29/7 X meditazione di Neri sul Tempio


C’è qualche cosa da dire di abbastanza interessante su ciascuno (di questi monumenti): la Moschea di Omar conserva - ecco vi dico subito alcune cose esterne poi andiamo invece al filo del discorso, altrimenti rischiamo di passare sopra a certi elementi, che sono pure importantissimi - la Moschea di Omar conserva la pietra del sacrificio di Abramo, perché uno degli elementi costanti della tradizione ebraica è ricollegare il Monte del Tempio al Monte Moria sul quale Abramo sacrificò Isacco e la pietra sulla quale legò Isacco e lo sacrificò - perché si chiama la aqedah, il “legamento” di Isacco, ma si chiama anche il sacrificio di Isacco - perché lo “riebbe” come dai morti. Questo secondo la tradizione ebraica che mette in pieno (…) ormai in questa corrente. (Questa pietra) è conservata, è custodita sotto la Moschea di Omar, luogo sacro, santo, veneratissimo anche dai musulmani, anche dai mistici, dai grandi mistici, dai grandi dottori dell’Islam, quindi oggetto di venerazione, di qualche cosa che ritengono proprio. L’Islam è la religione di Abramo. Molto spesso è detto nel Corano: “Noi non diciamo (che) rispetto ad Abramo” ha aggiunto (qualche cosa), ma ci immettiamo nella religione di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il nostro Dio è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”. Quindi tutto ciò che si riferisce alle tradizioni abramitiche è nell’Islam sentito come assolutamente proprio patrimonio inalienabile. Loro! Non più ebraico di quanto non sia loro! Non quindi elementi accessori ma elementi facenti parte della sorgente stessa dell’Islam.

La Moschea di El-Aqsa invece, conserva, è eretta sul luogo donde sarebbe avvenuto il mi’radj, cioè l’ascensione di Maometto in cielo. Il mi’radj è una tradizione islamica antichissima, molto venerabile, che si basa su una lettura più che discutibile di un versetto coranico, nel quale Dio dice a Maometto: “Non ti abbiamo forse assunto da noi a distanza di due tiri d’arco, non hai tu forse visto?” Ecco che non credo assolutamente che alluda ad una ascensione celeste, ma tutt’al più ad una visione mistica, ad una esperienza mistica. La lettura di questo testo è stata fatta però in modo massimalista e si è collocata nella vita di Maometto - ed è per questo anche che il riferimento a Gerusalemme è considerato fondamentale nell’Islam, che Gerusalemme è considerata la seconda città santa dell’Islam - si è collocato nella vita di Maometto questo evento del mi’radj, della sua ascensione al cielo. La Moschea di El-Aqsa è consacrata a custodire e a celebrare questo evento capitale nella vita del profeta. Non assunto fino a Dio naturalmente, ma fino a due archi di distanza, due tiri d’arco di distanza dal trono divino, perché l’inaccessibilità di Dio nell’Islam è ancora maggiormente sottolineato di quanto non lo sia nelle tradizioni sia ebraica che ovviamente cristiana. Anzi sia l’ebraismo, in certe cose, che il cristianesimo sono sentiti ereticali, sono sentiti blasfemi per deformazioni sopravvenute in seguito, secondo Maometto, proprio perché, soprattutto perché hanno limitato o corrotto l’idea dell’assoluta trascendenza e quindi dell’inaccessibilità senza eccezioni di Dio. Anche nella tradizione ebraica si parla dell’inaccessibilità di Dio e quindi quando si parla dei testi dell’Assunzione di Mosè – “Mosè salì a Dio sull’Oreb” - si precisa da parte di alcuni - e questa tradizione è stata ripresa nel Nuovo Testamento che la fa propria, particolarmente nel vangelo di Giovanni, “Nessuno è salito al cielo” - si precisa da alcuni che Mosè “non” salì al cielo, ma salì a qualche cubito di distanza dal cielo e che fra la Shekinah, luogo della dimora di Dio, e il Monte Sinai c’era un cuscinetto di distanziazione, di differenziazione e di (...). Dio è per natura sua inaccessibile e quindi anche la stessa ascensione di Maometto al paradiso, al cielo, fu non ad una distanza di un cuscino - come secondo l’interpretazione ebraica che precisa che Mosè non salì al cielo - ecco, ma addirittura la distanza di due tiri d’arco. Ecco aumenta ancora l’inaccessibilità, in modo molto significativo. Importantissimo questo per capire questo tipo di mondo, questo tipo di mondi.

