29/7 VII meditazione di Dossetti, dal titolo “Verso l’Islam”


Penso che dovremmo fare spazio nei nostri incontri futuri ad una conversazione in cui voi possiate esprimervi e chiedere, porre domande - per quanto possa essere io capace di rispondere, ma insomma - cercare di concretare ancora di più una corrispondenza con quello che può essere la problematica che ciascuno accosta, può sentire personalmente e che accosta nella propria attività pastorale.

Però ad ogni modo oggi io continuerei a sviluppare in sede applicativa quello che si è detto stamane, mettendo ancora più a fuoco certi problemi. In particolare vorrei tendere a mettere a fuoco il nostro atteggiamento, il più possibile determinato almeno di principio, nei confronti dell’Islam, perché è la grande realtà che ci è più immediatamente prossima in questo momento. Dunque mi riattacco strettamente a quello che abbiamo detto da ultimo, nelle ultime battute della conversazione precedente introducendo il discorso del Card. Tomko e cioè cristocentrismo opposto ad un teocentrismo. E quindi la tendenza che abbiamo sempre più constatato nei nostri incontri e nelle nostre informazioni con l’India. Recentemente la nostra sr.Agnese è tornata in India pochi mesi fa ed ha raccolto ancora informazioni molto precise ed anche documenti particolarmente sul movimento degli Ashram, delle circolari che tendono ad unificare questo movimento sempre più diffuso negli ambienti cattolici.

Ora nei confronti delle religioni estremo-orientali lo spostarsi da un cristocentrismo ad un teocentrismo è più che un errore. E’ una grande ingenuità! Perché parlare di teocentrismo certamente non farebbe fare un passo minimo in avanti nel dialogo interreligioso. Abbiamo già detto, i principi possiamo richiamarli: per l’induismo, per l’induismo coerente, ma poi in sostanza per ogni induismo di ogni epoca e di ogni localizzazione - c’è una realtà paninduista veramente che si può individuare molto chiaramente in tutti i secoli, in tutte le incarnazioni successive, in tutti i luoghi dell’induismo - è sempre la tendenza più o meno esplicitata ed affermata con categoricità alla Adwaita, cioè alla non dualità, negando una qualsiasi alterità di Dio. Tra il sé umano risvegliato e il sé divino non c’è nessuna differenza. Tendenzialmente è sempre più così. Questo è un dogma paninduista. Potrà essere nei diversi sistemi più o meno formalizzato, sistematizzato e portato alle ultime conseguenze, ma, direi, questa è l’essenza dell’induismo e in genere delle religioni asiatiche. Quindi non c’è propriamente la possibilità di parlare di Dio, non c’è nemmeno un vero atteggiamento di preghiera. Nonostante tanti gesti e tanto formule che possono sembrare pie, non c’è pietà e non c’è adorazione. Il lasciare il cristocentrismo non sarebbe una via e nemmeno un passo avanti nell’intesa o nel dialogo interreligioso. Sarebbe una mera illusione da parte nostra, una concessione fatta sull’altare dell’unità e un autentico tradimento. Da parte loro sarebbe preso indubbissimamente come una semplice mossa tattica, in fondo una politica, screditante ulteriormente il cristianesimo.

Per quanto riguarda il buddismo è un equivoco ancora più radicale perché per sé il buddismo puro, il buddismo della grande tradizione degli anziani, il buddismo Teravada, detto impropriamente buddismo “del piccolo veicolo”, è puramente ateo. La preghiera non è mai preghiera. Noi abbiamo partecipato ad una cosiddetta preghiera buddista in un grande tempio di Bangkok, però sapevamo che tutte le formule della preghiera, gli inchini che venivano rivolti ad una specie di altare in cui troneggiava il Buddha ecc., non era preghiera. Era semplicemente recitazione del canone, recitazione della regola, perché poi la preghiera e la meditazione personale è soltanto un tentativo sempre più avanzato di fare il vuoto di ogni pensiero e di ogni sentimento e di avanzare verso il nulla, il Nirvana, di liberarsi insomma dall’io empirico, dall’esistenza stessa, per raggiungere la non esistenza, l’annullamento completo e perdersi nel nulla infinito.

