Roma e il Nuovo Testamento: i luoghi di Erode e Pilato, Pietro e Paolo, Marco e Luca nell’urbe
a cura dell’Ufficio catechistico della diocesi di Roma

I testi e le foto che seguono vogliono presentare i luoghi della città di Roma legati al Nuovo Testamento. Le foto sono di Riccardo Aperti.
I testi sono stati scritti per la sezione Roma e il Nuovo Testamento della mostra La Bibbia a Roma presentata dall’Ufficio catechistico della diocesi di Roma dall’8 al 16 novembre 2008. I testi completi della mostra saranno a disposizione on-line fra breve su questo stesso sito. Per altre foto della mostra, vedi al link Immagini della mostra La Bibbia a Roma.

Il Centro culturale Gli scritti (26/11/2008)


Indice


La Curia del Senato, nella quale Erode il Grande
ricevette il regno da Antonio ed Ottaviano

«Antonio si fece avanti [nel Senato] e spiegò che anche ai fini della guerra contro i Parti era conveniente che Erode fosse re. Questa proposta fu accettata e votata da tutti... Terminata la riunione del senato, Antonio e Cesare [Ottaviano] uscirono avendo Erode in mezzo a loro, mentre i consoli precedevano gli altri magistrati, per andare a sacrificare ed esporre il decreto in Campidoglio. Così Antonio ospitò Erode nel suo primo giorno di regno, che egli ricevette nella centottantaquattresima olimpiade, sotto il consolato di Gneo Domizio Calvino, per la seconda volta, e di Gaio Asinio Pollione».

(da Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche 14, 385-389)

testo alternativo

Erode, che passerà alla storia come “Erode il Grande”, dopo aver lasciato i suoi familiari assediati da Antigono nella fortezza di Masada, si imbarcò in cerca di aiuti, giungendo prima ad Alessandria d’Egitto, dove incontrò Cleopatra, poi a Roma dove giunse nel 40 a.C. La sua richiesta era che venisse fatto re il fratello di sua moglie, al posto di Antigono, ultimo sovrano della dinastia degli asmonei.
Antonio ed Ottaviano, invece, lo fecero proclamare re dinanzi al Senato riunito nella Curia, ritenendolo il più affidabile per governare in sintonia con il potere romano.
Durante il suo regno nacque Gesù.

Il Palazzo imperiale al Palatino nel quale Ottaviano divise il regno
tra Archelao, Erode Antipa e Filippo

«Salpato Archelao alla volta di Roma… anche Antipa(tro) si mise in viaggio per sostenere le sue pretese al trono… In Roma si riversò su di lui la simpatia di tutti i parenti che non potevano sopportare Archelao…
Cesare (Ottaviano Augusto) radunò il consiglio dei magistrati romani e dei suoi amici nel tempio di Apollo sul Palatino, che aveva fatto costruire egli stesso, adornandolo con splendida magnificenza... Sentite le due parti, Cesare sciolse il consiglio, ma pochi giorni dopo assegnò la metà dei regno ad Archelao col titolo di «etnarca», promettendogli di farlo re, qualora se ne fosse mostrato degno. L’altra metà la divise in due tetrarchie e le assegnò agli altri due figli di Erode: una a Filippo e l’altra ad Antipa che aveva conteso il trono ad Archelao. Antipa ottenne la Perea e la Galilea... mentre a Filippo furono attribuite la Batanea, la Traconitide, l’Auranitide... Dell’etnarchia di Archelao facevano parte l’Idumea, l’intera Giudea e la Samaria».

(da Giuseppe Flavio, La guerra giudaica 2,18-20; 80-98)