Ecco questo è la Moschea dell’Aqsa e quella là è la Moschea di Omar - che io adesso non vedo. Ecco è la cupola - ripeto - che copre la pietra del sacrificio di Abramo – ripeto, elementi santi sia per la tradizione cristiana ovviamente che assume tutta la tradizione biblica, che per la tradizione islamica che se ne riappropria come i più autentici e i più originali della propria tradizione religiosa. Quindi non come presi a prestito.

La questione dei templi: per capire il ruolo del tempio nella tradizione di Israele occorre un attimo ricomprendere tutta l’antropologia e tutta la teologia di Israele, quindi ricondursi all’idea originaria. Mi baso sui testi della tradizione rabbinica, evidentemente, per questo, ma la Scrittura li legittima totalmente. Corrispondono questi testi ad una lettura oggettiva dell’Antico Testamento, almeno nello stato attuale in cui noi ce lo troviamo fra le mani. L’uomo è stato creato come essere colloquiante con Dio, colloquiante con Dio, e il paradiso è il luogo di questo colloquio con Dio. Colloquio con Dio! E la cacciata dal paradiso, più che come in una lettura squalificata dal punto di vista teologico e spirituale spesso fatta fra di noi, vista come grave di conseguenze per il faticare dell’uomo, per la sua stessa morte, è vista come la catastrofe in quanto allontanante dal luogo dell’incontro personale con Dio. La restitutio quindi dell’uomo, la redenzione dell’uomo, dell’umanità, la storia della salvezza si disegna tutta come un ritorno al luogo della communio con Dio, della comunione edenica. La stessa terra santa… Ci sono dei testi numerosissimi, per dirvi - mi vengono in mente adesso, non ho qui le fonti a disposizione, ma nelle quali si parla delle diverse generazioni che succedono, la prima generazione quella di Adamo, come generazione nella quale la Shekinah si allontana di un gradino, poi di un altro, poi di un altro, poi di un altro, poi di un altro fino al punto supremo dell’allontanamento che è costituito dalla generazione della separazione, della dispersione, cioè la generazione del diluvio, che… no, non la generazione del diluvio, scusate, la generazione della Torre di Babele, l’ultimo grado di separazione. E poi i riavvicinamenti progressivi che iniziano con la storia di Abramo. La storia di Abramo è la storia del ritorno, dunque di questo riabbassarsi della Shekinah, della dimora della Gloria di Dio, al livello dell’uomo, in modo da riavvolgere l’uomo e ricomprenderlo nella communio. Questo è il discorso. Quindi il viaggio di Abramo verso la terra che Dio gli indicherà, è il viaggio con cui Abramo inizia la ricondunzione dell’uomo alla communio con Dio. E’ per questo che, arrivato nella terra, - “questa è la terra” - comincia subito a costruire degli altari. Non è soltanto una presa di possesso, ma è la qualifica della terra come il luogo nel quale si può ritrovare il colloquio con Dio, e dal quale è legittimo innalzare a Dio la supplica e nel quale è giustificato attendere da parte di Dio la benedizione. La costruzione degli altari, della quale si parla al cap. 12 della Genesi, che è quello che racconta della vocazione di Abramo, è a questo riguardo estremamente significativa: è uno degli elementi capitali di tutta la storia della salvezza in realtà.

Cap. 12, ecco. Il Signore parla ad Abram e dice: “Alla tua discendenza io darò questo paese”. Allora Abramo ecco, immediatamente, siamo al versetto 7, “allora Abram costruì in quel posto un altare”. “E di lì passò sulle montagne a oriente di Betel, piantò la tenda avendo Betel ad occidente e, ad oriente, lì, costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore”. Segna il passaggio in questa terra, sacralizzandola, meglio, riconoscendola come la terra santa nella quale si può costruire l’altare al Signore. La teologia del tempio è già tutta qui, in qualche modo. Siamo al cap. 12, versetto 7, l’inizio della storia della salvezza con Abramo e dell’elezione.

