Capitolo V - LE CATACOMBE

1. L’origine delle catacombe

L’escavazione sotterranea delle catacombe non nacque per motivi di sicurezza contro le persecuzioni, come si è creduto per molto tempo. Gli antichi utilizzavano volentieri il sottosuolo quando la sua escavazione si presentava facile e sicura; la lavorazione del tufo nel Lazio aveva favorito fin da tempi antichissimi la creazione di una vasta rete di cunicoli sotterranei a scopo idraulico, di camere ed ambulacri per sepolture, addirittura di ambienti di diporto sotto le ville estive, chiamati criptoportici. I romani trovarono nel sottosuolo la soluzione del problema funerario ed è documentata la presenza di molte catacombe pagane. Soprattutto per le comunità ebraiche e cristiane, dato l’ingente numero dei propri membri e la scelta dell’inumazione invece della cremazione, la sepoltura nelle catacombe si affermò come prassi, poiché era assai arduo seppellire in superficie, a motivo degli spazi necessari e dell’elevato costo dei terreni suburbani.
I pagani usavano chiamare i loro cimiteri con il vocabolo greco necropoli, la città dei morti; i primi cristiani, invece, preferirono il nome cimitero, da loro stessi inventato, che deriva dal greco koimào che significa "dormire". Già dal termine usato traspare la fede dei cristiani nella resurrezione. Il cimitero veniva inteso come il "luogo del sonno" in attesa della resurrezione dei corpi.
Il termine "catacombe" non fu quindi usato dai primi cristiani per indicare i propri cimiteri sotterranei, ma comparve soltanto durante il periodo medioevale. Con l’espressione Catacumbas i Romani solevano indicare una località della via Appia all’altezza del Circo di Massenzio, ove sorge ora la basilica di San Sebastiano, in cui si trovava un forte avvallamento oggi assai meno visibile. Da questo luogo in cui sono stati venerati, come vedremo, i corpi degli apostoli Pietro e Paolo, il nome è poi passato a designare i cimiteri sotterranei scavati in genere nel tufo.
Percorrendo le gallerie di una catacomba si può notare la grande varietà delle tombe e delle decorazioni. Si possono facilmente trovare tombe molte decorate e lavorate, accanto ad altre in semplice muratura. Ogni tomba ebbe il suo piccolo contrassegno per essere riconosciuta. Spesso bastò un oggetto o un semplice frammento: una lucerna, una moneta, un fondo di coppa, un monile, un giocattolo di un bambino. In molti casi, un nome tracciato in rosso sulle tegole, o un graffito sulla calce di chiusura, ci ha tramandato la memoria del defunto; ma non mancano espressioni di augurio, di preghiera, di dolore incise sul marmo, che dopo tanti secoli ci rivelano un mutuo colloquio tra vivi e morti, accomunati da un unica speranza e dalla certezza di una vita migliore.
Un evento fondamentale per lo sviluppo e la notorietà di una catacomba fu la deposizione del corpo di un martire. La venerazione dei fedeli per questi testimoni di Dio, considerati fin dall’inizio efficaci intermediari presso il Signore, provocò mutamenti profondi all’interno delle catacombe. I posti, vicini alle tombe venerate, vennero sempre più ricercati. Vennero effettuati lavori di abbellimento e di ampliamento degli ambienti preesistenti; si crearono così reti densissime, spesso con più piani di gallerie sovrapposte, che accerchiano le tombe dei martiri. Vennero aperti nuovi e più comodi accessi per consentire l’afflusso di un numero sempre più grande di fedeli. A volte vennero anche erette delle vere e proprie basiliche sotterranee, sconvolgendo interi settori delle catacombe.
Vennero usate come cimiteri fino alla metà del V secolo. Successivamente utilizzate soprattutto come luoghi di culto, come santuari dove poter pregare. Molti pellegrini giungevano a Roma da tutta l’Europa, per pregare sulle tombe dei martiri. Fino alla metà del IX secolo le catacombe venivano restaurate ed abbellite per volontà dei pontefici. In seguito, a causa delle traslazioni delle reliquie dalle tombe primitive alle chiese entro le mura, cominciarono ad essere abbandonate. Fatta eccezione per alcuni settori delle catacombe di San Sebastiano e per quelle di San Lorenzo, la quasi totalità delle catacombe non venne più frequentata fino all’inizio del ‘600.