Quindi il discorso che può restare ancora, con qualche fumus - è proprio il caso di dire come dicono i giuristi, fumus - di attendibilità è il discorso di un eventuale teocentrismo nei confronti dell’Islam. E qui c’è la tesi di Kung - non so se voi avete visto il penultimo, non è l’ultimo, libro di Kung sulle grandi religioni. E’ un libro scritto non solo da lui, ma – è messo in evidenza anzi questo - per ogni grande religione c’è un contributo di uno specialista, per l’induismo, per il buddismo, per l’islamismo, colleghi in gran parte suoi delle università tedesche, e poi c’è una parte sua, nettamente distinta, che vorrebbe rispondere alle domande che sono poste dalla religione interessata, al cristianesimo e affacciare delle ipotesi non di dialogo ma di tendenziale cospirazione verso l’unità. Orbene nel suo libro, per la parte che riguarda l’Islam, Kung avanza un’ipotesi fondamentale, muove da un’ipotesi fondamentale e cioè, dichiarate problematiche di una problematicità praticamente insolubile la Trinità e l’Incarnazione, si chiede poi a un certo punto, si pone lui stesso la domanda, se può essere ancora considerato un cristiano, un cristiano post-niceno per così dire. E la domanda la aggira più che l’affronta formalmente. Però la sua posizione, insomma, si qualifica per questo: una ricostruzione delle origini cristiane e della genuina fede sulle basi di una cristologia primitiva - fondamentalmente è la tesi di Harnack che poi esplicitamente lui cita più volte - di una cristologia primitiva, essenzialmente la cristologia ebionita, in cui il Cristo non sarebbe certamente presentato come Figlio, ma come servo, la teologia del servo di Dio. Cristo servitore, perfetto servitore, la cui volontà è stata consumata completamente in una adesione incondizionata e senza riserva alcuna al servizio di Dio. Ma alla fine poi “non Dio”. Comunque anche questa teologia del servo, accettata per il momento come supposizione, non risolverebbe affatto il problema nei confronti dell’Islam, precisamente perché il servizio del Cristo in ogni modo - certamente Kung lo riconosce - si mostrerebbe in concreto nel suo apice come il servizio della perfetta realizzazione della volontà del Padre, sulla croce. Ora, qui c’è, secondo me, l’approccio più specifico ed individuante di un qualsiasi contatto nostro con l’Islam, perché il Corano nega formalmente la morte del Cristo e la morte in croce. Qui bisognerebbe avere, ma ad ogni modo si può citare a memoria, la Sura IV, la Sura cosiddetta delle donne, al versetto 157. Ironizzando Maometto dice che gli ebrei hanno creduto di crocifiggere il Cristo, ma non l’hanno crocifisso perché hanno crocifisso - una parola oscura - ma insomma, una “somiglianza di lui” e poi tutta la tradizione costantissima e senza eccezioni della interpretazione coranica è nell’irrigidire ancora di più questa formulazione del Corano che non è mai contraddetta nel Corano stesso e che è presa pari pari da tutti i commentatori e da tutti i musulmani, come una verità dogmatica che il Cristo non è stato per nulla ucciso dagli ebrei e tanto meno crocifisso. Al suo posto è stata una “somiglianza di lui” che è stata crocifissa mentre il Cristo è stato elevato, richiamato a Dio, elevato accanto a Lui, corpo ed anima, in una posizione di attesa, perché poi, alla fine dei tempi, ritornerà sulla terra, vivrà, probabilmente secondo alcuni commentatori si sposerà, e si farà predicatore dell’Islam. Ucciderà il maiale ed abolirà la croce, precisamente come significative testimonianze della ripulsa del cristianesimo. Questo tutti i commentari, i grandi commentatori classici sino all’ultimo commentatore moderno della fine del secolo scorso, del principio del secolo scorso, il grande commento egiziano di (Nasr).

