Rassegna libraria Voci dalla Shoah

Capitolo 11 - I Processi

Christopher R. Browing
Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia
Einaudi, Torino, 1995

L'autore, stimolato dalle ricerche dello storico Raul Hilberg, studia la storia del Battaglione 101, chiamato all'improvviso a recarsi in Polonia per la liquidazione dei ghetti. Il battaglione era composto da riservisti, non da soldati nè da poliziotti, quindi da uomini meno militarizzati, più comuni, più simili a quelli che la guerra aveva lasciato nelle loro case in Germania, senza il comando di recarsi al fronte.
Le fonti del libro sono

Le indagini ed il procedimento legale nei confronti del Battaglione 101 che durarono dieci anni (dal 1962 al 1972) e furono condotti dallo Staatsanwaltschaft (Ufficio della Procura statale) di Amburgo, uno degli enti tedeschi più efficienti e zelanti nelle investigazioni sui crimini nazisti. L'ufficio custodiva ancora gli atti processuali relativi al caso, che io chiesi e ottenni di poter esaminare.
In genere, la composizione delle squadre di sterminio è assai difficile da ricostruire, ma quella del Battaglione 101 era nota agli investigatori. Gran parte degli uomini provenivano da Amburgo, e molti all'epoca dell'indagine, erano ancora vivi: potevo dunque disporre degli interrogatori di 210 uomini su un reparto che ne contava poco meno di 500 quando, nel giugno del 1942, fu inviato con gli effettivi al completo in Polonia.

Sono uomini comuni che dettero il loro contributo allo sterminio in Polonia, nel suo momento più caldo.

Alla metà di marzo del 1942, circa il 75-80 per cento di tutte le future vittime dell'Olocausto era ancora in vita, mentre il 20-25 per cento era morto. Undici mesi dopo, alla metà di febbraio del 1943, il dato percentuale si era esattamente capovolto. L'apice dell'Olocausto, dunque, fu raggiunto con una breve, intensa ondata di massacri. Il centro gravitazionale di tali massacri fu la Polonia dove, nel marzo 1942, tutte le principali comunità ebraiche erano ancora indenni, malgrado due anni e mezzo di avversità, privazioni e persecuzioni terribili; undici mesi dopo, nei ghetti e campi di lavoro ancora funzionanti, quelle stesse comunità non avrebbero contato che pochi sopravvissuti.



Peter Weiss
L'istruttoria

Einaudi, Torino,1966

Dal 20 dicembre 1963 al 20 agosto 1965 si svolse a Francoforte sul Meno un processo contro un gruppo di SS e di funzionari del Lager di Auschwitz.
In seguito al movimento di opinione pubblica provocato nel mondo dal processo ad Adolf Eichmann tenuto a Gerusalemme nel 1961, per la prima volta la Repubblica Federale Tedesca affrontava in maniera impegnativa la questione delle responsabilità individuali, dirette, imputabili a esecutori di ogni grado, attivi nei recinti di Auschwitz.
Il processo ebbe dimensioni proporzionate alla sua importanza; nel corso di 183 giornate vennero ascoltati 409 testimoni, 248 dei quali scelti tra i 1500 sopravvissuti del Lager.
La storia del campo o meglio dei campi di Auschwitz, dalla loro apertura, nel giugno del '40, all'evacuazione per l'avvicinarsi delle truppe russe (gennaio 1945) fu rievocata, a un quarto di secolo di distanza, da chi vi aveva partecipato come vittima, aguzzino o complice, rimasto a piede libero, degli aguzzini stessi.
I volti, gli atteggiamenti, certe battute degli imputati più conosciuti: il vicecomandante Robert Mulka, il Rapportfuhrer Oswald Kaduk, i funzionari della Sezione politica Wilhelm Boger e Hans Stark, divennero noti in tutto il mondo attraverso servizi giornalistici; una sinistra celebrità acquistarono personaggi che, per i singolari dispositivi della macchina della legge, figuravano non tra gli imputati, ma tra i testimoni, a fianco delle loro vittime.
Tale categoria era rappresentata soprattutto da medici, dal personale impiegato in Auschwitz per la “selezione”, per la scelta, cioè, del materiale umano da eliminare immediatamente o da consegnare all'industria (durata media della vita di un detenuto-operaio: nove mesi).
Peter Welss assistette a molte sedute del processo di Francoforte.
Da note prese durante le sedute, soprattutto dai resoconti redatti da Bernd Naumann per la “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, lo scrittore ricavò materiali per Die Ermittlung, L'istruttoria.
Il giudice, il difensore, il procuratore, diciotto accusati e nove testimoni anonimi, ognuno dei quali impersona più di un testimone reale, sono i personaggi di questo “oratorio in undici canti”; nel quale non è passata una parola che non sia stata pronunciata nell'aula del tribunale.

