Ciascuno stia sottomesso alle autorità: le ragioni della coscienza
di Andrea Lonardo


«Il giorno della nascita del divinissimo Cesare (Augusto) lo equipariamo all’inizio di tutte le cose, inizio della vita e dell’esistenza, che segna il limite e il termine del pentimento di essere nati. Egli una volta apparso superò le speranze dei suoi predecessori e i buoni annunci di tutti (nell’originale greco euangélia pántōn) e il giorno genetliaco del dio fu per il mondo l’inizio dei buoni annunci a lui collegati (in greco tôn di’autòn euaggelíōn)».

Una iscrizione rinvenuta nella Stoà sacra di Priene, città ellenistica nei pressi di Mileto, edificata secondo il preciso schema urbanistico elaborato dal famoso architetto Ippodamo, mostra così come l’imperatore Augusto volesse essere venerato con attributi divini: con la sua nascita, cessava il “pentimento di essere nati”! Il testo utilizza per ben due volte il termine vangelo: la nascita di Augusto è il vangelo che porta la gioia al mondo.

Paolo giunge a Roma, capitale imperiale, in un periodo che vede crescere il culto del sovrano. Nerone, che condannerà a morte l’Apostolo, riceve in un’iscrizione il titolo di “Signore di tutto il mondo” e Domiziano, l’imperatore che l’Apocalisse prende di mira, sarà chiamato addirittura “Dominus ac Deus noster”. Gli studiosi vedono in questa progressiva divinizzazione dell’imperatore non solo la manifestazione di una volontà di potere, ma anche un segnale della crescente sfiducia della popolazione negli dèi della tradizione, come ha affermato lo studioso E. R. Dodds: «Quando crollano gli dèi di un tempo, i troni spogli reclamano qualcuno che li occupi».

La Lettera ai Romani, però, conformemente a tutto il pensiero paolino e in perfetta coerenza con l’insegnamento evangelico del dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, ammonisce: «Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio» (Rm 13,1-2).

Paolo, sulla scia di Gesù, manifesta l’allergia che il cristianesimo nutre verso l’utopia e l’anarchia ed, invece, la sua difesa delle istituzioni. Esse, però, non vengono assolutamente divinizzate con queste parole, ma, piuttosto, se ne afferma la necessità per il buon andamento della res publica. Provengono “da Dio”, non perché l’imperatore debba essere ritenuto come inviato personalmente da Dio o perché ogni sua azione sia da considerarsi come buona, ma piuttosto perché è Dio stesso, per il bene degli uomini, ad insegnare l’importanza dell’autorità nella vita civile.

L’autorità è legittimamente costituita perché «è al servizio di Dio per il bene.... e per la giusta condanna di chi opera il male» (Rm 13,4). L’utopia di una rigenerazione in terra dell’umanità che renda superfluo il ruolo delle istituzioni non trova accoglienza presso la fede cristiana. Saranno i secoli successivi a mostrare che, anzi, dove si cercherà di “render nuovo” il cuore dell’uomo per una via politica, nasceranno le peggiori fra le dittature.

Lo schierarsi a favore delle istituzioni nasce, in Paolo, piuttosto dal suo realismo, da quella comprensione carica di concretezza che la fede ha dell’uomo stesso, con le sue ombre e le sue luci.

Ma, per ciò stesso, la politica è spogliata delle sue pretese divine. Essa non deve mai sostituirsi a Dio e deve piuttosto obbedire a principi morali dei quali è servitrice e non creatrice. Come i cittadini «debbono fare il bene» (cfr. Rm 13,3), così anche ai governanti è richiesto lo stesso. Le posizioni di Paolo si incontrano qui con la filosofia più diffusa nel suo tempo, quello stoicismo che riconosceva l’esistenza di principi morali a cui tutti, compresi i governati, erano tenuti a conformarsi.

Paolo insegna ai Romani che non deve essere la paura della punizione a guidare il cristiano nella sua consapevole adesione al bene comune, quanto piuttosto le “ragioni della coscienza” (cfr. Rm 13,5). Ecco comparire l’elemento della dignità personale che lo stato non può violare e che caratterizza ulteriormente la visione cristiana della politica. La coscienza difende, da un lato, la persona da una politica che si volesse divinizzare e sostituire all’uomo e, d’altro canto, impegna l’uomo alla responsabilità nei confronti degli altri cittadini nel conseguimento del bene.

Il rifiuto, nel corso delle persecuzioni, di adorare gli dèi pagani e di adorare l’imperatore manifesterà come questa lezione sarà penetrata nelle menti e nei cuori. I cristiani continueranno a pregare per lo stato e per l’imperatore, testimonieranno di essere profondamente impegnati per il bene della res publica, ma al contempo rifiuteranno ogni divinizzazione dello stato ed ogni profanazione della dignità della coscienza.

In un altro testo paolino appare evidente come la via educativa, la via della maturazione del cuore, sia il punto di forza a partire dal quale avverrà nei secoli il profondo rinnovamento delle istituzioni stesse. Nella lettera a Filemone, Paolo invita l’amico a riaccogliere lo schiavo Onesimo «non più come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello carissimo in primo luogo a me, ma quanto più a te, sia come uomo, sia come fratello nel Signore» (Fm 16): è la prima tappa del cammino che porterà un giorno all’abolizione della schiavitù.


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