Unde malum? Da dove viene il male?
Per una riflessione teologica.
Pensieri da condividere, leggendo insieme testi dei teologi Joseph Ratzinger e Walter Kasper e del filosofo Vittorio Possenti (tpfs*)

di d.Andrea Lonardo


La domanda sul male e sulla sua origine, si pone dinanzi a Dio, al suo cospetto. E' evidente come il sole che, se Dio non fosse, neanche il male sarebbe. Se avesse ragione il materialismo, né la colpa morale, né il lutto sarebbero realmente male, ma sarebbero semplicemente eventi che “appaiono” all'uomo, in una realtà non dotata di radicale libertà e senso, in una natura né buona, né cattiva. Come le idee di Dio, di anima e di libertà sono correlativa (e la non verità della prima porterebbe alla insensatezza delle altre) così possiamo affermare del male.
La lettura recente di alcuni contributi che si pongono volutamente e coscientemente da un punto di vista teologico, da una prospettiva che considera il male non solo come evento morale intra-umano, ma lo valuta al cospetto di Dio, ci ha spinto a voler condividere alcuni pensieri. Il titolo “Pensieri da condividere” vuole esprimere proprio questo: non che essi debbano necessariamente essere condivisi, ma che le parole di questo articolo sono scritte proprio perché possano essere lette e lo scrittore di essi possa condividerli.
I tre approcci che proponiamo ci sono sembrati straordinariamente in consonanza e potrebbero esser letti quasi come un testo unitario, pur nelle diverse sfumature.
E' in gioco innanzitutto che cosa sia il male o chi sia il male. E la sfumatura chi/che cosa - come vedremo - è questione centrale. Non solo per l'origine del male. E' questione che vuole identificare, nominare, ciò che il male stesso sia (e non si può definire l'origine di qualcosa, se non si ha il coraggio di identificarlo). E' questione che determina in conseguenza anche come il male si manifesti e quali siano le sue espressioni più proprie.
Il card. J.Ratzinger, in un suo saggio che vi proponiamo, ha acutamente asserito il carattere personale/non personale del male. Il maligno/il male è veramente nemico di Dio, è veramente nemico dell'uomo – con linguaggio popolare potremmo dire che “ce l'ha con l'uomo, se la prende con l'uomo, ce l'ha liberamente con lui” – con una libertà che non è la necessità degli eventi naturali. Ma questa inimicizia è proprio nella forma della non personalità. Non ha forse il pensiero cristiano – ed è uno dei suoi contributi più significativi – mostrato che si è persona, proprio perché si hanno relazioni e che queste relazioni sono intessute di amore, di responsabilità, di fiducia, di fecondità, ecc. ecc.? Eppure il male è proprio colui che non ha queste relazioni, colui che ha scelto e sceglie di rifuggire da ogni relazione di amore, anzi di insidiare quelle che esistono, colui che si è tagliato fuori da ogni fiducia da prestare a Dio e all'uomo. Il male è rabbia, amarezza, tristezza, è il ghiaccio di una immobilità glaciale (come lo ha ben descritto Dante). Ad una analisi precisa il male si rivela tutt'altro che goduria, piacere, passione per la vita, ma piuttosto come l'incapacità di gioire, di prendere parte. Il rifiuto di ogni relazione di bene diviene, infine, anche incapacità dell'amore di sé: Il male si rivela così come essere personale, nella forma della non persona.
E tutto questo perché non è semplicemente assenza di bene, come, pur acutamente, talune posizioni filosofiche sono arrivate a definire, ma, più radicalmente, assenza di quel bene che è Dio stesso, anzi opposizione decisa e determinata a Dio stesso, il cosciente volgergli le spalle. E' rifiuto, non solo assenza di Dio. Il rifiuto di Dio è così rifiuto dell'Origine della dignità personale umana, lotta contro il Creatore stesso che diviene tentativo di dissoluzione della stessa personalità umana, a motivo del legame di ogni persona con Colui che è l'Amante delle sue creature.
Ma seguiamo da presso il card.Ratzinger nelle sue considerazioni [1] . Esse prendono avvio dalla valutazione critica di un intervento dell'esegeta H.Haag che, negli anni sessanta, si era espresso contro l'idea dell'esistenza del Maligno.
 