testo alternativo

Alla morte di Erode il Grande, scoppiò una disputa sulla sua successione. Nell’ultimo suo testamento egli aveva designato re il figlio Archelao. Erode Antipa – conosciuto anche come Antipatro – facendosi forza su di un precedente testamento aspirava anch’egli al trono. Si presentarono così entrambi a Roma, al cospetto di Ottaviano Augusto, che infine decise per la divisione del regno in tre parti, pronunciando sul Palatino il suo giudizio.
Ad Erode Antipa, toccò la Galilea. Per questo motivo il tetrarca sarà poi coinvolto nel processo di Gesù, perché l’attività pubblica del Cristo si svolgerà nei territori a lui assoggettati. A Filippo (che era fratellastro di entrambi) fu assegnata la regione settentrionale della Galilea nella quale egli fondò la città di Cesarea di Filippo. Il luogo è noto nei vangeli, perché nei suoi pressi Gesù condusse i dodici per porre loro la domanda sulla sua identità: «Voi, chi dite che io sia?».
Ad Archelao toccò la Giudea con Gerusalemme. Fu, però, deposto nel 6 d.C. poiché si era reso impopolare. Augusto decise allora di nominare al suo posto un prefetto direttamente dipendente da Roma.
In occasione di un ulteriore viaggio a Roma avvenuto sotto Tiberio (descritto in Antichità giudaiche 18,109 ss) Erode Antipa si fermò ad alloggiare presso Erode Filippo e si innamorò della di lui moglie Erodiade, figlia del re nabateo Areta IV. Da questo fatto nacquero le vicende che portarono alla morte di Giovanni il Battista ed alla guerra fra Erode Antipa ed Areta. Erode, spinto dalla moglie Erodiade, venne ancora in Italia, questa volta a Baia, da Caligola, per chiedere la benevolenza dell’imperatore contro il re Agrippa. Avvisato da quest’ultimo Caligola fece, invece, esiliare la coppia a Lione, in Gallia.(Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, 18, 240-255).

Il tempio di Marte Ultore ai Fori imperiali nel quale i prefetti,
e fra di essi Ponzio Pilato, offrivano sacrifici prima di partire in missione

«In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta».

(dal vangelo secondo Luca 2,1-5)



«Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto».

(dal vangelo secondo Luca 3,1-2)

testo alternativo

Gesù nacque mentre a Roma veniva edificato da Cesare Ottaviano Augusto il Tempio di Marte Ultore, nei Fori Romani.
Augusto ne decise l’edificazione già nel 42 a.C., come atto votivo prima della battaglia di Filippi contro gli uccisori di Cesare, perché il dio lo sostenesse in questo atto di vendetta. Esso fu, però, terminato solo nel 2 a.C. Il tempio di Marte divenne il luogo nel quale si recavano a sacrificare prima della loro missione tutti i condottieri dell’esercito romano, così come i capi dell’amministrazione imperiale delle diverse province.
Ponzio Pilato offrì così sacrifici a Marte ultore, nel Tempio a lui dedicato, prima di partire in missione come prefetto della Giudea (magistratura che ricoprì dal 26 al 36 d.C.). Ad Augusto era nel frattempo succeduto Tiberio che aveva eretto, sempre nello stesso Tempio, gli archi di Druso e Germanico. Solo con gli imperatori successivi il titolo di prefetto fu mutato in quello di procuratore.
Nato sotto Augusto, Gesù fu crocifisso sotto Tiberio, essendo prefetto della Giudea Ponzio Pilato.

La chiesa di S. Paolo alla Regola sorta sul luogo venerato dalla tradizione
come la residenza della custodia militaris di Paolo a Roma;
qui o in un luogo simile chiamò Timoteo presso di lui

«Il Signore conceda misericordia alla famiglia di Onesìforo, perché egli mi ha più volte confortato e non s’è vergognato delle mie catene; anzi, venuto a Roma, mi ha cercato con premura, finché mi ha trovato...
Cerca di venire presto da me, perché Dema mi ha abbandonato avendo preferito il secolo presente ed è partito per Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. Solo Luca è con me. Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero. Ho inviato Tìchico a Efeso. Venendo, portami il mantello che ho lasciato a Troade in casa di Carpo e anche i libri, soprattutto le pergamene.».

(dalla seconda Lettera di Paolo a Timoteo 1,16-17; 4,9-13)

testo alternativo

Timoteo è stato il più fedele collaboratore di Paolo. L’epistolario paolino lo vede mittente insieme all’apostolo di molte lettere (1-2 Ts, 2 Cor, Fil, Flm, Col) e gli Atti lo citano a fianco di Paolo nella fondazione di molte chiese. Infine, a Timoteo fu affidato il compito di guidare la chiesa di Efeso.
Paolo lo richiamò da lì, richiedendo la sua presenza al suo fianco nei momenti che precedettero il martirio. Il fatto non è storicamente in discussione anche se le cosiddette “lettere pastorali” a Timoteo ed a Tito fossero di mano di un discepolo di Paolo o dello stesso Timoteo, come recentemente proposto, che avrebbe assemblato materiale paolino da lui conosciuto oralmente.

