente della Spagna…
      Il pudore con cui Paolo custodiva questo suo personalissimo segreto, il riserbo e la discrezione con cui ne
      parlava quando era costretto a farlo, non precludono a noi la possibilità di gettare lo sguardo su
      quell’evento spirituale che ha lasciato un segno profondo nella storia cristiana e delle religioni. Ed
      è allora difficile non sentirci invitati a tornare anche noi, sempre di nuovo, con il pensiero e con la
      preghiera, alla nostra vocazione, qualunque essa sia, come alla sorgente della forza e della luce di cui abbiamo
      bisogno nella battaglia della vita e del servizio al Vangelo. La nostra chiamata diventa allora anche per noi
      sorgente di giovinezza e di generosità, si conferma come baricentro della nostra vita, e come il punto di
      Archimede poggiando sul quale possiamo sollevare almeno il piccolo mondo in cui ci troviamo a vivere.
    
      Il prof. Biguzzi si è poi soffermato su quella che ha chiamato la “geografia apostolica di
      Paolo”. Paolo si è recato subito, dopo l’incontro con il Cristo risorto, in Arabia. Il
      riferimento va, forse, ad Is 60, ai versetti nei quali il profeta parla dei nabatei, di coloro che abitavano i
      territori circostanti Petra. Essi sono citati dal passo di Isaia prima delle navi di Tarsis, in un contesto nel
      quale si fa riferimento a Madian, a Efa ed a Kedar. Paolo si potrebbe essere recato in quelle regioni per
      annunciarvi il vangelo, in obbedienza all’antica profezia.
      Ma, una volta incontrate con ogni probabilità in Arabia le prime difficoltà, si rivolse verso
      occidente, inviato da Antiochia come secondo rispetto a Barnaba, che deteneva la suprema responsabilità
      della missione. L’evangelista Luca, negli Atti, improvvisamente però inverte i due nomi e parla di
      Paolo e dei “suoi accompagnatori”. Evidentemente la leadership era passata da Barnaba a Paolo (At
      13,13). In questo primo viaggio apostolico, comunque, Paolo visitò ed evangelizzò quello che si
      potrebbe chiamare l’ “occidente minore”, cioè centri di secondaria importanza, alcuni
      addirittura insignificanti.
      È a partire dal secondo viaggio apostolico che Paolo si rivolse alle metropoli, alle capitali della
      provincia. Egli sceglieva alcune città e tutto lascia ritenere che, in esse, egli abbia attuato quella che
      si può ben chiamare una strategia “della primizia”: sceglieva cioè alcune persone
      capaci, a loro volta, di continuare l’evangelizzazione in altre città e regioni. Proprio con il
      titolo di “primizia”, rispettivamente dell’Asia e dell’Acaia, vengono salutati Epeneto
      (Rm 16,5) e la famiglia di Stefana (1Cor 16,15). Piantata la primizia, Paolo poteva essere certo che sarebbe
      arrivato anche il resto del raccolto.
      È nota, a questo riguardo, la vicenda di Colosse, Gerapoli e Laodicea, che Paolo non visitò mai,
      pur scrivendo delle lettere a quelle comunità. In quelle città si era, però, recato Epafra,
      che aveva ricevuto il vangelo da Paolo stesso. Similmente si può fare riferimento alle “case”
      di Ninfa o di Filemone (Col 4,15 e Flm 2), evidentemente luoghi di incontro della comunità e di annunzio
      del Cristo. Viene in mente il riferimento al vangelo di Marco, dove l’evangelista parla del contadino che
      può andare tranquillamente a dormire, perché, conoscendo bene il proprio mestiere, sa che il seme
      crescerà e porterà frutto.
      Paolo arriverà a scrivere di “aver finito”, avendo evangelizzato “a cerchio” da
      Gerusalemme fino all’Illirico (l’odierna Albania), non trovando così più spazio
      apostolico (Rm 15,19); egli aveva cioè piantato ovunque la primizia ed il vangelo poteva ormai compiere la
      sua corsa anche nei luoghi circostanti.
      L’apostolo si pose in mente, allora, di raggiungere la Spagna; la penisola iberica è nominata due
      volte nella finale della lettera ai Romani (Rm 15,24 e 15,28). Non sappiamo se vi sia giunto (un recente convegno
      si è svolto in Spagna, precisamente a Tarragona, per cercare, ovviamente, di dimostrare che
      l’obiettivo era stato raggiunto).
      Da Roma Paolo si aspettava probabilmente degli aiuti in denaro ed un traduttore per portare a compimento con
      efficacia la predicazione del vangelo fino all’estremo occidente. Si potrebbe ricordare qui un’antica
      espressione che recita: “gli altri vagavano, egli progrediva”! Viene spontanea la domanda: se avesse
      raggiunto la Spagna cosa avrebbe fatto poi? Forse, si può ipotizzare sulla linea del suo comportamento
      precedente, che si sarebbe recato ad evangelizzare l’Africa del nord.
      Tutta questa fatica di evangelizzazione l’apostolo la sintetizza con l’espressione di Rm 15,16:
      “essere liturgo del Cristo fra le genti”. Egli sapeva di adempiere il “servizio sacro”,
      portando l’annunzio cristiano, perché “le genti potessero diventare un’offerta gradita a
      Dio”.
      Il prof. Biguzzi ha ancora paragonato la centralità del rapporto con Cristo nella vita di Paolo
      all’espressione che Francesco d’Assisi utilizzerà per descrivere la propria fede: essa
      è pubblica, ma, al contempo, è custodita con grande pudore: “Secretum meum mihi”. Paolo
      torna sempre ad attingere a quella fonte, quando ha un problema. Più volte accenna, come si è
      visto, all’incontro sulla via di Damasco ma senza mai descriverlo compiutamente.
      Riprendendo, allora, in estrema sintesi l’itinerario percorso nella sua relazione il prof. Biguzzi è
      tornato all’affermazione iniziale: Paolo ha una personalità complessa, ma non raccogliticcia. Egli
      ha piuttosto un centro che gli è servito per mettere in un ordine gerarchico tutti gli altri valori.
      L’incontro di Damasco – Paolo vi ritornerà fisicamente dopo l’Arabia, ma vi ritorna
      continuamente nello spirito – è veramente la chiave per comprendere la sua vita.
    
