Brani di difficile interpretazione della Bibbia VIII, Ap 12,1-6
Una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle (tpfs*)

di p.Ugo Vanni S.J.

Chi è la donna vestita di sole, di cui parla l'Apocalisse di S.Giovanni? Qual'è il suo rapporto con Maria? Il testo che segue è tratto da U.Vanni, Apocalisse, Queriniana, Brescia, 1982, pp. 104-109. Restiamo a disposizione per l'immediata rimozione se la sua pubblicazione on-line non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

L'Areopago


Indice


Il grande segno

L'autore dell'Apocalisse presenta all'assemblea un “segno” che dovrà decodificare e applicare alla sua realtà, un segno di particolare importanza, qualificato subito come “grande”: “E un grande segno apparve nel cielo: una donna rivestita di sole; la luna stava sotto i suoi piedi; e intorno al suo capo una corona di dodici stelle” (12,1).
L'assemblea ecclesiale perciò si accinge a decodificarlo e a interpretarlo. Nell'ambiente proprio di Dio, nel cielo, appare una donna. Il termine secondo l'uso dell'A.T. suggerisce subito l'idea di sposa e di madre; esso fa pensare all'alleanza di Dio col suo popolo, alleanza più volte espressa in termini di amore nuziale. E, pur con la debita cautela per evitare qualunque pesante antropomorfismo, viene attribuita, sempre nell'ambito dell'A.T., alla donna-popolo di Dio anche una certa fecondità: i figli di Sion sono pure i figli di Dio. La donna-popolo è rivestita di sole. Sempre nell'A.T. il sole è considerato come una creatura privilegiata di Dio, e nell'ambito del N.T. si parla, a proposito del Padre celeste, del “suo sole” (Mt 5,45). Di questo sole che è suo, Dio avvolge e riveste la donna. Amata da lui, ricolma dei suoi doni migliori, una donna-popolo, sente così di poter realizzare in pieno l'alleanza: la luna, che ha la funzione – secondo la mentalità dell'A.T. – di regolare lo svolgimento del tempo, è sotto i piedi della donna la quale la domina pienamente, al di sopra delle vicissitudini del tempo. Ha già la sua eternità. E proprio nel contesto di questo superamento del tempo, di una sua eternità raggiunta, la donna ha una corona di stelle intorno al suo capo. La corona esprime la vittoria finale già riportata. Allora, a questo livello di meta raggiunta, le dodici tribù di Israele e i dodici apostoli non si sommano più, ma si sovrappongono, sottolineando così l'unità del popolo di Dio e dell'A.T. e del N.T.: le dodici stelle evocano insieme e globalmente tutto il popolo di Dio. Chi è questa donna? L'assemblea ecclesiale che sta decifrando faticosamente il segno alla luce dell'A.T. l'ha già intuito; si tratta del popolo di Dio, visto nelle sue dimensioni trascendenti, i cui valori essenziali non si vedono: il popolo è amato da Dio, ha una sua fecondità; è ricolmato dei suoi doni migliori, ha già assicurata la pienezza della vita futura, escatologica. L'assemblea si rispecchia con gioia stupefatta in questo quadro. Ma il segno continua. Il quadro sembra cambiare bruscamente, anche se il protagonista di fondo, la donna, rimane lo stesso: “Ed è incinta e urla partorendo e tentando di dare alla luce”(12,2).
La fecondità che già la parola “donna” lasciava intravedere, viene esplicitata e sottolineata: la donna, incinta, si trova nel momento decisivo e culminante: sta per dare alla luce una creatura. Vuole assolutamente partorire, nonostante lo sforzo estenuante che ciò le richiede. Partorirà davvero? E quale sarà il significato di questo parto? Soprattutto chi sarà il figlio?

Il segno del male

L'autore lascia l'assemblea con questi interrogativi sospesi. Per comprendere il senso del parto e del travaglio che lo accompagna, è indispensabile un'altra serie di considerazioni, suggerite da un secondo segno che, contrapposto al primo, ne facilità, quasi per contrappunto, l'interpretazione: “E apparve nel cielo un altro segno: ed ecco un drago rosso, immenso, con sette teste e dieci corna e sulle teste dieci diademi. E la sua coda tirò giù un terzo delle stelle del cielo e le gettò sulla terra. Il drago si mise davanti alla donna che stava per partorire, per poter divorare il figlio di lei appena essa lo avesse partorito” (12,3-4).
Il drago è “il serpente antico, colui che è chiamato diavolo e satana” (12,9). Agisce entrando nella storia umana, specialmente insinuandosi in quelle realtà che danno il tono alla vita degli altri: sono le strutture, i centri di potere (le teste con i diademi).
Questa somma mostruosità di negatività demoniaca e di malizia umana, si oppone al parto della donna e tende a distruggerne il frutto. Il simbolismo, per l'intreccio di quei segni, si è fatto complesso: la domanda che l'assemblea si era posta prima diventa ancora più assillante e tormentosa: che significa il parto? Quale ne è propriamente il frutto tanto osteggiato?


