Diario » Blog dei redattori de Gli ScrittiPensieri posatisi nello scorrere del tempo2024-03-28T13:34:11+01:00Redazione de Gliscrittihttp://www.gliscritti.it/blog/centroculturale@gliscritti.ittag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scrittiPivotXCopyright (c) 2024, Authors of Blog dei redattori de Gli ScrittiIl politicamente corretto rovina ogni prospettiva ecologica. Finge di proporre modalità green, solo per vendere nuovi prodotti. Solo un richiamo a non cambiare oggetti è veramente ecologico, di Andrea Lonardo2024-03-27T17:06:00+01:002024-03-25T00:11:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6551Riprendiamo sul nostro sito un testo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Ecologia.
Il Centro culturale Gli scritti (24/3/2024)
La falsità del politicamente corretto è evidente anche quando si tratta di ecologia. Il miraggio utopistico e falso che il politicamente corretto propone è quello di offrire soluzioni pronte all’uso e rapidissime che implicano in tempi strettissimi il cambiamento del prodotto che hai già acquistato.
Ad esempio, se hai un’auto diesel, l’ecologico politicamente corretto ti dice: “Cambiala e comprane una elettrica”.
Se si allarga lo sguardo, ci si rende conto che chiedere ad un’intera nazione di rottamare la propria auto e di acquistarne una di nuova produzione che emetta meno anidride carbonica significa produrre un’infinità di rottami ad alti costi ecologici.
Ora – a parte che anche l’energia elettrica viene prodotta spesso producendo altrove anidride carbonica – è la prospettiva in sé che è falsa. Infatti, in un paese come l’Italia, cambiando autovettura si rottamano 60 milioni di auto, producendo un inquinamento incredibile con la costruzione di altri 60 milioni di auto nuove.
Sarebbe veramente ecologica la scelta opposta. Affermare: “Tieni finché puoi la macchina che hai, poiché le amministrazioni comunali non le impediranno di circolare finché è in buono stato. Ma, non appena la cambierai – il più tardi possibile – solo allora compra un’auto ibrida!”.
In questa maniera, nel lungo periodo, ci sarebbero molte meno rottamazioni.
La falsità del politicamente corretto ecologico è evidente in primo luogo dal fatto che le macchine elettriche non hanno in realtà le infrastrutture necessari per lunghi viaggi.
Ma molto più dal fatto che fra cinque anni si inventerà un nuovo tipo di auto elettrica ancora meno inquinante e si chiederà a chi ne ha acquistata una per sostituire la diesel di acquistarne una nuova, impedendogli di usare la precedente.
E aggiungendo così rottamazioni su rottamazioni.
L’unica via ecologica non è quella di cambiare sempre più frequentemente macchina – o cellulare o computer o frigorifero o impianto di riscaldamento o di condizionamento – ma di costruire oggetti che saranno rottamati solo dopo venti anni di usura di modo che solo alla scadenza per vera vecchiaia del macchinario se ne debba acquistarne un altro che inquini di meno.
In realtà ogni industria si finge ecologica solo per vendere prodotti nuovi.
La vera ecologia implica il rifiuto di acquistare prodotti nuovi, implica l’elaborazione di pubblicità che invitino a tenere il più possibile gli oggetti già acquistati senza cambiarli, implica una visione di vita sobria e lenta che smetta di cercare sempre “ultimi” modelli, che saranno solo un anno dopo superati dal successivo che sarà proposto come migliore e più ecologico.
Rallentare insomma e non accelerare il cambiamento è l’unica vera prospettiva ecologica.
Ciò è vero anche da un punto di vista umano Non si possono bruciare le risorse umane, di valori, di atteggiamenti, di riti, generate da secoli e millenni, solo per rincorrere il nuovo che scomparirà nel giro di una stagione.
L’uomo non può ripartire sempre da capo, azzerando il passato. Così si ammala.
Questa atteggiamento che sposa continuamente il nuovo è il vero virus anti-ecologico a motivo del quale tutto muore e si inquina.Redazione de Gliscritti1/ Breve nota de Gli scritti, Il mancato confronto col passato che è all’origine del malcostume contemporaneo in tema di cultura e d’arte 2/ Addio a Nicolini, inventò la politica spettacolo. Renato il dadaista (e i suoi epigoni), di Massimo Onofri 3/ I "padroni" delle mostre. Ecco come l’industria culturale le ha ridotte a merce di consumo, funzionale al potere di turno, trasformando i critici d'arte in servitori degli eventi. Altra pagina dello sfruttamento del Bel Paese, di Maurizio Cecchetti2024-03-25T00:12:00+01:002024-03-25T00:09:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.65521/ Breve nota de Gli scritti, Il mancato confronto col passato che è all’origine del malcostume contemporaneo in tema di cultura e d’arte
Il Centro culturale Gli scritti (24/3/2024)
Il mondo della cultura non ha ancora compiuto, a tutt’oggi, un serio e serrato confronto con il passato da cui deriva. Quando si dibatte se fare cultura oggi significhi occuparsi di questioni contemporanee, tenendo alla debita distanza la cultura dei classici – vista con disprezzo come un mondo ormai superato e da superare definitivamente nei suoi ultimi residui – si dimentica proprio di misurarsi con ciò che ha portato alla situazione attuale. Le spinte innovative di un Nicolini - proposto nell’articolo che segue giustamente a capofila di un modo di vedere il mondo e la cultura – si innestavano almeno su di un mondo che conosceva i grandi autori e i grandi temi.
Oggi quel “dadaismo” ha talmente impregnato di sé la stessa scuola e la stessa università che la stragrande maggioranza degli studenti e talvolta degli stessi studenti ignorano Dante e Darwin, Manzoni e Freud, Tommaso Moro e Marx, almeno nella loro vera consistenza, e mentre allora l’effimero era come un diversivo dalla sostanza delle cose, oggi si propone come il tutto e il nulla insieme.
Solo un confronto serrato con i secoli e i millenni renderà la cultura del presente capace di discernere cosa è effimero del dibattito presente e cosa invece metterà radici. Tale discernimento appartiene al compito stesso della ricerca dell’università e della cultura.
Ripubblichiamo i due articoli che seguono – estremamente diretti e provocanti - non perché li condividiamo interamente, ma perché hanno il coraggio di “dare a pensare”.
2/ Addio a Nicolini, inventò la politica spettacolo. Renato il dadaista (e i suoi epigoni), di Massimo Onofri
Riprendiamo da Avvenire un articolo di Massimo Onofri, pubblicato il 6/8/2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Educazione e cultura e Arte e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (24/3/2024)
La morte di Renato Nicolini, l’inventore della mitica Estate romana, mi trova addolorato. Era un uomo spiritualmente bello e di allegra vitalità: di un’allegria, aggiungerei, contagiosa. Era un intellettuale raffinato ma che ha goduto – e godeva ancora – di un autentico e vasto consenso popolare. Un intellettuale di indubbia nobiltà e migliore di molti amministratori capitolini che sarebbero a lui succeduti. Era tutto questo: mentre trasformava, non senza genio, nella Roma che era anche dell’austero Argan (che fortissimamente lo volle) e sarebbe stata dell’indimenticabile Luigi Petroselli, i codici stessi della cultura e della politica: che diventavano, con grande anticipo sui nostri tempi mediatici, spettacolo.
Era tutto questo, insomma, Nicolini: e lo era con un’intelligenza febbrile, formicolante di idee e trovate, che non saprei definire se non dadaista, d’un dadaismo che sarebbe diventato poi di massa, l’ultima declinazione del nichilismo post-moderno (molto lucido e consapevole, nel caso di Nicolini), ma risolutamente consumistico, concentrato sull’effimero, giovanilistico a oltranza, ludicamente sprezzante delle tradizioni, figlio della velocità, di tutte le velocità, e nemico della lentezza che in sé stessa si riposa.
Ma – lo dico senza polemica, da dadaista qual sono – il dadaismo al potere (che nei decenni successivi, persino ai massimi livelli, sarebbe diventato una forma di individuale e pubblica irresponsabilità) può avere anche effetti devastanti e non necessariamente di liberazione collettiva.
Oggi, che molta acqua è passata sotto i ponti dell’Urbe, credo che su questa esperienza si possa e debba fare un ragionamento pacato, meno legato alla pur dolorosa contingenza, ma, se così posso dire, di natura epistemologica: in relazione, cioè, a quell’idea di cultura e politica che Nicolini, come pubblico amministratore, ha profondamente innovato, forse in modo irreversibile.
Il problema, insomma, non è stare a chiederci quanto sia stato bello e giusto, al Massenzio, proiettare per 8 ore di seguito, che so?, la saga di Guerre Stellari: se fosse questo, infatti, saremmo al concetto di sagra applicato al cinema.
Il problema è domandarsi che cosa abbia significato la trasformazione del fatto culturale, anche quello più segretamente privato, in evento pubblico, e la transumanazione dell’autore, negli anni in cui i teorici della letteratura ne proclamavano la morte, in divo. Il problema, insomma, è interrogarsi se sia legittimo, esteticamente e moralmente, mutare una metropoli in palcoscenico da concerto, da stadio: magari con la giustificazione di «far sentire gli abitanti delle periferie più degradate parti integranti della città», per farli entrare «nella Basilica di Massenzio da protagonisti e non da esclusi come accadeva per l’Auditorium di Santa Cecilia».
Prendete il Festival della poesia di Castelporziano: che consacrò definitivamente la perniciosa idea che la poesia non fosse quell’attività aristocraticissima e solitaria che è, ma un fatto di natura e pubblico: magari cucinando sul palco, tutti insieme, un bel minestrone. È proprio da queste esperienze che sarebbe nato il veltronismo. Cioè la politica d’uno che diceva di voler essere il Kennedy di domani mentre sognava di diventare il De Gregori di oggi. Col risultato di fare politica come un cantautore e scrivere romanzi come un politico.
N.B. Breve definizione di Dadaismo da Wikipedia
Il Dadaismo o Dada è una corrente artistica e letteraria d'avanguardia nata a Zurigo, nella Svizzera neutrale nella prima guerra mondiale, e sviluppatasi tra il 1916 e il 1922. Il movimento, che ha interessato soprattutto le arti visive, la letteratura (poesia, manifesti artistici), il teatro e la grafica, incarnava la sua politica antibellica attraverso un rifiuto degli standard artistici, come dimostra il nome dada che non ha un vero e proprio significato, tramite opere culturali che erano contro l'arte stessa. Il Dadaismo ha quindi messo in dubbio e stravolto le convenzioni dell'epoca, dall'estetica cinematografica e artistica, alle ideologie politiche; ha inoltre proposto il rifiuto della ragione e della logica, ed ha enfatizzato la stravaganza, l'umorismo, la libertà espressiva e la derisione. Gli artisti dada erano volutamente irrispettosi, stravaganti, provavano disgusto nei confronti delle usanze del passato; ricercavano la libertà creativa per la quale utilizzavano tutti i materiali e le forme disponibili.
3/ I "padroni" delle mostre. Ecco come l’industria culturale le ha ridotte a merce di consumo, funzionale al potere di turno, trasformando i critici d'arte in servitori degli eventi. Altra pagina dello sfruttamento del Bel Paese, di Maurizio Cecchetti
Riprendiamo da Avvenire un articolo di Maurizio Cecchetti, pubblicato il 4/11/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Educazione e cultura e Arte e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (24/3/2024)
Sarebbe interessante, e soprattutto utile, risalire al momento iniziale che ha fatto di un prezioso istituto culturale come quello delle “mostre temporanee”, che era appunto un mezzo di studio e di bilancio del lavoro fatto su un artista o un’epoca ovvero un genere artistico, uno strumento di consenso e di consumo per le masse.