Il ritorno dall’Egitto è considerato come il ritorno dalla terra impura nella terra pura, nella terra pura, donde si potrà innalzare a Dio la preghiera e rioffrire a Dio il legittimo culto. La Shekinah, la Gloria, seguì Israele nell’esilio, perché la Shekinah segue sempre il popolo di Israele in tutte le sue peregrinazioni, ma nell’esilio la Shekinah, in qualche modo, come la sposa del Cantico, si sporca i piedi: “Mi sono sporcata i piedi, come potrò rilavarmeli?” La Shekinah stessa scende nella terra dell’impurità: l’esilio quindi, più che come una specie di frustrazione nazionale ecco è sentito come l’uscita dal luogo nel quale si può rendere culto a Dio. Non che altrove non lo si potesse fare: in terra d’Egitto si è celebrata la Pasqua, ma sempre con riferimento al luogo nel quale la celebrazione della Pasqua è veramente legittima, è veramente nuova, in rapporto con la speranza. E difatti Mosè sottrae il popolo alla schiavitù del faraone, perché Dio vuole che gli renda culto nel deserto. Il popolo quindi tratto fuori dalla terra è un popolo tratto fuori da una situazione di impurità costitutiva ad una situazione di purità nella quale possa riesercitare il suo ruolo sacerdotale. E’ questo che avviene al Sinai, dove infatti il Signore lo qualifica come il popolo di sua elezione, il popolo sacerdotale. Dove rendere culto quindi? Il discorso di Mosè non è un discorso fatto al faraone a questo riguardo, non è un discorso pretestuoso, “perché possa rendere culto nel deserto”. E’ un discorso reale, Dio lo avvicina a sé, perché possa rendergli culto.

Domanda: L’impurità veniva considerata come un fatto etico o un fatto...

Neri: No un fatto costitutivo, costitutivo non etico, costitutivo, assolutamente. Quindi l’illegittimità! Cioè Dio non è accessibile se non per dono suo. Questo dono suo deve essere qualche cosa che trasfigura in qualche modo la natura dell’uomo, rendendo l’uomo capace del rapporto con Dio.

Questa trasformazione dell’uomo è la purificazione dell’uomo, cioè è il riscatto da una situazione creaturale costitutiva di lontananza, di incapacità, di illegittimità, connessa con il primo peccato, connessa. Quell’uomo ritorna in grado di accedere a Dio. Ecco - dicevo questo - il Sinai, e tutto il passaggio dall’Egitto alla liberazione, alla terra della promessa è espresso nella sua portata più esatta e più compiuta nel canto nel cap. 15 dell’Esodo, il canto del mare, che termina con la costruzione del Tempio: “Lo fai entrare - dice al versetto 17 - e lo pianti sul monte della tua eredità, il luogo che per tua sede hai preparato, Signore, santuario che le tue mani Signore hanno fondato”. E quindi dall’Egitto non semplicemente alla terra della libertà. Certo queste letture dell’Esodo, fatta in varie teologie della liberazione, ecc. - che Dio mi perdoni, tutto comprensibile - ma sono completamente sfasate rispetto a ciò che dice il testo biblico. E’ la redenzione del popolo sacerdotale dalla situazione nella quale non può pregare Dio, alla situazione nella quale invece incontra Dio “sul Monte della tua eredità”. Non è il riscatto di un popolo oppresso dall’oppressione. Anche ma secondariamente rispetto al riscatto di un popolo reso impuro alla situazione invece di purità e di consacrazione cultuale che si attua in prospettiva nel Tempio. Quindi tutto converge al Tempio. E’ per questo che tutta la storia di Israele dall’ingresso, dal passaggio del Giordano, dove entra nella terra santa - per questo vengono incontro gli angeli a Giosuè, l’abbiamo visto ricordate insieme, durante il nostro viaggio. Ma ha un precedente illustre che ricorderete, il precedente del ritorno di Giacobbe alla terra dei padri. Quando Giacobbe ritorna, ritorna a Macanaim, e chiama quel luogo Macanaim, “accampamento” perché gli si fanno incontro gli angeli di Dio. Il ritorno è caratterizzato - e l’incontro della terra santa - è caratterizzato dal fatto che lì gli appaiono gli angeli, gli appaiono lì, lì e non altrove perché quello è il luogo in cui abitano e gli si fanno incontro gli angeli, perché sono gli abitanti di questa terra, una terra consacrata, una terra santa. Dunque questo Macanaim, i “due accampamenti”. E poi questo a sua volta ha un suo riferimento che consente di capire in tutta la portata questo testo, nel cap. 28 della Genesi nel quale a Giacobbe che sta per uscire da questa terra appare Dio in cima alla scala posata su questa terra, per la quale scendono e salgono gli angeli, tanto che Giacobbe dice: “Questa è la porta del cielo, questa è la casa di Dio”. Luogo, santuario ma che si estende, in qualche modo, nel suo significato, a tutta la terra che Giacobbe sta per lasciare. Qui su questa terra posa la scala, qui su questa terra posa la scala che concede di accedere a Dio. E’ qui che salgono e scendono gli angeli. Quindi il valore della terra è tutto orientato al Tempio.