Il "grande segno" negli affreschi medioevali della Basilica di S.Elia a Castel S.Elia: sotto una teoria di santi, a sinistra la "donna" con le ali fugge verso il deserto, coronata di dodici stelle, al centro il drago che la insidia, a sinistra il figlio maschio rapito da Dio

Il Cristo generato dalla chiesa

L'autore dà finalmente una risposta che illumina di luce abbagliante lo sforzo di decodificazione compiuto prima: “E partorì un figlio, maschio, che pascerà tutte le genti con verga di ferro” (12,5b).
La citazione del salmo 2,9 – sempre riferita a Cristo nel N.T. e anche nell'Apocalisse (cfr. 19,11) – non lascia dubbi: colui che pascerà tutte le genti con verga di ferro è Cristo. Ma è un Cristo proiettato nel futuro, e propriamente nel futuro escatologico: allora, alla conclusione della storia della salvezza, egli metterà in atto tutta la sua energia di vittoria sul male (cfr. 19,11-16). Ed è un Cristo che nasce dalla chiesa. L'assemblea che si identifica con la chiesa e con la donna ne prende atto con commozione: proprio lei dovrà esprimere faticosamente, giorno per giorno, il suo Cristo. Ciò si verificherà in tutto quello che la chiesa-assemblea riuscirà a realizzare di bene: nel bene che si vede come nel bene nascosto, nel bene apprezzato come nel bene incompreso. Tutto quello che la chiesa faticosamente avrà dato alla luce favorirà la crescita e il raggiungimento della statura completa di Cristo (cfr. Ef 4,13). Proprio Paolo aveva fatto l'esperienza di quanto sia duro e difficile esprimere quotidianamente, anche nell'apostolato, la figura di Cristo da riprodurre negli altri: “Figlioli miei – aveva scritto ai Galati – per voi io soffro ripetutamente le doglie del parto, finché Cristo prenda consistenza in voi” (4,19).
La chiesa-assemblea è come incantata davanti a questa prospettiva che valorizza tutti i particolari della sua vita. Ma non può dimenticare la situazione in cui si trova. Che cosa sono – le viene da chiedersi - i suoi tentativi di bene in confronto con tanti elementi ostili che, come puro rapporto di forza, le sono immensamente superiori? Che significano, ad esempio, i suoi sforzi di bontà, di superamento del male, di fronte alla violenza e alla crudeltà organizzate? Non è un'illusione da sogno riuscire ad esprimere, nella quotidiana fatica, il Cristo in crescita che nella fase escatologica sconfiggerà definitivamente il male, quando il male è oggi così potente e l'assemblea liturgica così limitata?

Il cammino fiducioso nel deserto

L'autore dell'Apocalisse dà a questa difficoltà una risposta rassicurante e impegnativa: “E il frutto del parto di lei fu rapito e portato verso Dio e verso il suo trono. E la donna fuggì nel deserto, dove ha un luogo preparatole da Dio perché la nutrano là per milleduecentosessanta giorni” (12,5b-6). Quello che la chiesa riesce ad esprimere di bene, per quanto limitato e apparentemente inconsistente, in confronto con l'ambiente in cui essa si trova a vivere, appartiene davvero al Cristo in crescita e non andrà perduto. Con un'immagine ardita, l'autore dice che questo frutto del parto doloroso della chiesa viene portato accanto a Dio, messo in contatto protettivo con la potenza di lui. Nessuna forza umana, nessuna forza demoniaca riuscirà a intaccarlo. La donna, però, fugge nel deserto. Nell'A.T., esso era stato il luogo della prova, della verifica, della maturazione nel rapporto tra Dio e il suo popolo; ed era stato anche il luogo dell'amore della giovinezza, del primo amore. La chiesa dovrà sentire il deserto – inteso con questa polivalenza di significati – come la sua situazione normale.
Ciò potrà significare, secondo le situazioni concrete che si verificheranno di volta in volta, attenzione a non deflettere dalla linea di Dio, fatica nel cammino, speranza e fiducia nonostante la fatica; per una assemblea ecclesiale potrà significare anche quella verifica della sua autenticità che le verrà dalle prove e dalle persecuzioni. Ma soprattutto dovrà esprimere un amore assoluto e radicale, con tutta l'essenzialità che suggerisce il deserto. Dio ha prevenuto la donna-chiesa in questo amore: le ha dato il suo meglio, le ha assicurato già la corona della vittoria finale, le permette addirittura di esprimere il Cristo che cresce nella storia, e per tutta la durata della prova la seguirà con premura. Non le lascerà mai mancare il suo nutrimento (la sua parola, l'Eucaristia...) come non lo aveva fatto mancare al suo popolo nel deserto. All'assemblea non resta che ringraziare, esprimere la sua disponibilità a un impegno concreto e realistico, al di là del sogno e del pessimismo ugualmente facili. La chiesa sente che deve fare sua la gratitudine, la disponibilità, la prontezza all'impegno di Maria, madre di Gesù e della chiesa.