Il Carcere Mamertino, luogo tradizionale della prigionia di Pietro e Paolo;
qui o in un luogo similare Paolo potrebbe aver scritto
le lettere dalla prigionia

«Vi salutano i fratelli che sono con me. Vi salutano tutti i santi, soprattutto quelli della casa di Cesare».

(dalla Lettera di Paolo ai Filippesi 4,12)

testo alternativo

In alcune delle sue lettere (Filemone, Filippesi, Colossesi), Paolo fa chiaramente riferimento ad una situazione di prigionia nella quale egli si trova. Tali lettere vengono perciò abitualmente designate come “lettere dalla prigionia”. Secondo il racconto degli Atti, Paolo venne recluso sia a Gerusalemme – e successivamente a Cesarea Marittima - in occasione del suo appello a Cesare per potersi recare nell’urbe, sia a Roma stessa. Tradizionalmente le lettere paoline scritte dalla reclusione vengono ambientate nel corso della prigionia romana, ma sempre più si fa strada l’ipotesi che potrebbero essere invece state spedite da Efeso, nel corso di un ulteriore periodo di detenzione subito dall’apostolo.
In particolare, la lettera ai Filippesi, fa riferimento alla presenza di cristiani appartenenti “alla casa di Cesare”.
Se la lettera fosse stata scritta da Roma, si tratterebbe di convertiti al cristianesimo fra i dipendenti del Palazzo imperiale, mentre, se la redazione è avvenuta in Efeso, si tratta di dipendenti dell’autorità romana nella città dell’Asia minore.

La via Appia, percorsa da Paolo e Luca alla volta di Roma

«Partimmo [da Pozzuoli] alla volta di Roma. I fratelli di là, avendo avuto notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne. Paolo, al vederli, rese grazie a Dio e prese coraggio. Arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per suo conto con un soldato di guardia».

(dagli Atti degli Apostoli 28,14-16)

testo alternativo

La finale degli Atti, con l’arrivo di Paolo a Roma, appartiene alle cosiddette “sezioni-noi”, in tedesco Wir-stücken, degli Atti (At 16,10-17; 20,5-21; 27,1-28,16), cioè a quei brani dell’opera che hanno il soggetto alla prima persona plurale. In questi testi Luca stesso, o almeno qualcuno che è una sua fonte, appare come testimone oculare presente a fianco di Paolo. Essi arrivarono così insieme nell’urbe. La tradizione colloca la residenza di Luca a Roma nella zona sottostante la chiesa di S. Maria in via Lata.

La basilica di Santa Prisca, tradizionalmente legata ad Aquila e Priscilla, prima famiglia cristiana romana di cui si conosca il nome

«[A Corinto, Paolo] trovò un Giudeo chiamato Aquila, oriundo del Ponto, arrivato poco prima dall'Italia con la moglie Priscilla, in seguito all'ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei. Paolo si recò da loro e poiché erano del medesimo mestiere, si stabilì nella loro casa e lavorava. Erano infatti di mestiere fabbricatori di tende».

(dagli Atti degli Apostoli 18,2-3)

«I giudei che tumultuavano continuamente per istigazione di (un certo) Cresto, egli [Claudio] li scacciò da Roma».

(da Svetonio, Claudius 25)

«Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù; per salvarmi la vita essi hanno rischiato la loro testa, e ad essi non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese dei Gentili; salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa».

(dalla Lettera di Paolo ai Romani 16,3-5)