È questo, in sostanza, uno dei limiti principali del pamphlet di Tomaso Montanari e Vincenzo Trione Contro le mostre: senza individuare un periodo e un momento preciso da cui cominciare non ci può dire nemmeno come e perché il fenomeno è degenerato fino agli eccessi dell’industria culturale di oggi, dove ogni cosa è trattata alla stregua di un bene di consumo.
Il libro è una diagnosi dell’esistente, ma non spiega come siamo arrivati a questo. Bisogna decidere come classificare questo pamphlet edito da Einaudi. Leggendo mi sono venute in mente due definizioni, ma poi ho avuto il sospetto che siano intercambiabili: “Librocandidatura” ovvero “Mozzarella Blu” (ricordate il batterio che azzurrava uno dei latticini più diffusi nelle nostre case? Non era tossico, ma poneva una questione di psicologia alimentare: lo mangio o non lo mangio, mi fido o non mi fido?). Nel nostro caso, parliamo di anticorpi critici.
Marc Fumaroli, senza aspettare che Montanari e Trione finissero l’università e mettessero a punto il loro pensiero critico in materia di mostre, nel 1993 pubblicò un pamphlet contro Lo Stato culturale nel quale criticava senza peli sulla lingua l’intervento pubblico a favore di una cultura artistica strumentale al consenso politico e a discapito della tutela del patrimonio.
Quando è cominciata la deriva del “mostrificio” contemporaneo? Il saggio di Fumaroli veniva al termine di una lunga gestione del Ministero della Cultura francese da parte di Jack Lang, che sotto i due mandati presidenziali di François Mitterrand aveva incarnato un modello di intervento pubblico nella cultura come mezzo di propaganda e di consenso politico (erano gli anni che precedevano il bicentenario dell’89, poi celebrato con la solita Grandeur): le mostre erano parte della strategia politica del nuovo imperatore che commissionò edifici museali, musicali, scientifici, biblioteche e luoghi della moda, cambiando il volto di Parigi in pochi anni.
Lang però arrivava tardi: dalla metà degli anni Settanta l’architetto Renato Nicolini, assessore della Capitale, aveva inaugurato le “Estati romane”, osannate e criticate come espressione dell’effimero. Nicolini, uomo colto e pop al tempo stesso, giocò la carta subdola della cultura per “divertire il popolo” (o le masse, se volete). Fu emulato dalle amministrazioni comunali italiane grandi e piccole che cominciarono a spendere un sacco di soldi per l’effimero, ovvero per ciò che accade e passa pur lasciando un segno nella memoria della gente: mostre, concerti, kermesse culturali, teatrali, cinematografiche.
Fu solo l’inizio di un percorso che ci portò in eredità l’epigono di Nicolini, Walter Veltroni, cultore di cinema e artefice della svolta maggioritaria del pd. Da vicepresidente del Consiglio con delega al Mibac, Veltroni introdusse anche la seconda estrazione del Lotto a sostegno della tutela del patrimonio e coniò la prosaica metafora del Belpaese come giacimento petrolifero: i beni artistici sono il nostro oro nero, disse.
Dopo Veltroni la linea texana dell’“arte come petrolio” ha prevalso fino a generare il cataclisma turistico attuale che dissemina scorie d’ogni genere nel Belpaese. Che volete che sia, se porta economia e ricchezza... È la politica che lo vuole, chiaro: il Mibac, infatti, è diventato col governo Letta il Mibact. Si è aggiunta, nelle competenze del ministero, quella “t” implicita nel paradigma petrolifero di Veltroni: il turismo.
Torniamo al libro di Montanari e Trione. Più che un pamphlet è un manifesto-candidatura al posto di ministro Mibact dopo le prossime elezioni. Ecco l’ipoteca posta da Montanari, nemmeno troppo velatamente, su quella poltrona: «Checché ne dica il ministro demagogo di turno, questo processo non ha nulla a che fare con la democratizzazione della cultura».
Lasciamo stare quando gli autori entrano in questioni come il diritto alla bellezza, l’arte gratuita, l’arte senza nome (quella di chi ha raggiunto il successo senza mostrare la propria carta d’identità, come, pensate un po’, Elena Ferrante e lo street artist Bansky). Il peggio viene quando giudicano in positivo. Qualche mese fa, in piena sindrome migranti, l’artista cinese Ai Weiwei sistemò «sulle facciate di Palazzo Strozzi un’installazione di straordinaria efficacia, che ne rispetta l’architettura rinascimentale» (!?).
A parte le valutazioni sul talento del dissidente cinese più attivo sulla scena internazionale (non proprio un recluso), fu una delle più furbesche e brutte installazioni mai viste: aveva tappezzato le facciate del palazzo con una fila di gommoni. Perché non scherzare un po’ allora sull’installazione di Christo, che lo scorso anno portò migliaia di visitatori a camminare sulle acque del lago d’Iseo: dato il nome dell’artista, non fu anche quello un vero miracolo?... Economico, beninteso.
Poi arriva la difesa di un loro caro amico, Salvatore Settis, che curò la mostra Serial Classic nei nuovi spazi milanesi della Fondazione Prada, mostra che «ha il merito di ribaltare tante consuetudini storiografiche». L’erudizione di Settis è fuori discussione, ma il giudizio su quella mostra dovrebbe essere ben altro e riguardare il potere del capitalismo nell’accedere a prestiti museali che spesso non vengono concessi nemmeno alle sedi pubbliche.
Settis è stato il mentore di Montanari e Trione, in quanto consulente Mibact. Ed era anche a capo del comitato scientifico del Mart, con Giovanni Agosti, quando nel 2013 avvallò l’idea di allestire nel Museo di Rovereto, sede di collezioni e mostre d’arte contemporanea, una retrospettiva su Antonello da Messina, che fece discutere proprio per la sede ospitante. «Qualcosa lascia perplessi e rischia di insinuare solo equivoci» sulla vocazione del Mart, scrive Trione. Tutta qui la perplessità? Certo che no.
La vera perplessità (taciuta tuttavia), è sull’uso del Mart per un “regolamento di conti” della critica longhiana ufficiale contro chi, Mauro Lucco, nel 2006 alle Scuderie del Quirinale curò una retrospettiva dell’artista messinese insinuando che Longhi avesse sbagliato nel sostenere l’influenza di Piero della Francesca su Antonello.
Fu accusato, anche giustamente, di voler «azzerare l’intera tradizione di studi», di far fuori Longhi insomma.
Ma perché mettere in piedi dopo appena sette anni una tale e difficile impresa solo per controbattere a una tesi che, dopotutto, si può discutere agevolmente scrivendo un saggio critico? Ferdinando Bologna, decano degli studi caravaggeschi, dichiarò di non sapere perché fosse stato messo a capo di quella mostra al Mart, e fece due nomi: «Bisogna chiederlo ai responsabili del museo, a Salvatore Settis e Giovanni Agosti che me l’hanno proposto».
Va aggiunto un ultimo rilievo: l’attuale direttore della Gnam di Roma, Cristiana Collu, grande protetta negli ambienti istituzionali e già consulente del Mibact (così che quando Franceschini doveva nominare i venti superdirettori lei non ebbe problemi a candidarsi contemporaneamente alla Gnam e a Brera, due musei che più diversi non potrebbero essere) all’epoca della mostra di Antonello era direttrice del Mart. Un altro esempio di benpensantismo dei nostri pamphlettisti?
Se la pigliano con la moda (in senso proprio) di cedere ai brand dello stilismo le sale dei musei per esibire i loro abiti. «Affermare che [lo stilista tunisino Azzedine] Alaïa è arte allo stesso modo di quella di Bernini e Canova giova davvero alla nostra comprensione dell’arte del passato?» si chiede Montanari (p. 136).
Naturalmente ciascuno è libero di prendersela con la couture sculpture. Ma il vero j’accuse avrebbe dovuto essere verso la direttrice della Galleria Borghese, Anna Coliva, che ha organizzato mostre “commerciali” come Caravaggio e Bacon o L’origine della natura morta in Italia. Caravaggio e il Maestro di Hartford. Tirare in ballo il nome di Anna Coliva, confermata da Franceschini a capo della Galleria Borghese e molto introdotta negli ambienti romani e non solo, però era rischioso se ci si candida a certi ruoli istituzionali.
Arrivati alla pagina 154, l’ultima, ecco la sconcertante dichiarazione dei due pamphlettisti: «Il tema decisivo però è un altro» (finora, dunque, di che cosa abbiamo parlato?): «mentre le mostre chiudono l’arte in gabbie a pagamento, la Street Art la restituisce a tutti, gratuitamente». Populismo, mammolismo oppure snobismo progressista? Fate voi.
Comunque sia, ecco il mio j’accuse: Trione denuncia la pessima cultura che fa di ogni mostra un “evento”. Perché mai, allora, i nostri lancillotti dell’arte di strada non hanno speso una riga – punto, questo, sì decisivo – contro il carnefice che ha portato alla quasi completa scomparsa della critica militante sui giornali?
Perché non hanno preso di mira il malcostume che da anni si è imposto nei maggiori quotidiani italiani di pubblicare pagine sull’“evento” (che in gergo si chiamano “redazionali”) senza che il lettore possa riconoscere al volo, per grafica e impaginazione, che si tratta di pubblicità: e quel che è peggio di pubblicità che si avvale spesso delle stesse firme che abitualmente scrivono pezzi di critica nelle pagine ordinarie?
I direttori dei giornali italiani dovrebbero interrogarsi su questo malcostume, che ha reso vano lo stesso “giudizio di valore” della critica. Che un pamphlet “contro le mostre” non ponga al primo posto questo tema, vuol dire che chi lo ha scritto ha qualcosa da perdere. Devo arrendermi al genio maligno di Cartesio che insinua: mozzarella blu, mozzarella blu, blu blu blu...Redazione de GliscrittiIl populismo dell’inserzione di un “diritto all’aborto” nella Costituzione francese, di Andrea Lonardo2024-03-25T00:18:00+01:002024-03-25T00:06:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6553Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Educazione all’affettività e Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (24/3/2024)
In Francia è appena stata approvata dal Parlamento un’aggiunta all’articolo 34 della Costituzione. Così recita tale inserzione: “La legge determina le condizioni in cui si esercita la libertà garantita alla donna di far ricorso ad un’interruzione volontaria della gravidanza”.
Ciò che preme qui sottolineare non è tanto la questione morale, ma ben più profondamente il populismo che è sotteso a tale novità costituzionale.
Chiunque conosca il reale sentire delle donne che abortiscono sa quanto complessi siano i loro sentimenti, quante conseguenze resteranno impresse nel loro animo, quanto controversa sia la questione stessa degli eventuali diritti del nascituro.
È una tipica questione nella quale qualsivoglia pensiero invocherebbe una visione “complessa” e non semplicistica e semplificatoria.
Evocare la “complessità” delle questioni è una delle caratteristiche del moderno e ancor più del post-moderno che solo le mentalità dogmatiche preferiscono evitare.
Si pensi, solo per permettere un confronto, alla complessità ben più profonda della Legge 194 italiana sull’interruzione della gravidanza che si apre con un articolo che afferma:
Articolo 1 «Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite».
Ancora una volta è evidente come la nazione italiana non sia assolutamente arretrata rispetto alle altre nazioni d’Europa, anzi sia la più illuminata e la più progredita.