Eppure la tradizionale lettura “spirituale” che vede nella “donna vestita di sole” Maria, la Madre di Dio, non è estranea a questa lettura ecclesiologica. In un articolo dedicato a questo tema – Dalla maternità di Maria alla maternità della Chiesa: un'ipotesi di evoluzione da Gv 2,3-4 e 19,26-27 ad Ap 12,1-6, apparso in Rassegna di Teologia e ripubblicato in U.Vanni, L'Apocalisse. Ermeneutica, esegesi, teologia, EDB, Bologna, 1988, pp. 333-347 – così p.Vanni sintetizza, infatti, il rapporto fra la Chiesa e Maria, fra Ap 12 e Gv 2, nelle pagine finali del saggio:

Esiste una continuità in crescendo, una vera evoluzione tra “madre di Gesù” e la “donna” nel quarto Vangelo da una parte e quanto troviamo a proposito della “donna” nel capitolo 12 dell'Apocalisse, dall'altra. La “madre di Gesù” detta “donna” enigmaticamente già in Gv 2,4 fa pensare alla chiesa, della quale Maria, Gesù e i discepoli insieme (cf. Gv 2,12) rappresentano la prima realizzazione. Ma il termine “donna”, venendo dopo la domanda provocante di Gesù sul suo rapporto con Maria, ribadita con l'allusione all' “ora” di Gesù, esce fuori dal suo contesto immediato e punta in avanti, verso l' “ora”. Nel contesto dell' “ora” la qualifica di “donna” viene ripresa e se ne ha una prima spiegazione. Mediando tra madre di Gesù e la maternità nei riguardi dei discepoli, il termine riferisce Maria alla chiesa, che è già costituita dai discepoli di Gesù. La madre di Gesù donna appare di fatto in funzione della chiesa. Accolta nella chiesa di Giovanni, esercitandovi la sua funzione di maternità, Maria spinge la chiesa che l'accoglie a rispecchiarsi in lei. Appare allora, sulla linea della “Sion”, come un simbolo paradigmatico della chiesa stessa. In questo senso si identifica idealmente con la chiesa. Ma la sua denominazione di “donna” e “madre di Gesù” appariranno in tutta la loro portata nell'Apocalisse. La chiesa, rispecchiandosi in Maria, scoprirà la sua identità e la sua funzione di portatrice e generatrice di Cristo nella storia. Allora la chiesa potrà denominarsi, semplicemente, “la donna”. Quest'ampia traiettoria teologico-biblica deve essere tenuta presente nel suo insieme con tutto il dinamismo letterario che comporta, pena, altrimenti, il rischio di interpretazioni isolate e riduttive. Se si prescinde dalla chiesa-donna dell'Apocalisse, che genera Cristo nella storia fino al compimento escatologico, gli appellativi “madre di Gesù” e “donna” dati a Maria nel quarto Vangelo rimangono elementari e si appiattiscono. Viceversa, se si prescinde dal movimento in avanti che parte dal quarto Vangelo e sbocca nel capitolo 12 dell'Apocalisse, la figura della “donna-chiesa” apparirà sorprendente ed enigmatica, come ci mostrano le tante interpretazioni che, anche salvando il significato ecclesiale di fondo, sono state proposte. Non si capisce adeguatamente la donna-chiesa senza rapportarla a Maria. Parimenti, se non si coglie nel quarto Vangelo, la tensione tra “madre di Gesù” e “donna”, si correrà il rischio, nell'interpretare il capitolo 12 dell'Apocalisse, di identificare la “donna” con Maria, svuotandone la dimensione ecclesiale. Non si capisce la portata teologico-biblica di Maria, “madre di Gesù”, se non la si vede insieme come “donna” rapportata, in quanto tale, alla chiesa. Maria – in sintesi – è madre di Gesù nel senso più ampio del termine: è madre fisica di Gesù, diventa madre morale favorendone la crescita nei discepoli. Così è messa in contatto diretto con la chiesa-donna di cui costituisce il simbolo ideale e nella quale potrà riconoscersi: la maternità della chiesa che porterà Cristo negli spazi della storia prolunga la maternità di Maria e si salda con essa.


Testi dello stesso autore presenti sul nostro stesso sito www.gliscritti.it

Il “circolo giovanneo” e il cammino della chiesa verso la Gerusalemme celeste
Per conoscere l´Apostolo Paolo
Perché non montassi in superbia mi è stata messa una spina nella carne (2 Cor 12, 7)
La catechesi e il catechista nell’esperienza ecclesiale del Nuovo Testamento


Per altri articoli e studi di p.Ugo Vanni S.J. o sul libro dell'Apocalisse presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici


 

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