2. Motivi di un pellegrinaggio giubilare

Già nel Giubileo straordinario della redenzione, indetto da Giovanni Paolo II nel 1983, al pellegrinaggio alle quattro basiliche era stato equiparato, per la prima volta nella storia, anche quello ad una delle catacombe cristiane. Ora, nella Bolla di indizione del Giubileo dell’Anno 2000, le catacombe sono di nuovo proposte come cammino giubilare di indulgenza.
Giovanni Paolo II ha così scritto:

Le catacombe conservano, tra l'altro, le tombe dei primi martiri, testimoni di una fede limpida e saldissima, che li condusse, come "atleti di Dio", a superare vittoriosi la prova suprema. Molti sepolcri dei martiri sono ancora custoditi all’interno delle catacombe e generazioni di fedeli hanno sostato in preghiera dinanzi ad essi. Anche i pellegrini del Giubileo del Duemila si recheranno alle tombe dei martiri e, elevando le preghiere agli antichi campioni della fede, volgeranno il loro pensiero ai "nuovi martiri", ai cristiani che nel passato ed anche ai nostri giorni sono sottoposti a violenze, soprusi, incomprensioni perché vogliono rimanere fedeli a Cristo e al suo Vangelo.

I cristiani, sepolti nelle catacombe, appartengono a quelle generazioni di fedeli che hanno creduto e trasmesso la fede, in secoli nei quali questo comportava emarginazione, danni economici e professionali e talvolta il sacrificio della stessa vita. È per questo che la loro testimonianza ha convinto il mondo. Essere pellegrini alle loro catacombe vuol dire essere attratti dalla loro fede che, credente sino al dono del sangue, diviene credibile per l’uomo.
Il Papa Giovanni Paolo II nella Bolla Incarnationis Mysterium sottolinea che il segno del martirio è da sempre eloquente, e soprattutto oggi parla direttamente al cuore dell’uomo contemporaneo:

Un segno perenne, ma oggi particolarmente eloquente, della verità dell’amore cristiano è la memoria dei martiri. Non sia dimenticata la loro testimonianza. Essi sono coloro che hanno annunciato il Vangelo dando la vita per amore. Il martire, soprattutto ai nostri giorni, è segno di quell’amore più grande che compendia ogni altro valore. La sua esistenza riflette la parola suprema pronunciata da Cristo sulla croce: "Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno" (Lc 23, 34). Il credente che abbia preso in seria considerazione la propria vocazione cristiana, per la quale il martirio è una possibilità annunciata già nella Rivelazione, non può escludere questa prospettiva dal proprio orizzonte di vita. I duemila anni dalla nascita di Cristo sono segnati dalla persistente testimonianza dei martiri.
Questo secolo poi, che volge al tramonto, ha conosciuto numerosissimi martiri soprattutto a causa del nazismo, del comunismo e delle lotte razziali o tribali. Persone di ogni ceto sociale hanno sofferto per la loro fede pagando col sangue la loro adesione a Cristo e alla Chiesa o affrontando con coraggio interminabili anni di prigionia e di privazioni di ogni genere per non cedere ad una ideologia trasformatasi in un regime di spietata dittatura. Dal punto di vista psicologico, il martirio è la prova più eloquente della verità della fede, che sa dare un volto umano anche alla più violenta delle morti e manifesta la sua bellezza anche nelle più atroci persecuzioni.

