Rassegna libraria Voci dalla Shoah

Capitolo 1 - Studi Generali

Martin Gilbert
Atlas of the holocaust
Bnei Brak, Pergamon Press-Steimatzky, 1989

Il volume presenta moltissime mappe per visualizzare le deportazioni, i luoghi dei massacri e dei campi, le fughe e le rivolte, le evacuazioni, le marce della morte.
La scheda mostra il tragitto da Varsavia a Treblinka e quello dall'Ungheria ad Auschwitz.





Raul Hilberg
La distruzione degli Ebrei d'Europa

Torino, Einaudi, 1995


Hilberg è il massimo studioso dell'Olocausto. Così, nell'intervista a Claude Lanzmann, in Shoah, sintetizza la specificità dell'antisemitismo nazista:

Claude Lanzmann:
Dunque le tre tappe furono: prima, la conversione, seguita dalla ghettizzazione...

Raul Hilberg:
L'espulsione. E la terza fu la soluzione territoriale, quella che fu messa in opera nei territori sotto controllo tedesco, che esclude l'emigrazione: la morte, la soluzione finale.
E la soluzione finale, vede, è davvero finale, poiché i convertiti possono sempre restare ebrei in segreto, gli espulsi possono ritornare un giorno, ma i morti non ricompariranno mai.

C.L.:
E trattandosi dell'ultima fase furono veramente dei pionieri?

R.H.:
Sì, la cosa era senza precedenti e totalmente nuova.

C.L.:
E come si può dare un'idea di quella novità assoluta, poiché penso che anche per loro era una cosa nuova?

R.H.:
Sì, era nuova ed è la ragione per la quale non si può trovare un solo documento, un piano specifico, un memorandum che dica nero su bianco: ”D'ora in poi gli ebrei saranno uccisi”.
Tutto si deduce da formule generali.

C.L.:
Formule generali?

R.H.:
Sì, il termine stesso di soluzione finale, totale o territoriale, permette al burocrate di “arguire” partendo di qua.
Non si può leggere certi documenti, perfino la lettera di Goering a Heydrich (estate 1941), che in due paragrafi lo incarica di procedere alla soluzione finale, ed esaminando quei testi pensare che tutto è chiarito, tutt'altro.

C.L.:
Tutt'altro?

R.H.:
Sì. Era un'autorizzazione a inventare, a iniziare qualcosa che fin qui non poteva essere espresso a parole.

C.L.:
Ed era vero in tutti i campi?

R.H.:
Assolutamente. A ogni fase dell'operazione si doveva inventare... in quanto ogni problema era senza precedenti: non soltanto come uccidere gli ebrei, ma che fare dei loro beni e come impedire al mondo di sapere.



Raul Hilberg
Carnefici. Vittime. Spettatori
Mondadori, Milano, 1994

Nel suo minuzioso lavoro storico, Raul Hilberg non descrive solo gli aguzzini diretti, ma anche il contorno di persone che contribuirono allo sterminio. Così, a Claude Lanzmann, in Shoah, racconta la storia di uno dei treni che conduceva alla morte:

Questa è la “tabella di marcia” n.587, tipica dei treni speciali.
Il numero le dà un'idea di quanto fossero numerosi.
Sotto, Nur fur den dienstgebrauch (riservato all'uso interno), il che è molto in basso nella scala del segreto.
E che su questo documento riguardante i treni della morte non ci sia - non solo su questo ma su nessuno - la parola Geheim (segreto) mi sorprende.
Ma riflettendoci, il termine segreto avrebbe stimolato i destinatari a interrogarsi, a porre forse altre domande, avrebbe fermato la loro attenzione.
Ora, la chiave di tutta un'operazione sul piano psicologico era non nominare mai ciò che era in corso di attuazione. Non dire niente. Fare le cose. Non descriverle. Per cui: riservato all'uso interno.
E noti anche quanti sono a conoscenza di quel documento!
Bfe: stazioni. Su questa linea ne abbiamo... otto, e qui siamo a Malkinia che è naturalmente l'ultima stazione prima di Treblinka. Si hanno dunque otto destinatari per quella distanza relativamente breve, via Radom, fino al distretto di Varsavia, otto perché il treno passa per quelle otto stazioni e ciascuna di esse deve essere avvertita.
Ma perché due foglietti se ne basta uno solo?
Troviamo dunque PKR, sigla che indica un treno della morte che corre verso la sua meta, ma anche il treno vuoto dopo l'arrivo a Treblinka che ora ne riparte.
E lei sa che è vuoto grazie alla lettera L, Leer, che figura qui.
E ora, il treno lascia un ghetto in corso di liquidazione diretto a Treblinka. Parte il 30 Settembre 1942 alle 4.18 - almeno secondo l'orario - e arriva a Treblinka il mattino seguente, alle 11.24.
E' un treno molto lungo, questo spiega la sua lentezza.
Si legge: 50 G, 50 vagoni merci stipati di gente, un trasporto eccezionalmente pesante.
Ora di arrivo: 11.24, è mattino, 15.59 ora di partenza. In quel lasso di tempo il treno deve essere scaricato, ripulito, e pronto a ripartire.
E la numerazione prosegue con il treno vuoto. Parte alle 4 del pomeriggio e si dirige verso un'altra cittadina, dove raccoglie delle vittime.
E vede, sono le 3 del mattino quando riparte per Treblinka, che raggiunge l'indomani. Ma si direbbe che si tratti dello stesso treno. E' lo stesso, ma sì lo stesso, soltanto il numero cambia ogni volta. Dunque ritorna a Treblinka. Un altro lungo percorso. Arriva poi riparte per altra destinazione.
Stessa situazione, stesso viaggio.
Nuova partenza per Treblinka e infine arrivo a Czestochowa il 29 settembre.
E il cerchio si chiude.
E' ciò che si chiama una tabella di marcia.
E se fa il conto dei treni pieni...
Parliamo forse di 10.000 ebrei morti in quell'unica tabella di marcia.

Ma il trasporto degli ebrei ai campi dello sterminio comportava delle spese.

La Reichsbahn era pronta a trasportare qualsiasi carico contro pagamento. E quindi a spedire gli ebrei a Treblinka, Auschwitz, Sobibor, o altrove, purché la si pagasse un tanto a chilometro secondo i prezzi in vigore, tanti pfenning al chilometro.
Il sistema fu lo stesso per tutta la durata della guerra: metà tariffa per i minori di 10 anni, gratis per i minori di 4 anni. Si pagava solo l'andata. Solo per i guardiani era incluso il ritorno.

Claude Lanzmann:
Scusi, i bambini minori di 4 anni mandati nei campi di sterminio erano gassati gratuitamente?