Il vangelo della prima domenica di quaresima, che riferisce la tentazione di Gesù ad opera di «Satana», dà occasione di anno in anno di meditare su quella misteriosa potenza, che si nasconde dietro il nome di «Satana». Un ulteriore impulso a questo problema venne alcuni anni fa da Tubinga; nel 1969 Herbert Haag, professore di Antico Testamento, vi aveva pubblicato un libretto con il significativo titolo di La liquidazione del diavolo?. Questo libretto culmina nella frase: «Noi abbiamo già compreso che nel Nuovo Testamento il concetto di 'diavolo' sta semplicemente al posto del concetto di 'peccato'» (p. 52). Al papa, che aveva sottolineato la reale esistenza di Satana e si era dichiarato contrario alla sua dissoluzione in qualcosa di astratto, Haag ha di recente rimproverato di ricadere nella visione del mondo giudaica dei primi tempi; Paolo VI farebbe confusione, nella Sacra Scrittura, tra visione del mondo ed espressione della fede. Cosa si può dire di ciò? E' importante qui, anzitutto, una precisazione metodologica. Neppure Haag può negare che nel Nuovo Testamento Satana e i demoni giochino un ruolo importante. Non può contestare nemmeno il fatto che nel Nuovo Testamento il termine «diavolo» non rappresenta affatto un sinonimo di peccato, ma allude ad una potenza esistente; l'uomo è abbandonato ad essa e ne viene liberato per opera di Cristo, perché solo lui, nella sua qualità di «più forte» può legare l'uomo «forte» (Lc11,22; cfr. Mc. 3,27). La supposizione che si avrebbe conosciuto la possibilità di sostituire diavolo con peccato sorge in Haag per via induttiva, senza un vero e proprio fondamento; il «fondamento» si nasconde in una formulazione, che per la sua ovvietà potrebbe indurre a rinunciare ad un esame più preciso: «Nel significato delle forme di pensiero giudaiche di allora il diavolo appare nel Nuovo Testamento come l'esponente del male. Gesù e gli apostoli si muovono entro queste forme di pensiero allo stesso modo del loro ambiente» (p. 47). Qui si ammette — come il testo afferma indiscutibilmente — che Gesù e gli apostoli fossero convinti dell'esistenza di potenze demoniache; nello stesso tempo, però, si presuppone come del tutto evidente che essi fossero vittime «delle forme di pensiero giudaiche di allora». Da qui non è difficile derivare la conclusione seguente, che cioè «questa concezione non è più conciliabile con la nostra immagine del mondo» (p. 27). Ciò significa che il motivo per il «commiato dal diavolo» non poggia sulle affermazioni bibliche, le quali sostengono il contrario, ma sulla nostra visione del mondo, con la quale esso sarebbe «inconciliabile». In altre parole, Haag congeda il diavolo non come esegeta, come interprete della Scrittura, ma come persona del nostro tempo, che ritiene improponibile l'esistenza di un diavolo. L'autorità in forza della quale egli asserisce il suo giudizio non è, dunque, quella di interprete della Bibbia, ma la visione del mondo a lui contemporanea.
Si potrebbe pensare di aver così eliminato il problema, perché è chiaro ormai che Haag giudica quello che è «conciliabile» con il pensiero moderno, contro il testo della Bibbia, sulla base della sua concezione. Ma la questione non è così semplice perché, in realtà, ci sono delle espressioni nella Bibbia, che non si possono reputare come testimonianza della fede, ma devono venir considerate come struttura della visione dei mondo, nella quale quell'idea particolare si esprime. Questo vale ad esempio per la visione del mondo geocentrica, che venne difesa in un primo momento, contro Copernico e Galilei, come dottrina biblica, finché si riconobbe che la Bibbia non è competente per problemi di astronomia; ciò vale per l'interrogativo sull'origine del mondo; per un certo tempo si volle vederla descritta letteralmente nel primo capitolo della Genesi, finché si ritrovò la strada per dar ragione di nuovo alla chiesa antica nell'ammettere che qui si tratta di affermazioni della potenza di Dio e del compito dell'uomo, ma non di informazioni scientifiche. Si dovrà dichiarare pure che non è affatto sempre chiaro fin dove arrivi l'affermazione di fede della Bibbia e cosa sia soltanto una strumentalizzazione del suo tema peculiare, determinata dal tempo. Nel medioevo l'idea della terra come centro dell'universo si era fusa così strettamente con la fede nell'incarnazione di Dio, con la speranza in un nuovo cielo e una nuova terra, che la visione del mondo eliocentrica apparve come un attacco al nucleo stesso della fede. Perché Dio infatti dovrebbe essersi fatto uomo su un pianeta privo di importanza dal punto di vista astronomico, posto in mezzo ad un gigantesco universo? La decisiva azione salvifica non era stata privata di una degna sede? Solo con una faticosa lotta si poté arrivare a capire cosa è necessario, e cosa non lo è, per credere nella «discesa» di Dio. Per questo parla a sfavore di Haag la semplicità con cui egli stabilisce ciò che è conciliabile o meno con la visione moderna del mondo; parla contro di lui la falsa pretesa di decidere in qualità di esegeta, benché egli parli come filosofo e la sua unica filosofia consista evidentemente in una irriflessiva modernità. Ma non è ancora stato deciso in senso univoco il problema se qui, forse, non ci si trovi realmente davanti solo ad un modo di vedere determinato dalla visione del mondo, il cui contenuto reale si debba separare dalla forma.
Sorge perciò l'interrogativo: come si può chiarire ciò? Come si può evitare che vengano qui ripetuti degli scontri falsi e dannosi come la disputa con Galileo? Come si può impedire, viceversa, che la modernità venga amputata per amore della fede stessa? Anche questo è accaduto, da Reimarus fino ai cristiani tedeschi del Terzo Reich; nel mettere in guardia da nuovi casi Galileo, si tace in genere su questo fatto, benché gli effetti di cristianesimi così conformistici fossero probabilmente molto più catastrofici del processo a Galilei, che non fu soltanto un prodotto dell'ostinatezza ecclesiastica, ma la lotta di un'intera società, la quale doveva imparare a superare la scossa ricevuta dai principi spirituali della storia fin'allora vissuta ed a distinguere di nuovo, nel cambiamento dei tempi, tra «stelle fisse» e «pianeti», tra orientamento persistente e movimento transitorio. Non esistono criteri che si possano impiegare subito, e senza tema d'errare, in ogni caso che si presenti; il tracciare dei confini rimane un compito, che richiede anche un continuo sforzo spirituale; si potrà comprendere così una lotta per i confini della fede, finché, per un verso, rimane la disponibilità alla correzione sulla base di un sapere dimostrato e, dall'altra parte, si riconosce che una fede può venir realizzata soltanto nella fede comune con la chiesa; quello che di volta in volta viene considerato sostenibile o meno, non è soggetto alle disposizioni di decisioni private. Anche se non esiste criterio alcuno, che in tutti i singoli casi indichi automaticamente, volta per volta, dove termina la fede e dove inizia la visione del mondo, esistono tuttavia una serie di aiuti per giudicare, i quali indicano la strada da seguire nella ricerca di delucidazioni. Io ne nomino quattro. Un primo criterio deriva dal rapporto dei due Testamenti. La Bibbia non esiste in uniformità, ma nell'accordo tra Antico e Nuovo Testamento, che nel loro porsi di fronte e nella loro unità si commentano a vicenda. Si deve affermare anzitutto che l'Antico Testamento ha valore soltanto in unione col Nuovo, sotto i suoi segni, per mezzo della sua rapportabilità, come pure che il Nuovo Testamento dischiude il suo contenuto solo grazie al suo continuo riferirsi all'Antico. Questo dato di fatto è generalmente riconosciuto per quanto riguarda le prescrizioni legislative dell'Antico Testamento; esse non hanno valore di legge nella loro letteralità, ma valgono in quanto sono una parte della storia che porta a Cristo, che è terminata in lui. La stessa regola di base, che Paolo ha chiaramente formulato per la questione della legge, determina in generale la relazione dei Testamenti. Se nell'ultimo secolo la si avesse avuta così chiaramente davanti agli occhi come l'ebbero i padri della chiesa, si sarebbe evitata tutta la disputa sul racconto della creazione. In base ad essa, infatti, il racconto della creazione della Genesi non ha valore diretto, come testo veterotestamentario, nella sua nuda letteralità, ma in quanto viene accolto nella prospettiva del Nuovo Testamento, nell'ambito della cristologia. Se si usa questo criterio, si vede che Gv. 1,1 è l'assunzione neotestamentaria del testo della Genesi, la cui vivace descrizione viene riassunta nell'unica affermazione: in principio era il Verbo. Tutto il resto viene così rimandato nel mondo delle immagini. Ciò che rimane è la provenienza della creazione dalla parola, la quale si rispecchia nell'Antico Testamento in molte parole. Che senso ha questo criterio per le nostre questioni? Chi lo usa va incontro ad un risultato sconcertante. Mentre noi nel problema della creazione e nella questione della legge trovavamo, nel porre il Nuovo Testamento di fronte all'Antico, la tendenza alla concentrazione, al riassunto in un semplice punto centrale, qui appare esattamente il contrario, la tendenza cioè all'espansione; la presentazione di potenze demoniache appare nell'Antico Testamento soltanto gradualmente; nella vita di Gesù invece possiede un peso incredibile, che rimane immutato in Paolo e si mantiene fino agli ultimi scritti del Nuovo Testamento, nelle lettere della prigionia e nel vangelo di Giovanni. Questo processo di intensificazione, di estrema cristallizzazione del demoniaco — che avviene nel passaggio dall'Antico al Nuovo Testamento, proprio in contrapposizione alla figura di Gesù — e la persistenza del tema nell'intera testimonianza neotestamentaria possiedono una notevole forza espressiva. A partire da qui si potrà dire che nella storia iniziale della fede veterotestamentaria l'affermazione di potenze demoniache doveva rimanere in disparte, perché si doveva far accettare, in primo luogo, contro ogni dualità, la fede nel Dio uno ed unico. In un ambiente saturo di dei, che osservava incerto i cambiamenti tra dei buoni e cattivi, il richiamo a Satana avrebbe tolto la sua chiarezza alla decisiva professione religiosa. Solo quando la tesi dell'unico Dio, con tutte le sue conseguenze, era divenuta possesso imperturbabile di Israele, fu possibile allargare lo sguardo a delle potenze che superavano la dimensione dell'uomo, senza poter mettere in discussione Dio, nella sua unicità. Questo processo storico rimane importante in quanto anche oggi dà un parere vincolante sull'ordine gerarchico della conoscenza di fede. Al primissimo posto sta l'essere Dio di Dio, la sua unicità. La fede cristiana va verso Dio e, a partire da lui, vede il mondo; il cristiano, come dice Gregorio di Nissa a proposito del libro di Qohelet (2,14), ha i suoi occhi nella testa, cioè in alto, non in basso. Egli sa che colui che teme Dio non deve temere niente e nessuno e il timore di Dio è fede, qualcosa di molto diverso da un timore servile, da una paura dei demoni. Ma esso è anche qualcosa di molto diverso da un coraggio millantatore, che non vuol vedere la serietà della realtà. E' proprio del vero coraggio non nascondersi le dimensioni del pericolo, ma essere in grado di percepire la realtà nel suo insieme. E ciò chiarifica anche il fenomeno dell'intensificazione: quanto più l'uomo sta dalla parte di Dio, tanto più egli diventa realistico; quanto più chiari si mostrano i confini della realtà, tanto più chiara diventa anche la contrapposizione a ciò che è santo: le belle maschere del demonio non ingannano più colui che le osserva partendo da Dio. Questo porta già ad un secondo criterio. Si deve indagare di volta in volta in quale rapporto sta un'asserzione con la realizzazione interiore della fede e della vita del credente. Delle affermazioni che rimangono soltanto modi di vedere teoretici, ma non entrano nel vero e proprio svolgersi dell'esistenza, in via normale non potranno venir annoverate tra ciò che è essenzialmente cristiano. Viceversa ciò che non si presenta come un puro modo di vedere teoretico, ma sta nello spazio dell'esperienza di fede, appare nella vita di fede come dato dell'esperienza, ha una posizione del tutto diversa. L'idea del sorgere e del tramontare del sole, della posizione centrale della terra, poteva essere quindi un modo di vedere naturale e variamente interpretabile della fede, non apparteneva alle sue specifiche esperienze. La mistica, con la sua via dell'unione, portava piuttosto alla relativizzazione di tutti gli schemi di visione del mondo. In questa questione mi sembra di straordinaria importanza il fatto che la lotta con la potenza dei demoni appartiene allo specifico cammino religioso di Gesù stesso. La Bibbia è a conoscenza delle sue tentazioni (Lc. 22,28), non soltanto di quelle che vengono esplicitamente descritte; essa va così avanti da poter affermare che Gesù è venuto nel mondo per distruggere le opere del diavolo (1Gv 3,8). Questa formula compendia ciò che Gesù stesso dice — nella serie di detti sull'uomo più forte e sull'uomo forte — della potenza dei demoni, il cui regno egli, nella forza dello Spirito Santo, porta alla rovina (Mc. 3,20-30). Sorprende che egli, che non voleva lasciarsi trasformare in uomo del miracolo, ritenesse la lotta contro i demoni la parte centrale del suo incarico (vedi ad esempio Mc 1,35-39) e che, di conseguenza, i pieni poteri su di essi costituiscano il nucleo del potere, che egli conferisce ai suoi discepoli: essi vengono mandati «a predicare col potere di cacciare i demoni» (Mc. 3,14s). La lotta spirituale contro le potenze che rendono schiavi, l'esorcismo su un mondo abbacinato da demoni è una componente inseparabile dell'iter spirituale di Gesù e sta al centro sia della sua particolare missione che di quella dei suoi discepoli. La figura di Gesù, la sua fisionomia spirituale non cambia se il sole gira attorno alla terra oppure se la terra si muove attorno aI sole, se il mondo si è formato per evoluzione oppure no, ma viene decisamente cambiata, se si esclude da essa la lotta con la sperimentata potenza del regno dei demoni. A questo secondo criterio è strettamente collegato il terzo. Una Bibbia senza chiesa sarebbe soltanto una raccolta letteraria. Perciò quando, al di là della necessaria ricerca scientifica di ciò che è strettamente storico, la Bibbia viene esaminata come libro della fede, quando viene cercata la distinzione tra fede e non fede, deve venir in ballo questa unità di Bibbia e chiesa. Come già dicemmo, la fede può venir realizzata soltanto nel credere insieme con tutti; essa svanisce dove viene superata dalla volontà del singolo individuo. Come ulteriore criterio è necessario quindi ricercare in che misura le affermazioni sono state accolte nella fede della chiesa. Ma la fede della chiesa non è un qualcosa del tutto univoco e circoscrivibile, altrimenti la questione sarebbe semplice. Si deve dunque discernere con più esattezza ed adoperarsi per scoprire in quale misura qualcosa è entrato a far parte della vera ed interiore realizzazione della fede, nella forma di base della preghiera e della vita stessa, al di là delle deviazioni della tradizione. Così, ad esempio, la disputa sulla filiazione divina di Gesù, sulla divinità dello Spirito Santo, sulla unità e trinità di Dio, è stata portata avanti a motivo delle conseguenze per la liturgia battesimale, per la liturgia eucaristica e quindi per il significato della conversione cristiana, quale si presenta nel battesimo. Basilio, ad esempio, che portò a conclusione l'ultima disputa sulla divinità dello Spirito Santo, ha discusso questo problema con molta rigorosità, partendo dall'intima pretesa del battesimo e della sua forma liturgica. Lui sostenne che il battesimo non è un trastullo liturgico, ma la solenne forma ecclesiale della decisione esistenziale, supposta dall'essere cristiano. Si deve poter prenderla alla lettera, soprattutto nel suo avvenimento centrale. Essa specifica cosa avviene nel divenire cristiani e cosa non avviene. Ma, per ritornare alla nostra questione, l'esorcismo e la rinuncia a Satana fanno parte dell'avvenimento centrale del battesimo; quest'ultima, assieme alla promessa a Gesù Cristo, costituisce l'essenziale porta d'ingresso al sacramento. Il battesimo introduce così l'uomo nel modello di esistenza di Gesù Cristo, nella sua lotta e nella sua libertà. Viene a contatto con la sua esperienza spirituale e la trasferisce in colui, che inizia ad imitare Cristo. Quando l'uomo cammina nella luce di Gesù Cristo il demonio viene trasportato dall'altra parte e diventa così superabile. Ritorna con pieno valore l'affermazione che se si volesse annullare la realtà della potenza demoniaca, si cambierebbe il battesimo e con esso la realizzazione della vita cristiana. Nella ricerca sulla chiesa, d'altronde, si dovrebbe includere l'esperienza dei santi, di coloro che credono in forma esemplare; parlo della loro esperienza, non di tutte le loro idee. Questa esperienza corrisponde all'esperienza di Gesù; con quanta maggior forza diventa visibile e potente ciò che è santo, tanto meno il demonio può nascondersi. Per questo si potrebbe dire senz'altro che lo scomparire dei demoni, il presunto divenire innocuo del mondo vanno di pari passo con lo scomparire di ciò che è santo. Infine, come ultimo criterio, deve venir ricordato il problema della «visione del mondo», della conciliabilità con una conoscenza scientifica. La fede diventerà di continuo la critica di ciò che di volta in volta ha valore di certezza in quanto moderno e nuovo; però essa non può contraddire una conoscenza scientifica garantita, anche se questa deve stabilire dei segni negativi così notevoli. Si sarebbe curiosi di sapere in base a quali ragioni Haag decide «che questa concezione non è più conciliabile col nostro mondo». E' evidente che essa si oppone al gusto medio della gente; è altrettanto palese che essa non trova nessun appoggio in un mondo considerato funzionalisticamente. Ma in un puro funzionalismo non c'è posto neppure per Dio né per l'uomo come uomo, ma soltanto per l'uomo come funzione; qui dunque crolla molto di più della sola idea del «diavolo». Rimane difficile cercar di sapere in nome di quale filosofia Haag esprima il suo verdetto; secondo le apparenze egli parte da uno schema personalistico fortemente semplificato. Ma le forme del personalismo più approfondite hanno riconosciuto senz'altro che con le sole categorie di io e tu non è possibile spiegare l'intera realtà; proprio il «rapporto» che unisce l'un l'altro i due poli è una realtà caratteristica ed autonoma. Alcuni suggerimenti tratti dal pensiero asiatico fanno oggi risaltare ancor di più questa coesione. Una malattia psichica, così dicono ad esempio, non è un semplice modo di sentirsi dell'io, ma si basa proprio su una perturbazione del «rapporto»; dal momento che il rapporto non è in ordine, è spezzato, sviato, rovesciato, anche l'io stesso è fuori fase. Il rapporto è una forza decisiva del destino della quale il nostro io non può affatto disporre completamente. Il ritenere questo è un razionalismo di una sincerità quasi fantastica. Qui il pensiero moderno mette a disposizione, mi sembra, una categoria che ci può aiutare a comprendere di nuovo e con più esattezza la potenza dei demoni, la cui esistenza è di certo indipendente da tali categorie. Essi sono una potenza del «rapporto», col quale l'uomo è confrontato ad ogni pié sospinto, senza che egli lo possa arrestare. Paolo intende esattamente questo quando parla dei «signori di questo mondo tenebroso»; quando dice che la nostra lotta è diretta contro di essi, contro le potenze celesti del male, non contro la carne e il sangue (Ef 6,12).Essa si dirige contro quel «rapporto» saldamente stabilito, che lega gli uomini l'uno all'altro e nello stesso tempo li separa uno dall'altro, che usa loro violenza mentre fa da preludio alla loro libertà. Qui si chiarifica una particolarità tutta specifica del demoniaco, cioè la sua assenza di fisionomia, la sua anonimità. Quando si chiede se il diavolo sia una persona, si dovrebbe giustamente rispondere che egli è la non-persona, la disgregazione, la dissoluzione dell'essere persona e perciò costituisce la sua peculiarità il fatto di presentarsi senza faccia, il fatto che l'inconoscibilità sia la sua forza vera e propria. In ogni caso rimane vero che questo rapporto è una potenza reale, meglio, una raccolta di potenze e non una pura somma di io umani. La categoria dell'intermedio, che ci aiuta così a ricomprendere l'essere del demonio, si presta inoltre per un altro servizio parallelo; rende possibile spiegare meglio la vera potenza opposta, che diventa anch'essa sempre più estranea alla teologia occidentale, lo Spirito Santo cioè. Noi potremmo dire, partendo da quella categoria, che egli è quell'intermediario, nel quale Padre e Figlio costituiscono una cosa sola, l'unico Dio; nella forza di questo intermediario il cristiano si pone di fronte a quell'intermediario demoniaco, che sta ovunque «fra mezzo» ed ostacola un'unità.
Un teologo così «libero da pregiudizi» come H. Cox ha di recente affermato che i mass-media, nei modelli di comportamento da loro elogiati, farebbero appello «ai demoni non esorcizzati»; sarebbe perciò molto necessaria «una chiara parola di esorcismo» (Stadt ohne Gott, 1967, p. 210;trad. it.: La città secolare, Vallecchi, Firenze 1968). Forse egli lo pensa solo in termini allegorici, non lo so. Ma chi come cristiano vede i baratri dell'era moderna, vede operare la potenza dei sette demoni, che sono tornati nella casa pulita e vuota e mettono in moto il loro non-essere, costui sa che il compito di esorcista del credente inizia oggi a riacquistare quella necessità, che possedette all'inizio del cristianesimo. Egli sa che in questo campo è debitore di un servizio al mondo e che trascura il suo incarico, se egli aiuta i demoni ad avvilupparsi in quella anonimità, che è il loro elemento prediletto.