Ora le partenze sono probabilmente docetiste. Può darsi che Maometto abbiamo avuto dei suoi contatti marginali con le frange del cristianesimo, contatti con il Carpocrate e prima ancora con Basilide. Ma comunque sia e dovunque si voglia porre l’origine - se principalmente in una sua posizione già preconvenuta e preconcetta, fra l’altro prevenuta e preconcetta specificamente fra l’altro, in più, nei confronti degli ebrei, perché questa Sura è tutta concentrata in una formulazione anti-ebraica, è del tempo in cui Maometto stava preparando lo sterminio delle ultime tribù arabe ebraiche di Medina – comunque - oppure sia un elemento captato da lui appunto nelle frange del cristianesimo, del cristianesimo eterodosso - comunque è formulato in modo tale che è passato pari pari come un dogma fondamentale dell’Islam. Questa è la negazione specifica. E poi c’è la negazione generale e cioè la negazione formale, per così dire, di tutto il Corano contro la redenzione, il concetto stesso di redenzione. Nessuna esigenza di riconciliare Dio con gli uomini, nessuno stato di abiezione dell’uomo o di alienazione dell’uomo da parte di Dio. Anche perché addirittura non c’è nessuna possibilità poi di avvicinamento dell’uomo a Dio; Dio è assoluta trascendenza e basta. Ammettere un qualsiasi mediatore o comunque una esigenza di mediazione sarebbe già associare qualcuno a Dio e quindi derogare dal monoteismo assoluto. L’uomo è l’uomo e non potrà mai avvicinarsi a Dio. Dio è Dio e tra i due c’è soltanto l’espressione delle esigenze libere e mutevoli di Dio - fra l’altro questa trascendenza di Dio implica anche una mutevolezza della sua stessa esigenza e della sua stessa formulazione nei confronti dell’uomo. Però le esigenze che il Corano propone come fondamentali all’uomo sono quelle conosciute cioé anzitutto i cinque pilastri e cioè: prima di tutto il monoteismo assoluto, il non associare niente a Dio e poi la preghiera canonica, il digiuno del Ramadan, l’elemosina, la decima e il pellegrinaggio almeno una volta nella vita alla Mecca. L’uomo che si attiene a queste esigenze fondamentali e alle esigenze etiche di comportamento di una morale che chiaramente si manifesta come morale naturale nelle sue esigenze, l’uomo che fa questo è a posto, può rispondere positivamente nei confronti di Dio al giorno del giudizio e ricevere il premio.

L’uomo che non adempie queste condizioni fondamentali sarà condannato, nel giorno del giudizio, alla pena. Questo è semplicemente, schematicamente, tutto il complesso del Corano e di tutta la religione musulmana. Quindi non c’è posto per la redenzione, non c’è posto per un redentore prima di tutto, ma non c’è posto nemmeno per la redenzione. Quindi, come nelle religioni orientali, anzi in modo ancora più proprio nei confronti di quello che sembrerebbe apparire non solo l’unico teismo, ma l’unico monoteismo con il quale si possa noi dialogare e con il quale si crede - e forse abbiamo creduto anche noi in un primo momento - di poter dialogare sulla base di questa area monoteista biblica, la rinunzia al cristocentrismo non porterebbe per nulla un millimetro più avanti la possibilità di intesa con l’Islam. Sarebbe un’operazione in pura perdita. Non solo non ci avvicinerebbe all’Islam, ma indurrebbe l’altra parte, più ancora che non sia per le parti prima ricordate, a mettersi in sospetto a priori di un grande tentativo di aggiramento e di una possibilità non sincera di intesa.