La 194, infatti, giunge a fornire alla donna tutti gli strumenti che le consentono l’aborto in assoluta tranquillità e sicurezza medica, ma non di meno non dimentica di ricordare con quell’articolo Primo che la questione è molto più complessa – e che la legislazione debba prevedere molteplici doveri per lo Stato come l’obbligo di sostenere consultori perché siano indicate alla donna anche le altre possibili opzioni, come quella di far nascere e lasciare poi immediatamente in adozione.
Fra l’altro, ancora una volta, l’aggiunta all’articolo 34 della Costituzione francese non si limita a tacere dell’almeno possibile nascituro, ma anche del compagno della donna e compartecipe del concepimento.
Senza nemmeno avvedersene, l’intellighenzia francese rigetta sempre di più una parità dei sessi e dichiara indirettamente che la figura maschile ha il “diritto” di non assumersi alcuna responsabilità: il maschio ha il “diritto” di ignorare le conseguenze dei propri atti, mentre solo alla donna vengono addossati i diritti e soprattutto i doveri inerenti alla sessualità, rendendo l’uomo sempre più irresponsabile.
Sul tema, in maniera un po’ più complessa e completa della posizione populistica – buona solo a tacitare ogni dibattito in terra di Francia – adottata dai nostri vicini ci permettiamo di consigliare un video di Andrea Lonardo che cerca di fornire alcune coordinate della questione, oltre ad un audio di Fabrice Hadjadj che, senza alcuna animosità, invita i suoi concittadini a riflettere sulla via di cupio dissolvi che la nazione sta percorrendo come capofila dell’Europa tutta che vorrebbe al suo seguito.
Video sulla donna e l’aborto di Andrea Lonardo:
https://www.youtube.com/watch?v=0MAq9GGvz7Q
Audio di un’intervista a Fabrice Hadjadj sulle modifiche all’articolo 34 nella Costituzione francese:
https://radionotredame.net/podcasts/RND09/14112Redazione de GliscrittiSempre antifascisti, sempre anticomunisti. Del buon uso del XX secolo, di Giovanni Amico2024-03-25T00:06:00+01:002024-03-25T00:03:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6548Riprendiamo sul nostro sito una nota di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Politica e giustizia, Fascismo e nazismo e Comunismo.
Il Centro culturale Gli scritti (24/3/2024)
È inaccettabile che qualsivoglia politico del centro-destra abbia nostalgie fasciste e ricordi benevolmente quegli anni. È un periodo nefasto della storia d’Italia che portò infinita ingiustizia, riduzione delle libertà e morti su morti. Prima per ottenere il potere politico, poi per l’avventura vergognosa della guerra – addirittura la Spagna, a differenza dell’Italia, riuscì a mantenersi neutrale, ad onta di coloro che vogliono far credere che fosse necessario scendere in guerra – ma prima ancora per le politiche coloniali con le guerre in Africa, per dimenticare quell’onta incancellabile che fu l’appoggio alla politica razzista hitleriana, dopo che il dittatore tedesco giunse a Roma nel 1938.
Si calcola che la sola II Guerra mondiale, voluta dal nazismo, fiancheggiato dal fascismo, causò almeno 60 milioni di morti, per non parlare dei morti nei Lager, fra cui i sei milioni di morti fra gli ebrei, oltre ai milioni di civili uccisi fra gli slavi, polacchi e i russi, ritenuti inferiori come razze dal delirio razzista di quegli anni.
È altrettanto inaccettabile che qualsivoglia politico del centro-sinistra si richiami al comunismo, che – si calcola – causò intorno ai 100 milioni di morti nei diversi paesi che lo scelsero e lo subirono come sistema di organizzazione dello stato. I partiti comunisti occidentali – ed anche il PCI – fiancheggiarono l’URSS e gli altri stati legati all’ideologia, fingendo di non vedere i delitti che vi erano stati compiuti e che continuavano ad accadere. In quei luoghi una feroce politica condannò al silenzio e alla morte ogni forma di libero pensiero e di dissidenza, coinvolgendo anche lì non solo ebrei, ma anche gli artisti che furono reclusi appena accennavano a proporre un’arte che non fosse quella materialista del regime.
È inaccettabile che esponenti politici oggi non solo mostrino una qualche simpatia per i due sistemi, ma ancor più che non abbiano quell’atteggiamento di profonda umiltà che nasce solo dalla consapevolezza delle proprie colpe - solo la Chiesa cattolica nel mondo moderno ha mostrato di conoscere un tale atteggiamento.
Non basta la semplice ammissione delle mancanze gravissime del nazismo, del fascismo e del comunismo, ma ancor più del fatto che i partiti italiani immediatamente antecedenti degli attuali, che ne sono figli, si sono resi colpevoli di una strategia del nascondimento e hanno di fatto accettato politiche che ferivano gravemente le libertà individuali e sociali e hanno coperto i morti che cadevano a milioni.
Una “purificazione della memoria” – l’espressione è stata coniata in area cattolica per indicare l’ammissione delle proprie colpe storiche - è ancora oggi necessaria e tuttora inevasa a destra e a sinistra e solo essa renderà gli esponenti politici delle due opposte parti credibili per l’ammissione delle colpe storiche della propria parte: la storia che ha portato ai diversi partiti odierni è una storia di idealità, ma anche una storia molto triste e ognuno si è macchiato del silenzio verso colpe gravissime, ed è responsabile direttamente della morte di persone.
Per questo è giusto chiedere oggi - e non basta che ciò sia avvenuto per qualche rappresentante nel passato – che si levi il grido: sempre antifascisti, sempre anticomunisti.
Il riconoscimento delle colpe storicamente compiute dai propri antecessori, renderebbe più umili tutti e permette di evitare i rischi censori che tuttora esistono a destra e a sinistra, quando si eleva il pensiero della propria parte a verità solo perché “moderna” e la si ritiene “incontestabile”, accusandol’altra parte di fake, volendone censurare il pensiero.
Non si dimentichi poi che storicamente fu proprio la conflittualità della destra e della sinistra che fomentò l’altra parte. Il movimento comunista come quello fascista dettero modo all’altro di accrescersi proprio per la propria violenza verbale e materiale.
Si pensi all’Italia che vide, immediatamente dopo al I guerra mondiale, crescere gli opposti pericolosissimi del fascismo e del comunismo, proprio perché ognuno additava il pericolo della parte opposta. Infatti, è proprio dopo le elezioni del 1919, le più sconvolgenti nella storia d’Italia, che si profilarono il pericolo nero e quello rosso e si dettero forza l’uno contro l’altro, mettendo a tacere quei partiti moderati che vennero indeboliti proprio a causa dell’aggressività dei due contendenti che alzavano di più la voce e attiravano solo su di sé l’attenzione[1].
Sempre antifascisti, sempre anticomunisti: questa deve essere la prospettiva che deve illuminare la riflessione politica anche oggi.
L’Italia ha bisogno di una prospettiva politica nuova, che escluda dal proprio orizzonte il fascismo e il comunismo e guardi, invece, alla sussidiarietà e cioè a quei corpi sociali originari e intermedi fra l’individuo e lo stato che soli sono garanzia di vero sviluppo e di vera libertà.
[1] Cfr. su questo Liberali, comunisti, cattolici... I partiti e la storia della democrazia in Italia dal 1919 al 2008, di Stefano De Luca.Redazione de Gliscritti[Il dramma del teatro e della cultura degli anni ’80 e ’90, talvolta elitari e incomprensibili. Come tornare ad essere popolari?] Un intervento di Francesco Ferdinando Brandi al Festival de Gli scritti2024-03-25T00:06:00+01:002024-03-25T00:01:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6539Riprendiamo sul nostro sito la trascrizione di un intervento di Francesco Ferdinando Brandi al Festival de Gli scritti, tenutosi il 22/9/2023. Il testo non è stato rivisto dall’autore e conserva il carattere di intervento a voce nel corso di un pubblico dibattito. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Educazione e cultura e Cinema e teatro.
Il Centro culturale Gli scritti (24/3/2024)
Partiamo da Prestazione occasionale,[1] visto che è stato immeritatamente citato[2].
Perché ho scritto quel testo? Perché nell’arco di un paio di anni mi è capitato di incontrare, di ascoltare, storie di donne, chi sposata, chi in cerca disperata di un fidanzato, tutte disperate all’idea di non poter avere un figlio, come avevano stabilito.
Tutte ovviamente un po’ âgé. Questo problema non è che se lo sono poste ai 25 anni: se lo ponevano giustamente tra i 35 e i 40, quando cominciano a scattare i campanelli: “O adesso o mai più”. Alcune si sono sottoposte a delle torture, ma veramente delle torture, per risolvere la chimera di avere un figlio.
Poi veramente il destino - o la fatalità - è beffardo ed è superiore a qualsiasi drammaturgo: qualcuna ha scoperto che lei un problema lo aveva, ma che il vero problema lo aveva il suo compagno che era sterile. Mi hanno raccontato anche di un’altra che si è bombardata, che per avere il secondo si è massacrata.
E quindi ho detto “Ma come è possibile questa cosa?”
Se io provavo a dire “Ragazzi, ma forse è esagerato”, mi sentivo rispondere: “Zitto tu che i figli ce l’hai e non puoi capire”.
Dico questo per dire cosa? Per dire che la cultura può essere questo, cioè raccontare un problema che è sulla pelle di persone vere che incontriamo tutti i giorni, forse sulla nostra o di nostra sorella o forse del mio migliore amico e poterlo mettere in una forma giocosa, scherzosa, paradossale, per far arrivare ancora meglio il senso di quanto può essere problematico un accanimento forse da evitare.
Uno dei primi esami universitari mi poneva davanti il problema se il teatro dovesse divertire o educare. Questa questione parte da Aristotele ed è sempre stata riproposta. Da quando esiste il teatro ci si è posto il problema: “Che deve fare il teatro? Deve essere intrattenimento, deve essere cultura, deve essere indottrinamento?” Ovviamente le varie epoche storiche e politiche hanno dato le loro risposte.
Mi ricordo che il mio maestro Sergio Fantoni mi diceva che negli anni Settanta non potevi assolutamente pensare di fare una commedia a teatro: se lo facevi, ti sparavano! Dovevi metterti il dolce vita nero e fare cose noiosissime, rotture di scatole incredibili e tutti ti acclamavano!
E oggi? Che succede oggi?
Oggi io vedo che la cultura è diventata una roba da élite. Avverto - io ho tre figli, abbastanza piccoli ancora, ma che frequentano ragazzi magari più grandi di loro - che la cultura sembra più da boomers.
Quando provi a proporre loro qualcosa di cultura, ti dicono: “Ma dai, papà!”
Però poi leggono, però poi si appassionano, però poi guardano i tutorial su YouTube di qualsiasi cosa e se ne escono dicendo a tavola: “Ma lo sai che la Supernova X257 ha queste caratteristiche, ecc. ecc.”
Io li guardo e penso: “Ma tu non eri quello a cui non interessava la cultura?”
Allora perché la cultura è noiosa? E perché invece la curiosità non lo è?
Perché cercano la curiosità e non cercano la cultura?
Forse il problema è che chi fa cultura dovrebbe porsi un problema di comunicazione.
Shakespeare! Se dico loro. “Domani vi porto a vedere Shakespeare”, mi rispondono: “Ma mannaggia la miseria. Ma perché? Ma davvero? Ma per forza? Ma in cambio domani mi compri questo o quello?” – quasi fosse un sacrificio che deve essere ricompensato.