Il termine martire deriva dal greco martius che, letteralmente, significa "testimone" e viene dato per eccellenza a tutti coloro che vengono uccisi dando testimonianza al vangelo.
Le giovani generazioni sono particolarmente attente alla sincerità della persona e al valore della profonda conoscenza interpersonale. La testimonianza della fede è momento significativo di questa conoscenza interpersonale. Chi testimonia permette all’amico e ad altri l’accesso al proprio cuore, a quel cuore che ha creduto all’annunzio del vangelo e su quell’annunzio costruisce la vita. Il martirio, la disponibilità a pagare di persona per non venire meno alla verità della propria esperienza di Dio è stato e sarà sempre il segno che autentica nel gesto la professione di fede che la parola esprime. È allora proprio nella testimonianza del martirio che la comunicazione interpersonale raggiunge il suo apice.
Nelle catacombe romane è possibile così ascoltare ancora oggi la voce dei martiri che nell’accettazione del sacrificio estremo hanno inteso invitare a non dubitare di loro. La coerenza fra la loro professione di fede e il loro sacrificio, dichiara la fermezza e la certezza della loro convinzione, la disponibilità ad offrire la stessa vita a riprova dell’esperienza del vangelo. Nelle catacombe riposano i loro corpi, circondati dai corpi di tanti altri, dai corpi dei loro fratelli cristiani.
Nella lettera Tertio Millennio Adveniente Giovanni Paolo II ricorda come la testimonianza è madre, è generatrice della fede dei nuovi cristiani:

La Chiesa del primo millennio nacque dal sangue dei martiri: Sanguis martyrum – semen christianorum. Gli eventi storici legati alla figura di Costantino il Grande non avrebbero mai potuto garantire uno sviluppo della Chiesa quale si verificò nel primo millennio, se non fosse stato per quella seminagione di martiri e per quel patrimonio di santità che caratterizzarono le prime generazioni cristiane.

Anche il mondo odierno come il mondo dei primi secoli del cristianesimo ha bisogno della testimonianza, della coerenza dei comportamenti, perché, come ha scritto Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi: "L’uomo di oggi ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o se ascolta i maestri lo fa perché sono testimoni".
In questo ultimo secolo la testimonianza del martirio ha di nuovo toccato la Chiesa e il martirio ha spesso unito in maniera indissolubile cristiani di confessioni diverse:

Al termine del secondo millennio, la Chiesa è diventata nuovamente Chiesa di martiri. Le persecuzioni nei riguardi dei credenti – sacerdoti, religiosi e laici – hanno operato una grande semina di martiri in varie parti del mondo. La testimonianza resa a Cristo sino allo spargimento del sangue è divenuta patrimonio comune di cattolici, ortodossi, anglicani e protestanti, come rilevava già Paolo VI nella omelia per la canonizzazione dei martiri ugandesi.

È per questo che il Giubileo dell’Anno 2000 prevede nella terza domenica di Pasqua l’aggiornamento del martirologio per la Chiesa universale, per rafforzare ancor più la memoria e la testimonianza di coloro che hanno amato e creduto, senza abbandonare il gregge dei fedeli e il suo Pastore il Cristo Signore.

3. Visitando le catacombe

Sull’intero territorio di Roma, si contano più di cinquanta siti tra catacombe e luoghi di sepoltura. I nomi con cui vengono denominate le catacombe si riferiscono al martire che è sepolto nel luogo, o al nome del donatore del terreno in cui si trovava il cimitero. Molte non sono visitabili, o lo sono solo con permessi speciali. Le cinque più importanti aperte al pubblico sono quelle di San Callisto, di San Sebastiano, di Domitilla, di Priscilla, di Sant’Agnese. Sono visitabili anche quelle di San Pancrazio e dei Santi Marcellino e Pietro. Prima di descriverle singolarmente vogliamo premettere alcune caratteristiche iconografiche che troviamo in ognuna di esse.

I simboli

Sulle pareti dei cubicoli i primi cristiani usavano rappresentare alcuni simboli. Il simbolo ha la capacità e la concisione per riassumere il senso di un intero discorso, rivela e nasconde, parla a chi sa leggerlo. Il simbolismo cristiano si rivela fondato su un repertorio basato su due momenti fondamentali della vita del fedele nelle comunità più antiche: la catechesi, l’istruzione prebattesimale impartita ai catecumeni, e quella mistagogica e postbattesimale che li accompagnava subito dopo il battesimo e poi durante la loro vita. Quando un cristiano veniva a pregare sulla tomba dei suoi cari era richiamato, proprio da quei simboli, ai sacramenti che aveva ricevuto ed ai principali dogmi della sua fede. Questi simboli perciò costituivano un richiamo visibile all’unità della fede professata, e come ha recentemente ricordato il papa Giovanni Paolo II, parlano alla fede oggi:

Visitando le catacombe, si viene a contatto con suggestive tracce del Cristianesimo dei primi secoli e si può, per così dire, toccare con mano la fede che animava quelle antiche comunità cristiane. Percorrendo le gallerie, si scorgono non pochi segni dell'iconografia della fede: il pesce, simbolo del Cristo; l’ancora, immagine della speranza; la colomba, rappresentazione dell'anima credente e, accanto ai nomi, sui sepolcri, frequentissimo l'augurio "In Cristo". Sono altrettante testimonianze del fervore spirituale che animava le prime generazioni cristiane. Accostando quel mondo, i cristiani di oggi possono trarre utili incoraggiamenti per la loro vita e per un più incisivo impegno nella nuova evangelizzazione.