Raul Hilberg:
Sì il trasporto era gratuito.
Inoltre l'ente pagante era quello che emetteva l'ordine dei treni - la Gestapo, i servizi di Eichmann - e poiché quell'ente aveva problemi di tesoreria, la Reichsbahn concesse delle tariffe di gruppo. Gli ebrei furono così trasportati a tariffa turistica. Questa si applicava a partire da un minimo di 400 persone: tariffa charter. Ma gli ebrei ne beneficiarono anche se erano meno di 400, di conseguenza a metà prezzo anche per gli adulti. Però se i vagoni erano insudiciati o danneggiati - il che non era raro - a causa dei lunghi percorsi e perché tra il 5 e il 10% dei prigionieri moriva in viaggio, veniva fatturato un supplemento per i danni.
Ma in pratica, finché c'era pagamento c'era trasporto. A volte le SS ottenevano credito e i trasporti precedevano il pagamento.
Poiché deve sapere, tutta l'operazione - per qualsiasi viaggio, di gruppo o individuale - era svolta da un'agenzia di viaggi.
Era l'agenzia dei viaggi dell'Europa centrale che si occupava della fatturazione, della fornitura dei biglietti...

C.L.:
Davvero, era la stessa agenzia?
R.H.:
Ma certamente l'agenzia di viaggi ufficiale! Spediva la gente alle camere a gas o i turisti alla loro villeggiatura preferita. Era lo stesso ufficio, lo stesso procedimento, la stessa fatturazione.

E da dove provenivano i fondi per il trasporto degli ebrei?

Questi provenivano dai patrimoni ebraici confiscati, utilizzati precisamente a questo scopo: si trattava di autofinanziamento.
Le SS, o l'esercito, confiscavano i patrimoni ebraici e con i depositi bancari finanziavano i trasporti.

C.L.:
Erano dunque gli stessi ebrei a pagare la propria morte!

R.H.:
Esattamente. Non lo dimentichi mai: non c'era uno stanziamento di bilancio per la distruzione.



Gustavo Ottolenghi
La Mappa dell'Inferno.
Tutti i luoghi di detenzione nazisti 1933-1945
e
Arbeit macht frei
Sugarco Edizioni, Carnago, 1993 e 1995

Gustavo Ottolenghi ha stilato l'impressionante elenco di tutti i luoghi di detenzione del terrore nazista. Il numero totale ammonta a 7.260.

Una prima suddivisione dei Luoghi di Detenzione (LdD) per civili (Zivilinternierungslager) istituiti dai nazisti durante il periodo dal 1933 (pressoché immediatamente dopo la loro ascesa al potere) al 1945 (termine della seconda guerra mondiale) può essere effettuata secondo un criterio temporale, in riferimento appunto a determinati avvenimenti che ebbero a scandire la storia del Terzo Reich. Questa suddivisione comprende tre periodi:

  1. dal gennaio 1933 (presa del potere da parte del Nazionalsocialismo) al settembre 1939 (inizio delle ostilità verso la Polonia e della seconda guerra mondiale);

  2. dall'ottobre 1939 al marzo 1942 (inizio della campagna per la “soluzione finale” della questione ebraica e dei lavori forzati per tutti i prigionieri civili);

  3. dall'aprile 1942 al maggio 1945 (liberazione dei LdD da parte delle Forze alleate: l'ultimo grande campo, KL Mauthausen, fu liberato il 5 maggio 1945)...

Il primo LdD definito come “campo di concentramento” (Konzentrationlager fuer schutzhaftlinge-KL) venne istituito il 22/3/1933 a Dachau in Baviera (vedi la notizia riportata dal Muencher Neueste Nachrichten e dal Voelkischer Beobachter entrambi del 21/3/1933) e fu posto sotto la giurisdizione - per la prima volta - delle SS (Schultzstaffeln), con il motto Jedem das seine (A ciascuno il suo).
Successivamente, nell'ordine, furono ufficialmente istituiti i KL di Esterwegen (8/3/1934), Sachsenhausen (12/7/1936 con motto Wahrhaftigheit Opfersinn und Liebe - Sacrificio ed Amore per la Patria), Buchenwald (10/4/1937 con motto Recht oder Unrecht, mein Vaterland - A ragione o a torto, è la mia Patria) e Flossenburg (3/5/1938).
Dal 10 novembre 1938 (Kristallnacht, Notte dei cristalli) ebbe inizio formalmente, in tutta la Germania, la campagna contro gli ebrei ed essi cominciarono ad essere sistematicamente deportati nei vari KL. (Deutschland erwache; Jude verrecke! - Germania risvegliati; Ebreo crepa!). In questi, contemporaneamente, si iniziò a trasferire, dalle prigioni comuni, i prigionieri civili più turbolenti, gli asociali e gli irregolari cosicché, in breve volgere di tempo, andò costituendosi nei KL una notevole massa di individui ben presto identificati come possibile mano d'opera coatta per le industrie tedesche, e come tale si incominciò a sfruttarla.
Durante il secondo di questi periodi mutò la filosofia di impiego dei KL, che vennero trasformati in campi atti a favorire, come deterrente, il diffondersi dell'ideologia nazista, nei territori occupati dalle Armate del Reich, imponendo sempre più e sempre più duramente il principio dello sfruttamento dei prigionieri come forza lavoro...
Nel novembre 1941 ebbe inizio l'Endloesung (Soluzione finale) del problema ebraico, con la sistematica uccisione di ebrei al momento in cui ciascuno di essi non era più in grado, per raggiunta debilitazione fisica, di svolgere lavoro produttivo per il Reich con la conseguente necessità di attrezzare campi elettivamente adatti all'eliminazione materiale di notevole quantità di individui e in breve tempo.
Durante il terzo e ultimo di questi periodi, vennero istituiti in questa ottica otto campi speciali (VL-Vernichtungslager, Campi di sterminio) e precisamente, in ordine di apertura, Maly Trostinec (nov. 1941), Jungfernof (3/12/1941), Chelmno (8/12/1941), Belzec (15/3/1942), Sobibor (7/5/1942), Treblinka T 2 (1/6/1942), Majdanek (1/11/1941) e Birkenau (Auschwitz II, 26/11/1941): essi furono allestiti al solo scopo di ottenere l'eliminazione rapida e immediata di ebrei opportunamente selezionati, di talune tribù di zingari e di prigionieri di guerra russi e slavi parimenti opportunamente selezionati (questi ultimi venivano uccisi senza osservare le Convenzioni di Ginevra in quanto esse non erano state sottoscritte dall'URSS e da taluni Paesi slavi)...
Una seconda suddivisione dei LdD può essere fatta in base ai fini che i nazisti intendevano ottenere dai prigionieri, in funzione elettivamente dei reati per i quali essi erano detenuti. Fu proprio in ossequio a questo principio che l'Oberstgruppenfuehrer SS Heinrich Heydrich, con una ormai famosa ordinanza segreta del 2/1/1941, suddivise tutti i KL in tre categorie:

  1. KL per prigionieri colpevoli di reati minori, suscettibili quindi di recupero alla società; o per prigionieri in precedenza condannati al confino (es. i KL di Dachau, Sachsenhausen, Auschwitz I);

  2. KL per prigionieri colpevoli di reati maggiori, ma ancora ricuperabili alla società, previ periodi variabili di rieducazione, con regolamenti di graduata severità (es. i KL di Flossenburg, Buchenwald, Neuengamme, Auschwitz II);

  3. KL per prigionieri irriducibili e irrecuperabili, destinati quindi alla eliminazione, dopo opportuno sfruttamento delle loro capacità come “forza lavoro” (es. i KL di Mauthausen, Stutthof).