Un secondo testo che vogliamo condividere è del teologo W.Kasper. Identica, rispetto alla riflessione di J.Ratzinger (e da lui dipendente, come asserito dallo stesso Kasper nelle note del testo) è la caratterizzazione del Maligno come colui che “esiste personalmente nel modo della decomposizione e dissoluzione del personale”. Proprio questo, originante dalla sua opposizione a Dio, nella volontà di fare di se stesso dio, rinunciando alla realtà di Dio e distorcendo la propria realtà creaturale, conduce il male ad essere “nulla”, nel senso che Kasper specifica ulteriormente nel seguente brano, tratto dal suo saggio Il problema teologico del male[2].

Punto di partenza delle nostre riflessioni potrà essere soltanto il cuore della testimonianza biblica: l'atto universale ed escatologico di salvezza di Dio in Gesù Cristo. E' attraverso esso che i principati e potestà malvagi si sono mostrati, in ultima analisi, come un nulla. Ed è per tale motivo che la Scrittura ci offre una vera determinazione ontologica del male qualificando i demoni come dei niente [3] . Ora cercheremo anche noi, dunque, d'interpretare la realtà del male come dei niente al cospetto di Dio [4] . La filosofia e teologia tradizionali ci consentono di avvicinarci soltanto in parte a questo modo d'intendere il male. Come è noto, esse distinguono fra il nulla assoluto, fra ciò che è semplicemente nulla, e il nulla relativo, il nulla di qualcosa. Se con questo nulla s'intende la mancanza di qualcosa che spetta ad una 'cosa' di per se stesso e necessariamente, avremo il concetto tradizionale del malum concepito come una privatio boni debiti (mancanza di un bene che spetta per natura) [5] . Ma questo concetto tradizionale di male non basta a comprendere, nemmeno in modo approssimativo, il fenomeno del male così come l'abbiamo individuato (...) Infatti non è possibile spiegare l'imponenza del male richiamandoci semplicemente ad una mancanza. Rimane infatti da chiedersi in che modo risulti giustificata la mancanza di qualcosa che spetta ad una 'cosa' di per sé, per sua stessa natura. Entrambe le questioni c'inducono a riconoscere il carattere posizionale del male. Non meno importante è un secondo approfondimento critico della definizione tradizionale del male. Il bene e il male, dal punto di vista teologico, non possono venir definiti in termini puramente ontologici come mancanza di bene ma soltanto a partire dalla relazione con Dio, cioè come mancanza al cospetto di Dio, o pervertimento della relazione a Dio. Malvagia è quella creatura dotata di libertà che non riconosce il senso del suo essere-creata e vuole essere essa stessa pari a Dio. Cercando il senso del proprio essere contro Dio, lo potrà trovare soltanto nel nulla, per cui essa stessa dovrà diventare niente. È un niente che si distingue dal nulla: il male è niente, non però nulla [Traduciamo das Nichts = il nulla e das Nichtige = il niente. Das Nichtige in tedesco implica l'idea di nocività, di potenza negativa ma attiva].
In termini positivi possiamo esprimere una triplice caratterizzazione del 'niente'.

  1. È la libera negazione di Dio. Non si tratta, quindi, di una qualche mancanza d'essere ma piuttosto di un nulla estremamente determinato, il 'no' che si profferisce a Dio e che si concretizza nel 'no' alla sua volontà salvifica e universale in Gesù Cristo, e nel peccato contro lo Spirito Santo, contro l'offerta concreta della salvezza fattaci in Gesù Cristo. Questo niente è nullità nel duplice senso del termine: è qualcosa che si ritiene esageratamente importante, che si gonfia, s'ingigantisce e, appunto per questo, si rivela vuoto, nullo.
  2. La negazione dell'essere divino di Dio e del suo piano salvifico in Gesù Cristo conduce alla privazione della sua grazia. E questo rifiuto della grazia porta ad un'esistenza senza grazia, ad un essere che si condanna, si maledice e che comunque non può salvarsi nel puro nulla, ma anzi si smarrisce e deforma nella vuotezza della sua propria nullità. Il 'no' creaturale profferito contro Dio ha per conseguenza il 'no' di Dio, il giudizio e l'ira divina. La realtà del male è dunque il nulla giudicato da Dio, la libertà finita sotto il no che si è scelto del giudizio di Dio.
  3. Determinare il male come una negazione e privazione di Dio ci permette poi di concludere che il male stesso è una perversione di sé. Se cioè la creatura vuol essere pari a Dio, allora, in quanto creatura, essa esiste nella condizione del pervertimento totale. Essa realizza il proprio essere alla luce di Dio e in riferimento a Lui nel modo di un essere contro Dio e senza di Lui. Per questo il male è ciò che in se stesso è contraddittorio, perverso, schizofrenico, totalmente alienante, assurdo, disorganizzato, distruttivo e caotico. Secondo il Nuovo Testamento il diabolico è caratterizzato appunto dalla confusione continua del sì e no, di posizione e negazione, dal non permettere che il sì sia sempre sì e il no sempre no. Ed è ciò che viene appunto dal diavolo [6] . L'ordine del mondo si fonda invece proprio sulla distinzione tra il sì e il no. Nel folle e assurdo tentativo di porre la negazione a fondamento della propria posizione, il diavolo è il «padre della menzogna» [7] , deformazione e confusione in persona. E' la potenza inquietante del caos nel cosmos creato da Dio.

