Il Mosè di Michelangelo e la “tragedia della sepoltura”: la tomba di Giulio II e le sue vicende, dalla basilica di San Pietro in Vaticano a San Pietro in Vincoli
di Andrea Lonardo

Riprendiamo on-line la presentazione della tomba di Giulio II scritta da Andrea Lonardo per l’incontro del Corso sulla Storia della Chiesa di Roma tenutosi il 12/1/2008 presso la basilica di San Pietro in Vincoli. Per una presentazione dell’intera basilica e della figura di Pietro, vedi San Pietro in Vincoli: Pietro e Roma (e le due lettere neotestamentarie di Pietro) di Andrea Lonardo e Marco Valenti, su questo stesso sito.

Il Centro culturale Gli scritti (22/5/2008)


La tomba di Giulio II è l’opera d’arte meritatamente più nota della basilica di San Pietro in Vincoli. Parlare di questa tomba vuol dire parlare di che cos’è il rinascimento italiano, di che cos’è la riforma cattolica e la controriforma, di chi è Michelangelo, vuol dire dare un giudizio su cinquant’anni di storia della chiesa. Chiaramente questo è impossibile in poche battute; la pretesa è quella di dire qualcosa che sia utile ad orientarsi. La nostra analisi si distanzierà sensibilmente da studi che vanno per la maggiore, che comunque saranno tenuti presenti. Questo breve scritto è, soprattutto, un invito a contemplare l’opera nella sua bellezza, dopo aver ascoltato qualcosa della sua storia e della sua iconografia.

Innanzitutto le date. Giulio II (1503-1513) chiama Michelangelo a lavorare alla sua tomba nel 1505. Michelangelo è ancora molto giovane. Ha già realizzato due opere straordinarie che sono la Pietà (terminata nel 1499, realizzata all’età di 23 anni circa) ed il David (terminato nel 1504).

L’opera si presenta a noi, invece, come venne terminata nel 1545, cioè 40 anni dopo. Nel frattempo Michelangelo ha dipinto la volta della Sistina (1508-1512) su incarico sempre di Giulio II (che muore nel 1513), ha lavorato alle Tombe medicee ed alla sacrestia Nuova di San Lorenzo in Firenze (1520-1534)[1], ha dipinto il Giudizio universale della Cappella Sistina (1535-1541) su incarico di papa Paolo III, solo per citare alcune delle opere più importanti.

Mentre termina la tomba di Giulio II è contemporaneamente impegnato negli affreschi della Cappella Paolina (1542-1550) ed, immediatamente dopo, diverrà (ufficialmente dal gennaio del 1547) il responsabile della Fabbrica di San Pietro in Vaticano alla quale lavorerà fino alla morte, riuscendo a vedere ormai anziano la costruzione del tiburio della cupola, ma non ancora della cupola stessa della quale realizzerà solo un grande modello ligneo.

Perché quarant’anni per giungere a questa opera? Procediamo passo passo. Giulio II, dunque, chiama da Firenze Michelangelo, che ha circa 29 anni, a costruire la sua tomba. Lo scultore propone al papa un disegno che viene subito accettato.

Per immaginare come doveva essere il disegno originario non abbiamo che da guardare l’opera che abbiamo davanti. È il Vasari, nelle sue Vite, a darci questo suggerimento. Immaginiamo che questa sia il lato corto della tomba e che dove ora è il Mosè vi sia invece una apertura che da accesso ad una camera interna dove è collocata la tomba del papa. Dove sono le quattro erme, immaginiamo quattro Prigioni a figura intera -Michelangelo ne scolpì due che sono ora al Louvre e quattro che sono a Firenze, nelle Gallerie dell’Accademia- e dove sono le due statue femminili due Vittorie –ne fu scolpita una che ora è a Palazzo Vecchio. Il Mosè doveva essere collocato in uno degli angoli, immaginiamolo al posto del Profeta che è al secondo livello, ed all’altro angolo doveva esser posta una statua di analoga grandezza raffigurante San Paolo. La tomba sarebbe stata non a parete, come è ora, ma a camera, quindi con due lati lunghi una volta e mezzo quello che ci è dinanzi,e, posteriormente, una seconda facciata simile a questa, con lo stesso corredo di statue. Papa Giulio II, che vedete sotto la Madonna in alto, sarebbe stato scolpito in alto a questa costruzione. Torneremo subito sul significato di queste immagini; ciò che è importante è, per ora, averle dinanzi a noi con la fantasia.

Così Vasari descrive questa facciata come la vide, e come noi la vediamo, paragonandola al suo disegno originario[2]:

[Michelagnolo] messe su il primo imbasamento intagliato con quattro piedistalli che risaltavano in fuori tanto, quanto prima vi doveva stare un prigione per ciascuno, che in quel cambio vi restava una figura di un termine; e perché da basso veniva povero, aveva per ciascun termine messo a piedi una mensola che posava a rovescio in su que’ quattro piedistalli. I termini mettevano in mezzo tre nicchie, due delle quali erano tonde dalle bande e vi dovevano andare le Vittorie, in cambio delle quali in una messe Lia figliuola di Laban per la Vita attiva, con uno specchio in mano per la considerazione che si deve avere per le azioni nostre, e nell’altra una grillanda di fiori per le virtù che ornano la vita nostra in vita e dopo la morte la fanno gloriosa. L’altra fu Rachel sua sorella per la Vita contemplativa con le mani giunte, con un ginocchio piegato, e col volto par che stia elevata in ispirito: le quali statue condusse di sua mano Michelagnolo in meno di un anno. Nel mezzo è l’altra nicchia, ma quadra, che questa doveva essere nel primo disegno una delle
porte che entravano nel tempietto ovato della sepoltura quadrata. Questa essendo diventata nicchia, vi è posto in su un dado di marmo la grandissima e bellissima statua di Moisè.

La storia della tomba di Giulio II si lega, come è noto, a quella della basilica di San Pietro in Vaticano, divenendo un tutt’uno con essa. Michelangelo stesso propose, infatti, al papa, per creare un luogo adatto ad erigere la tomba, di riprendere il progetto già elaborato –ed iniziato- da Bernardo Rossellino di prolungare la navata centrale dell’antica basilica costantiniana, in modo da realizzare un coro dietro l’altare maggiore eretto sulla tomba di Pietro.

Così Ascanio Condivi, allievo di Michelangelo e suo antico biografo, ci racconta nella sua Vita di Michelagnolo Buonarroti, scritta nel 1553 (Michelangelo sarebbe morto undici anni dopo, nel 1564)[3]:

Visto questo disegno, il Papa mandò Michelagnolo in San Pietro a veder dove comodamente si potesse collocare. Era la forma della Chiesa allora a modo d’una croce, in capo della quale Papa Nicola V aveva cominciato a tirar sù la tribuna di nuovo: e gia era venuta sopra terra, quando morì, all’altezza di tre braccia. Parve a Michelagnolo, che tal luogo fosse molto a proposito: e tornato al Papa gli spose il suo parere, aggiungendo, che se così paresse a Sua Santità, era necessario tirar su la fabbrica e coprirla. II Papa l'adomandò: Che spesa sarebbe questa? A cui Michelagnolo rispose: Centomila scudi. Sien -disse Giulio- ducento milia. E mandando il Sangallo architettore e Bramante a vedere il luogo, in tai maneggi venne voglia al Papa di far tutta la Chiesa di nuovo. Ed avendo fatti fare più disegni, quel di Bramante fu accettato, come più vago e meglio inteso delli altri. Cosi Michelagnolo venne ad esser cagione e che quella parte della fabbrica già cominciata si finisse (che se ciò stato non fusse, forse ancora starebbe come ell'era) e che venisse voglia al papa di rinovare il resto, con nuovo e più bello e più magno disegno.