Nel volume Arbeit macht frei, Ottolenghi elenca tutte le industrie grandi e piccole, che hanno adoperato come forza lavoro coatta i prigionieri dei Lager.



Vittorio Emanuele Giuntella
Il nazismo e i lager

Studium, Roma, 1980

Il sistema dei Lager nasce nella Germania nazista come conseguenza logica e prevedibile di un'ideologia intollerante, che porta alle estreme conseguenze la rozza prassi fascista della violenza contro gli oppositori. Ma il nazionalsocialismo non è uno dei tanti fenomeni di violenza totalitaria. Si distingue per una sua particolare visione dell'uomo, del suo destino, della società, alla base della quale vi è un'interpretazione della storia come lotta di una razza contro la minaccia di imbastardimento e di distruzione rappresentata dalle razze inferiori, e in particolare da quella ebraica. La mistica hitleriana della purezza del sangue tedesco e del pericolo mortale che l'insidia ispira l'angoscia del sentirsi assediati e di doversi difendere con ogni mezzo fino alla distruzione fisica dell'avversario.
La storia dei Lager deve essere considerata non come un'esplosione di violenza bestiale, ma come la traduzione pragmatica di una concezione del mondo. I Lager, con i loro orrori, non rappresentano dunque una deviazione a livello di esecutori, ma il frutto maturo di un'ideologia, che si attua in una politica reale. La guerra non è l'occasione, ma il momento ottimale per perfezionare una macchina, che aveva già fatto la sua prova, e farla funzionare a pieno rendimento.
La crudeltà episodica, dovuta all'iniziativa di comandanti minori e di guardiani dei campi è di scarsa rilevanza di fronte alla spietata regolamentazione “a tavolino” della sorte di milioni di uomini. Questo carattere di fredda burocratizzazione distingue la vicenda dei Lager nazisti da ogni similare esperienza storica.

Questa la tesi conclusiva del prof. Giuntella, professore di Storia Moderna e reduce dalla deportazione.



Ernst Klee/Willi Dresen/Volker Ries
Bei tempi. Lo sterminio degli ebrei raccontato da chi l'ha eseguito e da chi stava a guardare
Giuntina, Firenze, 1990

Così scrivono gli autori, introducendo la loro ricerca:

“Bei tempi” (“Schoene Zeiten”): questa la dicitura sotto la quale, nell'album dell'ultimo comandante di Treblinka, compaiono alcune foto provenienti da quel campo di sterminio, un campo dove almeno 700.000 persone sono state mandate in “gas”.
Durante le ferie universitarie un professore di medicina ricevette l'ordine di recarsi ad Auschwitz. Ciò che vide lo fece inorridire. Tuttavia nel suo diario magnifica l'ottimo cibo (“Stupendo gelato di vaniglia”). E gli si legge a più riprese: “Prelevato e fissato materiale freschissimo di fegato, milza e pancreas”. Il medico che ad Auschwitz non aveva perso l'appetito effettuava ricerche sugli effetti della fame sull'organismo umano.
“Diciamoci la verità”, afferma un poliziotto a proposito di colleghi che avevano partecipato a massacri di ebrei, “per loro era una festa, c'era da prendere oro e denaro... Nel corso di azioni contro gli ebrei c'era sempre da ricavarne qualcosa”.
Compassione, gli esecutori la provavano per se stessi. Quando a Babi-Yar furono fucilati 33771 ebrei in due giorni, uno dei fucilatori si espresse così: “Non ci si può immaginare quale forza nervosa ciò abbia richiesto...”.
Che sorta di uomini erano coloro che trovavano normale uccidere come lavoro quotidiano? Erano uomini del tutto normali. Però essi potevano comportarsi come “Herrenmenschen” (“Dominatori”), decidevano della vita e della morte, avevano il potere. Per loro si schiudevano impensate possibilità di avanzamento. Potevano avere più paga, permessi, vantaggi (per esempio alcool e sigarette). E, nonostante il loro sentimento di potenza, lo Stato toglieva loro premurosamente ogni responsabilità personale.
Certo, c'erano isolate proteste da parte della Wehrmacht. Così il comandante in capo dell'Est deplorava lo scatenarsi di istinti bestiali e patologici. Alcuni autori delle fucilazioni crollavano, altri si suicidavano (per risparmiare i fucilatori, in alcuni commando si uccideva con “camion a gas”, cosa che aumentava ancora la sofferenza delle vittime). Ci furono persino uomini delle SS e poliziotti che si rifiutarono di eseguire ordini di uccisioni. Nonostante tutta la propaganda, continuavano a vedere negli ebrei uomini come loro, non degli insetti immondi, non riuscivano a sparare su persone inermi ed innocenti. Vennero per questo bollati come vigliacchi e deboli, per ordine di Himmler vennero trasferiti ad altre unità o sostituiti, ma, contrariamente a tutte le leggende nessuno fu fucilato o rinchiuso in campo di concentramento per essersi rifiutato di uccidere degli ebrei.
Più volte le pubbliche esecuzioni di massa diventavano delle feste popolari. A Kovno, in Lituania, gli abitanti del paese, fra cui madri con i loro bambini, applaudivano ogni volta che un ebreo veniva ucciso. Si udivano ripetute grida di approvazione e risate. Soldati tedeschi assistevano e fotografavano. Il comando d'armata sapeva e non intervenne. Tal volta soldati tedeschi si sobbarcarono a lunghi percorsi per accaparrarsi i posti migliori alla cruenta “festa della fucilazione”. In alcuni casi si può già parlare di turismo da esecuzione capitale. Il libro documenta che le uccisioni in massa vennero praticate per lungo tempo con la massima pubblicità.
Il 20 gennaio 1942 rappresentanti di uffici ministeriali, delle SS e della polizia si incontrarono in una villa del Groser Wannsee, a Berlino. Tema della riunione: la soluzione finale della questione ebraica. La conferenza del Wansee aveva il compito di informare i singoli uffici circa le decisioni già prese e di organizzare il proseguimento dello sterminio in misura ancora maggiore. Infatti lo sterminio veniva attuato già da tempo: le Einsatzgruppen e gli Einsatzkommandos della polizia di sicurezza e del servizio di sicurezza facevano strage fra la popolazione ebraica nei territori occupati.
Dalla metà di ottobre del 1941 parecchie decine di migliaia di ebrei del territorio del Reich erano stati deportati nei ghetti polacchi. Molti ebrei che, provenendo dal territorio del Reich giunsero nelle città di Kovno, Riga e Minsk, furono uccisi subito dopo il loro arrivo. A Chelmno funzionavano già i Gaswagen in cui le persone morivano atrocemente soffocate. Nel lager di Auschwitz si era da tempo iniziato a usare il Zyclon B, mentre si stava costruendo il campo di sterminio di Belzec.
Himmler aveva incaricato della “soluzione finale” nel governatorato generale della Polonia il comandante delle SS e della polizia per il distretto di Lublino, l'SS-Brigadefuhrer Odilo Globocnik. Come denominazione di copertura fu scelto in seguito il nome “Aktion Reinhard”, evidentemente in memoria di Reinhard Heydrich, morto in seguito a un attentato nel giugno del 1942 (Heydrich era il capo del Reichssicherheitshauptamt). Tuttavia, un ininterrotto sterminio degli ebrei era impossibile se effettuato con i metodi usuali - fucilazioni di massa o Gaswagen. Perciò Himmler si servì di un procedimento di assassinio un pò diverso, che era stato applicato negli anni 1940 e 1941 nel progetto eutanasia, cioè l'assassinio in massa di malati psichici, handicappati e altri “pesi morti”. Se i malati, nei “centri per l'eutanasia” di Grafeneck, Brandenburg, Bernburg; Hadamar, Sonnenstein e Hartheim erano stati uccisi con l'ossido di carbonio proveniente dalle bombole della IG-Farben, ora venivano usati i gas di scarico dei motori diesel.
Furono creati tre campi di sterminio: Belzec (nei pressi Leopoli), Sobibor (vicino alla città di Wlodawa) e Treblinka (vicino a Malkinia). Belzec iniziò le gassazioni di massa nel marzo del 1942, Sobibor in maggio e Treblinka in luglio. I posti chiave vennero coperti con personale che aveva precedentemente collaborato all'eutanasia. L'impianto di sterminio a Belzec termina nel dicembre del 1942, a Treblinka e a Sobibor nell'autunno del 1943, dopo che in agosto nel primo campo e in ottobre nel secondo si erano verificate insurrezioni dei “lavoratori ebrei”. Quanti collaboravano alla “Aktion Reinhard” vennero in seguito a ciò trasferiti nel settore costiero adriatico, dove contribuirono a deportare ad Auschwitz gli ebrei locali. A quel tempo Auschwitz era un gigantesco centro di assassinio.



