Cerchi Picasso, trovi il sacro
di Olivier Clément (ripreso dalle pagine di Agorà in Avvenire del 26.02.1998)



Quadro

Non so se, in Picasso, una certa religiosità sia volontaria, o se sia qualcosa che gli si è imposto senza premeditazione. Ma ugualmente la ricerca di una trascendenza è il modo in cui egli ha voluto entrare nella storia e corrispondere alla tragedia dei suoi tempi. Picasso, infatti, è soprattutto l'artista delle due guerre mondiali (e della seconda più che della prima) e rappresenta una sorta di agonia o di morte per l'Europa; ma poi le apre sentieri di resurrezione.
Qualche esempio. Picasso nel periodo della guerra aderisce al partito comunista: non perché fosse un militante, bensì perché vi vedeva una sorta di fraternità e di grande speranza per l'umanità; ciò non gli impedì affatto di essere un pittore “religioso”. Certo, ciò che Picasso ha dipinto e che aveva valore religioso, soprattutto nell'ultima parte della sua vita, è piuttosto di una religiosità mediterranea, pagana; lo si vede molto bene dallo slancio vitale espresso nelle tauromachie o magari in certe figure erotiche. Ma questo sentimento panico di esaltazione della vita e della sua potenza è in realtà una danza vitale che può anche trovar posto nella gioia della resurrezione cristiana: era questo, infine, ciò che Picasso cercava.
Anche il tema del volto nel pittore spagnolo ha risvolti interessanti. L'artista compie uno sforzo di scomposizione e di ricomposizione dei volti assolutamente stupefacente. Picasso ha previsto e mostrato i visi che si sarebbero visti quando dai campi nazisti uscirono i sopravvissuti. A seconda dei periodi della sua vita, egli dipingeva la donna come essere malvagio e ingannatore, ovvero la raffigurava nella pienezza della femminilità e della maternità.
Il comunismo, il vitalismo, i volti costituiscono in Picasso un tentativo di rispondere alle tragedie della storia. L'artista cercava la via della trascendenza attraverso il mistero della donna, dell'amore e del grande slancio vitale. Nelle ceramiche che realizzò alla fine della vita, per esempio, si sentono curiosi echi cretesi che suonano quasi nostalgia del paradiso, di una vita primordiale sulla quale soffia lo spirito. Ma si tratta di una ricerca incompiuta. Nella sua vita Picasso non trovò una risposta sicura; egli è passato a fianco dello spirituale, l'ha presentito, ma non vi è mai entrato davvero. Anche nella sua opera più famosa, Guernica . Io sono colpito da alcuni segni di speranza e di trascendenza che si trovano in quell'immensa tela. Nel 1936 Guernica, la città santa dei Paesi baschi, fu distrutta dall'aviazione tedesca. Era giorno di festa, la folla si assiepava. Ci furono duemila morti. Consapevoli o meno, gli artisti spesso profetizzano. Picasso profetizzò dipingendo Guernica. Il contrasto delle ideologie, gli stimoli di odio e di violenza che annunciavano un nuovo conflitto avevano, dagli inizi degli anni Trenta, strappato il pittore a ricerche puramente estetiche. Guernica, epopea funebre, è una delle maggiori testimonianze sulla tragedia del nostro secolo, e anzitutto sulla “guerra dei trent'anni” che l'ha percorsa dal 1914 al 1945, aprendo la porta al nichilismo contemporaneo. La tonalità generale è quella del lutto; il niente assorbe tutti i colori e restano solo dei neri, dei grigi profondi, e quel biancore mortuario in attesa, forse, di metamorfosi...
Tutta la metà destra della composizione è consacrata all'orrore senza speranza. Vi si ritrovano, ma in una sintesi del tutto nuova, i temi già familiari all'artista della corrida, della statua antica spezzata, e soprattutto del Minotauro, simbolo della violenza, al quale Picasso aveva appena consacrato una serie di stupende acqueforti. Una corrida in Spagna, limita e nobilita la violenza attraverso la bellezza e il simbolo. Essa significa in effetti la vittoria dell'umano sul bestiale, dello spirito sul caos, della luce sulle tenebre (il toro, secondo l'arte mesopotamica, è la bestia della notte). Qui è tutto il contrario. Siamo in presenza di una corrida capovolta. Il cavallo, animale nobile, guida delle anime nelle vecchie mitologie, è trafitto, ferito a morte, e si contorce in un urlo di dolore. L'uomo è identificato nella statua antica di un guerriero morto, la spada spezzata. Una mano si abbandona sull'arma inutile: che cosa avrebbe potuto una spada, arma di guerra “a misura d'uomo”, contro gli Stukas apocalittici? L'altra mano, aperta sulla morte, è segnata sul palmo da una sorta di stella, ultima luce nella notte, ora spenta.
Due immagini di morte e di disperazione incorniciano il mostro vincitore. A sinistra una madre grida, con il bambino morto tra le braccia. A destra pure un uccello folgorato grida l'orrore, con un movimento verticale della testa analogo a quello che tiene ritto il capo della donna. Il toro, un vero Minotauro, impassibile e trionfante, “simboleggia la brutalità e l'oscurità”, ha detto Picasso. Corpo notturno, testa di luce violenta, artificiale, che prolunga l'illuminazione dell'enorme luce elettrica accesa in cima alla tela: lampada dei proiettori e degli interrogatori. La testa è voltata, indifferente. Che cosa gli importa l'agonia del cavallo e dell'uccello, simboli di libertà e di fuga, di tutto ciò che nell'uomo supera l'uomo? Che gl'importa del guerriero vinto, del bambino morto, della donna disperata e in rivolta? Egli è pura opacità della volontà di potenza, la coda ritta come una bandiera orgogliosa. Testa non di bruto, tuttavia, ma d'intelligenza fredda e perversa. Egli si volta, ma vede un essere allo stesso tempo di potenza e di conoscenza.
Così nella metà sinistra della composizione, tutto è perduto. E' il regno della distruzione, del distruttore. La metà destra è completamente diversa, se si esclude la sua estremità dove una casa brucia. In alto una donna si tende, la testa, le braccia si tendono, non più nella rivolta e nell'odio – sembra – ma nell'implorazione. Il braccio immenso, braccio della donna e insieme fiume celeste, regge una lampada arcaica, o meglio la brandisce, afferma una fiamma piccola ma protetta: il fuoco della vita, della grazia di essere, il fuoco che riscalda e illumina. Sarà l'angelo della luce e della vita? E non sarà proprio da questa fiamma che la bestia si distoglie? Più sopra una donna si protende versa tale luce, in uno slancio di stupore e di gratitudine: sì, questo fuoco esiste, niente può spegnerlo. Di modo che la composizione è attraversata da una grande diagonale di speranza.
Tutto si riassume, in cima al quadro, nello scontro tra le due luci: l'artificiale e la naturale, il lampo elettrico e l'umile fiamma. La prima si espande in orizzontale, circondata da raggi crudeli. Occhio vuoto con, al centro, un nodo irridente di filamenti. L'altra è verticale, la fiamma sale tra due ricettacoli dalle forme dolci, femminili. Nel cuore di questo cuori di brace, un punto oscuro, un punto soltanto: forse la trascendenza, il punto da cui tutto si dispiega, il seme. Perché la luce cade sull'elsa della spada spezzata e si vede crescere dal metallo, timido, appena accennato e tuttavia decisivo, tuttavia unica vittoria, un fiore.


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