Così scrive Giorgio Zampa, traduttore italiano dell'opera teatrale di P.Weiss.



Simon Wiesenthal
Giustizia, non vendetta
Mondadori, Milano, 1989

S. Wiesenthal, sfuggito per tre volte alla morte, dedica la sua vita alla ricerca dei criminali nazisti, perché ognuno sia condotto davanti ad un tribunale a rendere conto del suo operato.
E' lui che ha fatto arrestare A. Eichmann, capo della sezione 4b del R.S.H.A. (ufficio centrale di sicurezza del Reich) che aveva il compito di eliminare gli ebrei.
Alle sue ricerche si deve anche l'arresto di Franz Stangl, il comandante di Treblinka.
Ha trovato anche Karl Silberbauer, comandante della Gestapo di Amsterdam, responsabile, fra i tanti delitti, dell'arresto di Anna Frank e degli altri nascosti con lei.
Silberbauer non é, però, mai stato arrestato ed ha ripreso indisturbato la sua vita.
Wiesenthal è convinto che J.Mengele sia ancora vivo.

Mettersi d'accordo per liquidare qualcuno in una strada di una città del Sud America sarebbe stato facile, ma io non ho mai cercato questo tipo di soluzione. Io ho sempre voluto i criminali davanti ai giudici, in tribunale, e non nazisti trasformati in martiri.

Peter Michael Lingens, scrivendo il capitolo introduttivo del libro, dice, a proposito del problema del perdono:

Wiesenthal si è di continuo misurato - egli stesso lo chiama il suo “passato non superato” - con il problema del perdono. Nel suo libro migliore, Il girasole, egli descrive un'esperienza della guerra che solleva questa questione con enorme forza autocritica. Egli era allora addetto ai lavori in un ospedale militare. D'improvviso un'infermiera lo chiamò e lo condusse in una camera mortuaria. L'uomo che lottava con la morte era delle SS. Egli afferrò la mano di Wiesenthal e cominciò a confessare. Gli raccontò, spinto dall'angoscia della morte, i delitti più orribili di cui si era macchiato nei confronti degli Ebrei. Dopo aver finito, pregò il forzato ebreo che era seduto in silenzio al suo capezzale, di perdonarlo. Wiesenthal si alzò ed uscì. In seguito, cercò la madre del morto e a lei, che tutto aveva perduto, tacque di quanto suo figlio aveva compiuto.
Nella stessa situazione si può agire anche in modo diverso: in Polonia, dopo la guerra, una serie di ex detenuti dei lager furono imprigionati dai comunisti perché sotto la nuova dittatura non intendevano tacere. Alcuni di loro furono condannati a morte, tra cui una donna.
Nel 1946 ella attendeva l'esecuzione nel braccio della morte del carcere. Un bel giorno fu condotta alla doccia. Le guardie fecero entrare un'altra donna : la più famigerata e brutale sorvegliante di Birkenau, il lager femminile di Auschwitz, l'austriaca Maria Mandl. Anche lei era stata condannata a morte. Le due donne erano nude sotto la doccia e non si rivolsero una sola occhiata.
Improvvisamente la Mandl si fece innanzi e disse questa sola frase: ”Può perdonarmi?”.
La polacca - che in seguito fu graziata - così descrive la sua reazione: ”Eravamo due donne nude che erano state in attesa della morte. Sapevo che tutte quelle che la Mandl aveva maltrattato non lo avrebbero sentito. E così risposi: ”Sì”.
Wiesenthal sa di queste due possibilità. E a tutt'oggi è incerto se quella che aveva scelto allora fosse quella giusta. Tanto incerto che al già menzionato suo libro Il girasole accluse un'inchiesta nella quale delle persone che a suo giudizio rivestivano un'autorità morale dovevano giudicare se egli avesse agito giustamente. La discussione, che subito dopo, in Francia ed in altri Paesi, riempì le pagine dei giornali più importanti, non arrivò ad alcuna decisione. Lo stesso Wiesenthal crede oggi di averla trovata nella lettera di una contadina norvegese: “Avrebbe dovuto dirgli: Lei deve pregare il suo Dio di perdonarla. E Dio perdonerà”.



