Parola-Liturgia-Carità: un trinomio “da superare” (tpfs*)

Un'intervista a mons. Sergio Lanza

Molti documenti ecclesiali sono ispirati ad un trinomio che sembra essere sempre più diffuso nella pastorale italiana, il trinomio che classifica la pastorale cristiana secondo la tripartizione in Parola, Liturgia, Carità. Altre realtà ecclesiali si orientano con altre classificazioni. Ad esempio, all'interno del cammino neocatecumenale questa triade viene, invece, sostituita da un “tripode” – è l'espressione caratteristica usata – comprendente sempre la Parola e la Liturgia, ma con la Comunità, come terza gamba, terza colonna di sostegno del cammino, al posto della Carità.
Per orientarci in un'analisi più approfondita che permetta di avere una visione della pastorale teologicamente ed ecclesiologicamente fondata, abbiamo intervistato mons.Sergio Lanza, docente di Teologia pastorale presso la Pontificia Università Lateranense. Vi presentiamo la trascrizione del suo intervento.


Assistiamo al fatto che la triade Parola-Liturgia-Carità sembra essersi imposta come un punto di riferimento per la pastorale a tutti i livelli.
Ma appartiene essa alla tradizione della Chiesa? Da dove deriva, dove ha la sua origine storica?

Dal punto di vista della vicenda ecclesiale e pastorale, non si può certo dire che il trinomio Parola-Liturgia-Carità sia un riferimento tradizionale. Essa è documentata, fin dall'antichità, come categoria cristologia: non l'unica, ma certamente attestata negli scritti dei Padri della Chiesa. Gesù è, infatti, interpretato attraverso i “titoli” di re, sacerdote e profeta [1] . Questi tre titoli vengono a costituire una identificazione cristologica senz'altro pertinente. Ma questa sistematizzazione, appunto, è una fra le molte che concorrono a presentare l'identità del Cristo, Messia, Figlio di Dio, Redentore dell'uomo e del cosmo. Ve ne sono altre, come lo stesso Nuovo Testamento attesta.
Nel corso dei secoli, e in particolare nella teologia medievale, questa triade non ha particolare rilievo. La suddivisione del messianismo in regale, sacerdotale, profetico viene ripresa, in ambito protestante, soprattutto dal filone calvinista, per sostenere la “nuova” teologia del sacerdozio comune. Relativamente nuova, perché per altri versi essa è antica quanto la Chiesa; nuova quindi non nel senso che non sia esistita fin dall'origine, ma nel senso che viene contrapposta al sacerdozio ministeriale, che è ritenuto abusivo. Allora si tratta, per Calvino e per l'area protestante, di identificare, di dare i contorni a questa idea del sacerdozio comune, o battesimale. Questo viene trovato nel trinomio sacerdote, profeta, re. Questo trinomio, che identifica la figura di Cristo, la identifica sufficientemente; nel battesimo, poi, è il cristiano che è assimilato a Cristo, che diventa figlio adottivo di Dio. Sotto questo profilo lo svolgimento teologico protestante è corretto, salvo l'antagonismo che elide il sacerdozio ministeriale di cui si è già detto.
Dal protestantesimo questo trinomio passa ad essere utilizzato abbastanza presto, anche in ambito cattolico - in opere non numerose, ma già nel contesto post-tridentino - quando cominciano ad essere pubblicate alcune opere di carattere pastorale di carattere molto pratico per sostenere il ministero del parroco, rimarcato nella riforma tridentina. Nel presentare la figura del pastore, soprattutto del parroco, si fa riferimento a tre competenze fondamentali che vengono perlopiù espresse con il trinomio: magisterium verbi, ministerium gratiae, regimen animarum (magistero della Parola, ministero della Grazia e governo delle anime). Questo trinomio passa poi a caratterizzare anche il mondo laicale, quando si comincia, anche in ambito cattolico, a partire dalla metà del '900, a parlare di sacerdozio comune dei fedeli, il sacerdozio battesimale. Naturalmente con qualche modifica: non sarà più magisterium verbi, ma ministero della Parola, non sarà più ministero della grazia o dei sacramenti, ma partecipazione liturgica ed il goveno delle anime diventerà vita della carità. Per cui nella formula più usata diverrà: catechesi, liturgia e carità.