Eppure Shakespeare era il massimo divertimento alla sua epoca.
La gente correva, si accapigliava, per andare a vedere Shakespeare
Andare al Globe, al Rose, a vedere gli spettacoli di Shakespeare, era un godimento per i londinesi dell’epoca.
Goldoni? “E daje… dai, papà, non scherziamo, no!”
Eppure Goldoni sbancava. Goldoni scriveva una quantità incredibile di commedie: lui voleva far soldi, voleva sbancare, voleva vendere biglietti e ci riusciva e gli impresari lo cercavano.
Oggi Goldoni viene visto come una cosa barbosa e noiosa - parlo sempre dei miei figli!
Però forse anche da noi! Se qualcuno qui dice: “Andiamo a vedere uno spettacolo di Goldoni”, forse l’altro dice: “Boh? Perché c’è un tuo amico che ci recita? Perché dobbiamo fare questa cosa?”.
Un altro esempio che mi veniva in mente era Feydeau, forse più vicino a noi. Ancora lo percepiamo come qualcuno che fa molto ridere, ma era un castigatore terribile della società, era violento rispetto alla borghesia del suo tempo. Erano degli spettacoli teatrali divertenti, ma per raccontare una società in declino, una borghesia ormai spappolata, priva di valori.
Però come lo faceva? Inventando letti che giravano, mettendoci le cocottes, storie di corna quante ne volete!
Allora il problema - mi sembra - sia quanto la cultura riesca a essere pop, popolare. La cultura credo che debba essere popolare e il teatro debba essere popolare.
Io ricordo, quando ero ragazzo, la mia prima formazione teatrale avvenne a cavallo degli anni ‘80 e ’90, in Toscana, dove viveva il grande spettro del Centro di ricerca teatrale di Pontedera, fondato da Jerzy Grotowski. Era uno che, anche con quattro grandi sotto zero, camminava con i sandali: perché il teatro – si diceva - è principalmente sofferenza! Poi eventualmente il resto! Le prove di Grotowski consistevano in due ore di esercizi fisici propedeutici prima di fare qualsiasi cosa; quando poi eri morto, “spaccato”, boccheggiante, allora si poteva cominciare a fare anche qualcosa che assomigliava al teatro.
Il teatro toscano di quell’epoca viveva sotto l’ombra di questa roba, quindi qualsiasi tentativo di fare una roba un po’ più leggera era visto come qualcosa di poco culturale.
Ora, io per un po’ c’ho creduto e poi ho cominciato a maturare una mia coscienza critica e ho cominciato a dire: “Va bene, ok. Ma quanti siamo stasera in questo teatro? 40, 50, 60? E questo deve rifondare il teatro?”
E mi dicevo: “Ma quello là che qualcuno l’ha convinto stasera a venire a teatro, dopo anni che non va ad uno spettacolo, e viene a vedere questa immane rottura di scatole?”
Ma tira via pure la rottura di scatole, il problema è che non capivi nulla. Cioè dovevi avere quattro lauree laurea in filologia romanza per poter capire cosa stavano facendo sul palco.
Erano spettacoli dove tu dovevi avere un libretto di istruzioni, un tutorial. Ci voleva qualcuno che poi dopo ti spiegava: “Questo spettacolo è fondamentale, è importantissimo!”
Serviva uno che ti spiegava quel pippone immane. E poi dicevi comunque: “Non ho capito niente lo stesso, va bene, grazie”.
Mi dicevo: “Ma quello là, che magari fa un lavoro semplice, magari non è laureato - per carità, rispetto per i laureati -, e l’hanno convinto a venire a teatro, ma quanti anni ci vorranno perché rimetta piede in un teatro dopo aver visto questo spettacolo?”
E così ci siamo giocati il teatro.
A furia di fare un teatro complicato, elitario, che rifugge il popolare, l’essere popolare – parlo del teatro perché è il mio mondo, è il mio lavoro, è il mio problema quotidiano, ma il discorso vale anche per la cultura in generale – la gente si è allontanata.
E noi diciamo: c’è la crisi del teatro, perché c’è Netflix, perché c’è Prime. Ma dai, è quello il problema?
E perché allora a Parigi ci sono 350 teatri di cui la maggior parte sono pieni? I francesi non hanno Netflix o non hanno Prime?
Allora il problema è l’offerta nostra! Finché l’offerta culturale rimane scollegata, lontana, poco preoccupata di arrivare come arrivava Shakespeare, come arrivava Goldoni… Bisogna fare della buona cultura, preoccupandosi del destinatario e non preoccupandosi di sé stessi, di quella ristretta cerchia di amici, di accoliti, di gregari, che ti dicono: “Bellissimo, bellissimo, quell’intervento stupendo, quando hai citato quella cosa, fantastico!”
Ancora una cosa. Io ho una foto[3] scattata con i miei figli al termine della lettura di Harry Potter. Dopo due anni siamo arrivati alla fine de I doni della morte - avevamo letto i diversi volumi per due anni ogni sera. Arrivati alla fine, abbiamo fatto una foto con tutti e sette i volumi e loro contentissimi. Harry Potter è cultura?
Cavolo se è cultura!
È intrattenimento altissimo ed è cultura […]
Non dobbiamo essere come quelli che Guareschi chiamava trinariciuti. Quelli che alzano le narici, che arricciano il naso in segno di superiorità.
“Via, ma non è cultura questa!”: i trinariciuti arricciano talmente le narici che ne hanno tre!
Non bisogna essere trinariciuti, bisogna cogliere tutto ciò che può essere cultura e tutto ciò che può essere popolare.
Penso e credo che la cultura debba andarselo a cercare il pubblico, non stare lì ad aspettare che il pubblico abbia una illuminazione e decida: “Sì, è vero, io debbo dedicarmi alla cultura”.
La cultura deve andare a cercarsi la gente. Se c’è poca gente, bene, fate qualcosa, facciamo qualcosa, perché la gente senta la cultura non come una cosa lontana, ma come una cosa che gli appartiene e che può cambiargli la vita.
[1] Su Prestazione occasionale, cfr. “Prestazione occasionale”: una proposta spiazzante. Un’intervista a Francesco Brandi di Andrea Simone.
[2] Per una recensione ad un’opera recente di Brandi, che esemplifica ulteriormente quanto si afferma nel suo intervento, cfr. Fra’. San Francesco, la superstar del medioevo di Giovanni Scifoni con la regia di Francesco Ferdinando Brandi. Breve recensione di Andrea Lonardo.
[3] Durante l’incontro si era fatto riferimento ad un’esperienza di lettura de Il signore degli anelli insieme ai figli, i quali avevano scritto nell’ultima pagina del libro che il padre aveva letto con loro: “Oggi abbiamo finito la lettura. È stato bellissimo”. Cfr. su questo: Il Signore degli anelli non è un libro per single! Un papà e i suoi 2 figli leggono Tolkien dall’inizio alla fine per 2 anni e ½. Ecco cos’è l’educazione. Breve nota di Andrea Lonardo.Redazione de GliscrittiDell’etimologia e del significato del termine “bigotto”. Breve nota di Andrea Lonardo2024-03-25T00:00:00+01:002024-03-24T23:59:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6538Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Cristianesimo e religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (24/3/2024)
Scrive Una parola al giorno, meraviglioso sito dedicato alle etimologie:
«È certo che i normanni erano soprannominati bigots dai franchi (presumibilmente perché usi a pronunciare l’intercalare bî Got [che significa “per Dio”]), e che alcuni secoli dopo, in francese, la parola passò a designare gli eccessivamente devoti, coloro che avevano sempre sulle labbra il nome di Dio. Ancora oggi, quasi tutti i dizionari (seppur dubitativamente) fanno risalire l’etimo del francese bigot — che ha originato l’italiano bigotto, l’inglese bigot e il tedesco bigott — all’interiezione bî Got tipica dei normanni»[1].
Nel termine stesso è detta, quindi sia l’eccessiva ripetizione del nome di Dio, che continuamente condisce ogni espressione, ma anche l’abitudine a rimandare sempre a lui i motivi e i perché, senza soffermarsi a considerare le altre concause dei processi storici ed esistenziali.
[1] Testo in https://unaparolaalgiorno.it/significato/bigotto, pubblicato il 26/11/2019.Redazione de Gliscritti“Chi si adira per il peccato di un altro non vive più in povertà”. Le Ammonizioni di Francesco d’Assisi sul turbamento e l’ira. Nota di Andrea Lonardo2024-03-25T00:00:00+01:002024-03-24T23:57:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6536Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Francesco d’Assisi e Giustizia e carità.
Il Centro culturale Gli scritti (24/3/2024)
Le Ammonizioni ci restituiscono il vero Francesco, ben diverso da quello della vulgata.
Nell’Ammonizione XI la povertà è utilizzata in maniera grandiosa contro il peccato dell’ira.
Scrive Francesco – e sono parole autentiche, della sua penna:
«Ammonizione XI. Non lasciarsi guastare a causa del peccato altrui
1 Al servo di Dio nessuna cosa deve dispiacere eccetto il peccato. 2 E in qualunque modo una persona peccasse e, a motivo di tale peccato, il servo di Dio, non più guidato dalla carità, ne prendesse turbamento e ira, accumula per sé come un tesoro quella colpa. 3 Quel servo di Dio che non si adira né si turba per alcunché, davvero vive senza nulla di proprio. 4 Ed egli è beato perché, rendendo a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio, non gli rimane nulla per sé».
Per Francesco è giusto dispiacersi del peccato, perché il peccato uccide chi lo compie. Ma guai a provare ira verso il fratello e ad amarlo meno.
Egli così ragiona: se io provo fastidio per il fratello – e non solo per il suo peccato – ecco che mi impossesso di quella colpa che diviene mia “proprietà”.
Solo chi non si adira, né si turba quando il fratello commette un peccato contro di lui, ecco che resta povero e davvero non ha nulla di proprio! Infatti, se io mi adiro, è perché voglio difendere me stesso e, quindi, sono preoccupato di ciò che è mio proprio e così perdo la povertà di Cristo.
Anche il detto di Cristo “date a Cesare quel che è di Cesare” è qui interpretato a partire dal peccato d’ira conto chi ci fa del male: chi si turba perché pensa di essere stato trattato male, ha dimenticato che il Vangelo dice di lasciare a Cesare quel che è di Cesare e di preoccuparsi piuttosto di dare a Dio ciò che è di Dio.
L’Ammonizione XI deve essere letta, chiaramente, insieme alla IX nella qual Francesco afferma:
«Ammonizione IX. Amare i nemici
1 Dice il Signore: «Amate i vostri nemici [e fate del bene a quelli che vi odiano, e pregate per quelli che vi perseguitano e vi calunniano]». 2 Infatti, veramente ama il suo nemico colui che non si duole per l’ingiuria che quegli gli fa, 3 ma brucia nel suo intimo, per l’amore di Dio, a motivo del peccato dell’anima di lui. 4 E gli dimostri con le opere il suo amore».
Qui è esplicita l’affermazione che, quando qualcuno commette il male contro di noi, dobbiamo per amore del nemico non diminuire minimamente l’amore per lui, ma solo rattristarci del peccato in sé con il quale egli fa il male e si fa il male.