Vediamone alcuni in particolare:

Le catacombe di San Callisto

La catacomba di San Callisto è il più antico cimitero ufficiale della comunità cristiana a Roma. Questo complesso risulta formato da più nuclei cimiteriali, che si sono estesi con il tempo, alcuni si sono addirittura fusi tra di loro. Prende il nome dal diacono Callisto che fu preposto all’amministrazione del cimitero e che, divenuto papa nel 217, lo ingrandì notevolmente. All’interno della catacomba furono deposti, soprattutto nella Cripta dei Papi, la maggior parte dei pontefici romani tra la fine del II e l’inizio del III secolo.
All’interno della cripta si trova una lastra marmorea che reca inciso un carme, in latino, composto da papa Damaso, in cui vengono ricordati i martiri ed i confessori sepolti nella cripta ed in tutta la catacomba.

Qui radunata giace, se vuoi saperlo, una turba di giusti,
i corpi dei santi i venerabili sepolcri contengono,
ma le anime sublimi tolse per sé la reggia dei cieli
Qui i compagni di Sisto che riportan trofei del nemico;
qui una schiera di martiri fan la guardia all’altare di Cristo.
Qui è sepolto il vescovo che visse in lunga pace,
qui i santi confessori venutici di Grecia;
qui giovani e fanciulli, vecchi e casti nipoti,
che preferirono serbare il pudore verginale.
Qui, lo confesso, avrei voluto io Damaso riporre le mie membra,
ma ebbi paura di disturbare le sante ceneri dei giusti.

Con il termine martire vengono definiti coloro che versarono il sangue per essere fedeli a Cristo, mentre per confessori si vuole alludere a tutti coloro che, senza essere sottoposti ad una morte violenta e crudele, non abiurarono la fede in Cristo pure se dinanzi a sanzioni e violenze di vario genere. L’uso di scrivere sulla lastra sepolcrale il titolo di martire risale al 258, come testimoniato dall’iscrizione di Felicissimo e Agapito sepolti nel cimitero di Pretestato. In queste catacombe, forse tra le più grandi in estensione, si possono cogliere innumerevoli testimonianze della fede in Cristo. Nella visita alla Cripta dei Papi si può ritrovare viva l’unità delle comunità della Chiesa dei primi secoli. Il cristiano abituato a dire nella preghiera non già "Padre mio", ma "Padre nostro", sa che nella famiglia di Dio non si vive isolatamente, ma comunitariamente: "Molti siamo un corpo solo in Cristo" (Rm 12, 15). Le catacombe ci danno l’immagine di questo corpo mistico entro il quale, in gerarchia di funzioni e in unità di spirito, i cristiani ordinatamente convivono. Qui i Pontefici Martiri riposano in mezzo all’umile moltitudine anonima del loro gregge. Muovendosi tra le gallerie della catacomba possiamo pensare alla forza della fede che animava i cristiani, leggendo le molte iscrizioni, che si incontrano nei diversi settori.
Papa Damaso (366-384) che abbellì la Cripta dei Papi, così scrisse in versi, come epitaffio per sé:

Colui che camminando calcò le onde tumultuose, Colui che ridona la vita ai semi che muoiono sotto terra, Colui che poté sciogliere i lacci letali della morte dopo le tenebre, il fratello dopo tre giorni ridare di nuovo tra i viventi alla sorella Marta, credo che dalle sue ceneri farà risorgere Damaso.