Dove - si preciserà qual’è esattamente poi - (è il luogo) non provvisorio, ma definitivo, non parziale, ma totale di questo accesso a Dio, il luogo sul quale, per così dire, sono squarciati i cieli e sul quale, nel quale la Shekinah, la Gloria, la dimora della Gloria si incontra con gli uomini e li avvolge. E’ per questo che tutta la storia della salvezza è vista come convergere, così la interpreta la tradizione ebraica, ma così è espresso nel testo delle Scritture fino al tempo dell’adempimento delle promesse: “Vi farò abitare nella terra”. Quand’è che il Signore fa abitare il popolo nella terra? Quando gli dà pace dai nemici all’intorno e assoggetta effettivamente la terra. Questo avviene sotto il regno davidico, con Davide. Tutto il resto è preparazione, preparazione di questo che è il culmine. Anzi Davide ancora combatte, è un uomo di sangue. E’ per questo che non a lui spetta di costruire il tempio. E tutto converge dunque al momento di pacifico possesso della terra. Quello è il momento dell’adempimento delle promesse di Dio e che quindi è il momento nel quale si può costruire il Tempio, il luogo del quale già parla il Deuteronomio, il Tempio, l’unico, sotto Salomone.

La storia, la periodizzazione della storia salvifica - e la periodizzazione della storia quindi come è vista nei testi stessi della Scrittura, oltre che in tutta la tradizione di Israele che a questo riguardo è nitidissima, lucidissima - fa un’esegesi perfetta dei testi, perfetta, che occorrerebbe riprendere per capire proprio la strutturazione interna dei testi. Converge in Salomone che è finalmente l’attuazione. E Salomone costruisce il Tempio. Il Tempio che cos’è? Il tempio è il paradiso, è l’Eden. E’ l’Eden. L’Eden è il giardino di Dio. “Venga il mio diletto nel suo giardino”. Un’interpretazione di questo testo del Cantico è costantemente riferita al Tempio. Qual’è il giardino di Dio? E’ il Tempio in cui Dio scende a cogliere i frutti, i suoi frutti, che sono le offerte del popolo. Scende con il fuoco divino che consuma i sacrifici, espresso nella prima consacrazione del Tempio, ma scende in realtà sempre ad ogni celebrazione del sacrificio. Il giardino di Dio è il Tempio. In attesa, sempre, ecco qui c’è una prospettiva, in attesa, sempre, del grande Tempio messianico incomparabilmente più perfetto di questo, del quale però questo è in qualche modo il sacramento ed è il tipo ed è l’immagine. Allora veramente avverrà questa piena riconciliazione – “io ti condurrò nella casa di mia madre”, dirà il Messia al popolo di Israele quando verrà - e questo sarà il nuovo Tempio messianico, che però è in rapporto con questo, come a suo tipo e a sua promessa, sua immagine, suo sacramento.