Per Francesco non è invece evangelico pensare al male che quel peccato ha fatto a noi stessi.Redazione de Gliscritti[Papa Francesco continua ad essere uno dei pochi veri pacifisti del pianeta]. Conflitto a Gaza, “due responsabili”. Ucraina, “il coraggio della bandiera bianca”. Incontro con Papa Francesco, che ai microfoni della RSI e ospite a Cliché si esprime sulle due guerre in corso2024-03-13T11:01:00+01:002024-03-13T10:58:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6550Riprendiamo sul nostro sito gli stralci pubblicati il 9/3/2024 da RSI di un’intervista a papa Francesco curata da Lorenzo Buccella che sarà pubblicata in forma integrale il 20 marzo 2024 (https://www.rsi.ch/info/mondo/Conflitto-a-Gaza-%E2%80%9Cdue-responsabili%E2%80%9D.-Ucraina-%E2%80%9Cil-coraggio-della-bandiera-bianca%E2%80%9D--2091038.html). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Guerra e pace.
Il Centro culturale Gli scritti (18/3/2024)
N.B. de Gli scrittiIl testo che segue è solo un'anticipazione e bisogna attendere quindi l'intervista nel suo insieme. Ma certo il tenore delle parole aiuta a comprendere come per il pontefice - e per la dottrina sociale della Chiesa - non sia sufficiente avere ragione per combattere e vendere e acquistare armi, perché la guerra uccide sempre. Bisogna valutare, invece, se la via del negoziato non debba essere percorsa con ben altra decisione da quel timido accenno ad essa che manifesta l'intellighenzia europea di sinistra e di destra.
Papa Francesco è ospite a Cliché, magazine culturale di Lorenzo Buccella in onda sulla Radiotelevisione svizzera (RSI), in una puntata dedicata al bianco (mercoledì 20 marzo), il colore del bene, della luce, ma sul quale errori e sporcizia risaltano maggiormente. Fra le tante sporcizie c’è la guerra: il conflitto in Ucraina e quello in Palestina, sui quali il pontefice si è espresso ai nostri microfoni:
In Ucraina c’è chi chiede il coraggio della resa, della bandiera bianca. Ma altri dicono che così si legittimerebbe il più forte. Cosa pensa?
“È un’interpretazione. Ma credo che è più forte chi vede la situazione, chi pensa al popolo, chi ha il coraggio della bandiera bianca, di negoziare. E oggi si può negoziare con l’aiuto delle potenze internazionali. La parola negoziare è una parola coraggiosa. Quando vedi che sei sconfitto, che le cose non vanno, occorre avere il coraggio di negoziare. Hai vergogna, ma con quante morti finirà? Negoziare in tempo, cercare qualche paese che faccia da mediatore. Oggi, per esempio nella guerra in Ucraina, ci sono tanti che vogliono fare da mediatore. La Turchia, si è offerta per questo. E altri. Non abbiate vergogna di negoziare prima che la cosa sia peggiore”.
Anche lei stesso si è proposto per negoziare?
“Io sono qui, punto. Ho inviato una lettera agli ebrei di Israele, per riflettere su questa situazione. Il negoziato non è mai una resa. È il coraggio per non portare il paese al suicidio. Gli ucraini, con la storia che hanno, poveretti, gli ucraini al tempo di Stalin quanto hanno sofferto….”.
[…]
Come trovare una bussola per orientarsi su quanto sta accadendo fra Israele e Palestina?
“Dobbiamo andare avanti. Tutti i giorni alle sette del pomeriggio chiamo la parrocchia di Gaza. Seicento persone vivono lì e raccontano cosa vedono: è una guerra. E la guerra la fanno due, non uno. Gli irresponsabili sono questi due che fanno la guerra. Poi non c’è solo la guerra militare, c’è la “guerra-guerrigliera”, diciamo così, di Hamas per esempio, un movimento che non è un esercito. È una brutta cosa”.
La colomba è il simbolo della pace, è il segnale che la guerra è finita. Ma poi c’è il dopoguerra, che comunque è un altro momento in cui si devono ricucire tutte queste ferite...
“C’è un’immagine che a me viene sempre. In occasione di una commemorazione dovevo parlare della pace e liberare due colombe. La prima volta che l’ho fatto, subito un corvo presente in piazza San Pietro si è alzato, ha preso la colomba e l’ha portata via. È duro. E questo è un po’ quello che succede con la guerra. Tanta gente innocente non può crescere, tanti bambini non hanno futuro. Qui vengono spesso i bambini ucraini a salutarmi, vengono dalla guerra. Nessuno di loro sorride, non sanno sorridere. È un bambino che non sa sorridere sembra che non abbia futuro. Pensiamo a queste cose, per favore. La guerra sempre è una sconfitta, una sconfitta umana, non geografica”.
[…]
Come le rispondono i potenti della terra quando chiede loro la pace?
“C’è chi dice, è vero ma dobbiamo difenderci… E poi ti accorgi che hanno la fabbrica degli aerei per bombardare gli altri. Difenderci no, distruggere. Come finisce una guerra? Con morti, distruzioni, bambini senza genitori. Sempre c’è qualche situazione geografica o storica che provoca una guerra... Può essere una guerra che sembra giusta per motivi pratici. Ma dietro una guerra c’è l’industria delle armi, e questo significa soldi”.Redazione de GliscrittiFabrice Hadjadj: esiste una cultura cattolica? Qual è il rapporto fra fede cristiana e cultura? Il Discorso di ricezione tenuto da Fabrice Hadjadj in occasione del Conferimento del Premio Internazionale - medaglia d’oro al merito della cultura cattolica presso la Scuola di Cultura Cattolica di Bassano del Grappa2024-03-04T22:56:00+01:002024-03-04T22:54:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6545Riprendiamo sul nostro sito, per gentile concessione, il Discorso di ricezione tenuto da Fabrice Hadjadj in occasione del Conferimento del 39° Premio Internazionale - medaglia d’oro al merito della cultura cattolica presso la Scuola di Cultura Cattolica di Bassano del Grappa, assegnato il 29/10/2021: la Scuola di Cultura Cattolica è sorta in relazione al Comune dei Giovani, voluto da don Didimo Mantiero. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Filosofia, Cristianesimo e Educazione e cultura.
Il Centro culturale Gli scritti (4/3/2024)
Ricevere un premio in un ambito cristiano è senza dubbio una gioia, ma è anche e prima di tutto una prova. Dico prova nel senso forte del termine, non parlo dei problemi di carattere mondano che certamente ci sono e rispetto ai quali mi sento abbastanza a mio agio.
C’è, ad esempio, il problema di prestarsi a quella terribile contorsione dell’orgoglio che consiste nel protestare fingendosi umili: «No, non lo meritavo, altri migliori di me avrebbero dovuto essere qui». Da parte mia, non sono dispiaciuto di essere sotto i riflettori e sono un nemico feroce dell’egualitarismo sentimentale che ha cancellato la distribuzione di premi ai bambini della scuola elementare.
C’è anche un altro problema: far finta di ignorare, per cortesia, la specie di reciprocità che si instaura. Perché il premio onora la persona premiata, certo, ma la persona premiata serve anche come biglietto da visita al premio. Tuttavia, quando si tratta di Fabrice Hadjadj e non di Josef Ratzinger, la situazione volge chiaramente a mio vantaggio.
Terzo problema: essere decorato come un campione toro riproduttore a una fiera agricola. Questo non mi dà affatto fastidio. Dopo tutto, sono padre di nove figli; e la mia pratica di clown mi ha insegnato a andare in giro senza difficoltà con una grossa campana al collo con la dicitura «Razza bovina, primo premio». Ho una morfologia che si adatta molto bene a questo tipo di ornamento.
In realtà, là dove comincio ad avere delle riserve, là dove la prova si fa sentire, è quando si scopre il legame tra le due categorie della fiera dell’agricoltura: la categoria «toro da monta» e la categoria «bovino da macello» - cioè il legame tra la fecondità e il mattatoio.
Ed è proprio questo che la ricezione di un premio in ambiente cristiano mette in evidenza. Almeno se si adotta un punto di vista veramente evangelico.
Ricordate la lettura di domenica della settimana scorsa. I figli di Zebedeo si accostano al Figlio di Dio e chiedono di sedere alla sua sinistra e alla sua destra nella gloria. Gli altri apostoli si indignano di tale arroganza, probabilmente perché hanno la stessa arroganza nei loro cuori.
Gesù non si indigna. Il desiderio di eccellenza è legittimo ai suoi occhi. È normale secondo lui cercare i primi posti. Tuttavia, poiché egli è la Verità, fa loro questa osservazione: Voi non sapete quello che chiedete (Mc 10,38). Voi rivendicate i primi posti, va bene, ma che cos’è un primo posto, qual è la condizione necessaria ma non sufficiente per accedervi? Gesù dà loro la risposta: bere il calice che sto per bere, essere immersi nel battesimo in cui sono battezzato... Subito dopo, rivolgendosi a tutti, inizia dicendo Voi sapete e non Voi non sapete.
Comincia con il ricordare in cosa consista la gerarchia delle dignità al di fuori di Israele: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,42-45).
Quando afferma che la gerarchia tra i discepoli è una gerarchia di servizio, Cristo non respinge il potere né il primato. Rivela in che cosa realmente consistono. La potenza è sempre feconda, non è competitiva né eliminatrice. Non schiaccia, ma eleva.
Il più grande maestro è colui che fa del suo discepolo un maestro più grande di lui. Allo stesso modo la gloria di un padre è che suo figlio sia ancora più glorioso. In altre parole, il desiderio di gloria presuppone un’umiltà profonda, quella di essere stato abbastanza grande per elevare un altro al di sopra di noi, come un sollevatore di pesi...
Giusto. Fin qui, ancora ci siamo... Ma a questa legge di fecondità è associata la clausola del mattatoio. Bisogna bere il calice. Bisogna, come il Figlio dell’uomo, dare la propria vita in riscatto. Ecco la prova.
Voi mi assegnate questo premio e in cambio avete su di me una pretesa. Mi mettete tra i primi, ma, quasi a tradimento, in verità ironicamente, secondo la grande ironia di Cristo, voi proclamate che devo essere il vostro schiavo. Voi lodate le mie opere, ma reclamate la mia vita. Non mi proponete l’alternativa del bandito di strada. Non mi intimate: «La borsa o la vita.» Mi date d’ufficio la borsa, e me ne rallegro, ma questo vuole anche dire, necessariamente, che devo dare la mia vita in riscatto.
Sono qui sotto la luce, si parla del mio «contributo alla cultura cattolica», ma il mio vero contributo può avvenire solo quando sarò nelle tenebre, da solo con Dio. Non a Bassano del Grappa, ma sul Monte degli Ulivi. Non al calice del cocktail, ma al calice dell'agonia. E non dico questo senza trepidare, per semplice gusto della provocazione. Lo dico tremando, per amore della verità.
Come dice il Salmo (48,21), ricordando probabilmente gli animali della fiera agricola: L’uomo nella prosperità non comprende, assomiglia al bestiame che si abbatte.
Ciò non significa che chi è lungimirante sfugga al macello, ma che ne è cosciente: sa che il Verbo stesso, nel momento cruciale, non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello (Is 53, 7).
Sarò ancora, in quell’ora di oscurità, un testimone della gioia? Come posso esserne sicuro? Voi mi consegnate questo premio e io non posso che consegnarmi al Padre eterno.