Claude Lanzmann
Shoah
Rizzoli, Milano, 1987

Trascrizione di tutte le testimonianze del film Shoah di Claude Lanzmann (diviso in due parti). Nel film Lanzmann intervista sopravvissuti, testimoni ed aguzzini e, mentre fa ascoltare la loro voce, mostra lo stato odierno dei luoghi di cui si parla.
Fra le altre testimonianze, nel primo dei due film, il racconto di Simon Srebnik e di Michael Podchlebnik, gli unici due sopravvissuti del campo di Chelmno, la testimonianza di Richard Glazar e di Abraham Bomba, due del piccolo gruppo che riuscì, durante la rivolta di Treblinka, a danneggiare il campo fino a renderlo inutilizzabile e a fuggire, l'intervista a Franz Suchomel, Unterscharfuhrer SS di Treblinka, la storia di Rudolf Vrba, evaso da Auschwitz, per salvarsi e per portare notizie in Occidente sui campi, la vita di Filip Muller, uno dei pochissimi sopravvissuti alle cinque liquidazioni del Sonderkommando del crematorio V di Auschwitz, l'ultimo che abbia continuato a funzionare, dopo la liquidazione degli altri quattro, con la distruzione dei rispettivi crematori.
Nel secondo film stralci di racconto sulla storia del ghetto di Varsavia, fra cui la testimonianza di Jan Karski, che, per la prima volta della sua vita, accetta di tornare a raccontare delle sue due visite al ghetto, di cui riferì agli Alleati, la allucinante versione dei fatti del dott. Franz Grassler, assistente del dott. Auerswald, commissario nazista del ghetto di Varsavia, ed, infine, il racconto di Yitzhak Zuckermann , comandante in seconda dell'Organizzazione Ebraica di combattimento, sopravvissuto grazie alla rivolta nel ghetto.
Rudolf Vrba, evaso da Auschwitz, può ancora raccontare l'agonia degli ebrei del ghetto di Theresienstadt, forse tenuti in vita dai tedeschi in vista di una ispezione della Croce Rossa.


Rudolf Vrba:
Quegli ebrei di Theresienstadt, il ghetto vicino a Praga, furono sistemati in una parte riservata del campo chiamata Bauabschnitt IIB (BIIB). Allora ero incaricato del registro dei detenuti del campo (BIIA).
BIIA e BIIB erano separati soltanto da un recinto elettrificato, insuperabile, ma attraverso il quale si poteva parlare. Al mattino esaminai la situazione. C'erano delle particolarità sorprendenti: le famiglie - uomini, donne e bambini - erano rimaste insieme, e nessuno era stato gassato. Avevano tenuto con sè i loro bagagli, non erano rapati, avevano lasciato loro i capelli.
La loro situazione era dunque diversa da tutto ciò che avevo visti fino ad allora.
Non capivo, nessuno capiva. Ma nell'ufficio centrale di registrazione si sapeva che tutta quella gente aveva una tessera speciale con la scritta seguente: SB con quarantena di sei mesi.
Conoscevano il significato di SB, Sonderbehandlung, “trattamento speciale” cioè morte per gas. E conoscevamo anche la quarantena!
Ma nella nostra mente trovavamo assurdo tenere qualcuno nel campo per sei mesi per poi gassarlo.
Di conseguenza ci chiedevamo se SB, “trattamento speciale”, significasse sempre la morte per gas oppure se non avesse un doppio significato.
I sei mesi scadevano il 7 marzo.

Claude Lanzmann
:
Li nutrivano meglio?

Rudolf Vrba
:
Certamente, erano meglio nutriti, meglio trattati. Le condizioni, sa, erano così buone che in sei mesi ne morì solo un quarto, vecchi e bambini compresi.
Per Auschwitz era eccezionale! E alle SS piaceva andare a teatro dei bambini, piaceva giocare con loro: erano nate delle amicizie...
Si rivelò una personalità eccezionale, un uomo di nome Freddy Hirsch. Era un ebreo tedesco, che era emigrato a Praga. Dimostrava un notevole interesse per l'educazione dei ragazzi che si trovavano là.
Conosceva il nome di ognuno, e per la sua rettitudine e la sua dignità esemplare divenne in certo modo il capo spirituale del campo delle famiglie...
L'indomani la Resistenza mi confermò che l'esecuzione era certa: il Sonderkommando aveva ricevuto il carbone per bruciarli, sapevano esattamente quanti sarebbero stati gassati, chi doveva esserlo...
Era tutto pianificato! Ripresi contatto con Freddy e gli spiegai che non c'era più dubbio: il suo trasporto, lui compreso, sarebbe stato gassato entro quarantott'ore.
Allora cominciò a tormentarsi. Disse: che ne sarà dei bambini se noi ci rivoltiamo? Era molto attaccato a loro.