Cerchiamo di capire meglio il racconto del Condivi. La chiesa a modo d’una croce è l’antica basilica costantiniana. Nicola V è papa Niccolò V, il pontefice che dette slancio al rinascimento in Roma, che nel 1441 aveva dato incarico a Bernardo Rossellino di creare un coro al posto dell’antica abside della basilica vaticana; ricorderete che il Rossellino riuscì a realizzare solo le fondamenta e l’alzato di tre braccia della nuova opera, senza intaccare ancora la struttura della basilica costantiniana. L’intenzione iniziale di Michelangelo, accolta da Giulio II, era quella di mantenere intatta la struttura di San Pietro e di limitarsi (si fa per dire) alla realizzazione del coro, secondo lo schema del Rosselino, per porre la tomba del papa nel nuovo spazio che si sarebbe così realizzato alle spalle della tomba di Pietro e dell’altare maggiore.

Giulio II allora, mentre Michelangelo era a Carrara per far cavare i marmi adatti alla sepoltura, si rivolse nello stesso anno a Sangallo architettore e Bramante per la costruzione del nuovo coro. Ma, come dicevamo, siamo nel pieno della stagione rinascimentale ed ogni artista –ed i mecenati con loro- si esprime nel nuovo stile che si richiama all’antico, sostituendo, ove possibile, ciò che ha un sapore medioevale.

Un autore del tempo, Egidio da Viterbo, ci informa[4] che Bramante subito cercò di coinvolgere il pontefice non semplicemente nell’allargamento del coro, ma in un rifacimento totale della basilica vaticana, proponendo all’inizio, addirittura, una traslazione dell’asse della basilica perché essa si aprisse con il suo nuovo ingresso davanti l’obelisco che allora non era ancora davanti alla basilica, bensì sull’attuale fianco sinistro. Giulio II rispose, sempre secondo Egidio da Viterbo, che nihil ex vetere templi situ inverti, niente doveva essere invertito nella sistemazione del sito, perché “non sta scritto: la tomba [di Pietro] sia posta nel tempio, bensì il tempio sia posto intorno alla tomba [di Pietro]”.

Bramante riuscì, però, a conquistare Giulio II all’idea che non si trattasse tanto di allargare il coro della basilica per porvi la propria tomba, quanto piuttosto di porre mano ad un totale rifacimento dell’intera costruzione. Questa decisione fu l’inizio di quella che il Condivi chiama la “tragedia della Sepoltura”, cioè il dramma, agli occhi di Michelangelo, dei continui ridimensionamenti del progetto originario della tomba di Giulio II, con i conseguenti rinvii della sua realizzazione.

Giulio II decise, infatti, contestualmente all’approvazione del progetto bramantesco di riedificare l’intera basilica, di tagliare i fondi per la propria tomba per impiegare tutte le forze nella realizzazione della nuova San Pietro. Michelangelo vide così il fallimento del suo primo progetto della tomba e decise la fuga da Roma il 17 aprile del 1506; il giorno successivo, il 18 aprile, Giulio II scendeva nella fossa preparata da Bramante per porre la prima pietra della nuova basilica.

Così il progetto michelangiolesco della sepoltura fu la causa per la quale si diede inizio al progetto di un totale rinnovamento di San Pietro, ma quest’ultimo fu, a sua volta, il motivo della “tragedia della Sepoltura”, la causa dell’arenarsi del progetto della tomba.

Giulio II riuscì, comunque, a riconciliarsi presto con Michelangelo e a riaverlo con sé. Lo scultore, infatti, accolse infine i nuovi lavori che il pontefice gli propose, realizzando prima una statua bronzea per Bologna (il Giulio II, appunto, ora scomparso), poi affrescando la volta della Sistina con le storie della Genesi (1508-1512).

Per due motivi la volta della Sistina è così anch’essa legata alla storia della sepoltura di Giulio II. In primo luogo perché la richiesta di quegli affreschi da parte di Giulio II fu un modo per compensare la sospensione del progetto della tomba (il Condivi racconta che l’idea di proporre un così difficile lavoro pittorico a Michelangelo venisse suggerita a Giulio II da Bramante e dalla sua cerchia che speravano di vedere fallire Michelangelo in questo compito a cui non era preparato come per il lavoro di scultore).

Ma il secondo motivo è ancora più intrinseco. Molte delle figure affrescate nella volta della Sistina rappresentano la riproduzione in pittura degli studi che Michelangelo aveva già realizzato in vista della loro traduzione in scultura per la tomba del pontefice[5]. A loro volta, queste realizzazioni in affresco rappresenteranno un punto di riferimento quando Michelangelo tornerà a misurarsi con il progetto della tomba.

Questo avvenne dopo la morte di Giulio II avvenuta nel 1513, quando Michelangelo fu chiamato nuovamente a lavorare alla sepoltura del pontefice che si era resa necessaria. Lo scultore riuscì effettivamente a realizzare per essa (1513-1515), senza ultimarle completamente, le prime statue, cioè alcuni Prigioni, una Vittoria ed il Mosè.

T.Verdon, nel suo Michelangelo teologo[6], sottolinea come queste opere si richiamino a dei temi iconografici già presenti negli artisti che lavorarono per Sisto IV, ma che questi furono, al contempo, radicalmente rielaborati. I Prigioni, infatti –fa testo già il Condivi- rappresentano le Arti liberali (fra le quali la Pittura, la Scultura, l’Architettura) “imprigionate nella morte a causa della scomparsa del loro brillante promotore Giulio II”[7]. Nella tomba di Sisto IV, opera del Pollaiolo, le singole Arti erano rappresentate da figure femminili ognuna con i propri attributi specifici (ad esempio la Musica è rappresentata mentre suona un organo a canne).

Nei Prigioni di Michelangelo lo stesso tema è radicalmente reinterpretato. Infatti, solo il corpo umano, nella sua nudità, senza ulteriori simboli che caratterizzino le singole arti, esprime tutta la tensione della vita e, con essa, la fatica e la ricerca di armonia della creatività umana[8].

Le sei statue dei Prigioni che si sono conservate (due, come si è detto, al Louvre e quattro alle Gallerie dell’Accademia di Firenze) manifestano con potenza tutto questo.