A mio parere, quello che ho detto sin qui trova riscontro abbastanza facile nei documenti, dai testi, ecc.
Dobbiamo aggiungere che il crescente ricorso al trinomio parola, liturgia carità si verifica anche per una ragione più di fondo: il progressivo differenziarsi della Chiesa dalla società, a partire certo già dal Rinascimento, ma soprattutto dall'Illuminismo. Avviene, in parole povere, il fatto che la cristianità va destrutturandosi; non c'è più la coincidenza Chiesa-società, e questo comporta - è riscontrabile sotto vario e diverso profilo - comporta l'esigenza per la Chiesa di definire se stessa, mentre prima aveva avuto soltanto l'esigenza di definire le proprie parti, che sono le parti stesse della società. Adesso la Chiesa deve definire la propria presenza nella società. Quindi: in che cosa consiste l'azione pastorale? (analogamente nasce la Dottrina sociale come ambito tematico specifico, con l'enciclica Rerum Novarum di Leone XIII). Nel passato, nel mondo unitario, la pastorale si trova ad essere di fatto coestesa a tutto ciò che riguarda la vita del paese, del villaggio, della città, perché tutto è segnato dal punto di vista cristiano, dalla fiera del bestiame alla processione del Santissimo, ecc. Specifiche certo sono le azioni liturgico-sacramentali, che sono quelle che caratterizzano il ministero presbiterale, inteso soprattutto nella sua funzione sacerdotale, ma all'interno di una società che è tutta una società sacrale. La differenziazione avviata dall'illuminismo (secolarizzazione) comporta una revisione e, certamente, l'esigenza di non ridurre tutto e soltanto all'atto liturgico, la necessità di ricomporre, in maniera più persuasiva, un intero “pastorale”. Questo intento, lodevole e corretto, viene però, di fatto, realizzato, purtroppo - questo è il mio parere – in chiave remissiva; in altri termini, cedendo a quella spinta socioculturale che delimita il campo della religione al privato e il senso pubblico della Chiesa a ruoli di supplenza socioassistenziale: dove cioè non c'è solo la differenziazione, ma la ritirata pratica della nostra pastorale ordinaria, dai luoghi, appunto, della vita quotidiana della gente, ritenuta profana, laica, secolare, e quindi non appartenente al proprium dell'azione pastorale. Per cui la pastorale viene da allora vista come quell'insieme di attività che si svolgono dentro la comunità, dentro la chiesa, dentro le mura dell'edificio parrocchiale. Così, secondo l'interpretazione restrittiva di quel trinomio, trova auto-copertura e, in qualche modo, auto-giustificazione il ritrarsi circoscritto e intraecclesiale dell'azione pastorale. Il trinomio viene messo immediatamente in crisi però dalle esigenze della nuova evangelizzazione. L'idea della “nuova evangelizzazione” mostra categoricamente - non solo e non tanto dal punto di vista teoretico, ma dal punto di vista pratico - che la pastorale reale, quella che comunque si deve cercare di fare, dentro quello schema non ci sta. E quello schema scoppia. Bastava ascoltare la parola del Papa ai Parroci di Roma (Quaresima 1986): “La parrocchia deve cercare se stessa al di fuori di se stessa”.
Riassumendo l'iter teoretico possiamo concludere che quel trinomio ha pertinenza cristologica, ha pertinenza per indicare l'identità del cristiano. Non è l'unico modo, ma è un modo corretto. Non ha invece pertinenza quando passa a identificare la mappa, gli ambiti, dell'azione ecclesiale.

Un suo studente ha preparato una tesi su questo argomento. Qual è l'ambito della ricerca?

