Paolo, lungo la via Appia, a Roma
di Andrea Lonardo

Pubblichiamo un articolo scritto da Andrea Lonardo per la rubrica “Paolo a Roma” del sito www.romasette.it

Il Centro culturale Gli scritti (16/3/2009)


Sono ancora oggi visibili i resti del porto imperiale di Pozzuoli e lo straordinario bacino protetto, formato da un antico cratere ricoperto quasi fino alla sua sommità dalle acque del mare, nel quale era di stanza la flotta romana che controllava il mare Tirreno. Proprio a Pozzuoli, forse in un arsenale secondario adibito al traffico dei passeggeri e mercantile, se non direttamente nel porto militare, sbarcò Paolo. Dopo il naufragio che lo aveva portato a Malta, l’apostolo, sempre sotto scorta militare, aveva ripreso la navigazione toccando i porti di Siracusa e Reggio Calabria, per sbarcare, questa volta definitivamente, a Pozzuoli (At 28,11-13).

Da lì si dovette proseguire a piedi. Probabilmente Paolo e la sua scorta raggiunsero la via Appia precisamente a Sinuessa, dopo aver attraversato Cuma e Liternum, lungo la via che ricevette più tardi da Domiziano, il nome di via Domizia. Giunti sull’Appia a Sinuessa (vicino l’odierna Mondragone, precisamente a Torre S. Limato nel comune di Cellole), l’itinerario continuò toccando Minturno, Formia, Fondi, Terracina. L’odierno scavo della città di Minturno permette di camminare nuovamente sulla via Appia che attraversava la città, consentendo così di mettere i propri passi sul basolato romano calpestato da Paolo.

Nel I secolo d.C. le paludi rendevano difficile e pericoloso il cammino a piedi ed il genio romano aveva allestito un canale navigabile che da Terracina giungeva fino ad una cittadina chiamata allora Foro di Appio, situata a quarantatre miglia da Roma (circa 64 chilometri), generalmente identificata con l’odierno Borgo Fàiti. Da lì l’itinerario doveva proseguire per la località di Tre Taverne (a tutt’oggi non identificata con sicurezza dagli studiosi, ma probabilmente non distante da Cisterna, forse in località Le Castella) per passare poi vicino a Velletri ed attraversare Ariccia e Boville, prima di giungere a Roma.

L’evangelista Luca, autore degli Atti degli Apostoli e compagno di Paolo in questo tratto di cammino, racconta che «i fratelli di Roma ci vennero incontro fino al Foro di Appio ed alle Tre Taverne. Paolo, al vederli, rese grazie a Dio e prese coraggio» (At 28,15).

In queste poche parole è detto molto dei sentimenti che Paolo doveva avere in quel momento. Egli, innanzitutto, rese grazie a Dio della compagnia dei fratelli che gli venivano incontro. Le sue lettere hanno spesso, nel loro incipit, parole di ringraziamento a Dio per le comunità alle quali Paolo si rivolge. Solo l’epistola ai Galati e, parzialmente, la seconda ai Corinzi, omettono di manifestare prima di tutto i sentimenti di gratitudine.

Per Paolo il «mistero» che Dio ha rivelato ha certamente il suo fulcro in Cristo, ma comprende altresì i fratelli, la chiesa tutta intera. Se Dio si fosse rivolto all’uomo, ma la sua rivelazione non fosse stata accolta, la sua manifestazione sarebbe ancora da venire. La rivelazione dell’amore implica che ci sia chi lo accolga, avendolo compreso. Così Paolo scrive già nella prima lettera ai Tessalonicesi: «Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro. Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui» (1 Tes 1,2-3).

Paolo, vedendo il Cristo, vede immediatamente e contemporaneamente il suo corpo che è la Chiesa. In particolare, in quel venirgli incontro dei fratelli di Roma., forse doveva comprendere che la lettera che aveva inviato a Roma era stata favorevolmente accolta e che la comunità romana era salda nel vangelo della grazia cristiana.

Gli Atti aggiungono ancora che Paolo non solo rese grazie, ma anche «prese coraggio». Questa sottolineatura apre uno spiraglio sui sentimenti che dovevano essersi manifestati nel cuore di Paolo nel corso del viaggio verso Roma, come prigioniero, forse consapevole di una possibile condanna a morte. La fatica del lungo viaggio, il naufragio, l’essere sotto scorta, l’incertezza sull’esito del processo, l’attesa del giudizio dei fratelli di Roma sul suo messaggio, tutto questo dovevano aver influito sull’animo dell’apostolo.

Ora egli, al vedere i fratelli che gli vengono incontro, ritrova coraggio e viene confermato dalla loro presenza nella convinzione che quell’itinerario è secondo la volontà di Dio. Egli ritrova quel coraggio che costituisce una delle caratteristiche dell’esistenza cristiana, come ebbe a scrivere l’allora cardinale primate di Polonia Stefan Wyszyński, in riferimento al ministero episcopale, ma, in fondo, come monito per ogni credente: «Per un Vescovo la mancanza di fortezza è l’inizio della sconfitta. Può continuare a essere apostolo? Per un apostolo, infatti, è essenziale la testimonianza resa alla Verità! E questo esige sempre la fortezza [...] La più grande mancanza dell’apostolo è la paura. A destare la paura è la mancanza di fiducia nella potenza del Maestro; è questa che opprime il cuore e stringe la gola».

Paolo, rinfrancato, riprende così, insieme ai fratelli, la via verso Roma. Ancora oggi è possibile ripercorrere i suoi passi lungo la via Appia, preservatasi nel verde della campagna romana, toccando monumenti che ai tempi di Paolo ancora non esistevano come la villa dei Quintili, ed altri già in loco, come tanti dei sepolcri che fiancheggiano tuttora la via.

Attraverso Porta Capena – oggi distrutta, ma ricordata dall’onomastica viaria, subito prima del Circo Massimo – Paolo dovette entrare in Roma; l’attuale Porta San Sebastiano è, infatti, successiva, risalendo al tracciato delle Mura aureliane.


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