Una simile perversione di posizione e negazione può derivare soltanto da un essere dotato di conoscenza spirituale e di libero volere. Ed entrambi appartengono all'essenza della persona. Questa si distingue da altri esistenti per il fatto che l'essere le è stato affidato in coscienza e libertà. Soltanto la persona, quindi, potrà realizzare o pervertire il senso del proprio essere. Se s'intende il concetto di persona in questo senso formale non ancora riempito di un più preciso contenuto, non si potrà fare a meno di caratterizzare le potenze malvagie come esseri strutturati in modo personale, cioè come entità fornite d'intelligenza e capaci d'affermarsi attraverso la volontà. Ovviamente, dando una simile caratterizzazione, si dovrà tener presente anche che un simile concetto formale di persona può venir impiegato per qualificare gli angeli e i demoni soltanto in modo alquanto analogico, tenendo conto dell'uso ben più preciso che si fa nell'ambito umano. Il diavolo non è una figura personale bensì una non-figura che si dissolve in qualcosa di anonimo e senza volto, un essere che si perverte nel non-essere: è persona nel modo della non-persona [8] . Non lo si può 'chiarire' ma soltanto riconoscere nella sua dissociazione per essenza. Per cui non potremo né dovremo delinearci nemmeno una qualche raffigurazione concreta del diavolo, questo supporrebbe, infatti, una distinzione chiara, appunto quella cui il diavolo sfugge. Egli esiste personalmente nel modo della decomposizione e dissoluzione del personale. E' la distruzione progressiva di se stesso e al medesimo tempo la distruzione dell'intero ordine cosmico. Egli potrà sprigionare e scatenare le possibilità escluse nella realtà della creazione ma non potrà rimanere loro signore. Queste lo sopraffanno, lo rendono una specie di apprendista stregone che non è più in grado di scacciare gli spiriti che ha evocato. Si trova sotto la maledizione e il destino della sua stessa opera. E ciò significa che non è più un lui soltanto ma anche un esso, anzi è il sinonimo delle potenze impersonali e distruttive, del negativo e caotico presente nel mondo. Non per nulla la Scrittura parla di 'principati e potestà' del male7 [9] . Con questo essa sta ad indicare che la realtà del male è un potere strutturato sia in chiave personale, incentrato su Dio, come pure un potere che ruota attorno all'Esso e che si manifesta in sistemi e processi anonimi ma anche in strutture di tipo apersonale.
Non è dunque possibile ricondurre il mistero del male ad un unico concetto. In definitiva qui non ci troviamo di fronte a delle speculazioni ontologiche ma ad enunciati di tipo soteriologico. Non si tratta di asserti che si fanno su un determinato oggetto ma di enunciati che aprono un orizzonte al centro della fede cristiana: il messaggio della nuova creazione in Gesù Cristo, attraverso la quale Dio ha ristabilito la pace e la riconciliazione degli inizi non soltanto nell'uomo ma nel mondo intero. Con questo nuovo inizio i poteri e principati del male si sono rivelati una nullità, hanno subito la derisione e la vergogna. Per tale ragione il diavolo, di fatto, è in certo senso una figura 'ridicola'. Il vero obiettivo della demonologia neotestamentaria è quello di fondare la libertà cristiana8 [10] . I demoni, che presumevano di essere i signori del mondo, si sono dimostrati, alla luce di Dio, dei 'niente', per cui il cristiano non è debitore in nulla nei loro confronti: esso è libero da tutte le idolatrie cosmiche, libero da ogni osservanza di precetti e divieti fondati su basi cosmiche, libero da ogni possibile tabù, libero dalla paura di fronte a tutto ciò che di orrendo esiste al mondo. Purtroppo, nella storia, questa funzione critico-liberatoria della demonologia cristiana si è tramutata spesso nel suo esatto contrario. Oggi abbiamo tutte le nostre buone ragioni per riaffermare, sia all'interno che all'esterno, questi motivi critici.

Infine vi invitiamo a seguire il ricchissimo, anche se non facile, intervento del filosofo Vittorio Possenti che, nel suo recente saggio Essere e libertà [11] , titola un capitolo: Dio e il male. Due citazioni aprono le sue riflessioni. Innanzitutto lo PseudoDionigi Areopagita che, nel Trattato sui nomi divini ha scritto:

Il male non è in Dio, né ha in sé nulla di divino, né viene da Dio.

Poi Plotino che, in Enneadi VI, 7, 23, aveva dichiarato:

La natura del Bene era già ciò che è,
prima delle altre cose, quando il male
ancora non c'era.

Queste due splendide affermazioni orientano già alla chiara consapevolezza del fatto che il pensiero cristiano non è dualistico. Non riconosce cioè due principi, egualmente divini ed eterni, del bene e del male. Il male ed il bene, pur essendo ovviamente antitetici e, quindi, correlativi, non hanno eguale dignità e, soprattutto, parità ontologica e temporale. Il cristianesimo dichiara la sua estraneità da espressioni filosofiche e religiose come quelle del Manicheismo e del Tao estremo-orientale ed, a maggior ragione, dalle loro banalizzazioni New Age. Il Bene, Dio, è ontologicamente primo ed eterno. Il male è secondario e temporale, non esistente dall'eternità.
Vittorio Possenti inizia difendendo la centralità della questione filosofica del male.

La sfida

Un retaggio si diparte dal XX secolo, forse il più oscuro e sanguinoso della storia umana, e sta nella lacerante domanda sul male. Se il pensiero antico iniziò la gigantomachia sull'essere e sul divenire che dura tuttora, forse nel nostro tempo si annuncia una gigantomachia sul male. Sono famose le parole di san Girolamo a proposito di Giobbe, libro che vale come scrigno per la meditazione e la cui scoperta è eterna quanto nell'uomo la sofferenza: “Spiegare Giobbe è come tentare di tenere nelle mani un'anguilla o una piccola murena: più forte la si preme, più velocemente sfugge di mano”, e questo nonostante lo splendore dei simboli e la profondità del discorso. Quasi lo stesso si potrebbe dire dell'interrogativo sul male: più cerchi di comprenderne il mistero, più questo sembra farsi fitto. Eppure abbandonare l'impresa sarebbe vile, oltre che impossibile: se anche l'uomo volesse abbandonare il male, questo non abbandonerà l'uomo.
Il male costituisce un'inesorabile possibilità dell'esistenza umana. Come suggerisce la riflessione contemplativa, che sarebbe stoltezza mettere da parte, la possibilità del male è necessaria, dal momento che la limitazione è inerente a tutte le cose finite. Non potendo Dio fare l'assurdo, egli non potrebbe chiamare all'esistenza una creazione che fosse ad un tempo finita e perfetta, e dunque senza male (assunto che va lontano, implicando che, a differenza dal manicheismo, non è richiesto un Principio malvagio per render conto dell'esistenza del male). A chi perseveri nella meditazione si farà chiaro che la domanda più radicale tra tutte, quella che potrebbe denominarsi la “domanda delle domande”, la più saettante e misteriosa, quella dove l'uomo lasciato solo incontra il buio più fitto, non suona “Perché c'è il male?”, ma “perché Dio ha creato?” A tale interrogativo non può assegnare risposta nessuna gigantomachia sull'essere o sul male, perché occorrerebbe porsi nell'Assoluto e nessuna ragione umana, per quanto acuta e risplendente, può farlo. La risposta può venire dalla Trascendenza ed il suo araldo è la rivelazione, non la ragione. Nessuna astuzia del pensiero, nessuna saggezza intramondana sembra alla misura di quella dismisura che è il male: se l'intellectus mundi da solo è impari, può cercare un'alleanza con l'intellectus fìdei.
Nel porre il problema dinanzi al Trascendente, è imperativo che lo scandalo del male rimanga in tutta la sua forza. Non dalle dialettiche “speculative”, che riducono il male ad apparenza, ci si può attendere la vittoria sul male, ma dall'unione di contemplazione e azione, preghiera e lotta, compresa quella con Dio, in cui si inoltrarono Giacobbe e Giobbe. Sarà sempre possibile negare la legittimità dell'atteggiamento che sul male si colloca dinanzi a Dio. Essa rimane però dentro un paradosso ineludibile: la negazione di Dio è nutrita dalla contestazione che l'enigma del male gli indirizza; ma tale enigma non fa un solo passo avanti, al contrario, con la soppressione di Dio. Con questa la sofferenza si pone come ancor più insensata, non si sgomina né il dolore né il male. Viene anzi persa la speranza in una finale vittoria su di loro. Al di là della infeconda risposta atea, la meditazione umana ha posto il problema del male dinanzi a Dio secondo tre fondamentali forme:

Nel corso delle epoche la coscienza umana ha elaborato una fenomenologia del male, tanto più intensa quanto più nasceva da un'esperienza dolorosa e assillante. Colpa, peccato, sofferenza, infermità, morte, disarmonia e ferita dell'esistenza, male commesso e male subito: non è qui nostro intento ripercorrere la multiforme fenomenologia del male e della coscienza infelice, quanto interrogare sulla natura del male morale e sulla sua produzione da parte della libertà. Ma senza nutrire una visione esclusivamente morale del male, che lo assimili solo a quello di colpa, che anzi un problema altrettanto complesso è costituito dal male di natura (malattia, morte, cataclismi, dolore, miseria).
Può darsi che qualche lettore attribuisca questo capitolo al versante della teodicea, il cui concetto tuttavia non ci attira. Oltre ad appartenere ad un'epoca storica ormai lontana, la teodicea aveva l'aria di mettere in campo ambiguamente delle attenuanti per Dio. Di essa Kant, che pur la riteneva votata alla sconfitta, diceva: “Per teodicea si intende la difesa della somma saggezza del Creatore dell'universo contro le accuse che le vengono mosse dalla ragione sull'assurdo corso del mondo. Questo si chiama sostenere la causa di Dio” [12] . Più che di sostenere solo la sua causa, più che di difendere o giustificare Dio, l'uomo ha bisogno di comprendere il mistero del male e di stringere un patto con l'assoluto per lottare con lui contro il male: in ciò si concentra forse l'esistenziale fondamentale nel dramma del male. E possibile lottare contro qualcosa che ci attanaglia, ma di cui ignoriamo natura e origine? Per questo ogni lotta contro il male ha bisogno di abitare nello spazio di una sempre rinnovata meditazione su di esso, là dove intellectus mundi e intellectus fidei si danno la mano e cercano di collaborare. Il metodo che seguiremo è ontoteologico. Ontoteologia: parola venerabile e, nel contempo, non priva di rischi se intesa di traverso. Conosciamo la folla d'obiezioni che da tempo le vengono elevate contro, non di rado lanciate come omaggio alla moda dell'ora. Nel discorso sul male entrano in campo più strati, a partire dal simbolo e dalla fenomenologia del male. E se ci sembra che non vi siano speranze di raggiungere un po' di luce se il livello tipicamente ontoteologico viene cassato, l'approccio non si limita a questo ambito. Cerca piuttosto di intessere un fecondo rapporto con la religione e il “mito”. Il pensiero mitico non appartiene al passato, ma ci riguarda e ci interpella perennemente: esso, al di là del pensiero concettuale-universale, racconta una storia secondo idee ed immagini, ed è latore di significati che, portati e vestiti dal simbolo, non sono agevolmente traducibili in altri linguaggi. Non possiamo intendere il mito come un insieme di racconti e immagini privi di senso. Nell'intuizione mitica si esprime una facoltà specifica dello spirito, su cui solo un razionalismo oltranzista può gettare il discredito. Nella meditazione sul male e sul suo legame con l'uomo e con Dio l'ontoteologia tocca il punto più alto e arduo. Essa, su cui ha puntato gli strali Heidegger con dubbie ragioni, non è un pensiero sistematico, logico, astratto e indifferente al dolore del mondo (come potrebbe forse essere la Scienza della logica di Hegel). Essa si tiene in contatto con le grandi manifestazioni del male, e con le risposte dovunque avanzate: quella della tragedia greca (cfr. il ciclo di Edipo), quella biblica, quella di altre culture. L'ontoteologia sta accanto alla condizione umana, dove si esprime la dialettica vissuta di peccato, colpa, sofferenza e morte. Essa cerca di imparare dappertutto, per poter dire qualcosa sulle eterne domande sul male...