Anche la grande vicenda veterotestamentaria di Mosè era stata valorizzata in chiave iconografica durante il pontificato di Sisto IV, primo papa della famiglia della Rovere. Mosè era stato scelto allora per rappresentare, in forma tipologica, l’Antica Alleanza che prefigura la Nuova negli affreschi delle pareti laterali della Sistina (solo per fare un esempio, si contrappongono e si richiamano simmetricamente l’Osservanza dell’antica rigenerazione da parte di Mosè con la circoncisione del Perugino e Pinturicchio e degli stessi l’Istituzione della nuova rigenerazione attraverso il battesimo; per i parallelismi degli affreschi quattrocenteschi della Sistina, vedi su questo stesso sito L’iconografia della Sistina per le immagini in parallelo corredate di spiegazioni e la breve nota Storie di Mosè e di Gesù per una introduzione ad esse).

Il Mosè della tomba papale ci pone invece dinanzi ad una sola scultura che condensa in sé tutta la vicenda mosaica, non solo a motivo di una scelta obbligata (una statua piuttosto che un ciclo pittorico), ma ancor più in piena consonanza con la poetica di Michelangelo.

I simboli iconografici scelti sono quelli tradizionali per la figura mosaica: le tavole della Legge e i raggi di luce che emanano dal suo volto, simbolizzati dalle due corna che si dipartono dal capo. Mosè è colui che, per rivelazione divina, consegna al popolo i Dieci comandamenti, le Dieci parole della vita, ma Mosè è, proprio per questo, colui che si è avvicinato più di ogni altro a Dio, che gli ha parlato “faccia a faccia” (Dt 34,10), come un amico parla con un amico, sebbene la Scrittura sottolinei che Mosè ha visto solo le “spalle” di Dio, perché “il suo volto non lo si può vedere” (Es 33, 23), senza morire.

È solo dopo l’episodio del vitello d’oro, quando Mosè ha ottenuto il perdono divino ed ha ricevuto per la seconda volta le tavole della Legge (le prime le aveva infrante lui stesso per denunciare il peccato del popolo), che, secondo il libro dell’Esodo, il volto di Mosè brilla ormai della luce divina con una luce così splendente che gli ebrei rimasti alla base del monte non possono vederlo senza che egli si veli il viso, tanto la luce è abbagliante. “Quando Mosè scese dal monte Sinai –le due tavole della Testimonianza si trovavano nelle mani di Mosè mentre egli scendeva dal monte- non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con lui. Ma Aronne e tutti gli Israeliti, vedendo che la pelle del suo volto era raggiante, ebbero timore di avvicinarsi a lui... Quando Mosè ebbe finito di parlare con loro si pose un velo sul viso...” (Es 34, 29-35). E questo si ripeteva ogni volta, dice sempre l’Esodo, “quando entrava davanti al Signore per parlare con lui” (Es 34, 34).

La traduzione latina del IV secolo di san Girolamo -detta Vulgata perché utilizzava il latino, la lingua del volgo, del popolo- per visualizzare questi raggi di luce utilizza il termine latino corna, a motivo del quale si stabilizzò nell’iconografia la rappresentazione del viso raggiante di Mosè attraverso la rappresentazione dei due corni sulla fronte: “et ignorabat quod cornuta esset facies sua ex consortio sermonis Domini” (Es 34, 29 Vulg).

Contemplando la bellezza del Mosè di Michelangelo siamo posti dinanzi al mistero dell’uomo al cospetto di Dio, alla sua capacità di percepire la legge morale divina ed al suo desiderio di vedere Dio, ed, insieme, alla dignità che all’uomo ne deriva e che permane in lui per essere salito a parlare con Dio.

Si potrebbe dire che il Mosè della tomba pontificia è il Mosè della Scrittura, ma forse è anche Giulio II, ed è Michelangelo, ed è l’uomo che Michelangelo cerca di raccontare e di porre dinanzi ai nostri occhi.

Sigmund Freud, in una delle sue permanenze a Roma, venne tutte le mattine per tre settimane consecutive a contemplare questa scultura[9] e, nell’opera che pubblicò anonima sul Mosè[10], si domanda se Michelangelo abbia voluto offrire “una immagine atemporale di un carattere e di uno stato d’animo, oppure, ha rappresentato l’eroe in un momento preciso”[11]. Inizialmente respinge l’idea che si sia voluto fissare un momento storico preciso, ma se poi, senza avvedersene, vi ritorna. Egli non riuscì comunque ad accorgersi che entrambe le posizioni erano da respingere, proprio perché non si avvide delle caratteristiche iconografiche che caratterizzano il Mosè. In particolare, trascurò completamente il particolare delle “corna” mosaiche[12].

Le letture antiche si mostrano qui più pertinenti e maggiormente capaci di aiutare nella contemplazione dell’opera. Così scrive il Condivi[13]:

Maravigliosa è quella di Mosè, duce e capitano degli Hebrei, il quale se ne sta a sedere in atto di pensoso e savio, tenendo sotto il braccio destro le tavole della legge e con la sinistra mano sostenendosi il mento, come persona stanca e piena di cure, tra le dita della qual mano escono fuore certe lunghe liste di barba, cosa a veder molto bella. È la faccia piena di vivacità e di spirito, e accomodata ad indurre amore e insieme terrore, qual forse fu il vero. Ha, secondo che descriver si suole, le due corna in capo, poco lontane dalla sommità della fronte. È togato e calzato e colle braccia ignude, e ogni altra cosa all’antica. Opera maravigliosa e piena d’arte, ma molto più, che sotto così belli panni di che è coperto, appar tutto lo igniudo, non togliendo il vestito la bellezza del corpo.

Il Vasari, qualche anno dopo, così descrive l’opera[14]:

Finì il Moisè di cinque braccia, di marmo, alla quale statua non sarà mai cosa moderna alcuna che possa arrivare di bellezza, e delle antiche ancora si può dire il medesimo; avvengaché egli, con gravissima attitudine sedendo, posa un braccio in sulle tavole che egli tiene con una mano, e con l'altra si tiene la barba, la quale nel marmo, svellata e lunga, è condotta di sorte, che i capelli, dove ha tanta difficultà la scultura,
son condotti sottilissimamente piumosi, morbidi, e sfilati d’una maniera, che pare impossibile che il ferro sia diventato pennello; ed in oltre, alla bellezza della faccia, che ha certo aria di vero santo e terribilissimo principe, pare che mentre lo guardi, abbia voglia di chiedergli il velo per coprirgli la faccia, tanto splendida e tanto lucida appare altrui, ed ha sì bene ritratto nel marmo la divinità, che Dio aveva messo nel santissimo volto di quello, oltre che vi sono i panni straforati e finiti con bellissimo girar di lembi, e le braccia di muscoli e le mani di ossature e nervi
sono a tanta bellezza e perfezione condotte, e le gambe appresso e le ginocchia e i piedi sotto di si fatti calzari accomodati, ed e finito talmente ogni lavoro suo, che Moisè può più oggi che mai chiamarsi amico di Dio, poiché tanto innanzi agli altri ha voluto mettere insieme e preparargli il corpo per la sua resurrezione per le mani di Michelagnolo; e seguitino gli Ebrei di andare, come fanno ogni sabato, a schiera e maschi e femmine, come gli Storni, a visitarlo ed adorarlo, che non cosa umana, ma divina adoreranno.