Il Tempio, diversamente dal Tempio messianico, finale non è propriamente il luogo - precisa la Scrittura - dell’abitazione di Dio. Il testo, a questo riguardo molto significativo e probante, è il testo del cap. VIII del I libro dei Re, che pone il problema teologico, cap. VIII, versetto 27: “Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra, ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruito”. Quindi Dio non abita - lo dice espressamente - non abita! Non intendetelo così - e qui si differenzia oltre tutto da tutte le religioni circostanti che hanno la cella del Dio. Il Tempio di Israele non ha la cella dell’abitazione. Il Santo dei Santi non è il luogo dell’abitazione. E’ interessantissimo! Non soltanto nel cap. VII degli Atti degli Apostoli, nel grande discorso di Stefano, che mette in crisi una certa teologia del Tempio costruita al di fuori del solco biblico, e quindi illegittima. Stefano non fa che ricuperare i testi veterotestamentari più autentici smontando la teologia del Tempio da sovrastrutture che si erano fatte e che non si adeguavano. “Forse che Dio abita in un tempio manufatto?” Niente affatto. Non è Stefano il primo a dirlo, sarebbe un eretico se contraddicesse la Scrittura. Non contraddice la Scrittura, rispecchia la teologia espressa chiaramente, in modo formale nel primo libro dei Re. Qui è la teologia dell’epoca salomonica perché come sapete questi testi si datano all’epoca salomonica, non più tardi. Quindi rispecchiano esattamente, anche dal punto di vista storico-critico insomma, il tempo in cui il tempio fu costruito (…)

Certo che il Tempio non è il luogo dell’abitazione, ma è il luogo sul quale si posa lo sguardo di Dio e dal quale sale a Dio la preghiera. E tutto il testo che segue è un unico sviluppo di questa idea. “Volgiti alla preghiera del tuo servo e alla sua supplica, Signore mio Dio, ascolta il grido e la preghiera che il tuo servo oggi innalza davanti a te”. E allora che cos’è? “Siano aperti i tuoi occhi notte e giorno verso questo casa, verso il luogo di cui hai detto: Là sarà il mio nome. Ascolta la preghiera che il tuo servo innalza in questo luogo”. Allora il rapporto è (chiaro). Dio guarda questo luogo, questo luogo è il luogo dal quale si innalza la supplica. E tutto il resto che segue nel testo è la spiegazione dettagliata di questa categoria e quindi lo ribadisce in ogni sezione: “Ascolta la supplica del tuo servo e d’Israele tuo popolo quando pregheranno in questo luogo, ascoltali dal luogo della tua dimora, dal cielo, ascolta e perdona”. Allora è chiaro! Non vi sono più dubbi, il luogo della dimora è il cielo – “Tu ascolta dal cielo, quando ti pregano in questo luogo”. In altri termini è tutto così e prosegue sempre così. Addirittura quando sono in esilio, quando pregheranno volti verso quel luogo e si rapporteranno a quel luogo perché quello è il sacramento, è il luogo sacramentale. Capite che purezza. E’ una cosa straordinaria, divina, divina, uno dei tanti casi nei quali si verifica la divinità della Scrittura, in un certo senso, in modo oggettivo, intrinseco, divino, incredibile, unico, raffinatissimo. Però il luogo sacramentale è unico, non c’è nessun altro luogo nel quale Dio si possa pregare. Tu perdona se ti pregano in “questo” luogo, tu perdona se ti pregano volti verso “questo” luogo, anche quando saranno in esilio. Qui nel testo ci sono anche delle aggiunte che risalgono al tempo dell’esilio, ecco “per amore di questo luogo” e per amore del tuo popolo. Ecco che cosa è il Tempio, ma è importantissimo. Perché essendo il luogo sacramentale del compiacimento di Dio, è da questo luogo soltanto che si innalzano le preghiere efficaci per tutto il mondo. Dice: sventurate le nazioni. Non sapevano quello che facevano quando distruggevano il Tempio, perché (lo) hanno distrutto. E’ per la preghiera che si innalza per le nazioni nel Tempio che le nazioni sono benedette. Non sapevano quel che facevano, il grandissimo valore, ma valore di natura sacramentale.