Le catacombe di San Sebastiano

Il luogo più significativo delle catacombe di san Sebastiano è legato alla memoria dei santi Pietro e Paolo. All’interno di esse, in un’area definita come la Piazzola, si trovano tre sepolcri, al di sopra dei quali, in un’area definita triclia, venne realizzato un portico sopra un cortile in prossimità di una fontanella. Su di un lato di esso era situato un banco in muratura utilizzato per sedersi. Dalla disposizione architettonica dell’area si ritiene che si tratti di una zona sepolcrale detta ad confrequentandam memoriam quiescentium: in questi luoghi venivano ricordati i defunti nelle annuali ricorrenze. Dopo la preghiera, intorno al sepolcro, venivano consumati piccoli pasti (refrigeria), in memoria del defunto. Sui pilastri del portico e sul muro, lungo cui corre il sedile, si trovano circa seicento graffiti, risalenti alla seconda metà del terzo secolo, con invocazioni agli apostoli Pietro e Paolo e con ripetute memorie di refrigeria svolti in loro onore. Si può fissare alla seconda metà del II secolo, il periodo in cui ebbe inizio il culto dei due Apostoli in questo luogo. Durante l’estate del 257 d.C. l’imperatore Valeriano proibì ai cristiani di riunirsi nei propri luoghi di culto: i fedeli, quindi, non poterono certamente più radunarsi né alla tomba petrina al colle Vaticano, né a quella paolina sull’Ostiense. È possibile ipotizzare che essi trasferirono le reliquie e il culto dei due Apostoli presso le attuali catacombe di San Sebastiano. Certo è che la Depositio Martyrum, documento degli anni 320/30 che ci tramanda memoria di una trentina di martiri e della loro venerazione nella liturgia, ci testimonia per la prima volta della celebrazione della festa dei santi Pietro e Paolo il 29 giugno 258, appena alcune settimane prima dell’inasprirsi delle persecuzioni, con il martirio di papa Sisto e di cinque dei suoi diaconi, fra cui Lorenzo. Il calendario della Depositio la chiama la festa dei santi Pietro e Paolo ad catacumbas, dal toponimo antico del luogo.
Ciò che attirava la devozione di fedeli e pellegrini era sempre la memoria apostolorum venerata nella chiesa. Dall’autore del Liber Pontificalis sembra che si trattasse di un monumento sepolcrale, di cui però non è rimasta traccia. Lo stesso autore ci riferisce che, nel luogo dove erano stati sepolti gli Apostoli, il papa Damaso fece inserire l’epigrafe seguente:

Tu che vai cercando i nomi di Pietro e Paolo sappi che i santi dimorarono qui in passato. Questi Apostoli ce li mandò l’Oriente, lo riconosciamo volentieri, ma in virtù del martirio (seguendo Cristo su per le stelle vennero nelle regioni celesti e nel regno dei giusti) Roma poté rivendicarli suoi cittadini. Questo voleva dire Damaso in vostra lode, o nuove stelle.