Come già si è affermato per i Prigioni, anche gli studi preparatori per il Mosè debbono essere confluiti negli affreschi della volta della Sistina, in particolare nelle figure dei Profeti -si guardi, ad esempio, il profeta Geremia. La tomba di Giulio II e la volta della Sistina appaiono così, per molti versi, come due lavori che si richiamano in una ricerca espressiva che si approfondisce.

Michelangelo non realizzò mai le altre tre statue che dovevano occupare simmetricamente gli altri tre angoli superiori del primitivo progetto; sappiamo dai biografi antichi, come si è visto, che una di esse doveva rappresentare san Paolo. Si tornerà, nell’ultima parte di questo lavoro, sul significato che alcuni autori moderni vorrebbero attribuire al Mosè michelangiolesco, letto in chiave protestante; si può rilevare già qui che l’interpretazione delle figure di Mosè e di Paolo fu al centro della disputa che si aprì pochi anni dopo la morte di Giulio II, con l’emergere della figura di Lutero che contrapporrà in maniera radicale la Legge mosaica e la Grazia paolina, la prima rivelatrice del peccato originale e della impossibilità umana di giungere alla salvezza, la seconda apportatrice della grazia cristiana che sola strappa l’uomo dalle tenebre. Nella tomba di Giulio II Mosè e Paolo, invece, dovevano sedere l’uno a fianco dell’altro e, nella realizzazione finale del sepolcro che si colloca dopo che la crisi luterana era già scoppiata, Mosè può tranquillamente ergersi solitario senza il suo “compagno antitetico” annunziatore della grazia, proprio perché non è in primo piano la contrapposizione Legge/Grazia che caratterizzò allora la problematica della Riforma.

I biografi antichi riferiscono altresì che le altre due statue angolari dovevano essere la Vita attiva e la Vita contemplativa (così il Vasari), anche se non se ne possiede certezza assoluta; certo è che queste sono le due figure poste nella versione finale della sepoltura, che è dinanzi ai nostri occhi, dove, nelle due nicchie a fianco di quella del Mosè troviamo a destra la Vita attiva ed a sinistra la Vita contemplativa.

Il Condivi così descrive la statua alla destra del Mosè[15]:

[Essa] rapresenta la Vita contemplativa, una donna di statura più che ‘l naturale, ma di bellezza rara, con un ginocchio piegato non in terra, ma sopra d’un zoccolo, col volto e con ambo le mani levate al cielo, sì che pare che in ogni sua parte spiri amore.

Alla sinistra, invece[16]:

D’altro canto è la Vita attiva, con uno specchio nella destra mano, nel quale attentamente si contempla, significando per questo le nostre azioni dover essere fatte consideratamente, e nella sinistra una ghirlanda di fiori. Nel che Michelagnolo ha seguitato Dante, del quale è sempre stato studioso, che nel suo Purgatorio finge aver trovato la contessa Matilda, qual egli piglia per la Vita attiva, in un prato di fiori.

Similmente si esprime il Vasari che così afferma[17]:

Due [...delle nicchie] erano tonde dalle bande e vi dovevano andare le Vittorie, in cambio delle quali in una messe Lia figliuola di Laban per la Vita attiva, con uno specchio in mano per la considerazione che si deve avere per le azioni nostre, e nell’altra una grillanda di fiori per le virtù che ornano la vita nostra in vita e dopo la morte la fanno gloriosa. L’altra fu Rachel sua sorella per la Vita contemplativa con le mani giunte, con un ginocchio piegato, e col volto par che stia elevata in ispirito: le quali statue condusse di sua mano Michelagnolo in meno di un anno.

Il suggerimento del Vasari che indica le statue accogliendo l’interpretazione del Condivi ma aggiungendovi i nomi delle due mogli di Giacobbe, Lia e Rachele, può essere accolto poiché proprio le caratteristiche che la Sacra Scrittura attribuisce loro -Lia, la più anziana, feconda di figli, Rachele, la più giovane, amata per la sua bellezza, sebbene per lungo tempo sterile- potrebbe coesistere con le due dimensioni della vita cristiana, quella attiva e quella contemplativa, che secondo la tradizione spirituale non possono essere separate.

Le note iconografiche della Vita attiva nella tomba di Giulio II sono la corona - importa meno che sia di fiori- simbolo di una vittoria, di un premio, di un merito riconosciuto, ed uno specchio, attributo che spesso troviamo indicativo della virtù della prudenza che cerca di cogliere tutti i pericoli, anche quelli che giungono posteriormente, per sapersene difendere; nel caso della virtù della Prudenza, lo specchio è posto in posizione verticale, per vedere dietro di sé. Nella Vita attiva michelangiolesca, invece, lo specchio è posto orizzontalmente, per potervisi specchiare: anche qui la lettura dei due biografi antichi sembra assolutamente da accogliere con lo specchio che è segno di una continua riflessione sulle proprie azioni perché siano buone e secondo il volere di Dio. La posizione orizzontale dello specchio ha indotto taluni autori moderni ad identificarlo con una fiaccola (ma ad essa mancherebbe evidentemente la fiamma!).

La Vita contemplativa non è caratterizzata da alcuna nota specifica, ma è il corpo stesso a muoversi come avvitandosi verso l’alto, in uno slancio di fede verso la visione di Dio.

Sopra le due donne Michelangelo fece disporre a sinistra una Sibilla ed a destra un Profeta; è l’antichissimo tema iconografico, ripreso anche nella Sistina, dove sia l’antichità pagana con tutta la sua ricerca razionale e poetica rappresentata dalle Sibille e tutta la rivelazione veterotestamentaria rappresentata dai profeti divengono cammino preparatorio della venuta del Figlio. Le due statue non furono realizzate da Michelangelo, ma affidate a Raffaello da Montelupo, secondo la narrazione del Vasari.

In mezzo ad esse sta Giulio II, che la critica moderna, dopo i restauri dell’anno 2000, assegna alla mano di Michelangelo[18]. Il pontefice è rappresentato con la tiara, coricato su di un fianco. Solo gli occhi chiusi indicano come egli sia stato sopraffatto dalla morte. Il sepolcro non contiene il corpo di Giulio II. I ripetuti rinvii della costruzione della tomba infatti, fecero sì che Giulio II fosse seppellito in un primo momento, nella cappella dove era già posta la tomba dello zio Sisto IV. Così spiega V.Noè, in merito alle vicende del corpo del pontefice[19]:

Dopo la sua morte (1513) furono deposti nella basilica Vaticana, nella vecchia cappella del Coro costruita da Sisto IV, lo zio francescano di Giulio II, e dedicata all’Immacolata. Durante il sacco di Roma (1527), i lanzichenecchi violarono il sepolcro di Giulio e ne portarono via gli oggetti preziosi. Al momento della demolizione delle ultime strutture del vecchio San Pietro, le salme dei due papi della Rovere trasmigrarono in sagrestia, quindi nella nuova cappella del Coro, e poi ancora in quella del Santissimo Sacramento (1635). Nel 1926, per volere di papa Pio XI, le spoglie di Sisto IV e di Giulio II furono deposte in una tomba terragna, nella crociera destra di San Pietro, di fronte al sepolcro di Clemente X Altieri.