Non posso che consegnarmi alle vostre preghiere. In un ambiente realmente cristiano, un uomo che viene premiato è un uomo che chiede aiuto. E chiama i suoi fratelli in aiuto non come qualcuno che vuole salvarsi la pelle, ma al contrario perché possa consegnarla, metterla sul tavolo, non solo letterariamente, ma letteralmente, come san Bartolomeo lo scuoiato vivo, che presenta la sua spoglia come un abito appena ritirato…
Se mi è permesso di spingere ancora un po’ oltre la mia riflessione, a costo di sfiorare la scortesia, aggiungerei che non solo c’è la prova di ogni premio cristiano ma c’è anche l'imbarazzo che mi procura il titolo di questo premio in particolare. Avrei contribuito alla «cultura cattolica». Ora non sono certo che qualcosa come la cultura cattolica esista.
Ho già sperimentato un simile imbarazzo in passato, quando ho ricevuto il premio «Spiritualités d’aujourd’hui», Spiritualità di oggi. Mi sono trovato a dover spiegare ai membri della giuria che c’era un errore sulla persona o perlomeno sulle sue intenzioni.
Essendo ebreo e cattolico, la mia spiritualità non è di oggi, ma di ieri e di domani, poiché è dell’Eterno. Ma soprattutto non potevo tollerare, io, ebreo per nascita e ultra-ebreo per mezzo del battesimo, che mi si potesse prendere per un amico della «spiritualità», parola-contenitore che permette di evitare di parlare di religione e che manca l’essenziale della vita cristiana, cioè la carne, la Parola divenuta carne, e il suo Corpo e il suo Sangue dati sotto le specie del pane e del vino.
Accogliere lo Spirito Santo implica andare a Messa in un luogo dove il sacerdozio è passato di mano in mano fin dai tempi degli apostoli a Gerusalemme, e riconoscere che l’atto più mistico è quello di avere la bocca piena, senza più potere dire nulla, per essere salvati da ogni spiritualismo come da ogni fuga dalla storia e dalla geografia.
Mi piacerebbe accontentarmi di una piccola meditazione trascendentale nel mio accogliente living, in mezzo a persone sceltissime, ma, come cattolico, ho il dovere di recarmi in una chiesa ammuffita, mal riscaldata, accanto a parrocchiani con i quali ho spesso poca affinità culturale, per ascoltare un parroco la cui eloquenza è noiosa, e la teologia molto approssimativa. Eppure è là che si trova la mia salvezza, in un Dio abbastanza forte per tenermi i piedi per terra e i cui angeli non smettono di ripeterci: Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? (At 1, 11)
Per quanto riguarda la «cultura cattolica», ecco la mia perplessità. Pensare che tale cultura esista significherebbe metterla in concorrenza con le altre culture, e credere per esempio che la cultura cattolica debba trionfare sulla cultura non cattolica, che la Bibbia debba soppiantare gli altri libri.
L’idea di una cultura cattolica corre quindi il rischio di essere in combutta con il fondamentalismo. Incita a funzionare a circuito chiuso, a ex-culturarsi, a ignorare le opere del proprio tempo che non abbiano il timbro di una croce ridotta a etichetta...
Il cattolicesimo non è una cultura rivale, perché non si colloca sullo stesso piano delle culture. Se si possono paragonare le culture a specie vegetali, la Rivelazione cristiana non è una specie più viva e più bella, che dovrebbe sostituire le altre, come un’erba meravigliosa più virulenta dell’erbaccia.
È più come il sole, la pioggia e le forbici del giardiniere. È ciò che permette a ogni cultura di crescere, di purificarsi, di dare fiori più belli e frutti più gustosi.
La cultura è sempre locale e pagana. La parola rimanda in primo luogo a un rapporto con la terra. Si tratta dell’atto del contadino.
Questo atto, Cicerone lo traspone nell’ordine intellettuale, considerando lo spirito dell’uomo come un campo da disboscare, seminare, annaffiare, sarchiare: Philosophia cultura animi est. La filosofia, ma anche le arti e le scienze, sono allora concepite in continuità con il mondo agricolo.
Che cosa significa questa continuità o piuttosto questa analogia? Che l’uomo non è colui che inizia né che quello che controlla interamente l’opera. L’opera procede da un dono iniziale, quello del seme, dalla specie selvatica donata dalla natura, dalla specie addomesticata da un antenato, e si dispiega sia con lo sforzo di un lavoro che con la grazia di una meteorologia favorevole.
Il contadino celebra la natura, lavora con lei e teme gli dei. L’uomo di cultura, chiunque esso sia, riconosce sempre il dono primo del materiale e dell’ispirazione e sa che la propria mano è alla mercé dell’artrite.
Le culture non sono solo esposte al gelo e alle cavallette. Esse sono di per sé mortali. Possono scomparire a vantaggio di un’altra cultura.
Possono anche essere eliminate da quella che non è più una cultura, ma un dispositivo tecnologico. Il microprocessore sostituisce la terra, l’ingegnere il contadino.
Ora, temo che non siamo più ai tempi della cultura. Il modello non è più quello dell’agricoltura, del dono e dei giorni fasti. È quello del computer, di un controllo totale, e, naturalmente, poiché tale controllo produce un eccesso di tensione, di una perdita totale di controllo.
Sotto l'impero del paradigma tecnocratico, dove il programma prevale sulla provvidenza, dove la robotizzazione prevale sul lavoro, si oscilla continuamente tra il monitoraggio e l’ecstasy, il calcolo e la trance...
Perché allora si dovrebbe ancora oggi avere la pazienza della cultura? Cicerone prende l’esempio dell’uomo che pianta alberi di cui non raccoglierà egli stesso i frutti. Se il dispositivo tecno-emozionale ci trascina così facilmente all’istantaneità e al presentismo, è perché siamo senza speranza.
A differenza dell’antico che credeva nella trasmissione, a differenza del moderno che credeva nel progresso, il postmoderno non crede più nel futuro... Non pianta alberi. Effettua ordini con consegna espressa.
Un super cyborg non deve essere coltivato. Ma ancor più, quando l’umanità si sente condannata all'estinzione, quando il Sapiens appare come un Neanderthal in ritardo, prossimo a scomparire, la cultura tende a ridursi a pura distrazione: vedere serie di catastrofi su Netflix per non vedere il cataclisma che viene...
La cosa più terribile nell’incendio di Notre-Dame a Parigi non fu l’incendio stesso, ma la presa di coscienza del fatto che, anche se riparassimo quell’edificio rifacendolo identico, non siamo più all’epoca dei costruttori di cattedrali. La loro cultura è irrimediabilmente perduta. Per preservarne le vestigia, siamo destinati a fare appello a ingegneri agnostici.
Martin Rees, astronomo della regina d'Inghilterra, presidente della Royal Society e pensatore del transumanesimo, dichiara molto chiaramente questa perdita del tempo lungo:
«Nel Medioevo, i costruttori di cattedrali erano felici di costruire un edificio che sarebbe durato più a lungo della loro vita, perché pensavano che i loro nipoti avrebbero potuto goderne e avrebbero vissuto esistenze simili alla loro. Credo che non abbiamo più questa risorsa. Pretendere oggi di lasciare un'eredità che durerà più di cento anni è un'ambizione più presuntuosa di quanto lo fosse per i nostri antenati»[1].
Durare più di cento anni è il marchio delle grandi opere di cultura. Ora, se la risorsa non si trova più nel mondo circostante, dove può ancora sussistere la cultura, in quale terriccio che non è solo della terra, quale ambiente può assicurare una continuità storica sufficiente a che i nipoti abbiano ancora una vita la cui essenza appaia simile a quella dei loro nonni?
Penso che immaginiate la mia risposta. La rivelazione cattolica non è una cultura, ma diventerà sempre più il luogo in cui la cultura potrà ancora sussistere.
In un mondo tecnocratico e disgregativo, dove non si parla più che di crollo, non c’è che la Chiesa, nella permanenza miracolosa del suo magistero, a mantenere l’unità della condizione umana dal momento dell’espulsione dell'Eden fino alla discesa della Gerusalemme celeste. Le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa (Mt 16,18) significa che nella Chiesa la cultura non è condannata, anche se tutto intorno la terra trema e la valle di lacrime non è più che una valle di silicone.
Diventando cristiano, divento contemporaneo di Mosè, Paolo, Agostino, Tommaso d’Aquino, Dante, Manzoni, ma anche di Sofocle, Aristotele, Virgilio che sono portatori di preparazioni evangeliche.
So che, sostanzialmente, le domande che pongono Shakespeare o Goldoni valgono ancora per me. Anzi, credo che Nietzsche e Marx avranno posterità solo nella Chiesa, perché il cattolico si interesserà ancora ai loro scritti, quando i seguaci degli algoritmi, dell’animalismo o del fondamentalismo li avranno da tempo abbandonati. La stessa cultura atea non potrà radicarsi se non là dove ancora si celebra la carne e la parola, la verità che germoglia dalla terra e la giustizia che discende dal cielo (Sal 84,12). Non so se ho contribuito a una cultura cattolica, ma se ho partecipato a un cattolicesimo che riconosce la sua missione di salvezza per la cultura oggi, allora il premio che ricevo non è fondato su un malinteso. Sempre più, in futuro, bisognerà rispondere all’Ascolta Israele, per ascoltare ancora Mozart o leggere La Ricerca del Tempo perduto...
[1] Katie Mack, The end of everything (Astrophysically speaking), Penguin Books, 2021, pp. 205-206.Redazione de GliscrittiLa questione esegetica della tipologia nelle storie quattrocentesche della Cappella Sistina (Perugino, Botticelli, Signorelli, Ghirlandaio, Rosselli, Biagio d’Antonio) con gli episodi della vita di Mosè e di Gesù Cristo in “parallelo”: una delle testimonianze – la più, chiara in Roma – del principio che vale per ogni lettura biblica nella Chiesa, di Andrea Lonardo2024-03-04T22:56:00+01:002024-03-04T22:52:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6546Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo, a commento dell’immagine con le storie quattrocentesche della Sistina raffrontate, preparata per il volume A. Lonardo, Dove si eleggono i papi. Guida ai Musei Vaticani. Cappella Sistina. Stanze di Raffaello. Museo Pio Cristiano, Bologna, EDB, 2015, pp. 30-31. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Arte e fede e Roma e le sue basiliche. Cfr., in particolare, Guida alla visita della Cappella Sistina (Musei Vaticani), di Andrea Lonardo. Sulla tipologia, cfr. in particolare: -Abramo vide il mio giorno e fu pieno di gioia, di Andrea Lonardo -«Il fatto che la liturgia abbia fatto sue e conservate lungo i secoli determinate esegesi tipologiche costituisce una specie di "consacrazione" di esse, tanto da poter essere considerate interpretazioni tradizionali e ufficiali della Chiesa». Al cuore della catechesi non c’è solo la Scrittura, ma anche la liturgia: solo la liturgia è in grado di “spiegare” la Scrittura attraverso la lettura tipologia della Bibbia. Tre riflessioni capitali di Sofia Cavalletti -Perché la Bibbia non è un libro, ma una voce vivente. E perché è il popolo di Dio il vero interprete delle Scritture. Sul rapporto fra Scrittura e Tradizione interrogato dal Sola Scriptura, di Andrea Lonardo -La Bibbia non è semplicemente narrazione e la teologia non può essere semplicemente narrativa. Breve nota di Andrea Lonardo -Tipologia biblica e patristica liturgia della Parola, di Mariano Magrassi.
Il Centro culturale Gli scritti (4/3/2024)
1/ L’impostazione tipologica del ciclo dei pittori quattrocenteschi della Sistina
Il programma iconografico delle pareti della Cappella Sistina è un’immagine chiarissima di cosa sia la tipologia nella lettura cristiana della Scrittura. Gli affreschi che si fronteggiano a due a due hanno lo stesso tema: quello di sinistra, guardando l’altare, rappresenta il “tipo”, la “pre-figurazione”, l’“immagine”, l’“ombra”, l’“anticipazione” veterotestamentaria, di cui quello a destra è il “compimento”, la “figura piena”, la “pienezza” neotestamentaria.