 I. La figura di Paolo nell’anno paolino
  
  La felice intuizione di indire un anno paolino.
  La complessa personalità di Paolo:
  qualche elemento di disturbo ma grande, imprescindibile protagonista.
  Figura esemplare perché unitaria:
  Paolo ha avuto un centro e attorno a quel centro ha disposto i valori in gerarchia. 
 II. Paolo a Damasco, Paolo e damasco
  
  A spiegare Paolo non sono né Tarso, né Gerusalemme, né 
  Antiochia di Siria
  ma soltanto Damasco, con la cristofania.
  Fonti per l’evento di Damasco (At 9; 22; 26; Ef 3,1-12; 1Tm 1,12-16)
  ma poi soprattutto le sue lettere: cf. 1Cor 9,1ss; 15,8ss; Gal 1,15-16; Fil 
  3,12ss
 III. Secretum meum mihi: Paolo e la sua sorgente segreta
  
  (1) In 1Cor 9,1
  L’episodio di Damasco è visione del Risorto
  e, come tale, è fondamento dell’apostolicità di Paolo.
  
  (2) In 1Cor 15,3-8
  L’evento di Damasco è apparizione del Risorto.
  La cristofania è fondamento dell’apostolicità,
  ed è “grazia”, iniziativa gratuita e misericordiosa di Dio
  che da un persecutore trae un apostolo travolgente.
  
  (3) In Galati 1,11-16
  L’evento di Damasco è “apocalisse” o “rivelazione” 
  del Figlio
  quale centro assoluto della storia salvifica (Gal 1,16a).
  È dunque “apocalisse” o “rivelazione” dell’Evangelo 
  o buona notizia
  che Paolo ha ricevuto non dagli uomini ma direttamente da Dio.
  È chiamata profetica perché descritta con le parole bibliche di 
  vocazione
  È chiamata all’apostolato delle genti.
  
  (4) In Filippesi 3,2-14
  Damasco è conversione, perché capovolgimento di valori,
  perché sublime conoscenza di Gesù Cristo.
  Per Paolo è poi essere stato afferrato e conquistato dal Cristo
  per cui ora, a sua volta, egli cerca di conquistare lui e la potenza della sua 
  resurrezione.
  
  (5) Sintesi
  Conversione? ed, eventualmente, da che cosa a che cosa?
  L’evento che divise la vita di Paolo in due:
  sempre di nuovo Paolo tornava all’evento di Damasco
  come alla segreta sorgente del suo apostolato e della sua perseveranza .
  Il pudore con cui Paolo custodiva questo suo personalissimo segreto
  e l’invito a noi, a tornare sempre di nuovo alla nostra vocazione.
 IV. La geografia apostolica di Paolo
  
  «Chiamato [a essere] apostolo» (Rm 1,1; 1Cor 1,1) «delle genti» 
  (Rm 11,13)
  Prima scelta apostolica: l’Arabia, a sud est di Gerusalemme
  Seconda scelta: l’occidente (Cipro e altopiano anatolico) con Barnaba
  Terza scelta: la primizia (Rm 16,5; 1Cor 16,15) nelle metropoli egee
  Tappa a Roma, con meta la Spagna
  «perché le genti divengano una offerta gradita» (Rm 15,16).