La tomba si trova così oggi, nella basilica vaticana, dietro il pilastro di Sant’Elena; insieme a Giulio II, vi è sepolto anche Sisto IV.

Nella basilica di San Pietro in Vincoli, subito sopra la tomba di Giulio II sta una Madonna in piedi con il Bambino, quasi a vegliare sul corpo del pontefice defunto, scultura che Michelangelo fece realizzare a Scherano da Settignano.

In cima all’intera opera sono posti quattro candelabri in pietra e lo stemma araldico dei della Rovere, con la quercia in esso.

Sconcertante appare la lettura moderna del Forcellino[20], ancor più a motivo della sua competenza in materia; l’evidente precomprensione ideologica nella quale si fa avviluppare rende miope la sua analisi che riduce la forza e la bellezza dell’opera.

La sua riflessione si sviluppa a partire dalle due ultime statue realizzate ex novo da Michelangelo a partire dal 1542 per la tomba -e, cioè, come si è visto, la Vita attiva e la Vita contemplativa. È subito evidente, anche se espressa confusamente, la tesi che il Forcellino vuole sostenere: Michelangelo avrebbe privilegiato, in ossequio ad una impostazione cripto-luterana, il primato della grazia sulle opere. Ne consegue che le due statue simmetricamente disposte vengono, invece, da lui viste in una disposizione gerarchica, poiché “La fede salva [...] la carità non salva”[21] (dove la “fede” sta per la Vita contemplativa e la “carità” per la Vita attiva).

La corona tenuta in mano dalla Vita attiva, che è iconograficamente simbolo di vittoria e di merito, viene invece vista dal Forcellino come “simbolo di carità per il suo perenne verdeggiare e la sua circolarità senza fine”. Lo specchio diviene una “lucerna il cui fuoco è alimentato dai capelli stessi che vi finiscono dentro [...] simbolo dei pensieri buoni che ispirano la carità”[22].

La competenza del Forcellino si manifesta nelle notazioni di restauro che lo portano ad attribuire definitivamente a Michelangelo la figura del pontefice defunto: è, forse, la novità più rilevante della ricerca al termine del Progetto Mosè, nome con cui si scelse di indicare il lavoro di restauro dell’intera tomba. Ma, subito, la lettura scivola nell’ideologia ed il Forcellino afferma della statua di Giulio II: “[Le mani del pontefice] sono le mani della resa, della consapevolezza dell’inutilità e vanità dell’operare, perché non da questo sarà determinato il destino eterno”, dove l’espressione “vanità dell’operare” nuovamente cerca di insinuare l’adesione ad una posizione filo-luterana. La postura delle mani scolpite viene inoltre ricondotta ad “un altro sentimento [...]: quello di un ritorno della Chiesa a una dimensione puramente spirituale, lontana dal governo temporale e dai nefandi commerci sviluppati in suo nome”.

Neanche un accenno al fatto che tutto questo, se fosse vero, implicherebbe un’accusa di ipocrisia rivolta a Michelangelo per il suo attaccamento che sempre lo legò alla figura di Giulio II e che sarebbe allora solo finzione. Ancor più sarebbe incomprensibile la decisione di lavorare fino alla morte all’edificazione della basilica di San Pietro, come primo responsabile della Fabbrica –incarico che ricevette dopo la realizzazione della sepoltura di Giulio II- cioè dell’intero progetto della nuova basilica, della quale Michelangelo riuscì a vedere realizzato, secondo la sua concezione, il tiburio della cupola.

Ma più ancora dell’evidente incongruenza che si verrebbe a stabilire fra le realizzazioni dell’artista ed i suoi sentimenti, il danno ermeneutico maggiore che deriva dalla precomprensione del Forcellino consiste nell’incapacità di vedere nella scultura il dramma della morte che viene rappresentata nel pontefice i cui occhi si chiudono. L’opera non esprime una posizione teologica sul rapporto fede/opere, bensì esprime il mistero del morire che tocca umili e potenti, senza che alcuno possa sottrarvisi. La piccola croce che è scolpita sulle vesti del pontefice starebbe, per il Forcellino, a rappresentare la tesi luterana che solo la croce salva[23]. Dichiarare che in quel segno è da cogliersi la chiave di lettura della figura del pontefice comporterebbe affermare al contempo che Michelangelo non sia stato in grado di esprimersi nella scultura, tanto è secondario quel particolare nel contesto dell’insieme.

Il punto più basso viene toccato dal Forcellino nell’analisi della figura di Mosè. Anche qui dalla sua competenza di restauratore che sa valorizzare l’affermazione di un anonimo testimone che riferì al Vasari come l’artista riuscì in due giorni ad ottenere una roteazione della testa del Mosè conferendo ancora più espressività all’opera[24], il Forcellino passa ad una rilettura ideologica di questo intervento michelangiolesco affermando:

Forse sulla scelta di girare il volto del profeta pesò anche la presenza dell’Altare delle catene sul lato opposto del transetto dove era collocato il Mosè. Questo altare era il simbolo della superstizione cattolica e il fondamento di quel potere temporale che continuava a rivendicare una Chiesa in cui Michelangelo non si riconosceva più. Un’antica tradizione raccontava che un frammento delle catene che avevano tenuto prigioniero san Pietro si era miracolosamente saldato ad un frammento ritrovato in Palestina quando Eudossia sposò Valentiniano, segnando l’unità simbolica dell’impero sotto la nuova fede cristiana. Se Mosè avesse posato lo sguardo diritto in avanti, com’era nel primo progetto, avrebbe posato lo sguardo proprio su quell’altare, mentre con la mirabolante modifica volgeva lo sguardo verso la luce che scendeva da una finestra aperta proprio alla sua sinistra e oggi purtroppo tamponata. Il raggio di luce che illuminava i suoi “corni” al tramonto sarebbe stato il completamento spirituale a cui tutto il movimento tendeva.

Si da qui per scontato che le catene siano il fondamento del potere temporale della Chiesa, mentre, semmai, esse sono state uno dei simboli del potere dell’impero bizantino, come si è già visto. L’esistenza dello stato della Chiesa ha tutt’altra origine e, soprattutto, tutt’altra simbologia. Ma, ancora una volta, è l’opera stessa che ne esce banalizzata. La torsione del viso sarebbe stata pensata, secondo il restauratore, per levare il viso dalle catene e rivolgerlo verso una finestra o la sua luce. Il visitatore della basilica può ben rendersi conto di dove sia questa finestra di cui parla il Forcellino e, conseguentemente, della scientificità di questa affermazione. Tutta l’espressività del volto del Mosè passerebbe così in secondo piano rispetto ad una finestra verso la quale Michelangelo avrebbe concentrato la sua attenzione.

La lettura iconografica del Forcellino si appoggia su di una ricostruzione degli ambienti che Michelangelo frequentò in quegli anni. La semplificazione storica va qui di pari passo con la banalizzazione della lettura iconografica. Sotto la dicitura “una passione eretica” si accenna alla amicizia che legò Michelangelo a Vittoria Colonna[25] e questa al circolo di intellettuali che si radunò intorno al cardinal Reginald Pole, in Viterbo (il “divin Polo”, come lo chiama la Colonna in uno dei suoi sonetti poetici).