Tale procedimento è assolutamente abituale ancora oggi nella liturgia: ad esempio, se si celebra la festa del Corpus Domini, si proclama la lettura veterotestamentaria della manna nel deserto a dire che quel “pane che discende dal cielo” anticipa il dono dell’eucarestia, che è il “vero” pane che viene da Dio. O ancora: se si legge la dichiarazione di Gesù che il suo corpo è il vero Tempio distrutto in tre giorni e ricostruito, ecco che la liturgia fa precedere tale annuncio dalla lettura dei racconti dell’edificazione del tempio veterotestamentario.
Su tale esegesi tipologica, nata dall’esperienza della Chiesa, è tornato ad insistere recentemente il Nuovo Direttorio per la catechesiche recita:
«La catechesi e la liturgia, raccogliendo la fede dei Padri della Chiesa, hanno plasmato un modo peculiare di leggere e interpretare le Scritture, che conserva ancora oggi il suo valore illuminante. […] La catechesi e la liturgia non si sono mai limitate a leggere separatamente i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, ma leggendoli insieme hanno mostrato come solo una lettura tipologica della sacra Scrittura consente di cogliere in pienezza il significato degli eventi e dei testi che raccontano l’unica storia della salvezza. Tale lettura indica alla catechesi una via permanente, ancora oggi di grande attualità, che permette a chi cresce nella fede di cogliere che niente dell’antica alleanza viene perduto con Cristo, ma in lui tutto trova compimento»[1].
Insomma, l’Antico Testamento è visto già carico di Cristo: le sue storie anticipano, in maniera nascosta, ciò che è avvenuto poi alla venuta di Cristo[2].
Tale lettura cristologica delle Scritture veterotestamentarie – che appunto le rende “veterotestamentarie” in relazione ad un “nuovo” Testamento – ha senza alcun dubbio origine nelle parole stesse di Cristo che interpreta la propria vita come pieno compimento delle Scritture ebraiche.
Ma già gli stessi testi veterotestamentari vivono della dinamica di un annuncio-inveramento, ancor più evidente oggi, quando si collocano in età più tardiva di quanto si pensasse un tempo, le datazioni dei singoli libri – e, conseguentemente, l’evento antico viene letto alla luce del presente in cui venne scritto quel testo.
Solo per offrire due esempi fra i più indicativi, negli stessi testi dell’AT il passaggio del Mare nell’Esodo è anticipo del passaggio del Giordano operato da Giosuè e le due Pasque del Mar Rosso e del Giordano sono chiavi interpretative del ritorno dall’esilio annunciato dal deutero-Isaia[3].
L’esegesi cristologica, compiuta da Gesù stesso che porta a compimento la rilettura dei racconti precedenti già tipica dell’ebraismo, si sviluppa poi in tutta l’esegesi patristica.
Di essa Simonetti[4] ha affermato che, pur nella diversità delle metodologie dei diversi Padri della Chiesa, la chiave interpretativa unitaria è esattamente questa: Cristo è già presente nell’Antico Testamento, anche se nascostamente[5]. Se così non fosse, si dovrebbero presupporre due diverse divinità all’origine delle due alleanze, alla maniera marcionita, e due diverse religioni, senza legame alcuno fra di loro.
Ma è stata soprattutto la liturgia a proporre l’esegesi tipologica e a fissarne le coordinate principali, che si ritrovano nella Sistina stessa.
La liturgia è quel processo in atto operato dalla Tradizione della Chiesa che interpreta la Scrittura: si potrebbe dire che la Liturgia è l’esegesi della Chiesa – perché è vero che esiste un’esegesi della Chiesa e non solo una dogmatica della Chiesa.
Ne ha parlato in maniera chiarissima il Concilio Vaticano II, in particolare la Dei Verbum, invitando a leggere la Scrittura sia a partire dal metodo storico-critico, sia con i criteri dell’unità delle Scritture e della medesima ispirazione dello Spirito Santo per ogni parte di essa, sia con il criterio della esegesi della Tradizione appunto.
Tale duplice sguardo – storico-critico e secondo la tipologia - è possibile e sensato proprio perché già il NT rilegge l’AT in chiave tipologica e tale esegesi non è dunque un’invenzione posteriore della Chiesa: chi legge in maniera storico-critica il NT deve fare spazio alla tipologia che è obbligato a riconoscere con metodo scientifico nei Vangeli e nel resto della Bibbia cristiana, se vuole essere fedele ad essi[6].
Per questo, fra l’altro, non si può comprendere il Concilio Vaticano II, separando un “ritorno” alle fonti scritturistiche da un “ritorno” ai Padri della Chiesa[7]: i padri conciliari li hanno proposti insieme, anche se spesso ciò viene dimenticato.
La novità dello schema definitivo della Dei Verbum, che supera il primitivo basato ancora sull’idea dell’esistenza di due distinte fonti, la Scrittura e la Tradizione, ha mostrato come fosse angusta tale prospettiva: essa si limitava a porre la questione oggettivisticamente quasi che Scrittura e Tradizione fossero due recipienti da cui estrarre contenuti dogmatici e morali.
La riflessione teologica era rinchiusa in questa povera prospettiva dagli anni della Riforma e della risposta ad essa del Concilio di Trento, quasi che la Tradizione andasse invocata esclusivamente per le questiones disputatae (ad esempio, cosa pensare del papato a Roma o della vita religiosa o del celibato del clero, se essi non sono presenti nella Scrittura, ma vengono proclamati dalla Tradizione? La Tradizione è una “prova” che supplisce alla Scrittura?)
Per il Concilio Vaticano II il ruolo della Tradizione - cioè della Chiesa - è originario e radicale e non è da invocare principalmente a partire dalle quaestiones disputatae.
La Tradizione della Chiesa è ciò che interviene ordinariamente - e non esclusivamente nei casi in cui manca un’attestazione scritturistica - a chiarire il senso della Bibbia, cogliendone proprio la presenza cristologica, come fa appunto la Liturgia che sempre collega AT e NT.
Tale procedimento è evidente nelle storie quattrocentesche della Sistina che rappresentano, in Roma, l’esempio più chiaro e più noto di tale lettura biblica tipologica, cioè cristologica.
Nelle storie di Mosè e di Cristo della Sistina, a sinistra sono gli episodi della storia veterotestamentaria di Mosè visti come “figure” di quelle di Cristo, che sono invece a destra.
L’immagine che venne preparata per il volume Dove si eleggono i papi. Guida ai Musei Vaticani[8]- e che è qui ripubblicata - chiarisce visivamente, proprio nella sua dimensione strutturale che è ben più importante dei singoli dettagli di ogni immagine, tale prospettiva tipologica che mantiene in tensione AT e NT.
Le chiavi di lettura tipologiche sono incise al di sopra degli affreschi stessi a chiare lettere, nella cornice in pietra, con il rimando che è indicato ogni volta dall’AT al NT con l’utilizzo di un medesimo termine.
La prima coppia superstite degli affreschi ha per tema i sacramenti della rigenerazione (regeneratio): la circoncisione per l’AT e il battesimo per il NT.
La seconda coppia ha per tema la tentazione (temptatio) cui furono sottoposti Mosè e Cristo ai quali, invece, bisognava ubbidire come inviati di Dio.
La terza coppia ha per tema la convocazione (congregatio) del popolo dell’Antica e della Nuova alleanza.
La quarta ha per tema la promulgazione (promulgatio) della legge mosaica e poi della legge della nuova alleanza nel discorso della montagna.
La quinta tratta dell’opposizione (conturbatio) agli inviati di Dio.
La sesta del rinnovamento (replicatio) della promulgazione dell’alleanza dopo il superamento delle opposizioni contro Mosè e contro il Cristo.
2/ Breve excursus sui diversi pittori del ciclo
Le coppie di affreschi furono realizzate da pittori diversi, ma secondo un preciso progetto, di modo che ognuno realizzasse nella sua propria parte ciò che l’intera sequenza, basato appunto sulla tipologia, prevedeva.
Fu Sisto IV ad affidare la realizzazione dell’intero ciclo a diversi artisti del suo tempo, poiché una così ampia affrescatura ebbe bisogno del coinvolgimento di tanti pittori con le loro botteghe – i lavori furono compiuti in un arco di tempo abbastanza circoscritto, dal 1481 al 1483[9].
Il Perugino realizzò i due primi affreschi con Mosè salvato dalle acque e con la Nascita di Gesù - ora scomparsi, perché coperti dal Giudizio universale di Michelangelo. Realizzò anche i due successivi con La circoncisione nell’Esodo e Il Battesimo di Gesù e, più oltre, la Consegna delle chiavi a Pietro.
Sandro Botticelli realizzò i due affreschi successivi a quelli del Perugino, le Prove di Mosè e le Tentazioni di Cristo, oltre all’affresco con la Rivolta di Core, Datan e Abiram che è dinanzi alla Consegna delle chiavi del Perugino.
Biagio d’Antonio realizzò il Passaggio del Mar Rosso, mentre Cosimo Rosselli dipinse la Consegna della Legge a Mosè e il Sermone della montagna.
L’Ultima cena è di Cosimo Rosselli e Biagio d’Antonio.
Il Ghirlandaio realizzò la Vocazione dei primi apostoli e la Resurrezione, ora perduta.
Luca Signorelli realizzò il Testamento di Mosé e la Disputa per la salma di Mosè, ora perduta.
3/ Gli affreschi quattrocenteschi della Sistina a coppie
3.0/ La prima coppia, oggi scomparsa
Nonostante le diverse mani, le iscrizioni che sono in alto sul marmo e i soggetti rappresentati mostrano chiaramente l’intento tipologico.
Manca la prima coppia di dipinti e la prima coppia di iscrizioni – distrutti dal Giudizio universale di Michelangelo – ma è chiaro che il tema era quello della nascita, con Mosé salvato dalle acque e con la Natività di Gesù, l’una scena a fianco dell’altra.
3.1/ La rigenerazione attraverso la Circoncisione e il Battesimo
La seconda coppia di affreschi – che è oggi la prima – è accompagnata dalle iscrizioni Observatio antique regenerationis a Moise per circoncisione e Institutio novae regenerationis a Christo in baptismo.
È evidente che si vuole sottolineare la rinascita dell’uomo in Dio, con la circoncisione che è “tipo” e “figura” del Battesimo: la circoncisione è vista come pre-figurazione dell’evento che si compie nel Battesimo, la piena rigenerazione dell’uomo che diviene figlio di Dio.
Perugino[10] dipinse a destra l’episodio mosaico della regeneratio tramite circoncisione. Si vede al centro, Mosè che saluta Ietro, prima di tornare con la sua nuova famiglia in Egitto. A sinistra l’angelo del Signore rimprovera Mosè perché non ha circonciso il figlio e, bloccandone la marcia, lo minaccia. A destra, Zippora, moglie di Mosè, circoncide il figlio, obbedendo al comando di Dio.
Nell’episodio neotestamentario speculare della regeneratio, invece, si vede in alto a sinistra il Battista che predica, al centro si vede il battesimo di Gesù e, a destra, l’inizio della predicazione pubblica del Cristo.