Claude Lanzmann:
Quanti bambini?

Rudolf Vrba:
Un centinaio...
Mi disse dunque: “ se noi ci rivoltiamo che ne sarà dei bambini? Chi si prenderà cura di loro?”.
Risposi: ”Una cosa è sicura, per loro non c'è via d'uscita in ogni caso moriranno. E' certo. Non possiamo farci niente ma questo invece dipende da noi: chi perirà con loro? Quante SS moriranno? Fino a che punto riusciremo a bloccare il meccanismo? Senza parlare della possibilità per qualcuno di evadere nel corso del combattimento, di tentare la fuga perché, una volta scatenata la sommossa certe armi possono cambiare di mano”.
E spiegai a Freddy che non c'era una possibilità, per lui o per chiunque altro dei suoi, per quanto ne sapevamo, di sopravvivere oltre le quarantott'ore.

Claude Lanzmann:
Dove avveniva questo colloquio?

Rudolf Vrba:
Nella mia stanza, nel blocco centrale. Gli dissi pure che era indispensabile un capo e che era stato scelto lui.
Mi rispose che capiva la situazione, che gli era impossibile decidere per via dei bambini: non vedeva come avrebbe potuto abbandonarli alla loro sorte. Era il loro “padre”. Non aveva che trent'anni. Ma il suo rapporto con i bambini era molto profondo.
Un'ora dopo, al mio ritorno, lo trovai disteso sul mio letto, agonizzante. Il suo viso era cianotico, la bocca bianca di schiuma. Capii che si era avvelenato.
Dopo il suicidio di Freddy Hirsch tutto andò molto velocemente. Per prima cosa avvertii gli altri, come avevo avvertito Hirsch. La sera stessa finirono nella camera a gas. Furono caricati sul camion.
Tutti sapevano. Tutti si comportarono molto bene. Tuttavia un dubbio... fino alla fine… Infatti ancora una volta le SS avevano assicurato: ”Heydebreck!”. Se lasciavano il campo i camion dovevano andare a destra, se svoltavano a sinistra, c'era un solo traguardo, a cinquecento metri: il crematorio.



Yitzhak Arad (ed.)
The pictorial history of the holocaust
MacMillan, New York, 1994

Il libro è la più completa pubblicazione, attualmente disponibile nelle librerie, del materiale fotografico testimoniante l'aggravarsi della persecuzione antiebraica dall'avvento al potere di Hitler, attraverso la costruzione dei campi di sterminio, fino alla liberazione dei campi e al conseguente viaggio di molti degli ex-internati, per raggiungere la Palestina e per fondare lo stato di Israele.



Yad Vashem
Catalogo dell'Art Museum ed Opuscolo di presentazione del memoriale

Yad Vashem, istituto commemorativo dei martiri e degli eroi dell'olocausto è il più grande centro mondiale di studi sullo sterminio ebraico.
Possiede 50 milioni di documenti e testimonianze dirette sulla Shoah. Nella Sala dei nomi, conserva circa 3 milioni e mezzo di nominativi di vittime accertate dello sterminio, con i dati della loro storia.
Nel grande parco di Yad Vashem si possono visitare anche il Museo storico ed il Museo d'arte con disegni realizzati all'interno dei campi dagli internati od alla loro liberazione.
Yad Vashem è citazione di Isaia 55,5: “io donerò loro, nella mia casa e nei miei muri, un posto ed un nome... che non perirà mai”.



Christoph U. Schminck-Gustavus
Mal di casa. Un ragazzo davanti ai giudici
Bollati Boringhieri, Torino, 1994

Quando una piccola storia le riassume tutte.

Storia di Walerjan Wrobel, di 16 anni, polacco, deportato insieme ad oltre due milioni di polacchi nei territori del Reich, come forza lavoro. Dopo un primo tentativo di fuga non riuscito, dà fuoco ad un fienile, nella speranza di essere rispedito a casa, come punizione. Viene invece considerato un sabotatore della volontà di resistenza del popolo tedesco.
Compie il “reato” il 29 aprile '41. Il 30 dicembre '41 viene promulgata una legge speciale di guerra, che prevede la pena di morte per qualsiasi delitto compiuto da ex polacchi (la cosiddetta Polenstrafrechtsverordnung). Viene applicata retroattivamente, assurdo giuridico nell'assurdo totale, rifiutata la richiesta di grazia e Wrobel viene ucciso, tramite impiccagione.
I magistrati del suo processo hanno continuato la loro carriera giuridica nella Germania del dopoguerra e si sono rifiutati di incontrare l'autore di questo libro.



Sylvie Graffard e Léo Tristan
I Bibelforscher e il nazismo (1933-1945)
Editions Tirésias-Michel Reynaud, Parigi, 1994

Il libro studia i documenti e le testimonianze relative ai Testimoni di Geova (Bibelforscher o studenti della Bibbia), nei campi di concentramento nazisti. Erano perseguitati per il loro rifiuto di servire lo Stato.
Nei Lager portavano come distintivo un triangolo color malva/viola.

“Circa novanta Bibelforscher dichiararono di non voler più eseguire lavori in rapporto con la guerra”. Ciò avvenne a Ravensbruck all'inizio del 1942. Le Bibelforscherinner smisero di lavorare, sia quelle dei Kommando orticoltura, sia quelle del Kommando allevamento d'angora, perché “la lana dei conigli era utilizzata per l'esercito... e la verdura era destinata ad un ospedale militare”. Per tre giorni e tre notti, restarono in piedi nel cortile del Bunker, poi “furono messe nel Bunker, al buio”. Per quaranta giorni. “Le Bibelforscherinnen, molte delle quali avevano fra cinquanta e sessant'anni, ricevettero ognuna venticinque bastonate per tre volte”. Berlino aveva dato l'ordine che ogni rifiuto fosse punito con settantacinque bastonate. “Al termine dei quaranta giorni le vidi nei bagni. Erano scheletri ambulanti, coperte di lividi”. Siccome si ostinavano a non volersi presentare all'appello, ve le portavano con la forza.

Gli autori annunciano anche una loro prossima pubblicazione dal titolo I triangoli rosa, sull'internamento degli omosessuali nei Lager.



Viktor E. Frankl
Uno psicologo nei lager
Edizioni Aries, Milano, 1995

Viktor Frankl, ebreo austriaco, psicoanalista avviato alla carriera universitaria, vede svanire i suoi sogni per la persecuzione nazista. Deportato a Theresienstadt, Auschwitz, Kaufering e Turkheim (dipendenza di Dachau), riesce a sopravvivere. L'esperienza atroce del Lager lo porta a valorizzare il bisogno di senso e di futuro che caratterizza la sua psicologia.