Quindi che cosa porterebbe inevitabilmente per noi? Porterebbe il Cristianesimo a rinnegare il punto fondamentale, assoluto, la croce di Cristo. San Paolo nella Prima ai Corinti ci dice che egli non conosce altro che il Cristo e questi crocifisso. E che non vuole evacuare la croce di Cristo e che tutta la nostra fede è fondata sul fatto che il risorto è colui che è stato crocifisso. Precisamente lui e non un altro. La dimostrazione di Cristo, delle sue piaghe, implica tutta questa profonda teologia della croce anche nel risorto. Sarebbe quindi inevitabilmente la perdita di tutto il nerbo del Cristianesimo e la perdita di tutta la sorgente della nostra forza - la beata passione diciamo ogni giorno nel canone, nel canone primo, nel canone romano quando lo si diceva perlomeno, perché oggi lo si trascura un po’ troppo il canone romano, per il canone secondo più corto. Ieri sera al sepolcro un pretino che mi stava accanto, automaticamente, ha aperto il segno al secondo canone ed io ho girato e ho detto il terzo. Avevo voglia di dire il primo, ma poi non ho ecceduto e mi sono rassegnato al terzo canone. Ne parleremo, ne parleremo. E’ stata una grande operazione negativa quella del Concilio, fra l’altro un errore storico quello di proporre il secondo canone. L’hanno proposto credendo di proporre il canone di Ippolito. Il canone di Ippolito, è risaputo, non è altro che uno schema di canone, in quel tempo in cui consentiva al vescovo di esprimere i sentimenti, secondo una certa struttura proposta ma allargata a suo libito, nella pienezza della sua funzione episcopale. Quindi si è preso uno schema per un canone e lo si è proposto ed è diventato il canone più abituale che in tutta la chiesa, dopo il Concilio, si dice. Noi abbiamo - non è stata iniziativa mia, ma di un nostro confratello - nel nostro messale incollato le pagine del secondo canone, proprio per impedire ai sacerdoti di passaggio di dire semplicemente il secondo canone. Mi perdonerete se mi scaldo, ma io sono convinto che qui c’è una grande insidia e un grande pericolo, e qui c’è la necessità assolutamente di ritorcere le cose e di tornare ad una consapevolezza più approfondita di quello che significa la centralità e l’ampiezza dell’eucarestia, una ampiezza proporzionata al mistero, non svenduta. Dunque, scusate l’interruzione.

Non possiamo rinunziare al cristocentrismo e non possiamo rinunziare, soprattutto, alla sua croce perché perderemmo tutta la forza. Il cristianesimo senza la beata passione, come dicevo inizialmente, a che cosa si riduce? Ad un cristianesimo totalmente snervato e senza la sorgente, oltre che della sua autenticità di fede, anche della sua autenticità di proposta personale e comunitaria. Non saremmo più capaci di nulla.

E qui il discorso mi porta a parlare della chiesa egiziana. Stamattina qualcuno ne ha accennato ai margini della colazione. Perché? Perché io credo che sia una chiesa che ha un’esperienza unica nei confronti dell’Islam e che in certe cose ci può fornire una norma. L’onda islamica come è saputissimo, nel medio Oriente e nei paesi dell’Africa del nord ha travolto tutte le chiese praticamente, le quali - confessiamolo apertamente, con una chiarezza lucida - non sono chiese, ma frammenti di chiesa. Così è per la chiesa armena, nonostante che abbia una sua consistenza, ma la chiesa armena così come è ridotta oggi, dopo gli eccidi ulteriori della prima e della seconda guerra mondiale, ha travolto la chiesa siriaca, sia ortodossa sia unita a Roma, ridotta a frazioni quasi invisibili, ha travolto la chiesa caldea, che pure fino a qualche decennio fa aveva ancora una sua consistenza, ma tutto ciò che è accaduto, specialmente nell’Irak settentrionale e ai confini con il Kurdistan, l’ha frantumata anch’essa. Bagdad era divenuta fino a non molti anni fa un centro di raccolta dei Caldei, ma tendono sempre più a sparire. Ha travolto la chiesa latina, la chiesa latina che qui si è un po’ ricomposta. E però che cos’è? E’ una chiesa estranea, nonostante che noi siamo latini, anche perché uno non può rinnegare o staccarsi dalla chiesa in cui è stato battezzato. E non ci si rifà una coscienza, una spiritualità. Non è praticamente possibile. Anche se si può, per qualche aspetto, essere aperti e persino praticare certi aspetti della spiritualità e della liturgia orientale, ma fino ad una trasmutazione o a una trasmigrazione di chiese io non credo che sia veramente possibile, nella totalità dell’esperienza spirituale interiore. Comunque la chiesa latina qui è stata ricomposta, ma è una piccola cosa. Quanti siamo? Tra la Palestina e la Giordania arriveremo sì e no ad un 70mila, 80 sacerdoti della chiesa di Gerusalemme tra Palestina e Giordania. Che ha una sua consistenza, perché ha una sua organicità ed una sua attualità di impegno, tipico del resto della nostra spiritualità occidentale e che, per certi riguardi, può anche prevalere, che ha avuto alle origini, quando è stato ricostituito - è interessante questo, ma potremmo parlarne - il Patriarcato latino ha avuto una serie di grandi operatori, di grandi vescovi e di grandi missionari, e che in alcuni casi sono stati chiamati dagli ortodossi o dai melchiti. Comunque la nostra è una chiesa di importazione. La chiesa melchita, che è rimasta per qualche secolo la chiesa bizantina in contatto con il centro bizantino, il re, il basileus, la chiesa melchita è anch’essa un frammento di chiesa, un residuo. La chiesa ortodossa. Ecco è quella la chiesa più di casa in Medio Oriente, il Patriarcato di Gerusalemme e il Patriarcato di Antiochia. Certamente è la chiesa più di casa e in qualche modo, forse, il Patriarcato di Antiochia può avere una sua legittimazione ad esigere una sua funzione nei confronti delle realtà araba, ma anch’essa è una chiesa più volte frantumata, che può avere qualche personalità significativa - l’ha sempre avuta e anche oggi l’ha tra il laicato e l’episcopato. L’attuale patriarca della chiesa di Antiochia, quindi greco-ortodosso, Hazim, quello che era prima vescovo, di cui abbiamo letto la famosa introduzione al Consiglio delle chiese, al Congresso delle chiese a Stoccolma, adesso è patriarca, è veramente un uomo di valore (…)