Qui Vittorio Possenti propone di suddividere in tre parti la sua analisi, riflettendo in primo luogo sulla filosofia interpellata dal male, in secondo luogo sulla risposta di L.Pareyson e di H.Jonas ed, infine giungendo ad un approccio di carattere etico e religioso. Noi seguiremo la prima e la terza parte, lasciando da parte le suggestioni proposte dai due autori Pareyson e Jonas, il primo cristiano ed il secondo ebreo, che indagano il tema del male, rigettando, conformemente alla posizione dello stesso Possenti e nostra, una lettura solamente secolarizzata e non religiosa del negativo.
La prima parte del saggio di Possenti allarga ulteriormente l'impostazione del problema, la terza indica una proposta di lettura proprio a partire dalla rivelazione biblica ebraico-cristiana e non solo della “pura” ragione. Ecco la prima tappa ed, a seguire, l'ultima della sua riflessione sempre nel saggio Essere e libertà.

La filosofia dinanzi al problema del male

Il primo compito dell'uomo è di non arretrare di fronte al male, bensì di guardarlo in faccia; non però nel senso hegeliano secondo cui la dimora presso il negativo muti quest'ultimo in essere, in virtù di una trasformazione dialettica in cui si esprime un punto alto del razionalismo (e forse anche per questo è oggi necessario rinnovare il nostro requiem per la dialettica). Dimorare senza connivenza presso il male tempra la persona, se questa è capace di separarlo dal bene, di non confonderlo con quest'ultimo, di mantenersi libera. Secondo Berdjaev “il fatto di non vedere il male rende l'uomo superficiale, gli impedisce di attingere alle profondità della vita: la forza della sua coscienza è legata alla denuncia del male e, quando si aboliscono i limiti, l'uomo si trova in uno stato di confusione o d'indifferenza, la sua personalità comincia a disgregarsi: nella confusione e nell'indifferenza, nella perdita della nozione del male, l'uomo è sprovvisto della libertà dello spirito” [13] . Con ciò viene individuato un compito estremamente impegnativo per il pensiero, di fronte al quale una larga parte della filosofia e della teologia contemporanee si è mostrata colpevolmente timida. In modo persuasivo L. Pareyson... ha dato voce all'estremo stupore di chi, dopo l'abisso di male e di sofferenza della seconda guerra mondiale e dell'Olocausto, ha visto la filosofia portarsi, come se nulla fosse accaduto, su pensieri sofisticati ed astratti, nell'oblio del senso tragico di quegli eventi: “Mi ha sempre stupito il fatto che nell'immediato dopoguerra abbiano avuto grande diffusione filosofie esclusivamente dedite a problemi tecnici di estrema astrattezza e sottigliezza, mentre l'umanità stava appena uscendo dall'abisso del male e del dolore in cui era precipitata. Com'è possibile, mi chiedevo, che la filosofia chiuda gli occhi di fronte al trionfo del male, alla natura assolutamente diabolica di certe forme di malvagità?”. Su sponde vicine nel rilevare lo scandalo di un'assenza si colloca O. Höffe. Invitando la filosofia a recuperare il tema del male, egli osserva che è davvero sorprendente che essa non rifletta più sul male e che anzi ne abbia smarrito il tema [14] .
A ridosso di tali questioni si colloca la richiesta dell'ebraismo contemporaneo di non dimenticare l'Olocausto. Non dimenticare, perché Auschwitz è diventato un luogo centrale per la comprensione dell'uomo e di Dio, del bene e del male. [15] L'enigma dell'Olocausto si pone come un crocevia da investigare religiosamente: l'abisso del male (mysterium iniquitatis) richiama quello del bene. In entrambi i casi occorre accettare la lotta: quella lotta ingaggiata con lo Sconosciuto da Giacobbe al calar della sera al guado dello Jabbok, e proseguita sino all'alba. Quella lotta necessaria per intendere la natura e il dramma del male e il loro rapporto con Dio. “Lotta inuguale, il cui esito può essere vittorioso o micidiale, o anche indeciso, con la doppia traccia di una ferita o di una benedizione” [16] .
Quando, dopo il primo razionalismo, la questione del negativo e del male radicale esplose con la massima forza nel pensiero moderno, gli autori che non la lasciarono cadere, cercarono attraverso vari cammini di riprendere il tema massimo lasciato insoluto dai greci: ossia come osserva Hans Blumenberg, la questione dell'origine del male nel mondo [17] . I grandi tragici greci del VI e V secolo avevano messo in opera un eccezionale lavoro di scavo sulla colpa, l'espiazione, la responsabilità, il fato e il destino, senza ultimamente riuscire ad un esito stabile e almeno parzialmente chiarificante. Uno dei più alti punti raggiunti dalla sapienza tragica greca è posto da Sofocle sulla bocca del coro nell'Edipo a Colono, ed è parola dove vibra il senso di una sconfitta, e che ha il suono di una terminale disperazione: “Non esser nati, è condizione / che tutte supera; ma poi, una volta apparsi, / tornare al più presto colà donde si venne, / è certo il secondo bene”. Archiloco scriveva: “Tutto è fatica, tutto per l'uomo è travaglio di morte”.
Più innanzi giunse forse Plotino, ma per altro e assai diverso cammino, quello non della concezione tragica ma di un sapere speculativo sull'uno e sul cosmo. Per primo egli comprese la necessità di elaborare una scienza del male, di cui intuì l'impossibilità se non si fosse prima scandagliata quella del bene: “Ma come si potrebbe concepire il male come una forma se esso appare solo nell'assenza del bene? Ma siccome dei contrari una sola la scienza e il male è contrario al bene, la scienza del bene sarà quella del male e perciò è necessario che coloro che vogliono conoscere il male speculino intorno al bene, poiché le specie superiori precedono quelle inferiori e queste non sono quelle, ma privazioni di quelle. E si deve ancora ricercare in che senso il bene sia contrario al male; se sia contrario come l'inizio alla fine, o come la forma alla privazione” (Enneadi, I, 8, 1).
Il pensiero greco ha così lasciato in eredità, nonostante le aporie e l'impossibilità di addivenire ad un'adeguata comprensione del male e della sua origine, due eccezionali lasciti: l'idea plotiniana del male come privazione del bene, che comporta l'anteriorità ontologica e gnoseologica della scienza del bene su quella del male; e la grande parola di Eschilo nel coro dell'Agamennone: “Conoscenza attraverso dolore”, quale valida legge fissata dagli dèi per avviare a saggezza i mortali. Ciò che l'uomo apprende attraverso la sofferenza sono soprattutto i limiti dell'umano, l'invalicabile distanza dal divino. Ora, risalendo all'indietro dalla filosofia contemporanea alla moderna, sembra doversi riconoscere che il tema del male non sia stato particolarmente frequentato. La kantiana dottrina sul male radicale, che pur rimane come termine di confronto ineludibile, le ricerche di Schelling sull'essenza della libertà umana, le pagine di Schopenhauer e gli scomodi aforismi di Nietzsche veicolano spunti e intuizioni grandiosi, ma anche incompleti e manchevoli. Tanto più che insieme ad essi si incontra la sostanziale elusione del problema in Spinoza e poi nel razionalismo moderno, che fondamentalmente hanno considerato il male o qualcosa di apparente o il negativo dialettico necessario alla vicenda del positivo. Oggi un ostacolo si annuncia attraverso la temperie largamente empiristica e utilitaristica della cultura, che tende a togliere l'opposizione assoluta tra bene e male, e a stemperare quest'ultimo in disadattamenti sociologici e psicologici. Sicché anche per le più recenti filosofie vale, a conferma della diagnosi di Pareyson, l'assunto secondo cui esse allontanano l'interrogativo sul male. Eppure non si potrebbe sostenere che la battaglia per non dissipare in una piatta indifferenza nichilistica la sua tragicità o il suo enigma sia persa. Sorel e Maritain hanno più volte espresso l'opinione che l'interrogativo sul male sarebbe nuovamente divenuto centrale per i filosofi, e il secondo autore ha offerto un contributo di prim'ordine in proposito [18] . C'è inoltre la grande tragedia greca, e la straordinaria potenza dei romanzi di Dostoevskij, e l'intera storia della salvezza come espressa nel messaggio biblico a ricordare ad una cultura distratta e confusa lo scandalo del male. Nella nostra epoca sono stati un certo esistenzialismo, il pensiero metafisico e quello tragico, la sensibilità ebraica e quella cristiana a mantenere in vario modo desto il suo pungiglione senza banalizzarlo. Tuttavia il pensiero cristiano sembra meno attento in proposito, avendo patito più l'accusa rivoluzionaria e “laica” secondo la quale il cristianesimo è l'oppio dei popoli, che non la protesta tragica della coscienza individuale smarrita di fronte al male della vita. Di conseguenza l'atteggiamento in senso lato apologetico della teologia come pure l'orientamento della prassi cristiana si sono dispiegati con ampiezza per contrastare quell'accusa. Oggi è plausibile attendersi che la fine delle grandi ideologie intramondane che avevano alimentato l'enfasi sull'azione sociale, comporterà un rinnovato interrogarsi esistenziale sul male. La tradizione teologica e metafisica cristiana potrà in proposito esprimere una nuova vitalità, se eviterà un atteggiamento ridu ttivo consistente nel riportare la questione del male nell'ambito della sola etica. Questa è luogo troppo ristretto per una domanda tanto immane come quella che riguarda il peccato, la colpa, l'espiazione, la libertà, il dolore dell'uomo e quello di Dio. Prima dell'etica sono chiamate in causa la metafisica e la religione per la loro pretesa di determinare un senso ultimo.
In un approccio metodologicamente puristico e forse alquanto deesistenzializzato, è possibile compiere un tratto di cammino riflettendo sul male senza collegare questo tema con quello della Trascendenza. Possiamo elaborare una complessa fenomenologia del male su base storica e razionale. Si tratta di un compito utile eppure insufficiente, perché da sempre il soggetto umano domanda sul male e il dolore riportando il problema sulle spalle di Dio: di questi con quanta ampiezza l'uomo si porrebbe il problema, se non vi fosse il male? Sin dal più remoto passato sembra che la maggiore obiezione contro Dio scaturisca proprio dall'esistenza del male. Si dice: se c'è tanto male nel mondo e nella vita è perché Dio non esiste. Se egli fosse un vivente, non lo consentirebbe: altrimenti dobbiamo pensarlo come incurante nella sua felicità delle vicende umane, oppure come un demiurgo malvagio che si compiace del dolore dell'uomo. Né è detto che si accetti il mondo, se accade che non si rifiuti Dio. È la condizione di Ivan Karamazov nel suo dialogo con Alèsa: Questo mondo creato da Dio io non lo accetto... Non è che io non accetti Dio, ma è questo mondo da Lui creato, che io non accetto e non posso rassegnarmi ad accettare” (P II, l. V), perché è un mondo cattivo che ospita la sofferenza innocente, specialmente quella dei bambini. Da questi angosciati interrogativi prendono origine i tentativi di mostrare che Dio non è responsabile del male, e che i due concetti di Dio e di male non si escludono, ma per quanto sorprendente possa apparire a prima vista, si richiamano necessariamente. L'apporto forse più prezioso della meditazione metafisica e religiosa sul male e su Dio è in primo luogo la loro “indissolubiità”: solo pensando Dio si può pensare adeguatamente il male. Questo col suo corteo di sofferenza, di colpa, di espiazione, di morte, di negazione che sempre l'accompagna, può esser visto in tutta la sua sanguinosa realtà, se e solo se Dio esiste; se e solo se è considerato in rapporto a Dio. Si dà infatti una negazione più radicale di quella che cerca di inferire dall'esistenza del male l'inesistenza o la problematicità dell'esistenza di Dio; ed è la negazione che sopprime il problema o l'interrogativo stesso sul male. Questo è l'estremo ateismo, il nichilismo assoluto, che non addebita a Dio il male ma ne cancella il pungolo. Il nichilista coerente non può che minimizzare il male, pensarlo come apparenza, come qualcosa che è storicamente toglibile. Quando si tratta di Dio e del male, o si prendono entrambi i termini, oppure incombe il pericolo che si cancellino
entrambi. Là dove l'uomo è attanagliato dalla forza del negativo, potrà rivoltarsi contro Dio, forse maledirlo e negarlo, ma non cancellarne il problema. A Boezio che poneva l'eterna domanda “Si Deus est, unde malum?” (collegata all'altra: “et si non est, unde bonum ?”), Tommaso d'Aquino con originale forza contemplativa rispondeva ribaltando i termini della questione e stabilendo: “Si malum est, Deus est”, dove l'esistenza di Dio è argomentata a partire dalla realtà del male [19]
. Pensando il male, si può ascendere alla conoscenza di Dio, e inversamente solo pensando Dio si può conoscere nel modo più intimo il male.
Che si debbano assumere entrambi i poli (non perciò solo Dio senza il male, o solo il male senza Dio), lo conferma l'esperienza di Nietzsche, che ha inteso cancellare con un unico atto l'esistenza di Dio e quella del male, ed è difficile stabilire quale delle due negazioni sia in lui stata la più profonda. Proprio in quanto non ci sono né bene né male, egli può volere un “aldilà del bene e del male”, che è la divisa propria dell'oltreuomo. Egli è oltre l'umano, perché ha valicato il confine che separa bene e male, cancellandoli.