Una volta vidi, in maniera drammatica, il nesso essenziale tra il “lasciarsi andare” rinunciando a se stessi e la perdita dell'esperienza del futuro. Il mio capoposto, uno straniero, un tempo compositore e librettista famoso, mi confidò quanto segue: ”Tu, dottore, vorrei raccontarti una cosa. Qualche tempo fa ho avuto un sogno strano. Una voce m'ha detto che potevo esprimere un desiderio - bastava che dicessi quel che volevo sapere, avrebbe risposto a tutte le mie domande. E sai che cosa ho domandato? Vorrei sapere quando finirà la guerra per me! Tu lo sai che cosa intendo, dottore: per me! Cioè, volevo sapere quando saremo stati liberati noi, il nostro Lager, quando finiranno le nostre sofferenze”. “E quando hai avuto questo sogno?” gli chiesi. “Nel febbraio 1945” - rispose (eravamo ai primi di marzo). “E che cosa t'ha detto la voce del sogno?”, chiesi ancora. Con voce bassa, misteriosa, mi sussurrò: “il trenta marzo...”.
Quando F., questo mio compagno, mi raccontò il suo sogno, era ancora pieno di speranza, credeva che la voce del suo sogno avrebbe avuto ragione. La data della profezia s'avvicinava sempre più, e le notizie sulle vicende belliche pervenute nel Lager facevano sembrare meno probabile che il fronte ci potesse veramente portare, ancora in quel mese di marzo, la liberazione. Subentrò allora qualcosa di nuovo. Il 29 marzo, all'improvviso, F. ebbe una febbre altissima. Il 30 marzo, quindi, nel giorno in cui, secondo la profezia, la guerra sarebbe finita, e con ciò il dolore “per lui”, F. prese a delirare e infine perse coscienza... Il 31 marzo era morto. Era morto di tifo petecchiale.
Chi conosce l'intima relazione tra lo stato d'animo d'un uomo, e pertanto sentimenti come coraggio e speranza, disperazione e demoralizzazione da un lato e, dall'altro, l'immunità dell'organismo, può comprendere le mortali conseguenze di un'improvvisa disperazione e depressione. La causa intima della morte di F. fu la sua grave delusione. Egli attendeva un certo giorno, nel quale, lo sapeva, sarebbe stato libero: ma non andò così e subito venne meno la resistenza del suo organismo contro il tifo petecchiale che stava covando. La sua fede nel futuro e la sua volontà di futuro erano paralizzate; il suo organismo soggiacque alla malattia e così, infine, la voce del suo sogno ebbe ragione.



Bruno Bettelheim
Sopravvivere
Feltrinelli, Milano, 1991

Lo studioso di psicoanalisi Bruno Bettelheim, insieme a migliaia di ebrei austriaci, fu arrestato e deportato nei campi di concentramento, nella primavera del 1938, subito dopo l'annessione dell'Austria.

Durante il tragitto in treno da Vienna a Dachau, che durò una notte e buona parte del giorno successivo, tutti i prigionieri furono gravemente maltrattati. Dei 700-800 deportati di quel convoglio, una ventina vennero uccisi durante la notte, molti riportarono gravi ferite, e quasi nessuno rimase illeso. Al loro confronto, posso dirmi relativamente fortunato a non aver subito lesioni irreversibili, benché avessi ricevuto diversi violenti colpi in testa e altre ferite minori. Gli occhiali cerchiati di corno che per caso portavo al momento dell'arresto denunciavano, agli occhi delle SS, il fatto che ero un intellettuale, cosa che le irritava sempre particolarmente; di qui probabilmente i colpi alla testa, il primo mandò in frantumi gli occhiali.
All'arrivo a Dachau, le mie condizioni erano abbastanza gravi (soprattutto per l'emorragia subita) per cui fui incluso dal prigioniero responsabile della mia baracca (il cosiddetto Blockaltester) tra i pochi da inviare all'ambulatorio del campo. Lì l'infermiere delle SS mi scelse come uno dei prigionieri da far visitare dal medico, che mi concesse alcuni giorni di riposo. Siccome i miei occhiali si erano rotti, e senza gli occhiali sono praticamente cieco, il medico mi permise anche di scrivere a casa e farmene mandare un nuovo paio. Capita la lezione, ebbi cura di richiederne un paio del più semplice e più scadente. Anche così, tuttavia, trovai che era meglio toglierli ogni qualvolta c'era un'ispezione delle SS; era molto più sicuro. Questa non è che una delle molte precauzioni che i prigionieri dovevano imparare a prendere se volevano aumentare le probabilità di sopravvivenza.

Fu fra i pochi fortunati ad essere rilasciato, negli anni 1938-1939.
Gli fu posta la condizione di trasferire tutti gli averi ai nazisti e di lasciare immediatamente la Germania. Arrivò così negli Stati Uniti. Lì scrisse Comportamento individuale e di massa in situazione estreme, un articolo scientifico di psicologia che documentava ciò che avveniva nei campi. Solo nell'ottobre 1943 Gordon Allport accettò di pubblicarlo nel Journal of Abnormal and Social Psychology.

All'epoca, negli Stati Uniti non si sapeva nulla dei campi di concentramento, e i miei racconti erano accolti con la più assoluta incredulità. Prima dell'entrata in guerra degli Stati Uniti, la gente non voleva credere che i tedeschi potessero commettere simili atrocità. Ero accusato di lasciarmi trasportare dal mio odio per i nazisti, di dare voce a distorsioni paranoidi. Fui ammonito di non diffondere simili falsità. Mi si contestavano due colpe opposte nel medesimo tempo: di dipingere le SS a colori troppo foschi, e di accordare loro troppo credito, descrivendole come individui così intelligenti da ideare e mettere sistematicamente in atto un sistema tanto diabolico, quando era risaputo che non erano altro che dei pazzi e degli stupidi.

In questo studio denuncia l'obiettivo che il nazismo vuole raggiungere con il sistema concentrazionario.

Possiamo dire che i fini a cui la Gestapo voleva giungere per mezzo dei campi di concentramento erano di varia natura; chi scrive ne ha individuati alcuni, diversi ma intimamente collegati: spezzare i prigionieri come persone, per farne una massa sottomessa da cui non potesse scaturire alcuna resistenza individuale o collettiva; diffondere il terrore tra il resto della popolazione, usando i prigionieri come ostaggi e come esempio di ciò che sarebbe successo agli oppositori del regime; costituire un campo di addestramento per i membri della Gestapo, dove potessero imparare a perdere ogni caratteristica di umanità e ad acquisire le tecniche più efficaci per spezzare la resistenza di una popolazione civile inerme; fornire alla Gestapo un laboratorio sperimentale in cui studiare i sistemi più efficaci per spezzare ogni resistenza nei civili, nonché i minimi requisiti nutrizionali, igienici e sanitari necessari per mantenere in vita e tuttavia in grado di compiere lavori pesanti degli esseri umani dove la minaccia della punizione fosse l'unico incentivo, e in cui studiare altresì le variazioni del rendimento quando non sia concesso del tempo per fare altro se non un lavoro massacrante e l'individuo sia separato dai familiari.