Proprio la grande figura del Pole – ma lo stesso si potrebbe dire dei cardinali Contarini, Cervini, Morone e Carnesecchi, legati da visioni teologiche ed ecclesiali comuni- smentisce la tesi di una corrente eretica, a lui facente capo. Basti pensare al fatto che il Pole dovette fuggire dalla corte di Enrico VIII, per non subire, con tutta probabilità, la stessa fine di Thomas More; che, a motivo della sua partenza dall’Inghilterra, il sovrano inglese fece giustiziare la madre del Pole, Margherita, in quanto cattolica, nel 1541, cioè un anno prima che Michelangelo iniziasse la realizzazione della Vita attiva e della Vita contemplativa; che il Pole fu uno dei tre legati pontifici, scelti da Paolo III per le sessioni di apertura del concilio di Trento; che, nonostante il Tribunale dell’Inquisizione nutrisse sospetti sulla cosiddetta ecclesia viterbensis che si riuniva intorno al Pole, il papa Paolo III bloccò ogni iniziativa in merito, per la fiducia che nutriva in loro[26]; che, alla morte di Paolo III nel 1549, il Pole fu a lungo uno dei principali candidati del conclave non venendo eletto per la mancanza di un solo voto; che, negli anni successivi, il Pole tornò in Inghilterra al seguito di Maria la Cattolica, sotto il cui regno fu l’ultimo arcivescovo cattolico di Canterbury.

Con questi riferimenti storici non si vogliono minimamente mettere in ombra altri fatti, come ad esempio, il ritorno del Pole da Trento, probabilmente non a motivo dei problemi fisici dichiarati, ma per il disaccordo su di una linea di rottura ancora più esplicita che si andava profilando con i luterani. Si vuole piuttosto rilevare come sia da correggere la visione che si ha della Chiesa del tempo. Proprio quel Pole che esprimeva riserve su di uno scontro aperto con i luterani era un pupillo del pontefice ed era il candidato su cui potevano confluire i due terzi meno uno dei voti del conclave. È l’evidenza di quella realtà che la storiografia moderna chiama “riforma cattolica”[27]. Il Pole, saldamente all’interno della gerarchia cattolica, mentre esprimeva perplessità sulle dottrine protestanti, allo stesso tempo lavorava per una conciliazione e per una riforma interna della chiesa cattolica.

Fu solo nei decenni successivi che l’Inquisizione cercò di sottoporre a processo alcuni dei cardinali di cui si è parlato. Negli anni 1542-1545, gli anni nei quali fu portata a compimento la tomba di Giulio II, niente di tutto questo ancora accadeva. Non si fronteggiavano una cripto-eresia (del quale il Pole sarebbe stato il leader) ed una chiesa ufficiale, bensì un dibattito pubblico avveniva nella Chiesa cattolica che cercava una linea al contempo di rifiuto di alcune dottrine non conformi alla tradizione e di una riforma interna sentita come non rinviabile.

Quanto al testo che viene continuamente evocato nel dibattito sul Mosè michelangiolesco, ossia Il beneficio di Cristo scritto dal monaco Benedetto da Mantova e rielaborato da Marcantonio Flaminio[28], è importante rilevare come questo trattato di spiritualità manifesta una lettura della figura mosaica in piena opposizione con quanto Michelangelo esprime nella sua opera. Come è noto, infatti, nel Beneficio di Cristo, la Legge mosaica non è vista come prefigurazione della salvezza del Cristo, bensì espressamente come sua antitesi.

Infatti, afferma il testo del Beneficio nella revisione del Flaminio, l’uomo con il peccato originale “diventò simile alle bestie e al demonio” e la natura umana venne “condennata alle miserie dello inferno”[29]. Fra le funzioni della Legge mosaica c’è certo quella “più eccellente [...] è che dà necessità all’uomo di andar a Cristo”, ma questa è preceduta da altre quattro finalità[30]: essa “fa conoscere il peccato”, essa fa inoltre “crescere il peccato, perché, essendo noi separati dalla ubbidienza di Dio, e fatti servi del diavolo, e pieni di viciosi affetti e appetuti, non possiamo tolerare che Dio ci proibisca la concupiscenza”, essa ancora “manifesta l’ira e il iudicio di Dio, il qual minaccia morte e pena eterna a quelli che non osservano pienamente la sua Legge” ed, infine, “spaventando l’uomo, il quale viene in disperazione e vorrebbe satisfare alla Legge, ma vede chiaramente che non può e, non potendo, si adira contro Dio e non vorrebbe che Egli fusse”.

L’accento, insomma, non è su Mosè come testimone della pura grazia, quanto piuttosto sulla “maledizione della Legge” mosaica, dalla quale solo Cristo può liberare. La Legge ha così lo scopo precipuo di manifestare l’irrimediabile condizione di peccato nel quale l’uomo si trova. Il Beneficio di Cristo titola, infatti, il secondo capitolo[31]: “Che la Legge fu data da Dio, acciocché noi, conoscendo il peccato e disperando di poterci giustificare con le opere ricorressimo alla misericordia di Dio e alla giustizia della fede”.

Quando il Forcellino afferma che “Mosè per tradizione veniva associato a Cristo, portatore della legge salvifica prima del sacrificio e pertanto suo antesignano nel Vecchio Testamento”[32] non si accorge di affermare proprio il contrario di ciò che Il beneficio di Cristo pone in evidenza.

Non resta che invitare tutti ad ammirare la tomba di un pontefice, Giulio II, “così come è ella rattoppata e rifatta”, come afferma il Condivi, da Michelangelo, ma assolutamente splendida, non ideologica e capace di esprimere nella sua bellezza il mistero della morte e quello della vita.


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Note

[1] In quegli anni il rapporto fra Firenze e Roma è strettissimo e la sistemazione delle Tombe medicee è, di fatto, una committenza papale. È nel 1515 che papa Leone X (1513-1521), nato Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo de’ Medici, incarica Michelangelo della facciata di San Lorenzo in Firenze. Nel 1520 lo scioglierà da questo lavoro, provocando grande risentimento nell’artista. Alla fine dello stesso anno, il cardinal Giulio de’ Medici, figlio di Giuliano de’ Medici il fratello di Lorenzo il Magnifico ucciso nella Congiura de’ Pazzi nel 1478, incarica Michelangelo delle Tombe medicee, di comune accordo con il cugino Leone X. Giulio de’ Medici era stato scelto come arcivescovo di Firenze nel 1513 dal cugino papa Leone X ed era stato successivamente da lui nominato Governatore cittadino di Firenze; diventerà papa con il nome di Clemente VII (1523-1534). I lavori per la biblioteca Laurenziana vennero commissionati a Michelangelo dallo stesso Clemente VII. Le Tombe medicee michelangiolesche custodiscono i corpi dei padri dei due papi, quella di Lorenzo, padre di Leone X e quella di suo fratello Giuliano, padre di Clemente VII, oltre a quelli di Giuliano, duca di Nemours, fratello di Leone X, e di Lorenzo, duca di Urbino, nipote di Leone X. I lavori per le Tombe si protrassero dal 1520 al 1534 ed, alla fine, restarono incompiuti, motivo per il quale Giorgio Vasari e Bernardo Buontalenti, su commissione di Cosimo I tra il 1554 ed il 1555, dovettero ultimare la Cappella senza che venissero realizzate le statue originariamente previste da Michelangelo di Lorenzo e Giuliano de’ Medici.