Ecco quando troviamo a un certo punto la messa in crisi del Tempio, non ci troviamo di fronte ad una diversa teologia, come tanto spesso si dice, rispetto a questo. E’ la stessa teologia: non bisogna mitizzare il Tempio. Il Tempio è un sacramento, non è Dio. “Voi dite: Tempio del Signore, Tempio del Signore”. Evidentemente questa teologia del I libro dei Re ci sta benissimo, con quella del cap. VII – se ben ricordo - di Geremia dove si mette in crisi una fiducia idolatrica nel Tempio. Ci sta benissimo! Non c’è nessuna contraddizione, non c’è nemmeno tensione, come si dice fra i due testi. E questo modo di intendere, ci fa capire da un lato l’amore straordinario che si è avuto per questo luogo e la venerazione grandissima, la nostalgia per questo luogo. In un testo – i testi che (lo) descrivono sono innumerevoli - nei Salmi per esempio, uno dei testi più commoventi è quello costituito, uno dei più ricchi teologicamente, dal Salmo 50, il Miserere, che da un lato dice: “Bene, noi adesso non abbiamo più sacrifici”, perché la legittimazione dei sacrifici è data dal luogo, cioè i sacrifici legittimi si possono offrire nel luogo che Lui ha scelto, non altrove. Altrove Israele non offre sacrifici. L’agnello pasquale è consumato, ma non è immolato come sacrificio “altrove”, è chiaro. Non c’è sacrificio fuori dal Tempio. Per questo abolito il Tempio è abolito il sacrificio. Con tutta la forza redentrice, redentiva che hanno i sacrifici nell’Antico Testamento. Aboliti, perché solo nel Tempio si possono offrire. Allora cosa possiamo offrirti? “Poiché non gradisci sacrifici, se offro olocausti non li accetti” - questo lo si dice già probabilmente quando il tempio è ancora costruito. Ma se io col mio cuore impuro ti offro sacrifici, non è questo che tu vuoi, non ti bastano i sacrifici, “uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato tu, o Dio non disprezzi”. Ecco allora quando non ci sono più i sacrifici che cosa si può offrire? Questo!

Ma lo dice anche il Libro di Baruc, lo dice il Libro di Daniele, la stessa cosa, la stessa cosa! Però qui c’è un recupero, una possibilità. Io offro a Dio, poi non posso più offrire sacrifici, perché sono esiliato o perché sono (impuro) e il mio cuore è contrito. Però, “nel tuo amore” - e questa aggiunta è molto significativa - “fa grazia a Sion” – questa è postesilica naturalmente – “rialza le mura di Gerusalemme, allora gradirai i sacrifici prescritti l’olocausto e l’intera oblazione, allora immoleranno vittime sopra il tuo altare”. Quando il Tempio sarà costruito, il Tempio che è unico, il Tempio legittimo dei sacrifici, perché Dio gradisce i sacrifici solo se gli sono offerti in questo Tempio, da questo Tempio. Quindi c’è la messa in crisi del Tempio - come “luogo” messa in crisi. La precisazione: il Tempio non come luogo dell’abitazione di Dio, quindi non l’idolatria, ma come luogo del compiacimento di Dio sul quale si posa il suo sguardo, al quale si offre il sacrificio.