Qui si innesta nel saggio di Possenti la riflessione su Jonas e Pareyson che tralasciamo, pur consci della sua importanza, per giungere direttamente alla terza parte, la pars construens:

Destino della teodicea

Prima di volgerci a un'altra meditazione su Dio e il male... è saggio riconoscere che il compito di una dottrina non si esaurisce solo nella sua coerenza intelligibile e nella sua verità, poiché essa è come uno specchio in cui si riflette qualcosa dell'epoca. Sotto questo profilo le concezioni di Jonas e di Pareyson valgono come una critica della falsa coscienza utopica, che facilmente sfocia in quella totalitaria. In esse si fa avanti la massima lontananza dalla posizione che ritiene il male superabile in un nuovo ordine sociale, e possibile secondo una modalità atea o secolarizzata la costituzione del “regno di Dio” in terra. La voce ebraica di Jonas e quella cristiana di Pareyson rimangono consapevoli della limitatezza dell'uomo. Lontane da quel nichilismo che è lo sbocco coerente dell'utopia, in cui il male appare come qualcosa di esterno all'uomo e perciò di dominabile con mezzi “tecnici”, pungolano la filosofia a non rinchiudersi in angusti orizzonti e oltrepassano il quadro della teodicea, la cui vicenda può venire scandita in tre fasi:

  1. L'epoca delle grandi teodicee razionalistiche (tipica fra tutte quella di Leibniz), in cui Dio è giustificato perché ha creato il migliore dei mondi possibili, e l'uomo appare ugualmente giustificato in se stesso: quasi sempre una teodicea implica una antropodicea. Qui il problema della teodicea veniva assunto entro il quadro della coerenza logica e della totalità sistematica, onde tenere insieme senza contraddizione le seguenti tre proposizioni: Dio è onnipotente; Dio è assolutamente buono; il male esiste. Nonostante l'indubbia legittimità della domanda, la forma di quelle teodicee sembra ormai alle nostre spalle. Non presumevano esse di avere un po' troppa confidenza con Dio? Non è un esempio di ciò il modo alquanto facile con cui Leibniz nel Discours de métaphysique parla di Dio quasi da pari a pari, presentandolo come “le plus juste et le plus débonnaire des monarques”? Secondo Maritain “il tempo delle teodicee alla Leibniz o delle giustificazioni di Dio, che hanno l'aria di far appello alle attenuanti, è decisamente passato. Ci vuoi altro per far fronte all'ateismo contemporaneo...” [20] .
  2. Anche l'era della sola antropodicea o dell'antropocentrismo ateo moderno, riassumibile nell'asserto marxiano homo homini deus, sembra definitivamente conclusa. In essa la teodicea venne colpita a morte, perché si riteneva che Dio dovesse scomparire affinché l'uomo vivesse. Annunziando l'avvento del regno dell'uomo, Feuerbach riconduceva ad esso ogni attributo divino, alla luce del concetto secondo cui il segreto della teologia è l'antropologia. Il problema del male non può tuttavia compiere passi avanti perché, riportando tutto all'uomo. Feuerbach, senza dichiararlo, vi ha riportato anche l'intera produzione del male. Non essendovi più l'Avversario, a cui imputare la tentazione, e neppure Dio, l'uomo si trova completamente solo dinanzi ad esso e rischia di soccombervi. Si dà forse in tale evento una premessa celata, su cui hanno fatto leva alcune correnti successive per annunciare la morte del soggetto.
  3. Nell'epoca presente la questione del male ha assunto un rilievo tragico per l'uomo, nonostante le dimissioni e le gravi debolezze della filosofia. Sono stati grandi scrittori, poeti, profeti assai più dei filosofi a sentire profondamente la domanda sul male: in specie Dostoevskij ma anche Bloy, Lautréamont, ed altri. Tentativo necessario di richiamare la filosofia alla sua responsabilità, le riflessioni di Pareyson e di Jonas si collocano dopo la fine delle teodicee razionalistiche e lo scacco dell'antropodicea dell'umanesimo ateo assoluto. Le une e le altre avevano di fronte un male più limitato rispetto all'abisso che si è scatenato nel XX secolo, e di cui i nostri autori tengono manifestamente conto. Dinanzi alla dimissione del problema da parte della teologia speculativa, essi possono rivendicare il merito di riaprire la riflessione sul male, sull'uomo, su Dio entro un quadro spirituale e antropologico diverso da quelli del '600 e dell'800. Se è chiusa l'epoca della teodicea, si apre quella di un'adeguata antropodicea affinché non si disperi dell'uomo, perché così vasta è la produzione del male morale da lui operata nella storia, che può sorgere la tentazione di equiparare l'uomo a Satana. Dio e l'uomo spiegano il bene e il male, ma diversamente. Senza l'uomo non si spiega il male morale; senza Dio non si spiega il bene.