Pur nella lucidità dell'analisi, non riesce a rendersi conto che il fine ultimo è l'eliminazione fisica del popolo ebraico. Ancora nel 1939, data del suo rilascio, i nazisti riescono a nascondere questo, anche a chi è stato internato nei campi. La decisione della soluzione finale, la endloesung, viene presa al principio del 1941, nella cosiddetta conferenza di Wansee. La terminologia asettica nazista maschera la realtà dello sterminio totale della razza ebraica.
A guerra finita così Bettelheim descrive la sindrome del sopravvissuto, la sindrome di chi, pur avendo salva la vita fisica, ha visto distrutta, dall'esperienza del Lager, l'identità personale.

Lo stato d'animo è simile a quello delle sindromi depressive o paranoidi. Tra l'individuo psicotico e quello affetto dalla sindrome del sopravvissuto esiste tuttavia una differenza fondamentale, in quanto il primo crolla principalmente sotto la spinta di tensioni interne, e non per essere stato esposto a un ambiente eccezionalmente distruttivo. Lo psicotico ha un crollo perché ha investito certe figure significative del suo ambiente del potere di distruggere la sua persona e la sua integrazione. Perciò, mentre la convinzione dello psicotico che esistano persone onnipotenti che dominano la sua vita e meditano di distruggerlo è delirante, il prigioniero dei campi di concentramento ha dato una valutazione corretta della situazione, quando ha osservato che le persone che detenevano un potere assoluto su di lui avevano effettivamente distrutto altri come lui e intendevano distruggere lui pure. La differenza decisiva tra il prigioniero e lo psicotico consiste dunque nel fatto che il primo ha dato una valutazione delirante. Entrambi però hanno vissuto l'integrazione raggiunta come inadatta a proteggerli, e entrambi sono incapaci di costruirsene una nuova.



Deborah Dwork
Nascere con la stella. I bambini ebrei nell'Europa nazista
Marsilio Editore, Venezia, 1994

L'autrice descrive così la doppia finalità del suo studio:

L'intenzione presente in ogni capitolo è far luce e analizzare i fatti comuni, di tutti i giorni: l'istruzione e le occupazioni, come si procuravano abiti, cibo, combustibile, chi erano i loro compagni, se erano o meno separati da fratelli, sorelle, genitori, chi (se vi era qualcuno) ne aveva la responsabilità... Scrivendo sotto l'incubo di quella catastrofe, è forse opportuno sottolineare che sebbene la stragrande maggioranza (quasi il 90%) delle persone oggetto di questo studio sia stata uccisa, non parleremo della macchina di sterminio ma delle circostanze e delle condizioni della loro vita...
E' doveroso ricordare che mentre si è parlato molto della resistenza armata, i gruppi di assistenza ai giovani non sono mai stati inclusi nella storia ufficiale, riconosciuta e legittimata; molti di quei resistenti erano donne che dopo la guerra scomparvero dalla vita pubblica, non cercarono pubblicità e lasciarono scarse testimonianze del loro lavoro. Ricostruire la storia delle organizzazioni di salvezza e soccorso, soggetto troppo a lungo rimasto in ombra, riconoscere l'intelligenza e il coraggio di chi vi prese parte, è il secondo scopo di questo libro...

L'analisi della persecuzione dei bambini e degli adolescenti conduce ad una conclusione finale:

Molte asserzioni stereotipe cui viene fatto comunemente ricorso in relazione al giudeocidio si spogliano di pretese e validità per rivelare la loro vera natura; null'altro che ipocrisie di comodo. Affermazioni come gli ebrei stavano tra di loro, gli ebrei non si assimilavano alla cultura generale, gli ebrei erano un'evidente presenza di sinistra, gli ebrei ostentavano la loro ricchezza, gli ebrei erano in proporzione eccessiva nelle attività bancarie, nelle professioni e nelle arti non sono che pretesti mascherati per giustificare e in qualche modo trovare una motivazione al genocidio. Ma la persecuzione dei giovani elimina in blocco queste assurdità. Se anche quei pretesti avessero avuto senso -e non lo avevano- restano assurdi e incongrui per legittimare il maltrattamento contro dei giovani. Quando la vittima era un bambino, chi lo vedeva portar via dalle SS, dalla polizia francese o dai gendarmi ungheresi, non poteva certo dire a se stesso per spiegare su basi razionali ciò cui aveva assistito: mi domando cosa ha fatto per provocare le autorità, poiché è evidente che un neonato o un bambino di 3 o 6 anni non potrebbe in alcun modo averlo fatto.



Sebastiana Papa
I bambini della Shoah
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1995

L'autrice, ispirandosi ad un lavoro analogo dell'istituto Yad Vashem, raccoglie, in forma antologica, testimonianze e foto riguardanti soprattutto i bambini della shoah.



Wolfgang Sofsky
L'ordine del terrore
Laterza, Bari, 1995

Sofsky, studioso tedesco, analizza la vita e la struttura dei Lager, da un punto di vista sociologico.
L'orario di una giornata in un campo di concentramento ne fa comprendere chiaramente le finalità:

La vita quotidiana del lager era, infatti, regolata da uno schema fisso. la sveglia, annunciata dal suono delle campane, da fischi o da sirene, avveniva alle 4 o alle 4:30 di mattina (in inverno era normalmente spostata in avanti di un'ora), con i kapò delle baracche pronti a maltrattare chiunque si attardasse troppo nelle cuccette. In tutta fretta bisognava rifare i letti, pulire la baracca, vestirsi, fare colazione e passare dalle latrine. Dal momento della sveglia fino allo schieramento per l'appello mattutino, i prigionieri disponevano soltanto di mezz'ora - 45 minuti nel migliore dei casi -, e benché in questo lasso di tempo restassero ancora soltanto in compagnia dei loro simili, i blocchi si riempivano di concitazione, di grida di rimprovero e di incitamenti a sbrigarsi. Bisognava a ogni costo lasciare la baracca in ordine e presentarsi al completo all'appello generale. Chi si attardava veniva picchiato o redarguito dai suoi compagni: la giornata, dunque, iniziava con foga brutale prima ancora che le SS facessero la loro comparsa.
Alla frenesia iniziale seguiva una lunga pausa di attesa. I prigionieri, suddivisi per baracca, arrivavano a passo di marcia nella piazza dell'appello e qui aspettavano l'arrivo delle SS. I capi-baracca eseguivano il conteggio dei presenti e riferivano il risultato nella fureria del settore-prigionieri, che poi passava le cifre totali ai capi-rapporto delle SS. I responsabili di blocco delle SS rifacevano il conto, quindi il capo-rapporto confrontava i due risultati e verificava gli eventuali errori - nel totale dovevano rientrare anche i reclusi deceduti durante la notte o trasferiti in infermeria. Anche quando l'organizzazione della trasmissione dei dati funzionava bene, questa duplice procedura burocratica durava non meno di mezz'ora. Spesso, però, il suo svolgimento veniva ritardato o interrotto da qualche azione violenta dei sorveglianti. A volte le SS non rispettavano l'orario da loro stesse stabilito, facendosi attendere non poco, e allora i plotoni dei prigionieri, illuminati dai riflettori, dovevano restare immobili sfidando le intemperie, finché non arrivavano i signori del lager. L'ingresso in scena di questi ultimi faceva parte di un cerimoniale di potere attentamente calcolato, poiché far aspettare migliaia di persone è un segno di assoluta superiorità. Comunque fosse, le SS avevano sempre del tempo a disposizione: dato che i luoghi di lavoro potevano essere raggiunti solo dopo che faceva chiaro, nei mesi invernali il rito dell'appello poteva trascinarsi per più di un'ora e mezza, fino a che gli altoparlanti non impartivano il comando di formare le squadre e di mettersi in marcia. Il collegamento dell'inizio dell'attività lavorativa con le prime luci del mattino rappresentava l'unica concessione fatta dal regime concentrazionario al tempo naturale.