Il centralismo bizantino non è stata l’ultima ragione della apertura delle porte di questi territori all’Islam. Non è stata l’ultima ragione: l’unità, il collegamento con Bisanzio e quindi un certo asservimento della chiesa a Bisanzio. Quindi chi è rimasto veramente di casa: la chiesa copta. Che è - notate bene - l’unica chiesa, forse l’unica chiesa, semplicemente l’unica chiesa nel mondo che non ha mai avuto partecipazione al potere, perché è stata conculcata prima dai bizantini e poi dagli arabi, come è tuttora. Quindi non ha avuto mai un’esperienza del potere ed una partecipazione al potere e non è un frammento di chiesa. E’ una chiesa - i conti sono difficili in questo campo anche perché i conti, le statistiche qui brillano per la loro assenza e per la loro poca attendibilità in qualunque sede e per qualunque riguardo. Quanti sono gli Egiziani oggi? Probabilmente, attualmente 53 milioni e crescono con la velocità di un milione ogni dieci mesi. E quanti sono i copti, cioè i cristiani appartenenti alla chiesa originaria del Patriarcato di Alessandria? Probabilmente, volendo essere prudenti, tra i 7 e gli 8 milioni. Quindi è una chiesa che ha una consistenza unica, non paragonabile a nessuna altra chiesa di tutta l’area. Però, oltre questa consistenza quantitativa, ha indubbiamente una vitalità ed una vivacità intense, avrà anch’essa i suoi guai - io veramente non li ho potuti approfondire, come tutti, perché siamo tutti uomini, tutti col peccato, tutti con la nostra resistenza profonda alla redenzione operata dal Cristo nostro Signore. Però ha una vivacità ed una vitalità intensissime, comunque. Questo appare a prima vista. Io sono stato due mesi fa in Egitto e ho notato due cose capitali che non sono del resto note. Tutt’altro! La impressionante vitalità liturgica. E’ una chiesa che si fa sentire nelle assemblee liturgiche settimanali. Io sono stato a messa in una parrocchia - parlo della chiesa copta ortodossa non della chiesa copta unita, fanno degli sforzi notevoli ma sono poco più di cento mila, e sono in una condizione per molte ragioni difficili e stentatissime - dunque in una parrocchia copta, una grandissima chiesa, una cattedrale, gremitissima. La liturgia è durata tre ore - secondo canone! - tre ore, dalle nove puntualissime a mezzogiorno suonato, tre ore di liturgia. Una risposta totalitaria, un’assemblea completa, in tutti i sensi, di uomini e di donne, di anziani e di giovanissimi, e di giovani, di ragazzi e di ragazze, una partecipazione entusiasta e vitale, unanime, a questa lunghissima liturgia. Nessun segno di stanchezza. E la stanchezza avrebbero avuto ragione di averla. Io ero seduto nel primo banco insieme ad amici egiziani copti, particolarmente un professore all’Università del Cairo di lingua italiana, che parlava perfettissimamente l’italiano. Accanto a me c’era un omettino, il quale aveva una di quelle pagnottine arabe che conoscete, quei dischetti bassi, e che se lo teneva lì e io mi sono chiesto che cosa fosse, ho pensato che potesse essere poi un’oblazione, un’offerta. E per tutta la liturgia ho continuato ogni tanto - vedevo questa pagnotta - a pensare questo. E ho scoperto solo alla fine della liturgia a che cosa serviva. Serviva a mangiare, semplicemente perché poi tutti dopo la comunione mangiavano, perché erano tutti digiuni dal giorno prima. Non dico altro.