[2] G.Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori, architetti, Rusconi, 1966, pp.682-683.

[3] A.Condivi, Vita di Michelagnolo Buonarroti, SPES, Firenze, 1998, pp.25-26.

[4] Cfr. per la testimonianza di Egidio da Viterbo e per la decisione, fortemente voluta dal Bramante, di passare dall’erezione del nuovo coro alla totale ristrutturazione della basilica, H.Bredekamp, La fabbrica di San Pietro, Einaudi, Torino, 2005, pp.26-47. Vedi anche il volume collettivo pubblicato in occasione della mostra per il cinquecentenario della posa della prima pietra della nuova S.Pietro, Petros eni. Pietro è qui, Edindustria, Roma, 2006, in particolare gli articoli di C.L.Frommel, San Pietro da Niccolò V al modello del Sangallo, pp.31-39 (sintesi dei ponderosi studi dello studioso) e F.Bellini, Da Michelangelo a Giacomo Della Porta, pp. 81-85.

[5] Non si dimentichi che Michelangelo poté ammirare le due sculture che divennero in quegli anni famosissime, appena ritrovate durante il pontificato di Giulio II: il cosiddetto Torso Belvedere, una scultura del I secolo a.C., attribuita ad Apollonio di Nestore, ora nei Musei Vaticani ed il Laocoonte con i suoi figli, una copia romana (?) del I secolo a.C. del capolavoro di Agesandro, Polidoro e Atenodoro di Rodi, anch’essa attualmente nei Musei Vaticani. Non vi è alcun dubbio che lo scultore sia stato influenzato da queste due grandi opere.

[6] T.Verdon, Michelangelo teologo, Ancora, Milano, 2005, pp.96-109.

[7] T.Verdon, Michelangelo teologo, Ancora, Milano, 2005, p.100.

[8] Così si esprime a riguardo il Condivi: Intorno intorno di fuore erano nicchi, dove entravano statue, e tra nicchio e nicchio termini, a i quali, sopra certi dadi che, movendosi da terra sporgevano in fuori, erano altre statue legate come prigioni: le quali rappresentavano l’arti liberali, similmente Pittura, Scultura , e Architettura, ogniuna colle sue note, sì che facilmente potesse esser conosciuta per quel che era, denotando per queste insieme con papa Giulio, esser prigioni della morte tutte le virtù, come quelle che non fusser mai per trovare da chi cotanto fussero favorite e nutrite, quanto da lui (A.Condivi, Vita di Michelagnolo Buonarroti, SPES, Firenze, 1998, pp.24-25). Il Vasari confonde i Prigioni con le Province assoggettate in guerra da Giulio II. Come si è già detto, Michelangelo aveva realizzato una Vittoria con un prigion per la tomba, probabile prima realizzazione che avrebbe dovuto vedere un seguito, ed è a questo secondo gruppo di sculture che fa riferita questa interpretazione vasariana .

[9] “Tutti i giorni, durante tre solitarie settimane del settembre 1913 sono stato in chiesa davanti alla statua, l’ho studiata, misurata, disegnata” (lettera di S.Freud a Edoardo Weiss del 12 aprile 1933. In realtà Freud sbaglia di un anno la data, poiché quella sua permanenza a Roma è da far risalire al 1912, così nell’Avvertenza alla traduzione italiana di S.Freud, Il Mosè di Michelangelo, Boringhieri, Torino, 1991, p.8.

[10] S.Freud, Il Mosè di Michelangelo, Boringhieri, Torino, 1991.

[11] S.Freud, Il Mosè di Michelangelo, Boringhieri, Torino, 1991, p.25.

[12] È nota la conclusione, peraltro emotivamente molto suggestiva, cui giunge Freud, scrivendo che “ciò che noi scorgiamo in lui [nel Mosè di Michelangelo] non è l’avvio di un azione violenta, bensì il residuo di un movimento trascorso” (S.Freud, Il Mosè di Michelangelo, Boringhieri, Torino, 1991, p.48). Seguendo l’ipotesi avanzata da taluni critici che vedevano nel movimento del corpo della scultura l’attimo nel quale egli si sta per alzare per punire gli ebrei che hanno realizzato il vitello d’oro, Freud ribalta questa lettura. Egli afferma infatti, a motivo del particolare delle tavole della Legge che sono maldestramente tenute sotto il braccio e dell’indice che tiene la barba a destra, mentre il capo è volto a sinistra, che Mosè sia da immaginare in un primo momento con lo sguardo rivolto in avanti e con le tavole della Legge saldamente rette con la mano e non solamente con il braccio, in un secondo momento con lo sguardo rivolto a sinistra, seguito interamente in questo dalla barba e dal braccio destro che si sarebbero portate anch’esse a sinistra ed, infine, un terzo momento, quello che è rappresentato da Michelangelo, nel quale il braccio si ritira indietro per sostenere le Tavole, riportando così con l’indice parte della barba sulla destra ed, insieme, per un sopraggiunto dominio di sé e di calma che fa superare a Mosè l’ira nella quale stava per cadere.

[13] A.Condivi, Vita di Michelagnolo Buonarroti, SPES, Firenze, 1998, p.47. Il Condivi si sbaglia in un particolare, dimenticando che è con lo stesso braccio destro che sono tenute le tavole della Legge ed insieme è trattenuta la barba di Mosè.

[14] G.Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori, architetti, Rusconi, 1966, p.659.

[15] A.Condivi, Vita di Michelagnolo Buonarroti, SPES, Firenze, 1998, pp.47-48.

[16] A.Condivi, Vita di Michelagnolo Buonarroti, SPES, Firenze, 1998, p.48.

[17] G.Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori, architetti, Rusconi, 1966, p.682.

[18] Il Vasari afferma, invece, che essa fu “fatta da Maso dal Bosco scultore”. È pensabile, se non si vuole rifiutare completamente l’affermazione vasariana, che l’opera sbozzata da Maso del Bosco sia stata almeno lavorata ultimamente da Michelangelo, anche a motivo del fatto che essa rappresenta colui che è il motivo dell’intera scultura, il pontefice mecenate a cui lo scultore deve tanta parte della sua fortuna, oltre che delle sue “tragedie”.