Simon Wiesenthal
Per l'uomo
Jaca Book-Edizioni Casagrande Bellinzona, Bellinzona, 1990

Il testo è la trascrizione di una intervista realizzata per la Televisione della Svizzera italiana. Wiesenthal era stato chiamato per commentare il film La scelta di Sofia.

Il film solleva una serie di problemi che per me certamente con sono nuovi. Mentre guardavo il film mi sono ricordato di un episodio della mia vita accaduto nel campo di concentramento di Lunberg nell'autunno 1942. Era mattina, c'era l'appello. Tutti dovevano presentarsi in fila per essere contati. Uno di noi mancava e così si è cominciato a cercarlo in tutte le baracche, ovunque. Senza successo.
L'ufficiale che dirigeva l'appello chiamò allora il comandante del campo che disse: “Se manca un prigioniero, fucileremo dieci di voi”. Poi disse all'ufficiale di scegliere una persona da ogni gruppo: dieci persone da fucilare. All'improvviso un vecchio ruppe la fila e si gettò ai piedi del comandante e gli disse: “Signor comandante, la prego di risparmiare i miei due figli”. “Come, hai due figli? Tutte e due non li posso risparmiare, uno sì”. Guardò l'orologio e disse: “Ti do trenta secondi per decidere”. L'uomo restò lì senza parola. “Ancora cinque secondi, se non decidi li fucilo tutti e due”. E allora il vecchio scelse uno dei figli. Poi l'appello terminò e ci avviammo al lavoro.
Da lontano sentimmo i colpi di fucile. Al posto di uno dei fratelli era stato preso un altro prigioniero. Il vecchio andò da tutti a spiegarsi benché nessuno gli avesse chiesto di giustificarsi.
“Dovevo scegliere il maggiore - diceva - perché ha moglie e figli nel ghetto”. Il giorno successivo mi dissero che il vecchio, durante la notte, si era impiccato perché si era reso conto che scegliendo un figlio era diventato un assassino.

Ha dedicato la sua vita alla ricerca dei criminali nazisti ancora in vita, per consegnarli alla giustizia.

Guardi, per prima cosa, il mio migliore alleato in questo lavoro, il motivo per cui ho potuto reggere così a lungo, è che l'odio mi è estraneo. Se avessi avuto dell'odio avrei accusato degli innocenti, non avrei fatto ricerche così accurate, due, tre volte. Quando ero piccolo, a dodici anni, una volta feci un commento su qualcuno e mia nonna mi disse una cosa che non ho mai dimenticato: “Simon - disse- ricordatelo per tutta la vita, si può uccidere anche con la lingua. Prima di dire qualcosa, prima di accusare qualcuno, rifletti bene”. E quando io decisi di mettermi con gli americani e più tardi di fondare il mio centro, dissi a me stesso: non esiste giustizia senza verità. Prima dobbiamo conoscere tutta la verità e poi possiamo esigere giustizia. In tutti i casi che ho avuto, più di 1100, solo quattro persone mi hanno denunciato per calunnia: tre hanno perso il processo, il quarto ha ritirato la denuncia. Se lei considera questo come 'summa' del mio lavoro di quarantadue anni, vedrà che posso guardare in faccia a tutti. Già allora sapevo che decine di migliaia di persone stavano solo ad aspettare che io accusassi qualcuno senza avere argomenti. Il mio modo di procedere mi ha procurato una grossa fiducia. Polizia, giudici e pubblico ministero sapevano che se io sostenevo una cosa era fondata per quanto è umanamente possibile.

Spesso gli hanno posto una domanda, sempre la stessa:

“Ma che senso ha punire ancora, dopo tanti anni?”. Punire è impossibile. Ma io vorrei avere questa possibilità; deve essere di avvertimento ad altri. Ogni tanto faccio un sogno, sempre lo stesso: mi vedo vicino ad un vecchio tribunale; c'è l'emblema della giustizia, con gli occhi bendati e la bilancia. Io dico al giudice: “Tolga la bilancia”. “Perché? - mi chiede - é qui da cent'anni”. E io dico: “Perché questo simbolo la obbliga a dare una sentenza equilibrata. Guardi questo ometto: ha ucciso solo cinquecento persone. E' in grado di emettere una sentenza equilibrata?” “No, signor Wiesenthal - mi dice - lei richiede l'impossibile!”.
Vede, quello che noi vogliamo è un avvertimento per gli assassini di domani, che oggi forse sono già nati. Non possiamo sapere quando nascono gli assassini delle nostre famiglie. Ma loro devono sapere che, se la storia si dovesse ripetere, contro gli ebrei o contro altri, saranno perseguiti: e non è detto che il prossimo olocausto debba essere contro gli ebrei.
Questo è l'avvertimento: né il tempo né la distanza proteggono chi ha preso parte a un assassinio di massa. Se non potessimo dare questo avvertimento, milioni di persone sarebbero morte per niente.