testo alternativo

La lettera ai Romani conosce per nome una trentina di persone della prima comunità di Roma (Rm 16), ma il numero dei cristiani era più numeroso. Fra queste persone care a Paolo, di Aquila e Priscilla è possibile affermare che la fede cristiana fosse antecedente all’anno 49, l’anno dell’editto di espulsione dei giudei da Roma emesso da Claudio imperatore. I due coniugi sono così i più antichi cristiani di Roma di cui si possa datare con certezza la conversione prima di quell’anno. La comunità cristiana di Roma era stata probabilmente fondata da missionari dei quali non si è conservato il nome, forse commercianti o soldati o liberti; essi, divenuti cristiani in oriente si erano poi trasferiti in Roma ed avevano lì annunciato il vangelo.
La loro testimonianza era così vivace da attirare l’attenzione delle cronache; lo storico Svetonio, infatti, testimonia che già nell’anno 49 d.C. la presenza cristiana faceva talmente discutere nelle sinagoghe della capitale da spingere appunto l’imperatore Claudio alla decisione di espellere i giudei da Roma. Il motivo dell’agitazione verificatasi nelle sinagoghe era, infatti, “l’istigazione di un certo Chresto”. Per il fenomeno dello iotacismo, che porta all’equivalenza dei suoni “e” ed “i”, Chresto è da identificarsi con Cristo; il suo nome è causa di discussione nella comunità ebraica di Roma già in quell’anno.
Aquila e Priscilla dovettero così lasciare Roma, conobbero Paolo a Corinto e poterono poi tornare nell’urbe ed accoglierlo quando egli giunse finalmente a Roma.

Il Tabularium ed il Campidoglio che Paolo vide una volta arrivato a Roma;
egli preparò il suo viaggio scrivendo ai cristiani di Roma

«A quanti sono in Roma diletti da Dio e santi per vocazione, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo. Anzitutto rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo. Quel Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunziando il vangelo del Figlio suo, mi è testimone che io mi ricordo sempre di voi, chiedendo sempre nelle mie preghiere che per volontà di Dio mi si apra una strada per venire fino a voi. Ho infatti un vivo desiderio di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati, o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io. Non voglio pertanto che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi - ma finora ne sono stato impedito - per raccogliere qualche frutto anche tra voi, come tra gli altri Gentili. Poiché sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, a predicare il vangelo anche a voi di Roma».

(dalla lettera di Paolo apostolo ai Romani 1,7-15)

testo alternativo

Paolo scrisse la lettera ai Romani in prospettiva del suo viaggio nella capitale. Probabilmente ciò avvenne durante la permanenza di tre mesi a Corinto (At 20,3), nel corso del suo III viaggio missionario. Paolo non era ancora mai stato a Roma, ma conosceva almeno una trentina di cristiani della città (Rm 16,1-16), che doveva aver incontrato nei suoi viaggi (si pensi, ad esempio, ad Aquila e Priscilla).
La lettera ai Romani è una esposizione del vangelo di Cristo. Paolo non è pressato da contingenze concrete ed espone la sua comprensione del cuore diviso dell’uomo e dell’amore di Dio che solo salva tramite la fede.
L’apostolo decise di recarsi a Roma durante la sua permanenza ad Efeso (At 19,21) e riuscì a realizzare il suo progetto quando, arrestato a Gerusalemme con la falsa accusa di aver profanato il Tempio, si appellò a Cesare e scelse di essere giudicato a Roma, possedendo fin dalla nascita la cittadinanza romana. Secondo il racconto degli Atti, in quella circostanza fu il Cristo stesso, apparsogli mentre era imprigionato nella Fortezza Antonia costruita a sorveglianza del Tempio di Gerusalemme, a chiedergli di recarsi a Roma (At 23,11).

Il Tevere, nel quale Pietro battezzò, secondo Tertulliano

«Vi saluta la comunità che è stata eletta come voi e dimora in Babilonia; e anche Marco, mio figlio».

(dalla prima Lettera di Pietro 5,13)

«Non sussiste alcuna differenza fra chi viene lavato in mare o in uno stagno, in un fiume o in una fonte, in un lago o in una vasca, né c’è alcuna differenza fra coloro che Giovanni battezzò nel Giordano e Pietro nel Tevere, a meno che l’eunuco che Filippo battezzò con l’acqua trovata per caso lungo la strada abbia ottenuto in misura maggiore o minore la salvezza!»

(da Tertulliano, De baptismo 2,3)

testo alternativo

Se la morte di Pietro è databile con certezza al 64 d.C., anno della prima persecuzione romana dei cristiani ad opera di Nerone, sul momento del suo arrivo a Roma sono possibili solo congetture.
Egli dovette, comunque, risiedere per un certo periodo nella città, prima del suo martirio. Il ricordo della sua presenza in Roma è testimoniata dalle due lettere attribuite a Pietro, che si presentano scritte da “Babilonia”; il termine indica nella tradizione veterotestamentaria ed apocalittica la città nemica di Dio e del suo popolo e nelle lettere petrine stesse la capitale dell’impero romano che, idolatrando l’imperatore, perseguita chi gli rifiuta un culto divino.
La prima lettera di Pietro ha frequenti richiami al battesimo, quel battesimo che Pietro dovette amministrare in Roma, come ricorda Tertulliano nei primi anni del III secolo, nel fiume Tevere.