La basilica porta ora il nome di San Sebastiano, perché in essa si venera la sua sepoltura. I primi riferimenti alla figura di San Sebastiano risalgono al IV secolo, ma notizie più complete provengono dalla Passio S. Sebastiani, riferibile alla prima metà del V secolo.
San Sebastiano visse e subì il martirio sotto il governo dell’imperatore Diocleziano, del quale era comandante della prima coorte. Venne condannato a morte dallo stesso Diocleziano: la tradizione vuole che miracolosamente sopravvissuto sia stato soccorso e curato da una donna, poi di nuovo condannato ed in seguito ucciso. Il suo corpo fu gettato nella Cloaca Massima e ritrovato da una donna di nome Lucina – ritroviamo lo stesso nome che abbiamo incontrato nella sepoltura di San Paolo – che lo prese e lo fece seppellire.
Il sepolcro del santo venne posizionato al centro di una grande cripta e diventò presto oggetto di venerazione, non soltanto per i fedeli che giungevano presso le catacombe; infatti la popolarità del suo culto si sviluppò in diversi paesi dell’Europa, come testimoniano le diverse raffigurazioni che si trovano, dal V secolo in poi, anche fuori dall’Italia.
La cripta in cui era conservato il corpo del santo divenne una meta fondamentale per fedeli e pellegrini. Vista la popolarità del suo culto, e per paura dei saccheggi che venivano effettuati dai Saraceni, Eugenio II nell’826 d.C. fece rimuovere i resti del santo e li fece posizionare in un altare presso l’oratorio di San Gregorio Magno, in Vaticano. Alcuni anni dopo, Leone IV fece trasferire la testa del santo, insieme ad altre reliquie, in un reliquiario collocato nell’altare maggiore della chiesa dei Santi Quattro Coronati al Celio. Nel frattempo i pellegrinaggi presso la cripta delle catacombe, che ormai erano state dedicate al santo, continuavano. Per tale motivo, Onorio III nel 1218 fece ritrasferire le spoglie del martire presso l’altare della cripta, situato sotto la basilica. Il cardinale Scipione Borghese agli inizi del XVII secolo, restaurando la chiesa, fece trasportare l’altare della cripta e lo fece collocare nella chiesa di fronte alla cappella delle reliquie. Infine nel 1672 il cardinale Francesco Barberini fece erigere una nuova cappella di fronte a quella delle Reliquie. Nella mensa dell’altare fu racchiusa l’urna che conteneva i resti del santo.
Percorrendo le gallerie delle catacombe o sostando nelle cripte, siamo immersi in un’atmosfera di silenzio: è un silenzio di pienezza, riempito dalle voci dei martiri che hanno coraggiosamente e costantemente testimoniato la loro fede.
Questa atmosfera di silenzio, evocativa della vita e del sacrificio dei primi Cristiani, costituisce un luogo privilegiato di meditazione spirituale, di revisione di vita, di rinnovamento della fede. La testimonianza coraggiosa e fedele dei primi testimoni ci interpella personalmente. È un silenzio comunicativo, che parla al cuore e alla mente dei pellegrini, che rivela loro il mondo sconosciuto della Chiesa primitiva, con le sue classi sociali, sentimenti ed affetti; con le pene e le speranze dei cristiani sepolti nelle catacombe.
Questa condizione privilegiata di tranquillità e meditazione attirò il giovane Filippo Neri nelle sue lunghe e solitarie passeggiate nella campagna romana: una iscrizione marmorea al primo piano indica la cripta in cui trascorse molte notti in preghiera tra il 1540 ed il 1550. Fu presso queste catacombe che si verificò l’episodio della violenta palpitazione di cuore che colpì il santo quando aveva circa trent’anni. Le antiche testimonianze riferiscono che tale evento causò l’inarcamento delle due costole nel fianco sinistro, oltre all’ardore incessante verso la fede, che gli durò poi tutta la vita. Solo biografi successivi aggiunsero all’evento l’apparizione del globo di fuoco, e la collocazione del fatto in occasione della festa della Pentecoste del 1544.

Le catacombe di Domitilla

La storia dei primi secoli cristiani ci documenta sul crescente numero di persone facoltose che aderirono al cristianesimo e che, una volta convertitesi, misero a disposizione le loro proprietà perché divenissero domus ecclesiae, cioè chiese domestiche per la celebrazione dei sacramenti e le riunioni cristiane. Molti fecero dono dei loro terreni alla comunità, che li utilizzò per costruirvi catacombe. Anche questa comunione di beni è segno eloquente della fede, come ha ricordato Giovanni Paolo II:

Le catacombe parlano della solidarietà che univa i fratelli nella fede: le offerte di ciascuno permettevano la sepoltura di tutti i defunti, anche di quelli più indigenti, che non potevano permettersi la spesa per l'acquisto e la sistemazione della tomba. Questa carità collettiva rappresentò uno dei punti di forza delle comunità cristiane dei primi secoli... Le catacombe, pertanto, suggeriscono al pellegrino questo sentimento di solidarietà indissolubilmente connessa alla fede ed alla speranza.