Etica e religione

Libertà e legge morale: una dialettica interrotta. Un processo viene interrotto quando il suo movimento risulti bloccato. Sembra che nei pensatori di cui ci siamo occupati la domanda sulla libertà conduca ad una dialettica interrotta, nel senso che non si inoltra sino all'estremo limite nel pensare l'abisso della libertà finita e il suo legame col male. Nel fatto che numerose riflessioni contemporanee sul male non esplorino sino in fondo la sfera della libertà, non potrebbe celarsi l'idea che questa sia ritenuta incapace di produrre da sola la tragica messe di male che fluisce nella storia? E che di conseguenza occorra in qualche modo fare appello ad altri livelli, e coinvolgere Dio stesso nella storia del male? Se questa diagnosi fosse fondata, si comprenderebbe il rischio corso da Pareyson e da Jonas nel concentrare l'attenzione su Dio, trovandosi poi nella necessità di riformulare radicalmente la sua natura. Noi dobbiamo ora porre a tema l'interrogativo sull'origine del male morale. Come si potrebbe nutrire la speranza nella liberazione dal male morale, se la riflessione umana, applicandosi con tutta la forza di cui è capace e quasi con disperazione dinanzi al baratro, non cercasse di comprendere la sua origine, attingendo dove possibile indizi e tracce? Kant ha percorso un tratto di strada in tale direzione, legando la colpa all'infrazione della legge morale per cui essa è la difformità dell'arbitrio rispetto alla legge. Non si dà in lui peraltro un principio del male nel senso di un'origine storica, quale sarebbe ad esempio la dottrina del peccato originale. Il principio del male sta nella massima suprema che serve da fondamento soggettivo a tutte le massime cattive (e perciò contrarie alla legge morale) del nostro libero arbitrio, e che stabilisce la propensione al male nell'uomo. Egli è corrotto nel fondamento delle sue massime, e per passare dal vizio alla virtù ha bisogno di un cambiamento di cuore che lo conduca alla santità delle massime nel compimento del proprio dovere, nell'effettuazione del dovere per il dovere, per cui l'uomo accoglie l'integralità della legge morale come movente sufficiente del suo arbitrio. Questo insieme di riflessioni compongono un quadro degno della più accurata attenzione. Tuttavia Kant non sembra aver percorso sino in fondo tale cammino, concludendo anzi con una annotazione di grande riserbo: “Qui non v'è dunque alcun fondamento, per noi comprensibile, da cui, per la prima volta, il male morale possa essere venuto in noi” [21]. Alla domanda se esista una causa comprensibile del male morale, Tommaso d'Aquino ha risposto affermativamente. Potrebbe anzi darsi che egli sia stato l'unico a considerare l'interrogativo in tutta la sua difficoltà e a tentarne una risposta ultima, in una dialettica non interrotta. Il riserbo dell'Aquinate è noto: è ben raro che prorompa in esclamazioni, altrettanto raro che impieghi le risorse di una scaltra retorica per far breccia nell'interlocutore. Il caso di cui ci occupiamo non fa eccezione: la brevità con cui egli svolge l'indagine sulla causa del male morale, potrebbe mascherare l'importanza della scoperta compiuta e del colpo di sonda gettato entro l'abisso della libertà creata. Cercando di porsi dinanzi al problema della produzione del male in tutta la sua difficoltà, l'Aquinate ha sottoposto ad analisi il movimento che si instaura nella libertà finita, nell'atto del volere da cui emana un'azione malvagia. Che cosa accade quando una persona si volge verso un atto cattivo? Quale ne è la causa o l'origine? Riassumendo la sua posizione, la causa prima e unica della produzione del male morale è individuata nella libera non-considerazione della regola da parte della volontà nel momento in cui essa procede all'azione: “Ciò che costituisce formalmente la colpa o il male morale proviene dal fatto che, senza la considerazione attuale della regola, la volontà procede all'atto della scelta” [22] . Il male dell'azione proviene da un certo difetto della volontà dell'agente, che deve essere volontario, se deve essere all'origine di un atto libero cattivo. Ora tale difetto, che va preconsiderato nella volontà, consiste appunto nel passare all'azione lasciando da parte la sua regola, la legge morale: questa possibilità esiste in generale per l'uomo in ragione della differenza tra regola della libertà e libertà stessa (non esiste invece per la libertà divina che è identicamente la sua propria regola). Il risultato dell'azione sarà cattivo, quando essa sarà stata posta senza la sua regola interna, e perciò privata di un bene che avrebbe dovuto esserci e che non c'è. Per rendere ragione di questa libera deficienza non c'è bisogno di risalire oltre: ad hoc sufficit ipsa libertas voluntatis [23] . Di modo che si può dire che la volontà, distogliendo lo sguardo dalla regola, che è santa e pura, negandola, fa il male: introduce una privazione di bene o una ferita nell'esistenza. Essa, distruggendo il bene che avrebbe dovuto esservi, “nullifica”. Inaudita potenza della libertà finita che, agendo da sola contro la legge e senza cooperare con la Causa prima, non può che inserire il nulla nell'esistenza. Essa vale come causa efficiente di una privazione, ossia come causa deficiente. Agendo da sola, è causa prima ed unica del male morale. Mentre, in rapporto alla già segnalata dissimmetria fra linea del bene e linea del male, nella prima la libertà divina e quella umana cooperano producendo atti buoni, che provengono da Dio come causa prima e dall'uomo come causa seconda. Anteriorità del male e concezione retributiva del dolore. In queste pagine che fanno riferimento all'etica e alla religione, si è finora dato, conformemente allo scopo, il maggior rilievo alla questione dell'etica, della legge, della sua trasgressione. E' la religione riducibile all'etica? Piuttosto essa va oltre la concezione morale del mondo e la limitazione al solo ambito umano. La meditazione di Tommaso sull'origine del male di colpa non ne comporta una completa eticizzazione. Il male mostra un volto ancipite: è qualcosa che l'uomo inaugura; ed è qualcosa che egli trova fuori di sé, che in certo modo ha già avuto luogo, che possiede una storia, una tradizione. La caduta dell'angelo, l'Avversario, la tentazione, la colpa originale costituiscono le fasi di una tale storia. L'uomo vi appare ad un tempo come iniziatore ma anche come prosecutore di un male anteriore. Tra il libero arbitrio e il servo arbitrio esiste la libertà indebolita. Nei grandi racconti sul male, su cui la filosofia non può non meditare perché quando essa inizia quasi tutto è già stato detto in merito, si distinguono quelli che ne riconducono l'origine a qualcosa di anteriore all'uomo e quelli che la riportano all'uomo stesso. Il racconto della Genesi, pur stando a cavallo tra le due tradizioni, si colloca più vicino alla seconda. Esso non vale però come racconto esclusivamente ma solo parzialmente antropologico, poiché l'origine del male di colpa non viene attribuita soltanto ad Adamo ed Eva: al suo centro sta infatti la figura del serpente, che inganna e seduce l'uomo. Dunque il male c'è già quando Adamo entra nell'esistenza: “Il serpente insomma significa che l'uomo non dà inizio al male, ma lo trova: per lui cominciare è in realtà continuare. Così, al di là della proiezione della nostra concupiscenza, il serpente raffigura la tradizione di un male più antico di lui [dell'uomo]: il serpente è l'Altro del male umano” [24] . Per Adamo l'anteriorità del male (il suo “esservi già”) è il serpente, mentre per ogni uomo è Adamo. Nel racconto biblico sono contemperati lo schema dell'ereditarietà, e perciò della necessità del male, e quello della sua contingenza, del suo esser prodotto dalla libertà umana. In proposito Ricoeur ha parlato del male come di un involontario in seno al volontario; altrettanto bene si potrebbe parlarne come di un volontario in seno all'involontario. Egli ha anche osservato che nella Bibbia il racconto dell'Inizio non è adeguatamente compreso se separato dal rinvio a quello della Fine, se il primo Adamo non rinvia al secondo Adamo e alla storia della salvezza che in lui si compie. Con l'avvento del Verbo il dramma del male è compreso in una luce nuova.
Col cristianesimo il problema del male si illumina nel discorso, si risolve nella vita e nella lotta verso una soluzione. Ciò che fa la differenza cristiana in proposito è che la vita è intesa come dramma, non come tragedia. Vi è tragedia quando l'esistenza è rinchiusa in una “contraddizione non dialettica”, ossia in una contraddizione senza esito, senza soluzione, senza sbocco. Edipo è l'eterno prototipo del personaggio assolutamente tragico, Adamo invece drammatico, perché la storia segnata dal negativo a cui egli ha dato inizio, rinviando alle cose ultime attraverso la promessa di un salvatore, non è assediata da un buio senza fine.
La concezione morale del male, presente nella tradizione biblica, forte nel pensiero dei grandi teologi (si pensi tra tutti ad Agostino), è fortissima in Kant, dove l'intera radice del male è posta nella libertà, ossia nell'inversione della gerarchia delle massime in base a cui si muove l'arbitrio. Tuttavia l'eticizzazione kantiana rischia di offuscare la solidarietà nel male e la sua “preesistenza”, che Agostino invece coglieva contro Pelagio. Mentre quest'ultimo si esprime a favore di una concezione puramente etica del male, che è prodotto contingente della libertà (intesa come libertas ad peccandum et ad non peccandum); e mentre Mani scivola verso un'idea necessitaria del male, per cui esso s'impone all'uomo provenendogli dal principio malvagio; Agostino sceglie una via mediana, dove la tesi della contingenza del male quale prodotto della libertà è attenuata dalla generale compartecipazione umana ad una condizione ferita. Il tentativo di restaurare, sia pure parzialmente, la visione manichea si scontra con l'assunto gnostico dell'esteriorità del male, con la correlativa negazione del male morale come catastrofe della libertà finita. La meditazione dell'Aquinate sulla volontaria non-considerazione della regola quale causa del male di colpa va prolungata con un cenno alla non coincidenza tra visione puramente morale e visione religiosa del male e della colpa, e al rapporto colpa e punizione. Per gli amici di Giobbe Dio è un Signore esclusivamente etico, che segue una rigorosa legge di equilibrio tra colpa e punizione, di modo che il male di colpa viene retribuito col male di pena, con la sofferenza. Elifaz, Bildad, Zofar sono teologi che adottano ad un tempo una teodicea e una “duolodicea”: mentre con la prima intendono giustificare Dio dinanzi al male del mondo, riportato esclusivamente alla colpa, nello stesso tempo giustificano il dolore e la sofferenza come esito necessario del male agire. L'eticizzazione dell'uomo, di Dio e del loro rapporto muove verso una visione morale del mondo, secondo la quale la storia è un tribunale, i piaceri e i dolori una retribuzione, Dio un giudice. La totalità dell'esperienza umana assume carattere giuridico-penale, il cui luogo proprio è il dibattimento, come si mostra nel lungo contendere tra gli amici e Giobbe, tra accusa e difesa, e perfino nella chiamata in giudizio di Dio da parte di Giobbe. Si può certo obiettare: dove sta in tutto ciò la dimensione propriamente religiosa del perdono, della speranza, della grazia? Non è la concezione puramente etico-retributiva messa in crisi dalla sofferenza innocente? Mentre la sofferenza vicaria, assunta volontariamente, può rimanere entro il quadro della retribuzione riequilibrante e manifesta la fede nel governo divino del mondo; e la sofferenza accolta come purificazione e innalzamento sta un gradino più su del semplice schema retributivo, quella innocente ne è al di fuori: per quale colpa dovrebbe essere chiamata a pagare l'innocenza? Ammettiamo senza reticenze tutto ciò, contribuendo così ad allargare le strette maglie del paradigma etico-retributivo. Ed è Giobbe stesso che, sperimentandola sulla propria pelle e relativizzandola, rinuncia ad ogni totalizzante visione morale del mondo. L'origine del male morale quale produzione della libertà non ne viene però scalfita: io sono l'autore del male, esso è l'opera della mia libertà. Ammettendo che avrei potuto agire diversamente, riconosco la mia responsabilità, l'esistenza della legge morale e di una obbligazione nei suoi confronti. Mi riconosco reo attraverso la confessione della colpa, evento che ricorre nella letteratura penitenziale di tutte le epoche, e di cui è vertice il salmo di David: “Quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto” (Salmo 50). L'uomo, consapevole di incontrare in se stesso un tribunale che giudica e condanna, e aspirando nella speranza alla liberazione dalla colpa, trova un passaggio verso la dimensione religiosa che integra quella puramente etica. Mentre l'etica dice che il male, scaturente da un'infrazione di un'impersonale legge morale, dipende dal mistero individuale e insondabile dell'atto libero, la religione considera il male dinanzi a Dio, entro un rapporto personale con lui: “Contro di te, contro te solo ho peccato”. Il limite di una concezione esclusivamente morale del mondo non risiede nel richiamo alla responsabilità personale; consiste nel fermarsi ad esso, nel volgere l'occhio quasi solo al divieto che proibisce e infine schiaccia senza allargare lo sguardo alla speranza nella liberazione dal male. L'invocazione davidica è voce del pentimento, attesa di perdono e di salvezza, accettazione dell'espiazione. In quest'ultimo aspetto si manifesta un elemento della condizione umana, che costituisce anche una base della concezione morale del mondo e della pena. L'uomo non si sentirebbe in pari con se stesso e con la legge, se sfuggisse all'espiazione, ma tale movimento è insidiato dal suo contrario. Si incontra qui una difficile dialettica della coscienza, presa fra l'esigenza dell'espiare e il suo rifiuto. L'uomo può negare di essere colpevole, pur essendolo; e può voler sfuggire alla pena. Ma in tutta verità, può l'uomo sottrarsi all'espiazione? Egli non è in grado di sottrarvisi, perché non gli è dato di sfuggire al proprio io neppure col suicidio. L'essere un io è un fatto eterno. Sfuggire in qualsiasi modo al proprio io è un'impossibilità metafisica. La concezione esclusivamente morale del mondo, se assunta senza la speranza in un salvatore, è intimamente tragica: l'uomo colpevole non puòsfuggire alla sanzione della legge morale, più di quanto possa sfuggire al proprio io eterno. Contra malum cum Deo. L'uomo difficilmente può aspettarsi dalla filosofia quel nutrimento di cui più di tutto ha bisogno: nutrirsi di liberazione dal male e di redenzione dal negativo. La riflessione filosofica risulta di limitata utilità nell'individuare la risposta all'essenziale domanda: donde la liberazione dal male? La sapienza dei concetti non può essere alla misura di quella dismisura che è il male. Bastano i Seneca pagani e i Pelagio cristiani dinanzi a un tale eccesso? Vale qui un celebre detto dell'oracolo di Delfi: “Chiamato o non chiamato, Dio sarà presente”. Che cosa significa questo se non che occorre portare l'interrogativo sul male dinanzi a Dio, non solo dinanzi all'uomo? In tale prospettiva due posizioni appaiono in vario modo insufficienti: quella che dall'esistenza del male argomenta contro quella di Dio; e la posizione giustificazionista e “apologetica” della teodicea. Nell'Alleanza emerge invece come posizione adeguata il contra malum cum Deo et in Deo, che supera sia la posizione atea del contra malum sine Deo, sia quella antiteista del contra malum, contra Deum, sia l'atteggiamento giustificazionistico del pro Deo, in cui ci si preoccupa più di Dio e della sua innocenza, che dell'uomo e del suo male [25] .
La lotta contro il male richiede l'alleanza con il Trascendente in ragione dell'infinito potere negante della libertà finita. Nella concezione 'tradizionale' il male morale è riportato alla causalità della libertà finita, che sembra gravata di un peso immenso, che sarebbe forse più congruo compartire con altri. Non si trascuri però di meditare un elemento della teologia, che sembra idoneo a diradare un poco quell'enigma. Alludo all'Angelo decaduto, un tema di alto rilievo nonostante il disinteresse da cui appare circondato. Nel peccato dell'Angelo si è di fronte al mistero della libertà allo stato puro e della colpa allo stato puro, almeno nel senso che la colpa della volontà non preesige né l'errore né l'ignoranza come condizione dell'atto cattivo del libero arbitrio. L'Angelo conosceva allo scoperto l'esistenza di Dio e la divisione tra bene e male, eppure ha liberamente e consapevolmente voluto se stesso contro Dio, preferendo l'amore verso la propria natura spirituale risplendente invece che l'amore per Dio. Ha peccato, volendo peccare e sapendo di peccare: l'ha voluto con una libera opzione in cui ha posto tutto se stesso, perché la sua volontà era intensamente volta verso se stesso, amandosi di un amore in certo modo infinito e al di sopra di ogni altra cosa. Nella sua radice più profonda il male (morale) sembra scaturire dalla violenza di un falso amore, di un desiderio intimamente e tragicamente disordinato. Col peccato dell'Angelo viene a svelamento l'erroneità dell'intellettualismo etico o del “socratismo morale” che fa della virtù un effetto della conoscenza e del vizio un risultato dell'ignoranza. Ma emergono pure l'innocenza di Dio nei confronti del male e la possibilità intrinseca alla libertà creata di introdurre il male nell'essere, attraverso un atto nientificante: il maremoto della libertà. Solo una libertà altra, divina, può rifare quello che il soggetto finito disfa.
Col loro ottimismo storico Razionalismo e Illuminismo credevano in una progressiva vittoria del bene sul male e nella liberazione umana, che le esperienze più salienti del XX secolo, quali il deserto dell'ateismo e il dilagare dell'oppressione dell'uomo sull'uomo, hanno frustrato. Vi è oggi bisogno più che dell'aria e dell'acqua di una nuova esperienza religiosa, nel cui fuoco riprendere contatto con l'itinerario provvidenziale di prevalenza del bene sul male. Una tale esperienza non parlerà del male di Dio, piuttosto del suo “dolore” (per quella modestissima misura in cui possiamo avere accesso ad un tema tanto carico di mistero) e in generale del valore redentivo del soffrire. E se è assurdo introdurre la minima ombra di male in Dio, non è assurdo scorgervi un misterioso riflesso del dolore, di quello che quando è accettato come riscatto e rivelazione del senso segreto delle cose, è una perfezione umana di cui non può non cercarsi un qualche analogo nell'Assoluto.