E l’altra grande dimensione della chiesa copta è il monachesimo. Ho visitato (un monastero copto) - perché lì c’era un amico, una singolarità, un amico cattolico, che da anni, più di vent’anni è monaco in questo monastero copto, per una particolare sensibilità del padre spirituale, del capo del monastero, Matta el Meskin, Matteo il povero. E lui mi ha fatto da guida per tutto il monastero e mi ha spiegato tantissime cose con una grande sobrietà però: in quel monastero che è edificato sui ruderi dell’antico, antichissimo monastero di San Macario, un monastero quindi che sussiste da quindici secoli e che - la vita non si è mai interrotta a San Macario - però era ridotta proprio al lumicino. Venti anni fa erano ridotti ad 8-10 i monaci, neanche 10, vecchi, anziani, quando il patriarca precedente all’attuale – Amba Shenuda è l’attuale patriarca - ha chiamato Matta el Meskin, che, coi suoi, aveva formato un gruppo che vivevano completamente alla maniera antica nelle grotte. Li ha chiamati in questo monastero venti anni fa dopo, mi pare, 10 anni di vita anacoretica che loro stavano già praticando, anacoretica totale, come i padri del deserto. E questi uomini hanno restaurato il monastero in una maniera - anche come edificio – grandiosa. Hanno portato i monaci da 6-8 che erano ridotti, alla bellezza di 103-104 - e stanno ulteriormente crescendo – hanno reintegrato la disciplina e la vita spirituale fiorentissima, in pieno deserto, a Wadi Natrun, a 90 Km dal Cairo, quasi a metà strada tra il Cairo ed Alessandria. E insieme con una organizzazione spirituale molto ferma, (hanno portato) ad una irradiazione grandissima. Quando si arriva non alla proprietà del monastero (si vedono) - perché hanno avuto dal governo, allora di Sadat -  delle estensioni di terreno, grandissime, che coltivano avendo alle dipendenze 600 lavoratori, per i quali poi fanno tutto, garantiscono la casa, la cura medica, e tutti i bisogni fondamentali. Insieme sono apertissimi. Appunto, arrivando alle mura del monastero, si è impressionati al vedere l’amplissimo auto-parcheggio che c’è intorno, con pensiline per gli autobus, decine di pensiline perché in certi giorni e in certi periodi, ammettono una grande frequenza di gente che visita il monastero, alcuni si fermano - hanno una immensa foresteria, distinta dal monastero, ma inserita in esso. E quindi non è solo una vita monastica, fedele, osservante, ma irradiante e altri monasteri ci sono presso Wadi Natrun. Questa vita trova poi corrispondenza nella vita monastica femminile ed ha una meravigliosa attestazione di vitalità, anche perché poi fornisce, molte volte, i gerarchi, i capi, alla chiesa. Fra l’altro hanno tra i monaci molti professionisti, ingegneri, medici, farmacisti, veterinari e conducono tutte le attività del monastero, rifacendo un pochino - non lo so questo, è un aspetto che mi ha lasciato un pochino perplesso - la vita professionale che prima svolgevano fuori. La conducono nel monastero, per il servizio al monastero. I veterinari in grandi allevamenti. I diplomati o i laureati in agrimensura, in agraria, hanno la cura dell’azienda che per prima ha introdotto certe colture in Egitto. Gli ingegneri si occupano delle costruzioni. I medici esercitano la medicina nei confronti dei monaci e dei dipendenti, assicurano un servizio medico completo. I farmacisti altrettanto - credo che Matta el Meskin stesso in origine fosse farmacista, se non sbaglio. Comunque è una vitalità impressionante. Io non credo che si possa facilmente trovare anche nella nostra Europa una vita monastica così esemplare e così fedele alla grande tradizione. Ripeto, avranno anche le loro debolezze e le loro miserie - è naturale, non ho potuto esaminare le cose così a fondo e poi bisognerebbe avere allora anche un’altra conoscenza della lingua, per formarsi un’idea più ravvicinata - però è certo che la vitalità è impressionante, vitalità ecclesiale, liturgica, e monastica di supporto e di vitalizzazione del tutto.