Flavia Domitilla fu molto probabilmente un personaggio della famiglia imperiale che, come rivelano alcune iscrizioni, dovette possedere il terreno sul quale sorsero poi delle catacombe. Nonostante fosse la nipote dell’imperatore Diocleziano, egli condannò a morte il marito ed esiliò la stessa presso l’isola di Ponza nel 95 d.C., con l’accusa di ateismo e pratiche giudaiche. Infatti nell’antica Roma, soprattutto durante il I ed il II secolo, i cristiani e gli ebrei venivano considerati aderenti ad un unica religione e per questo non venivano distinti.
Verso la fine del III secolo i martiri Nereo e Achilleo vennero seppelliti in una cripta delle catacombe su cui, in seguito, papa Damaso fece costruire una piccola basilica. Il culto di Nereo ed Achilleo è attestato dalla presenza di una colonnina, sulla quale è raffigurato il martirio di quest’ultimo, con una tunica militare e le mani legate, prima di essere giustiziato da un crudele tiranno.
La domenica del 12 settembre 1965, il papa Paolo VI discese nella basilica dei Santi Nereo ed Achilleo, prima di raggiungere le Fosse Ardeatine per una preghiera in suffragio dei caduti dell’eccidio del marzo del 1944. Soffermarsi in preghiera alle Fosse Ardeatine, durante il percorso giubilare, può essere suggerimento per il pellegrino.

Le catacombe di Priscilla

Questo complesso è tra i più estesi ed antichi di tutta la città di Roma. Nelle catacombe di Priscilla trovarono sepoltura molti martiri e tra questi anche alcuni papi. Il nome deriva da una Priscilla, che doveva appartenere alla famiglia patrizia degli Acili, proprietari del terreno in cui si trovava la cava, in seguito utilizzata per le sepolture.
All’interno delle gallerie, o nelle piccole cappelle che si aprivano per la sepoltura dei martiri, sono state rinvenute diverse rappresentazioni pittoriche risalenti al II-III secolo. Tutte le raffigurazioni sono di carattere religioso e rappresentano episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento.
Nella Cappella Greca si trova raffigurata, sulla campata di un arco, l’Adorazione dei Magi, simbolo della fondazione della Chiesa, accanto ad una delle più antiche rappresentazioni della Vergine col Bambino. Sulla parete d’ingresso sono I tre giovani nella fornace descritti dal libro di Daniele, simboli della fede che attende salvezza da Dio e Mosè che fa scaturire l’acqua dalla rupe, una prefigurazione del battesimo. Sulle pareti laterali è rappresentata la Guarigione del paralitico, miracolo che è segno del potere che il Cristo ha di perdonare. Accanto alla parete d’ingresso è raffigurata La fenice che muore sul rogo e rinasce dalle sue ceneri, simbolo della resurrezione. Infine, sopra la nicchia dell’abside, compare la raffigurazione del Banchetto eucaristico, dove si distinguono sette personaggi, seduti intorno ad una mensa, sulla quale si trovano un calice ed un piatto con pesci. Ai lati della mensa si trovano sette cesti, colmi di pesci. Il primo dei personaggi da sinistra sembra nell’atto di spezzare il pane. Questo gesto, messo in rapporto con il numero delle ceste e con il miracolo della moltiplicazione, non può che essere un’evidente allusione al cibo eucaristico.
L’iconografia è, nella sua totalità, espressione della speranza fondata e non ingenua, come ha detto Giovanni Paolo II:

Per questo non erano luoghi tristi, ma decorati con affreschi, mosaici e sculture, quasi a rallegrare i meandri oscuri ed anticipare con le immagini di fiori, uccelli ed alberi la visione del paradiso atteso alla fine dei tempi. La significativa formula "in pace", ricorrente sui sepolcri dei cristiani, ben sintetizza la loro speranza.

Le catacombe di Sant’Agnese

L’unica martire che viene venerata in queste catacombe è sant’Agnese. Non si conosce con esattezza il periodo in cui si svolse il martirio della santa: un’epigrafe di papa Damaso ci riferisce che si trattava di una giovane donna che si offrì volontariamente al supplizio del fuoco. Il martirio dovette avvenire durante la persecuzione di Diocleziano (304). Ambrogio, Damaso e Prudenzio danno versioni differenti delle modalità del martirio, ma sono concordi sulla giovane età della martire, che aveva appena raggiunto la pubertà, e sul doppio merito della giovane, la verginità e il martirio.
In prossimità della sepoltura della santa, fu Costanza – chiamata anche Costantina, figlia dell’imperatore Costantino – che fece costruire negli anni 337-351 una basilica in memoria del martirio subito da sant’Agnese. Fu sempre lei a far costruire nei pressi uno stupendo mausoleo, detto di santa Costanza, oggi trasformato in chiesa, in previsione della sua sepoltura.


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