Però resta il valore unico, sacramentale di questo luogo, e quindi la grande nostalgia del Tempio. Avrei voluto leggervi - l’avevo detto in realtà a don Giuseppe, l’avevo detto, ma non l’ha sentito, non gliel’ho detto abbastanza forte - avrei voluto leggervi alcune poesie, alcuni testi, composizioni poetiche di Yehudah ha-Lewi, I Canti di Sion - Yehudah ha-Lewi  è del secolo XII, è un giudeo-spagnolo del secolo XII, venuto in pellegrinaggio a Gerusalemme, che ha scritto la Sionide, che è questo grande poema, del suo ritorno a Gerusalemme, passo per passo, nel suo viaggio, prima quando sta per distaccarsi dai suoi in Spagna. “E perché ti distacchi, e perché vai via, è qui la tua famiglia, è qui il tuo lavoro?” Dice: “Ma il mio cuore spasima per Gerusalemme, non posso non andare”. E poi quando c’è una burrasca nel mare, allora, in quel mentre, è tentato di dire: “Ma cosa faccio,  ho paura e se la nave andasse a fondo?” Però lui, insomma, danza sulla nave, attendendo la grande danza degli angeli a Gerusalemme. Una cosa di questo genere. Ed è morto secondo la tradizione, una tradizione troppo bella per essere vera, sarebbe morto baciando la polvere del Tempio - dice che vuole baciare la polvere. Ecco sarebbe stato ucciso da un arabo mentre era prostrato qui sull’altura del Tempio, baciando la polvere. Si capisce: la grande nostalgia di questo luogo dell’incontro, di questo paradiso. E’ meraviglioso e insieme con questa presa di distanza rispetto ad ogni possibile idolatrizzazione.

E l’attesa della restaurazione. Essendo un luogo così, il Tempio, la ricostruzione del Tempio, la costruzione non può essere un’iniziativa umana, riguardo a quello che si accennava con alcuni nel salire: l’eresia, in sé gravissima - e fa parte dei testi espliciti della tradizione ebraica, anche, che la qualificano come tale - nel voler costruire il Tempio come impresa umana. Il valore del Tempio non è l’essere una casa costruita in un certo luogo. Può essere solo Dio che stabilisce i suoi sacramenti oppure che dà validità ai suoi sacramenti. La costruzione del Tempio, avvenuta anche dopo l’esilio, avvenuta legittimamente perché c’è stato l’ordine di Dio, c’è stata la parola profetica che l’ha detto. Non può spettare ad un uomo di costruire il Tempio di Dio.