[19] V.card.Noè, Le tombe e i monumenti funebri dei papi nella basilica di San Pietro in Vaticano, Franco Cosimo Panini Editore, Modena, 2000, p.151. Lo stesso fornisce anche i riferimenti che le fonti tramandano sulla morte del pontefice: «Rimane il ricordo di una morte edificante. Paride de Grassis, maestro di cerimonie di papa Giulio, ne fu più volte testimone. Essendo stato invitato ai vespri della Vigilia di Natale, nel 1512, si sentì dire da papa Giulio: “Meglio sarebbe s’ella mandasse a invitare il sacro Collegio e il sagrestano di Palazzo perché vengano con l’Olio Santo, ché mi sento assai male e non vivrò più a lungo” (24 dicembre 1512). Da allora in poi non si nascose che lentamente si avvicinava alla fine. Il 2 febbraio, il buon de Grassis, insistette perché il papa ricevesse il viatico. Il 4 febbraio, Giulio lo chiamò a sé e gli disse che la sua fine era imminente; che ringraziava il Signore per non avergli mandato una fine improvvisa, come a molti suoi predecessori, ma una morte cristiana e sufficiente raccoglimento, onde provvedere al tempo e all’eternità. E diede disposizioni per la celebrazione di messe per la salute della propria anima. Nella notte del 20 febbraio 1513 andò incontro alla morte “con tanta devotione e contritione che pareva un santo” (così un familiare del pontefice). Ai funerali del papa ci fu una folla straordinaria. Paride de Grassis riferisce: “Da quarant’anni che vivo in questa città, non ho mai visto una folla così straordinaria al mortorio di un papa...” Tutti esaltavano Giulio come papa e vicario di Cristo, scudo di giustizia. La testimonianza del suo maestro di cerimonie, che non chiude sempre gli occhi sulle debolezze di Giulio, serve a ridimensionare l’osservazione troppo dura dello storico Francesco Guicciardini, per il quale Giulio aveva del sacerdote solo l’abito e il nome» (V.card.Noè, Le tombe e i monumenti funebri dei papi nella basilica di San Pietro in Vaticano, Franco Cosimo Panini Editore, Modena, 2000, pp.151-152).

[20] A.Forcellino, Michelangelo. Una vita inquieta, Laterza, Roma-Bari, 2005, in particolare pp.279-314. Il Forcellino è stato responsabile dello staff che ha curato il restauro, durato quattro anni, della tomba di Giulio II in San Pietro in Vincoli.

[21] A.Forcellino, Michelangelo. Una vita inquieta, Laterza, Roma-Bari, 2005, p.299. Subito dopo il Forcellino, facendo riferimento alle figure che gli avrebbero ispirato questa visione teologica, aggiunge una espressione che, in realtà, contraddice immediatamente quanto sta affermando: “Il consiglio del Pole a Vittoria Colonna esemplifica efficacemente questa concezione; prega come se dovessi salvarti per la fede e agisci come se dovessi salvarti per le opere”.

[22] Se anche si trattasse di una lucerna, alla quale peraltro manca la fiamma, essa sarebbe esattamente il simbolo iconografico dell’importanza della perseveranza nel bene (vedi la parabola delle vergini sagge e di quelle stolte).

[23] “Solo conforto [al dubbio di ciò che lo aspetta nell’eternità] è il crocifisso, simbolo ossessivamente celebrato dagli Spirituali quale mezzo sicuro della salvezza degli uomini, esibito sul Manipolo che gli ricade dal braccio sinistro; unico emblema rimasto di quei paramenti dove tutti gli artisti si affannavano a dipingere e scolpire intrecci di oro e pietre preziose per celebrare la potenza mondana del vicario di Cristo” (A.Forcellino, Michelangelo. Una vita inquieta, Laterza, Roma-Bari, 2005, p.300). A parte che quelle vesti sono le vesti liturgiche e non quelle del potere mondano, ma perché Michelangelo avrebbe scolpito allora la tiara sul capo del pontefice, quella sì simbolo dell’autorità papale? Sarebbe ancora da rilevare che l’affermazione che solo la croce salva è cristiana tout court e non caratterizza il gruppo cosiddetto degli Spirituali.

[24] “Et andando io a vedere, trovai, che li haveva svoltato la testa et sopra la punta del naso gli haveva lasciata un poco della gota con la pelle vecchia, che certo fu cosa mirabile; ne credo quasi che a me stesso, considerando la cosa quasi che impossibile” (lettera di un anonimo a Vasari, marzo 1564; per le referenze bibliografiche vedi, A.Forcellino, Michelangelo.Una vita inquieta, Laterza, Roma-Bari, 2005, p.451).

[25] Non è possibile –ed a nostro avviso, come si cercherà di dimostrare, non è utile per una più profonda comprensione della sepoltura di Giulio II- scendere nei dettagli della vicenda che legò Michelangelo e la marchesa di Pescara e, più in particolare, analizzare le posizioni teologico/spirituali della nobildonna. Su questo si veda, comunque, l’eccellente studio di Gigliola Fragnito, Vittoria Colonna e il dissenso religioso, in P.Ragionieri (a cura di), Vittoria Colonna e Michelangelo, Mandragora, Firenze, 2005, pp.97-105

[26] Su questo, si veda G.Fragnito, Evangelismo e intransigenti nei difficili equilibri del pontificato farnesiano, in Rivista di storia e letteratura religiosa, 25 (1989), pp.20-47.

[27] Solo per un primo orientamento in materia, cfr. il breve capitolo Precisazione dei concetti, redatto da H.Jedin, in H.Jedin (a cura di), Storia della chiesa, vol. VI, Riforma e controriforma, Jaca, Milano, 1975, pp.513-515. L’ignoranza dei recenti studi sulla “riforma cattolica” cioè su “quei tentativi di rinnovamento che si ebbero nella chiesa dal XV al XVI secolo” (Jedin, op. cit., p.513) conduce al corto circuito per il quale ogni figura cattolica cinquecentesca che spinge in direzione di una emendatio ecclesiae (Consilium de emendanda Ecclesia venne chiamato il lavoro redatto nel 1537 da otto personalità di rilievo convocate per questo da Paolo III) viene connotata come nascostamente legata al mondo protestante.

[28] Il Beneficio di Cristo è edito in italiano dalla Claudiana, Torino, 1991. Il rapporto fra la prima edizione, che non possediamo più, opera di Benedetto da Mantova (vissuto in realtà in Sicilia) e l’edizione successiva del Flaminio, l’unica che ci è pervenuta, che circolò come manoscritto a partire dal 1540 e fu stampata nel 1543, è stato studiato in dettaglio da C.Ginzburg-A.Prosperi, Giochi di pazienza. Un seminario sul “Beneficio di Cristo”, Torino, 1975. Per una sintesi, cfr. A. Prosperi, L’eresia del Libro Grande, Feltrinelli, Torino, 2001, pp.50-52.

[29] Benedetto da Mantova-Marcantonio Flaminio, Il beneficio di Cristo, Claudiana, Torino, 1991, p.29.

[30] Benedetto da Mantova-Marcantonio Flaminio, Il beneficio di Cristo, Claudiana, Torino, 1991, pp.34-36.

[31] Benedetto da Mantova-Marcantonio Flaminio, Il beneficio di Cristo, Claudiana, Torino, 1991, p.33.

[32] A.Forcellino, Michelangelo. Una vita inquieta, Laterza, Roma-Bari, 2005, p.298.


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