Don Bazzichetto, sacerdote della Diocesi di Vittorio Veneto, ha già scritto una tesi di licenza su questo argomento. Ha cercato di esplorare la letteratura in ambito europeo, quindi allargando i confini. Per quello che riguarda la lingua tedesca, dove esistono un paio di opere significative, sta cercando adesso per il dottorato di approfondire ulteriormente.
La letteratura specifica in materia conferma quello sono venuto esponendo, cioè chiaramente identifica l'itinerario storico e mette in evidenza soprattutto, da un lato la pertinenza dogmatica dell'affermazione, dall'altro, la non percorribilità pastorale come definizione degli ambiti nell'azione ecclesiale (anche se questa seconda tematica non è ancora sufficientemente approfondita negli studi). Naturalmente il problema è dare poi una prospettiva, perché non basta criticare un modello. Ora il primo punto di un discorso positivo – e non solo critico - è questo, che non si può definire in maniera apodittica...

Affrontiamo ulteriormente la pars construens, dopo la pars destruens Come possiamo ricostruire un quadro della pastorale se lasciamo cadere il trinomio Parola-Liturgia-Carità?

Il primo punto è che un quadro d'insieme, un salto di qualità nella descrizione della topografia della pastorale, non può derivare immediatamente da una motivazione dogmatica da cui discendano perentoriamente gli ambiti determinati dall'azione ecclesiale. Certamente alcuni di essi sono pre-scritti, in particolare la liturgia. Questo è ovvio, questo è il primo punto.
Il secondo punto è questo: il trinomio che è stato criticato, manifesta in fondo più che tre territori, tre dimensioni, tre componenti. Facciamo un esempio concreto, prendiamo la pastorale giovanile di cui tanto si parla. La pastorale giovanile non si fa senza ministero della Parola, senza la presenza della fede nelle sue motivazioni, nelle sue espressioni, nei suoi contenuti, nelle sue argomentazioni, ecc. Non si fa senza investire la vita concreta, in tutti i suoi ambiti, per investirla dal principio fontale che è lo Spirito Santo, che riversa l'amore nel cuore del credente, del cristiano. Quindi abbiamo la dimensione della Parola e della Carità. Non si può fare nulla senza che tutto non venga invocato e riportato a Dio – e questo è la liturgia. Però tutto questo avviene dentro un'unica area. Sono componenti, che stanno dentro tutte le più diversificate azioni ecclesiali.
Un altro punto importante è questo. La liturgia non può essere affiancata agli altri ambiti, agli altri territori dell'agire ecclesiale. La liturgia è fonte e culmine, ciò da cui tutto promana e a cui tutto viene ricondotto. Non è un settore accanto agli altri. E' la ragione, l'anima, il punto di partenza, e il punto di arrivo. Gli altri due aspetti in fondo, a ben guardare, non fanno altro che indicare l'ambito della parola e l'ambito dell'azione (il dire e il fare). Sono i due ambiti fondamentali dell'agire umano che si intrecciano nei vari territori dove in concreto tale agire di esprime.
Ma, soprattutto, al nostro scopo, è importante rilevare che una buona impostazione è quella di distinguere tutto ciò che serve ad edificare la comunità nel proprio vissuto interno, ad intra, e le azioni che servono invece ad extra, cioè quelle che riguardano l'evangelizzazione, la missione, l'animazione delle realtà temporali, ecc.
Questo serve - perché se una topografia non serve alla vita di una comunità non serve a niente - a verificare, per esempio, l'equilibrio di un'impostazione pastorale. Io credo che tutta la nostra pastorale sia fortemente squilibrata. Dedica molto alla parte ad intra e fatica molto ad organizzare il resto.