U.Neri: Ci dica una parola della catechesi di Amba Shenuda.

d.Dossetti: Poi c’è il patriarca, il “Papa” come la chiamano loro, che settimanalmente fa una sua catechesi. Questa catechesi l’aveva messa un tempo al giovedì sera, giornata prefestiva, rispetto al venerdì islamico. L’ha dovuta smettere perché era talmente grande l’afflusso di gente che non riusciva a contenere in nessuna maniera, e quindi l’ha trasportata al mercoledì. Tutti i mercoledì della settimana c’è, alle sei, questa catechesi, questo incontro nella grande aula sotterranea alla nuova Cattedrale, immensa, dove confluisce tutta la gente. Poi c’è un servizio di televisione a circuito interno che trasmette tutta la scena fuori, nel grande piazzale antistante la Cattedrale, perché l’aula non basta a contenere tutti. Lui arriva - intanto gli hanno preparato sul tavolo una quantità di cose, libri, immagini, fotografie sue da firmare e poi delle domande che pian piano si ammucchiano e diventano una pila. Tutti quelli che sono lì possono presentare domande. Lui dedica una mezz’ora a firmare questa immensa quantità di roba, a sbrigare il tavolo e tutto quello che gli mettono davanti e la gente intanto canta. C’è, tra l’altro, qualche volta anche un professore di copto che fa lezioni di copto alla gente nell’aula. Almeno un’ora di lezione - non è poi tanto seguito, alcuni stanno attenti, altri rispondono, altri invece continuano a parlare, ma però questo è molto interessante, almeno come principio. Dopo che ha firmato tutto, allora comincia a guardare le domande. Alcune se le mette in tasca, altre le smista ai vescovi che sono presente, ai suoi ausiliari, e altre le mette lì e risponderà lui durante l’incontro. E per una ventina di minuti risponde a questi quesiti, a queste domande, che possono toccare le materie più varie, dalla morale familiare a questioni di teologia. E poi comincia la sua catechesi che dura un’ora: una catechesi esclusivamente biblica. Il giorno che siamo andati noi abbiamo avuto la fortuna di ascoltare la catechesi sulla gioia cristiana e ha parlato esclusivamente biblicamente. Si sarebbe detto che, con una concordanza davanti abbia parlato di tutto quello che nella Scrittura c’è sulla gioia. Qual’è la non gioia vera, qual’è la gioia vera, le motivazioni della gioia vera, come si manifesta, e così via. Esclusivamente biblico. Proprio una concordanza, si può dire. E poi finisce rapidamente e scappa via, travolto dalla gente, e torna nell’episcopio. Anche quello è un fenomeno interessante che dura da anni. Le sue catechesi sono riprodotte in cassette, diffusissime in tutto il mondo egiziano, il mondo cristiano egiziano - anche noi ne possediamo alcune - ma arrivano dappertutto.