Dopo l'appello le squadre partivano per il lavoro forzato:

Nella maggior parte dei casi la “linea maggiore di sentinella” non si estendeva per un raggio superiore ai 200 metri, ma qualche volta i luoghi di lavoro distavano diversi chilometri dal settore delle baracche. Percorrere queste distanze con i rozzi zoccoli di legno in dotazione ai prigionieri era una vera tortura. Le calzature provocavano ferite sanguinose, infiammazioni e bolle, i piedi sembravano diventare pesi di piombo. Ciò nonostante bisognava cercare di non restare ultimi, e così molti preferivano marciare a piedi nudi o avvolti in stracci, anche quando si sprofondava nel fango fino alle caviglie...
Fino al termine della giornata lavorativa, che d'inverno si concludeva al tramonto, di estate alle 17 o alle 18, l'attività procedeva senza pause ulteriori, sicché il tempo effettivo di lavoro finiva con l'ammontare in inverno a 8-9 ore, negli altri mesi a circa 11 - nei campi distaccati dove si lavorava a turni alternati si poteva arrivare persino a 12 ore...
La giornata lavorativa sembrava non finire mai. Eccetto alcuni “notabili”, nessun prigioniero poteva portare l'orologio, e così soltanto il personale di guardia sapeva quanto tempo era trascorso e quanto ne restava, mentre ai condannati che lavoravano all'aperto non restava altra possibilità che calcolare l'ora dalla posizione del sole...
L'unico rimedio a questa situazione era costruirsi nella propria mente un sistema di riferimento basato sul calcolo delle distanze temporali e spaziali: ad esempio, se uno sapeva che un determinato tragitto durava 10 minuti, dal numero di volte che l'aveva percorso poteva calcolare quanto tempo era passato e quanti tragitti gli restavano ancora da fare. La durata veniva così suddivisa in intervalli uguali, che tuttavia trascorrevano a diverse velocità. Queste strategie di difesa non potevano certo cancellare l'incubo della durata, ma ne attenuavano l'angoscia e creavano la consapevolezza di essere riusciti a superare una certa fase.

Al ritorno il terribile appello serale:

Tuttavia l'appello serale era molto più che un semplice rito burocratico, in quanto rappresentava il momento culminante della giornata organizzata dal potere. La comunità dei prigionieri era riunita al gran completo, con migliaia di persone che stavano schierate in formazione davanti a un nutrito manipolo di SS, cui dovevano tributare il loro rispetto. Persino i morti e i moribondi dovevano presenziare all'appello, stesi per terra accanto alle rispettive squadre di appartenenza. Il fatto che i morti potevano essere portati all'obitorio soltanto dopo l'appello, non rispondeva soltanto a un'esigenza di precisione contabile, ma serviva anche a far vedere ai prigionieri quanti compagni erano deceduti durante la giornata, e a far capire loro di essere destinati alla stessa fine. Quelli che crollavano durante l'appello venivano messi subito vicino ai morti, e nonostante fossero in schiacciante maggioranza rispetto ai loro aguzzini, i detenuti assistevano impotenti a questo spettacolo. Essi formavano un'entità collettiva senza coesione interna, e l'appello serale aveva proprio lo scopo di inscenare questo contrasto mortale fra la massa impotente e la sovranità assoluta...
Diversamente dagli altri appelli, quello serale non aveva un limite di durata, e ogni suo minuto in più significava per i prigionieri meno tempo a disposizione per la cena, il riposo e il sonno. Il prolungamento dell'appello diventava quindi una sanzione temporale, una forma di punizione che usava come mezzo il tempo. Quando il conteggio rivelava l'assenza di un prigioniero, aveva inizio una procedura interminabile: ogni numero veniva chiamato ad alta voce, con gli interpreti che leggevano i nomi stranieri in tutte le lingue parlate nel campo di concentramento. Se si sospettava una fuga, venivano composte subito delle squadre di ricerca, che ispezionavano prima di tutto l'area compresa nella “linea maggiore di sentinella”. Il più delle volte, tuttavia, non si trattava di tentativi di fuga, ma di persone crollate in qualche angolo per la stanchezza e sprofondate nel sonno in una condotta, nel porcile o sotto il pavimento di una baracca. Se scoperti, i colpevoli venivano picchiati a sangue dalle SS o dai Kapò, e quindi trascinati nella piazza dell'appello e sottoposti a nuove percosse o impiccati come “evasi”. Durante la ricerca tutti gli altri dovevano restare fermi, con la speranza che le SS trovassero l'assente il più presto possibile, per non dover attendere troppo a lungo. L'uso punitivo del tempo metteva la comunità dei prigionieri contro il singolo che rischiava di provocare una sanzione collettiva, e così tutti avevano interesse a che nessuno fuggisse o mancasse.
Nei campi-madre più grandi un normale appello serale durava in media un'ora e tre quarti, due ore, ma anche di più quando si eseguivano punizioni pubbliche o impiccagioni. A volte, poi, l'appello veniva prolungato fino a notte tarda e trasformato in una vera e propria pratica di annientamento: nelle fredde notti invernali le SS facevano stare in piedi sulla piazza i prigionieri, finché molti non restavano assiderati o crollavano a terra esausti. Così, non solo i nuovi arrivi alla porta, ma tutta la comunità dei detenuti era sottoposta alla tortura dello “stare in piedi”, attraverso la quale la morte non arrivava a colpi di manganello o di fucile, ma con il lento incedere del tempo. Le SS usavano questo sistema di pratica quotidiana di sterminio: il potere assoluto ha sempre tempo e sempre se ne può concedere, sicché, mentre i prigionieri se ne stavano lì fermi, gli aguzzini potevano darsi il cambio e fare un salto allo spaccio. Per le vittime, invece, ogni minuto dell'appello voleva dire fame, sfinimento, malattia e morte.



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