La basilica di San Pietro sorta sul luogo della sepoltura di Pietro,
nei pressi del Circo di Gaio e Nerone,
dove vennero martirizzati con Pietro i protomartiri romani

«Né interventi umani, né largizioni del principe, né sacrifici agli dei riuscivano a soffocare le voce infamante che l'incendio fosse stato comandato [da Nerone stesso]. Allora, per mettere a tacere ogni diceria, Nerone dichiarò colpevoli e condannò ai tormenti più raffinati coloro che il volgo chiamava Crestiani, odiosi per le loro nefandezze. Essi prendevano nome da Cristo, che era stato suppliziato ad opera del procuratore Ponzio Pilato sotto l’impero di Tiberio; repressa per breve tempo, quella funesta superstizione ora riprendeva forza non soltanto in Giudea, luogo d’origine di quel male, ma anche nell’urbe, in cui tutte le atrocità e le vergogne confluiscono da ogni parte e trovano seguaci. Furono dunque arrestati dapprima coloro che confessavano, poi, sulle rivelazioni di questi, altri in grande numero furono condannati non tanto come incendiari quanto come odiatori del genere umano. E alle morti furono aggiunti i ludibri, come il rivestirli delle pelli di belve per farli dilaniare dai cani o, affissi a delle croci e bruciati quando era calato il giorno, venivano accesi come fiaccole notturne. Nerone aveva offerto i suoi giardini per tali spettacoli e dava dei giochi nel circo ora mescolandosi alla plebe vestito da auriga, ora stando ritto sul cocchio».

(da Tacito, Annales 15,44,2-5)

testo alternativo

Tacito racconta nei suoi Annali della persecuzione dei primi martiri di Roma – i protomartiri romani – nella quale fu ucciso anche Pietro. Il fatto avvenne nei giardini neroniani, cioè nel Circo di Gaio e Nerone che era alle pendici del colle Vaticano. L’attuale obelisco di piazza S. Pietro era al centro della spina di tale Circo che segnava il percorso sul quale si sfidavano le quadrighe nelle corse.
L’obelisco fu spostato da Papa Sisto V che volle erigerlo dinanzi alla basilica. Il sito originario in cui era posto è attualmente indicato da una lapide in terra posta alla sinistra della basilica vaticana, poco oltre l’attuale nartece, che ricorda così l’ubicazione del Circo nel quale furono martirizzati Pietro ed i suoi compagni nell’anno 64 d.C.
Sul fianco destro del Circo, proprio sotto l’attuale basilica, sorgeva una necropoli a cielo aperto, nella quale Pietro venne sepolto dopo il martirio. Parte della necropoli è stata riportata alla luce dagli archeologi nel secolo scorso. Essi hanno potuto così raggiungere nei loro scavi il luogo della sepoltura del primo degli apostoli. Il sito è attualmente visitabile, con ingresso proprio a fianco del luogo dove era anticamente eretto l’obelisco.

La basilica di S. Marco in Campidoglio sorta sul luogo nel quale,
secondo la tradizione, abitò l’evangelista Marco;
qui, o comunque in Roma, egli scrisse il suo vangelo

«Se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio».

(dal Vangelo secondo Marco 10,12)

testo alternativo

Solo nel diritto romano erano previsti casi in cui era la donna a poter divorziare dal marito. Tale situazione non era prevista, invece, dal diritto rabbinico.
Il vangelo di Marco è l’unico vangelo ad estendere alla donna le parole pronunciate da Gesù sul divorzio.
Anche i latinismi invitano a vedere in Marco un vangelo fortemente legato ad un ambiente di lingua latina: se alcuni di questi sono comuni agli altri vangeli (denarion, modios, kensos, krabbatos, legion, phragelloun), altri sono presenti esclusivamente nel primo vangelo, in particolare xestes, boccale (7,4), spekoulator, guardia (6,27), kodrantes, quadrante o spicciolo (12, 42), hikanon poiein, dare soddisfazione (15,15), kentyrion, centurione (15,39.44-45), praitorion, pretorio (15,16).
L’analisi interna del testo conferma così le parole di un frammento di Papia, vescovo di Gerapoli in Asia Minore, del 130 d.C., in cui si dice:
«Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse senza un ordine, ma con esattezza, ciò che ricordava delle cose dette e fatte da Gesù. Egli non aveva udito il Signore, né l’aveva seguito; più tardi seguì Pietro».
La tradizione pone la residenza dell’evangelista nel luogo dove poi sorgerà la basilica di S. Marco in Campidoglio; in quel luogo Marco avrebbe scritto il suo vangelo.