Note

[Nota 1] E' il testo dal titolo Liquidazione del diavolo, ripubblicato in J.Ratzinger, Dogma e predicazione,Queriniana, Brescia, 1974, pp.189-197.

[Nota 2] W.Kasper, Il problema teologico del male, in W.Kasper-K.Lehmann (edd.), Diavolo-Demoni-Possessione. Sulla realtà del male, Queriniana, Brescia, GdT 149, pp.45-78.

[Nota 3] Ciò deriva da quanto leggiamo in Sal 96,5 e 1Cr 16.26, che cioè gli idoli dei pagani sono niente (elilim; cf. Is 44,9 ss); nei Settanta e nella Volgata si dice che gli idoli dei pagani sono demoni (cf. Dt 32,17; Sal 106,37). Che i demoni siano degli idoli inesistenti ci viene suggerito anche da 1Cor 8,4 e 10,19. Cf. l'art. éidolon, in ThWNT II, 374 s.; H.CONZELMANN, Der erste Brief an die Korinther (Krit. exeget. Kommentar), Göttingen 1969, 168 s.

[Nota 4] Riprendo così una definizione che K.BARTH ha dato, ed ampiamente evoluta, nella sua Kirchliche Dogmatik III/3, 327-425. Pur rimanendo debitore di tanti stimoli che Barth mi ha offerto, qui mi differenzio fondamentalmente dalla sua posizione. Per Barth quello del 'niente' è il terzo modo dell'essere: né come Dio, né come creatura, bensì come reale rispondenza al non volere di Dio, come opposto dell'elezione e conferma di Dio (cf. spec. 402 ss). Partendo da questo punto di vista Barth potrà dunque contestare che gli angeli e i demoni traggano la loro origine da una comune radice (cf. 608 ss). Invece di questo terzo modo d'essere, insostenibile dal punto di vista teologico, a me interessa determinare la creaturalità del male pervertita mediante la propria decisione. Mi rendo tuttavia conto che il concetto di negazione o negatività da me impiegato esige un più preciso chiarimento filosofico.

[Nota 5] Cf. TOMMASO d'AQUINO. Summa theologiae I q.48 a.l; Contra gentiles III, 7 ss.; De malo q.1 a.1. Per la storia di questa concezione, cf. F. BILLICSICH, Das Problem des Übels in der Philosophie des Abendlands, 3 vol., Wien 1952-59; critico nei confronti della definizione tradizionale del malum è L.OEING-HANHOFF, Die Philosophie und das Phänomen des Bösen , in Realität und Wirklichkeit des Bösen (Studien und Berichte d. kath. Akad. in Bayern, 34), Wurzburg 1965, 1-30.

[Nota 6] Per questa interpretazione di Mt 5,37, cf. E.JÜNGEL, Geistesgegenwart. Predigten, München 1974, 39-47.

[Nota 7] Cf. Gv 8,44.

[Nota 8] Cf. al proposito J.RATZINGER, Abschied vom Teufel? , in Id., Dogma und Verkündigung, München-Freiburg 1973, 225-234, qui 233 s. [trad. it., Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia]. Dubito comunque che la categoria del 'fra', che in tale contesto Ratzinger introduce, risulti sufficiente. Questa categoria, desunta da M.Buber, è più adatta ad interpretare la realtà qualificata con il concetto di peccato originale che a definire in modo categoriale il diavolo o i demoni.

[Nota 9] Cf. Rom 8,38; 1Cor 15,24; Ef 1,21; 3,10; 6,12; Col 1,16; 2,10-15.

[Nota 10] Ciò risulta soprattutto dalle discussioni sul problema della carne sacrificata agli idoli a Corinto (cf. 1Cor 8,1 ss.) e pure dalle polemiche sulla libertà dalla legge (cf. Gal. 4,8 ss.) e con le correnti (probabilmente) gnostiche (cf. Col 2,8 ss.).

[Nota 11] Vittorio Possenti, Essere e libertà , Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004.

[Nota 12] Sull'insuccesso di ogni tentativo di teodicea , trad. di A. Massolo, Studi Urbinati, n. 29, 1955. p.6
 

[Nota 13] Spirito e Libertà , Ed. di Comunità, Milano 1947, p.235.

[Nota 14] L.Pareyson, Pensiero ermeneutico e pensiero tragico in AA.VV., Dove va la filosofìa italiana? , a cura di J.Jacobelli, Laterza, Bari 1986, p.137s. Di Höffe si veda Recuperare un tema: Kant sul ma le, in F.W.J.Schelling, Ricerche filosofiche sull'essenza della libertà umana , commentario a cura di A.Pieper e O.Höffe, Guerini, Milano 1997. pp.113-115.

[Nota 15] Soprattutto Auschwitz, presentando l'abisso del male, chiama in causa Dio: o per negarlo e annunciarne la morte, nel senso che la creazione è un dramma in cui Dio infine è sconfitto (in Dopo Auschwitz, 1966, il rabbino americano Richard Rubinstein domanda che si accetti il fatto bruto della pura e semplice morte o fine di Dio ad Auschwitz); oppure per ripensare e alterare la natura di Dio, come propone Hans Jonas. per il quale la bontà divina si accompagna ad una sua assoluta impotenza ad intervenire nella storia del mondo; o infine attraverso una più approfondita riflessione sul male che si appoggi ai dati biblici e alle più sicure tradizioni teologico-filosofiche.

[Nota 16] A.Neher, Chiavi per l'ebraismo , Marietti, Genova 1988, p.124.

[Nota 17] H.Blumenberg, La legittimità dell'epoca moderna , Marietti, Genova 1992, p.133.

[Nota 18] Cfr. Da Bergson a Tommaso d'Aquino , Vita e Pensiero, Milano, 1980; Breve trattato dell'esistenza e dell'esistente , Morcelliana, Brescia, 1965; Dio e la permissione del male , Morcelliana, Brescia, 1973; Le péché de l'Ange , in AA.VV. Le péché de l'Ange , Beauchesne, Paris, 1961, pp.43-86.

[Nota 19] Cfr. Contra Gentiles , 1. III, c.71.

[Nota 20] G.Leibniz, Discours de métaphysique , Vrin, Paris 1975, p. 92 ; J.Maritain, Dio e la permissione del male , p.14.

[Nota 21] La religione entro i limiti della sola ragione , Laterza, Roma-Bari 1980, p.45s.

[Nota 22] De Malo , q.I, a.3.

[Nota 23] Ivi.

[Nota 24] P.Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni , Jaca Book, Milano 1986, p. 311.

[Nota 25] In queste riflessioni ci siamo ispirati al bel libro di A.Gesché, Le mal , Cerf, Paris, 1993. Dal canto suo Ricoeur avalla la posizione del contra malum: “Prima di accusare Dio o di speculare su un'origine demonica del male in Dio stesso. agiamo eticamente e politicamente contro il male”, Il male , Morcelliana, Brescia 1993, p.49.


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