Quando Davide dice: “Adesso ho capito, adesso sono in pace, costruisco il Tempio”, gli appare il profeta Natan che gli dice: “Bravo, benissimo fa tutto quello che hai nel cuore”. Poi in quella notte - è bellissimo, nei testi ebraici è staccato “e in quella notte”. E c’è uno spazio in mezzo alla riga - sapete come sono stampati con tutta la pagina piena. Non ci sono gli a capo in queste pagine tradizionali. E “in quella notte” è staccato dal testo che viene prima e dal testo che viene dopo. E accadde, e “accadde in quella notte”. E’ la grande rivelazione. E’ Dio che dice: “No! Non sei tu che costruisci il Tempio”. E da lì non può costruirlo. Lo farà suo figlio, Salomone, ma non è lui (Davide) a costruirlo. Il Tempio è un sacramento, non si può confezionare ad arbitrio di uomo. E’ importantissimo. E’ la grande nostalgia della riedificazione di questo Tempio, del Tempio messianico. La preghiera fatta dagli ebrei davanti al Muro del pianto è in realtà una preghiera che ha grandissima tensione escatologica, è la preghiera di chi guarda la venuta del Diletto attraverso le inferriate. Che cosa sono le inferriate? Dice il Cantico dei cantici: “Attraverso le inferriate ho guardato” e secondo la tradizione di Israele le inferriate sono il Ma‘aravi, il Muro Occidentale, è il Muro del pianto, attraverso il quale si spia la venuta del Messia che ricostruirà il Tempio, il Tempio vero, il Tempio nuovo, il Tempio infinitamente più bello. Ecco, la venuta del Messia, del Cristo raccoglie in qualche modo tutti questi motivi e li trascende come sempre in modo stupendo. Il testo a questo riguardo più significativo, che però ha degli elementi altrove inconfutabilmente corretti, corrispondenti, è il capitolo II del Vangelo di Giovanni, dove Gesù dice, dopo avere scacciato i venditori dal tempio: (“Distruggete questo Tempio ed io in tre giorni ne riedificherò un altro”). Non per protestare contro lo sfruttamento dei poveri, come dice il commento pubblicato da quei due spagnoli nella serie di Cittadella. Non ha motivo per protestare contro le classi abbienti che sfruttavano i poveri facendo fare loro offerte al Tempio – ecco allora in questo modo Gesù come riformatore sociale scaccia i debitori dal tempio. Non si possono dire cose di questo genere - credo che anche a lui interessasse che i poveri non fossero sfruttati. Ma non lo fa certamente per quello. Lo fa per dichiarare finita ormai la liturgia, con un gesto profetico, la liturgia del Tempio! E’ sostanzialmente conclusa. Conclusa perché? La giustificazione è data dopo. “Quale segno fai per scacciare questi venditori e per ripulire il Tempio in modo che non si possano fare più sacrifici, non ci sono più animali, venditori ecc. tutto questo ordine di celebrazioni non c’è più?” La giustificazione: “Distruggete questo Tempio ed io in tre giorni ne riedificherò un altro e uno nuovo e non manufatto”. E i discepoli non capirono, ma capirono soltanto dopo che alludeva al Tempio del suo corpo. Allora il nuovo Tempio! Il Tempio non è distrutto, il Tempio è sostituito. Nessuna delle realtà dell’Antico Testamento è distrutta, sono tutte sostituite Tutte sostituite, tutti i sacramenta “veteris Legis” sono ripresi nei sacramenti “novae Legis” altrimenti sarebbe un impoverimento colossale invece non è così. Tutto, tutto! E il Tempio stesso è ripreso perché c’è un luogo solo donde salgono a Dio le preghiere gradite, l’unico mediatore tra Dio e gli uomini, l’unico luogo sul quale è aperto il cielo, l’unico luogo sul quale si posa lo sguardo compiaciuto di Dio, il luogo anzi in cui dimora corporalmente la pienezza della divinità che è il corpo del Cristo. Il corpo del Cristo è il nuovo Tempio. Ugualmente essenziale tanto l’antico, anzi ancor più essenziale, perché nessuna preghiera può innalzarsi a Dio se non per Dominum nostrum Jesum Christum, Tempio. E questo nuovo Tempio è il Tempio messianico, è il corpo stesso glorificato del Cristo, verificato come Tempio nuovo anche da ciò che Giovanni per esempio fa osservare sull’acqua che scaturisce dal fianco trafitto del Cristo, che è l’acqua che sgorga dal lato destro del tempio di Ezechiele, il Tempio messianico, ed è l’acqua del sacrificio che sgorga continuamente dal Tempio, come già in Zaccaria 12 – mi pare. Il Tempio messianico dunque è il corpo del Cristo dal quale soltanto salgono le preghiere e sul quale soltanto si posa il compiacimento di Dio. Perché noi siamo amati in Cristo, esauditi in Cristo, incontriamo il Padre nel Cristo, preghiamo il Padre nel Cristo. C’è ormai un unico sacrificio, un’unica preghiera, un unico sacerdote, un unico altare, un unico mediatore, “unus mediator Dei et hominum, homo Christus Jesus”. E’ per questo che è così importante recuperare il senso corretto - anche per questo - della formula che è stata letta oggi della lettera ai Colossesi in cui si dice che Dio riconciliò a sé, ha riconciliato a sé, mediante la morte (in croce) l’umanità. “Nel corpo della carne del Cristo, l’ha riconciliata a sé”. E’ il luogo quindi dell’incontro con Dio, e il corpo di Cristo è il Tempio nel quale l’umanità incontra Dio e accede a Dio, nel quale è riconciliata. Cosa che troviamo anche nella lettera agli Efesini e più volte nella lettera stessa ai Colossesi. In Cristo, luogo nuovo quindi del culto (autentico).

Domanda: Ecco quindi l’idea che diceva all’inizio, Gesù è l’Eden.

Neri: Gesù è l’Eden, Gesù è l’Eden. Così è chiuso il cerchio.


[Torna all'indice]