L’arco di Tito, testimone della distruzione del Tempio,
posteriore alla lettera agli Ebrei che venne spedita a Roma

«Vi salutano gli emigrati dall’Italia».

(dalla lettera agli Ebrei 13,24)

testo alternativo

La lettera agli Ebrei fu scritta probabilmente per essere inviata in Italia (e, quindi, a Roma stessa) come si deduce dalla sezione finale nella quale vengono acclusi i saluti da parte di “quelli che provengono dall’Italia”, probabilmente emigrati italiani nella città dalla quale fu spedita la lettera: essi desiderano salutare i loro connazionali rimasti in patria.
Gli studiosi ritengono che l’epistola debba essere stata scritta prima dell’anno 70, l’anno della distruzione del Tempio da parte dei romani.
Infatti, pur essendo incentrata sulla questione del confronto fra l’antico culto veterotestamentario ed il nuovo culto cristiano, non fa alcun cenno alla cessazione dell’attività cultuale nel Tempio di Gerusalemme.
La lettera presenta Cristo come l’unico vero sacerdote: egli, infatti, non ha offerto animali o sacrifici, ma piuttosto se stesso, per amore, fino alla morte di croce.

Piazza Navona edificata sullo stadio di Domiziano,
l’imperatore di cui parla l'Apocalisse

«Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d'uomo. E tal cifra è seicentosessantasei».

(dal libro dell’Apocalisse 13,18)

«L'angelo mi trasportò in spirito nel deserto. Là vidi una donna seduta sopra una bestia scarlatta, coperta di nomi blasfemi, con sette teste...
Sulla fronte aveva scritto un nome misterioso: “Babilonia la grande, la madre delle prostitute e degli abomini della terra”. E vidi che quella donna era ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù... Qui ci vuole una mente che abbia saggezza. Le sette teste sono i sette colli sui quali è seduta la donna; e sono anche sette re».

(dal libro dell’Apocalisse 17,3.5-6.9)

testo alternativo

L’Apocalisse fu scritta durante il regno di Domiziano, l’imperatore che fece erigere lo Stadio che portava il suo nome, la cui conformazione è ancora oggi ricalcata dall’andamento di piazza Navona che sorge sulle sue rovine.
L’autore dell’Apocalisse scrisse il suo libro nell’isola di Patmos, nelle Sporadi, ad un giorno di navigazione da Efeso e Mileto, dove era stato allontanato, forse esiliato, “a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù” (Ap 1,9). L’azione contro Giovanni si situa in un contesto più ampio di persecuzioni contro i cristiani messe in atto dal potere politico.
Gli studiosi sostengono a ragione che l’Apocalisse ben si situi negli anni dell’imperatore Domiziano (81-96) che ad Efeso volle fosse eretto un tempio agli imperatori divinizzati della famiglia Flavia cui apparteneva. Questo ben combacia con i versetti dell’Apocalisse che parlano di un drago, personificazione del maligno, che cede il suo potere a due bestie, la seconda delle quali erige una statua perché la prima sia adorata. Dinanzi a questa manifestazione di apparente potenza, Giovanni insiste che colui che si fa adorare è solamente “un uomo”. Proprio il numero 666 – la metà di 12, il numero di Israele e della Chiesa, il numero dei benedetti da Dio e dei salvati – indica che quel potere è fallimentare e finirà miseramente per scomparire.
Gli ultimi capitoli dell’Apocalisse profetizzano questa vittoria di Dio e della sua Chiesa, quando annunziano che Babilonia, personificazione del potere idolatrico romano che si erige a Dio, “colei che siede sui sette colli”, cadrà miseramente e scomparirà per lasciare il posto alla Gerusalemme che scende dal cielo, alla città di Dio.


[Roma e le sue Basiliche]