Diciamo che ciò che è la pastorale ad extra, cioè rivolta all'esterno, è più una pastorale di iniziative che una pastorale strutturata organicamente. Mentre ad intra, pur con difetti, abbiamo una pastorale strutturata organicamente - le celebrazioni, i sacramenti, i vari momenti della vita interna di una comunità, ecc. ecc. - per quello che riguarda la pastorale ad extra abbiamo perlopiù delle iniziative. Siamo lontani dal realizzare quella frase del Papa della Quaresima del 1986: “La parrocchia deve cercare se stessa al di fuori di se stessa”. Ed ecco che lì si identificano 3-4 grandi campi del vissuto umano, che sono: il campo della famiglia, con la sua crescita interna, l'educazione dei figli, il campo del lavoro, il campo della salute e l'ambito del tempo libero. Sono dimensioni che appartengono al vissuto ed al vissuto cristiano, collocate quindi dentro l'ottica del Vangelo o, se si vuole, abitate dalla luce del Vangelo. Che in realtà, tuttavia, sono perlopiù emigrate dall'agenda pastorale ordinaria e quindi non rientrano nel suddetto trinomio e allargano la mappatura pastorale che poi si differenzia sempre più.... Si pensi alla pastorale dello sport, la pastorale dei mezzi di comunicazione, ecc. ecc.
C'è tutto un ventaglio molto ampio, ma non bisogna neanche rincorrere tutti i frammenti di un mondo che è divenuto più complesso. Bisogna identificare alcune priorità - questa è un'altra norma, insieme a quella della mappatura più aperta - distinte nell'equilibrio dell'ad intra e ad extra. E' la norma delle priorità pastorali.
Ci troviamo di fronte quindi a una riapertura, dopo il tentativo di codificare, un po' maldestramente, solo ciò che era “dentro”. Ci troviamo a riaprire il ventaglio, con il rischio grosso della dispersione. Allora bisogna fare, da un lato, una mappatura secondo una visione ampia e comprensiva della vita reale delle persone e dei loro problemi; dall'altro però, senza disperdere le energie inseguendo tutte le questioni, ma attivando un discernimento sapiente e una progettualità, mirata. Questa è la differenza. Se io in teoria devo dire quali sono i campi della pastorale, posso aprire il ventaglio in maniera estremamente dilatata. Ma se un parroco mi chiede quali sono le decisioni concrete da prendere, io dico che non lo so a priori, si può sapere solo all'interno di una vita diocesana e parrocchiale. Però certamente so che un criterio è quello delle priorità. La progettualità identificherà allora quegli ambiti - senza dimenticare gli altri - su cui va portata in maniera più attenta, più sistematica, più organica, l'attenzione pastorale, ecclesiale.
E' importante però, per concludere, è importante proprio non fidarsi di slanci emotivi, ma affrontare la fatica della progettualità, perché questa apertura della topografia pastorale non significhi un vagare senza orizzonte e senza meta, ma significhi invece rendersi conto di quel “duc in altum”, quel prendere il largo a cui ci invita il Papa: con la sapienza pastorale che si misura inesorabilmente con il concreto, cioè con le forze che ci sono, con i tempi che sono necessari. Guai alla pastorale che mette in progetto tutto e subito, perché finisce per scrivere le pagine inutili del libro delle buone intenzioni. Invece la progettualità è fatta anche di modestia, di umiltà concreta, del sapere ciò che si può realizzare oggi, ciò che si tenterà di fare domani. Ha sempre un traguardo che va un tantino oltre, perché non poggia mai soltanto sulle proprie forze, ma sempre crede nell'intervento di Dio, nella Grazia dello Spirito. Però non fa progetti che non hanno un senso concreto e una dimensione operativamente significativa.


Note

[Nota 1] (N.d.R.) Per un primo approccio alla questione storica, vedi i due articoli di J.Fuchs, con introduzione di Y. Congar, Origines d'une trilogie ecclésiastique a l'époque rationaliste de la théologie, Rev. Sc. ph. th., 1969, 185-211 e dello stesso Y.Congar, Sur la trilogie: prophète-roi-pretre, Rev. Sc. ph. th., 67 (1983) 97-115.


[Approfondimenti]