Dicevo dunque la chiesa copta. Una particolarità: i cristiani copti, sapete, che hanno un tatuaggio normalmente sul polso, una piccola croce. Di fatti per entrare nell’aula normalmente fanno così (N.d.R. Qui d.Dossetti mostra il gesto fatto dai copti all’ingresso delle Chiese). La croce tatuata. Mi diceva qualcuno di voi: “C’è un certo passaggio all’Islam anche dei cristiani copti”. Sì è vero, ma non credo di cifre impressionanti, perché se no la chiesa si sarebbe già estinta. C’è e non può non esserci, fra l’altro per tante ragioni e condizioni ambientali, specialmente poi per ragioni di matrimonio che è il veicolo più importante come sapete di certe conversioni adulte in un senso o nell’altro. Anche qui è così. Qui non se ne parla; pare che siano molte anche qui sapete. Le donne specialmente. Noi abbiamo conoscenza di una signora italiana di alta famiglia, appartenente ad una famiglia universitaria, ma di grande grido, che aveva sposato in Italia un giovane che è stato allievo di Umberto al Liceo Galvani di Bologna, un giovane ebreo. Lei cristiana, famiglia cristiana. Osservante, praticante, anche il padre che è – era - una celebrità, era una celebrità fisica. Poi sono venuti, da molti anni, qui. Il primo bambino che è nato in Italia è ancora battezzato. Gli altri, venuti dopo non sono battezzati, e lei stessa ad un certo punto si è convertita al giudaismo. Umberto che è stato a cena da loro più volte, può dire come ostentava anche un ebraismo convinto ed osservantissimo. Ci sarà anche là di certo, ma tuttavia questo non impedisce alla chiesa copta di continuare a sussistere e di continuare, secondo me, ad insegnare che anche all’Islam si può contrapporre qualche cosa di valido da parte cristiana, professando molto fortemente la propria fede e mantenendo la saldezza comunitaria. Naturalmente sono sparsi, in una città di dodici milioni come il Cairo - forse sono più, adesso sono quasi venti, credo - la città sterminata. I cristiani non possono essere riuniti, come possono esser qui, in quartieri. C’è una grande dispersione, mentre per i musulmani ci sono condizioni tali - tra l’altro ci sono norme edilizie che consentono una sgravio notevole delle imposte di costruzione e delle imposte conseguenti sugli edifici, quando venga costruito anche un piccolo locale dedicato alla moschea. Quindi ad ogni palazzo c’è una moschea, una moschea in azione, fra l’altro. Il venerdì si vede un sacco di gente, attorno ad una casa, che non può entrare ma che ascolta magari la predica del venerdì, palazzo per palazzo, ogni strada. Quindi sono condizioni certo sfavorevoli e tuttavia la chiesa copta esiste, continua ad esistere. Secondo me i punti fondamentali sono questi: una chiarissima professione di fede che è fatta coralmente, rinnovata in ogni liturgia. L’ampiezza della liturgia che serve ad insistere continuamente su grandi concetti mistagogici. Non è teologia è mistagogia vera. Non per niente è la terra di Cirillo d’Alessandria e delle sue catechesi mistagogiche.

U.Neri: Cirillo di Gerusalemme!

d.Dossetti: Facevo confusione. Va bene. E poi il monachesimo che continuamente trasmette vitalità alla chiesa.

Che cosa dobbiamo dire - sto per smettere. Parleremo ancora di cristocentrismo da mettere un poco in sordina? Acconsentiremo a ridurre la nostra fede e la nostra esperienza religiosa ad un teocentrismo? O non faremo piuttosto l’opposto? Insisteremo sempre di più con profondità e commozione d’animo, vigore, forza, nella centralità del mistero di Cristo, nostra speranza nella gloria? Ecco questo, per me! Se è possibile trarre un insegnamento da una chiesa che è vissuta e che è sopravvissuta in un paese musulmano da tanti secoli, anzi del centro ideologico dell’Islam - perché c’è da dire poi questo: che l’Egitto è il centro ideologico dell’Islam, tuttora l’80 % dei libri islamici di tutta l’area è stampato al Cairo e i grandi dottori sono i dottori della moschea universitaria El Azhar.

Il confronto lì potrà attenuare in qualche modo il cristocentrismo o non piuttosto sarà continuamente stimolato e trarrà continuamente nuovo vigore da una fedeltà al mistero di Cristo? Ecco il problema. C’è poi da dire - ma adesso non affronto questo problema, lo preannuncio - l’importanza che per la chiesa è stata questa esperienza di non potere, di non potere e quindi, viceversa il discorso relativo alla nostra esperienza ecclesiale di partecipazione al potere, sia in occidente, sia in oriente. Di questo dobbiamo ancora parlare, dovremo ancora parlare.


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