Nell'intervista si evidenzia ancora una volta la statura morale ed intellettuale dei carnefici:

Prendiamo Eichmann, per esempio: chi era? Una specie di contabile. Io ho scritto un libro, La pratica Eichmann. Mi hanno detto che sono pazzo, perché ho scritto che Eichmann non era un antisemita. E io dico: “E' vero, Eichmann era uno strumento del partito e dell'ideologia, senza volontà propria, e nel momento in cui indossava l'uniforme delle SS deponeva la sua coscienza, se mai ne aveva una”. In questo libro ho scritto che se Hitler o Himmler gli avessero dato l'incarico di sterminare tutte le persone il cui nome iniziava per P o K, Eichmann l'avrebbe fatto anche se tra loro ci fosse stato suo padre. Era antisemita quel tanto che gli bastava per eseguire il suo compito. Era assolutamente privo di volontà.

La gente continua a dire di non aver mai saputo nulla, per difendere la rispettabilità della propria coscienza:

Dicevo: “Voi c'eravate, non avete visto che i vostri vicini all'improvviso sono spariti? A Vienna molte famiglie ebree avevano un cane, e so che molti si preoccupavano del destino dei cani”.
E io chiedevo: “Nessuno di voi...?”. “No, non lo sapevamo”. E quando poi chiedevo: “Io vi credo. Qual è la vostra posizione, adesso che lo sapete?”. La maggior parte delle persone rimaneva muta. Ho potuto vedere così che per molti la vita è costituita su una menzogna: hanno veramente stordito la propria coscienza.

L'educazione dei giovani è il nodo perché non si ripetano in futuro tragedie analoghe:

Affinché fatti simili non avvengano più dobbiamo sapere una cosa: le dittature, di destra come di sinistra, si reggono sui giovani. Guardiamo oggi, quarant'anni dopo Hitler: i partiti democratici non hanno nessun programma per i giovani. Guardiamo alla periferia, a destra e a sinistra: estremisti. Chi sono? Giovani. Lasciare soli i giovani va a tutto vantaggio degli estremisti.

L'Olocausto lascia un segno indelebile per chi lo ha vissuto, non termina i suoi effetti nefasti con la Liberazione.

Uno continua ad esserci dentro, non si riesce mai più a provare una vera gioia. Mi ricordo che una volta, a Los Angeles, il mio amico Zubin Metha, il famoso direttore d'orchestra, mi invitò a un concerto. Suonò un giovane pianista, bravissimo, e suonò Rachmaninoff, il mio compositore preferito. Suonò in modo così meraviglioso che a un tratto, durante il concerto, il pubblico spontaneamente si alzò in piedi ad applaudirlo.
Anch'io feci come gli altri, ma poi mi risedetti. Non potevo continuare ad applaudire. Lo raccontai poi a Metha, che mi chiese: “Perché, cosa è successo, che cosa ti opprimeva?” Io risposi: ”Mi opprimeva il pensiero di quanti giovani talenti come lui, persone meravigliose, che potevano dare gioia all'umanità, sono stati sterminati, senza essersi resi colpevoli di nulla”. E questo mi ha offuscato la gioia: ho pensato a quelli che sono stati sterminati. Vede, nulla e nessuno può guarire la mia anima ferita. Così è. C'è un proverbio che dice: “Tutto nella vita ha il suo prezzo, e io lo pago, e posso guardare in faccia a tutti. Questo è una specie di ricompensa.



Hannah Arendt
La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme
Feltrinelli, Milano, 1992

Resoconto del processo di Gerusalemme ad Adolf Eichmann, dopo il suo arresto in Argentina, su segnalazione di Simon Wiesenthal.
Eichmann era comandante del IV ufficio, sezione B, della Gestapo, responsabile dei problemi ebraici e dei problemi di evacuazione (secondo la terminologia volutamente asettica delle SS).
La Arendt scopre la terrificante normalità umana, il grigiore di Eichmann e di tanti suoi sottoposti nell'esecuzione dello sterminio.
Il processo si concluderà con la condanna a morte, poi eseguita.



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