3.2/ Le tentazioni di Mosé, “prefigurazioni” di quelle ormai vinte da Cristo
La seconda coppia – in origine la terza – è del Botticelli. Qui vengono messe in parallelo le tentazioni subite da Mosè e le tre a cui il diavolo sottopone a Cristo. L’iscrizione reca i titoli Temptatio Moisi scriptae legis latoris e Temptatio Iesu Christi latoris evangelicae legis.
A sinistra sta una complessa scena con diversi episodi che raccontano la storia di Mosè con le peripezie precedenti l’esodo.
La sequenza di azioni comincia a destra con Mosè che uccide l’egiziano che perseguitava gli ebrei, prosegue poi verso sinistra con Mosè che fugge nel deserto, poi con l’episodio del pozzo di Madian, presso il quale Mosè scaccia i pastori per proteggere le figlie di Ietro e abbeverare i loro greggi. In alto si vede Mosè che si scalza dinanzi al roveto ardente e Dio che gli appare, mentre il roveto brucia ma non si consuma. Infine, in basso a sinistra, è Mosè che torna in Egitto con la moglie ed i figli.
Nell’affresco corrispettivo neotestamentario sono rappresentate le tre tentazioni di Gesù nel deserto: in alto a sinistra, il diavolo lo invita a domandare a Dio che le pietre diventino pane, a destra gli mostra tutti i regni di questa terra con la loro gloria, al centro, al di sopra del tempio, lo invita infine a gettarsi giù, perché certo Dio lo soccorrerà.
Ma, proprio perché era necessario dipingere il Tempio – realtà decisiva nell’Antica Alleanza –, ecco che Botticelli, dovendo porre nella stessa immagine la “figura” e la sua piena realizzazione, dipinge un episodio solo apparentemente incongruente al centro.
Infatti, dinanzi al Tempio, si vede – pensato in maniera geniale – l’incontro di due figure, il Sommo sacerdote e un giovane in vesti bianche.
Ovviamente il Sommo sacerdote è colui che compie l’antico rito sacrificale (si vede l’altare acceso subito dietro, per l’immolazione degli animali) e purifica (si vede il bacile con il purificatorio).
Il giovane, invece, riceve il bacile della purificazione ed è in vesti bianche, di uno splendore diverso e maggiore di quelle splendide, perché rituali, del Sacerdote.
Più che identificarlo con una qualche figura specifica[11], ad esempio il lebbroso purificato ad indicare un concreto episodio dei Vangeli, ciò che l’affresco suggerisce è proprio il passaggio da una purificazione ad un’altra, piena e definitiva. Si vede proprio il Sommo sacerdote che pone nelle mani del giovane il bacile, quasi a consegnarglielo: non è lui a purificarlo, ma affida a lui la purificazione che verrà.
Quel giovane in vesti bianche è una nuova figura “luminosa” nella quale Botticelli rappresenta la nuova “alleanza” che cede il passo all’Antica, la prima più anziana e la seconda giovane, con la prima che “passa”, che “consegna”, che “affida” la purificazione alla seconda.
I battezzati vincono, in maniera ben più decisiva dell’antica purificazione, il male, grazie alla vittoria di Cristo sul Maligno. La liberazione dal male non avviene più grazie ai riti veterotestamentari, che sono come l’ombra degli eventi della vita del Cristo, ma in maniera diversa e più definitiva per la presenza di Cristo.
3.3/ La nascita del popolo dell’Antica Alleanza, convocato da Dio, e il nuovo Popolo di Dio
Nella terza coppia di affreschi vengono messe in parallelo la nascita dell’antico e del nuovo popolo: il popolo di Israele prefigura la Chiesa. L’iscrizione reca a sinistra l’espressione Congregatio populi a Moise legem scriptam accepturi, mentre a destra è scritto Congregatio populi legem evangelicam accepturi.
Nell’affresco mosaico è rappresentato il passaggio del Mar Rosso, all’origine della storia del popolo di Dio. In fondo a destra si vede, subito fuori di una città che rappresenta l’Egitto, il faraone seduto in trono, segno del suo potere malvagio. La città è investita dalle dieci piaghe per lasciar uscire i figli di Israele. Al centro si vede il mare - con la colonna di luce e ombra che protegge il popolo - che si richiude facendo annegare gli egiziani. Sulla riva, a sinistra, emerge la figura di Mosè, al cui fianco sta Miriam che suona il canto della vittoria; dietro di loro il popolo già si incammina verso il deserto.
Nell’affresco neotestamentario si vede a sinistra, sullo sfondo, Gesù che cammina presso il lago di Tiberiade. A destra, invece, egli chiama a seguirlo gli apostoli che sono in barca a pescare con il loro padre. Al centro, gli apostoli, udito l’invito alla sequela, si inginocchiano dinanzi al maestro, accettando la sua chiamata a divenire “pescatori di uomini”, chiamati a convocare l’intero popolo di Dio.
3.4/ La consegna dei Dieci Comandamenti a Mosè e del duplice comandamento dell’amore in Cristo
Nella quarta coppia è raffigurata la promulgazione della Legge. Come Israele ricevette i dieci comandamenti, così ora, in pienezza, la comunità cristiana riceve la legge dell’amore. La duplice iscrizione recita: Promulgatio legis scripte per Moise e Promulgatio evangelicae legis per Christum.
Nell’affresco mosaico si vede, a destra del monte, il popolo che adora il vitello d’oro, mentre Mosè è in alto a ricevere la Legge da Dio. Sulla sinistra del vitello d’oro, si vede Mosè che, appena disceso, distrugge le tavole che ha appena ricevuto dal Signore e, sulla destra, la punizione che i leviti comminarono agli ebrei. Infine, ancora più a sinistra, è Mosè che ridiscende con le tavole della Legge scritte da Dio una seconda volta, mentre, sullo sfondo, si vede l’accampamento di Israele.
Nell’affresco neotestamentario, è rappresentato Gesù sul monte che annuncia la legge della nuova alleanza: a destra è raffigurato, invece, mentre guarisce un lebbroso, perché la sua Parola dà vita.
3.5/ La contestazione dell’autorità di Mosè e di quella di Cristo
Nella quinta coppia la legge appena promulgata è contestata. L’iscrizione a sinistra recita Conturbatio Moisi legis scriptae latoris, mentre quella a destra dice Conturbatio Iesu Christi legislatoris.
Questa coppia è la più caratteristica degli affreschi quattrocenteschi della Sistina perché vuole affermare che non si deve contestare l’autorità voluta da Dio. Come Dio difese Mosè dalla protesta degli Israeliti, così ha protetto nel Nuovo Testamento la rivolta contro il suo Figlio, e così difenderà la Chiesa, con le sue autorità, quando qualcuno si leverà per distruggerle.
Nell’affresco del Botticelli si vede, a destra, la rivolta di Core, Datan e Abiram che nel testo biblico insorgono al grido “Tutti sono santi, perché vi innalzate sopra l’assemblea del Signore?”, contestando il primato di Mosè - si vede il tentativo di lapidarlo.
A sinistra la terra si apre per intervento divino, per inghiottire i ribelli all’autorità di Mosè. Infine, al centro, Mosè purifica con l’incenso l’altare per arrestare il flagello che, per punizione divina, stava colpendo il popolo. L’arco retrostante reca l’iscrizione Nemo sibi assumat honorem nisi vocatus a Deo tanquam Aron (Nessuno pretenda per sé l’autorità/onore, se non chiamato a ciò da Dio, come Aronne).
Nell’affresco neotestamentario del Perugino, forse il più famoso della serie, al centro si vede Gesù che affida a Pietro le due chiavi simbolo del suo mandato, per aprire e chiudere, per sciogliere e legare, mentre sullo sfondo a sinistra si vede Gesù che paga il tributo del Tempio, ma dichiara di esserne esente. A destra il tentativo dei giudei di lapidare Gesù, raccontato da Giovanni.
Il quinto personaggio da destra, vestito di nero, è un autoritratto del Perugino stesso. I due archi sullo sfondo recano due scritte che ricordano il re Salomone a sinistra e papa Sisto IV a destra – anch’essi sono posti in parallelo!
3.6/ La riproposizione, dopo la contestazione, delle due alleanze, con la prima che prefigura nuovamente la seconda
Nella sesta e ultima coppia è raffigurato il rinnovamento dell’antica e della nuova alleanza.
Nell’affresco di Luca Signorelli (Replicatio legis scriptae a Moise) si vede in alto a sinistra la morte di Aronne. In basso a sinistra è Mosè che investe Giosuè della propria autorità. A destra è Mosè che parla al popolo prima di morire, proclamando tutto ciò che è riferito nel Deuteronomio e, infine, l’angelo che mostra a Mosè dal monte Nebo la terra promessa e poi, più in basso, lo accompagna fino al momento della morte, senza che nessuno dei presenti assista all’evento.
Nell’affresco neotestamentario (Replicatio legis evangelicae a Christo) si vede l’ultima cena di Gesù e, attraverso l’apertura delle tre finestre, le scene della preghiera di Gesù nell’orto, della sua cattura e della sua crocifissione.
L’iconografia dell’ultima cena è ancora quella tradizionale, con Giuda dipinto, unico fra gli apostoli, dall’altra parte del tavolo. Solo pochi anni più tardi Leonardo da Vinci innoverà profondamente questa rappresentazione ponendo Giuda vicino a Pietro e Giovanni, dalla stessa parte del tavolo dove sono seduti tutti gli altri, conferendo una ben diversa drammaticità alla scena[12], ben più fedele al dettato evangelico originario.
Interessantissima è la presentazione dell’ambiente in prospettiva come di un’aula ottagonale, che, se risponde all’amore dell’Umanesimo e del Rinascimento per gli edifici a pianta centrale, sottolinea ancor più l’ottavo giorno, quello della Resurrezione del Cristo che porta a compimento quanto iniziato nella creazione antica veterotestamentaria.
3.7/ La resurrezione di Cristo, mistero culminante
Se i due riquadri della facciata d’altare sono andati perduti per la realizzazione del Giudizio universale di Michelangelo, i due della parete di fondo andarono distrutti quando l’architrave della parete crollò nel 1522 immediatamente dopo il passaggio di papa Adriano VI, uccidendo alcuni uomini del seguito. Vennero rifatti, con identico soggetto, nel 1571-1572 con La Contesa sul corpo di Mosè da Matteo da Lecce e la Resurrezione da Hendrik van den Broeck.
Anche qui, nuovamente, la tipologia pone la morte di Mosè a fianco della Resurrezione del Cristo: Mosè è l’amico di Dio che non entra nella terra Promessa, ma muore sul monte Nebo, come segno che non era quella la terra in cui doveva entrare, mentre Cristo risorge e va al Padre, entrando così nella vera Terra Promessa, che è offerta a tutti gli uomini.
4/ La peculiarità degli affreschi quattrocenteschi della Sistina: nei “misteri”, che vengono ripresi dalla tradizione, è aggiunta la sottolineatura del ruolo della mediazione prima mosaica e poi ecclesiale
Il ciclo degli episodi del Cristo riprende la sequenza dei “misteri” elaborati dalla liturgia (cioè dalla Tradizione)[13] con una particolare sottolineatura degli eventi della “vita pubblica” del Cristo e questa lettura della vita del Signore è offerta nella sua luce di compimento della vicenda dell’alleanza con Israele attraverso Mosè.
Ma la peculiarità del ciclo della Sistina è quello di sottolineare volutamente la mediazione prima mosaica e poi ecclesiale della rivelazione e della guida divina.
Ciò porta all’inserimento nel ciclo dei “misteri” di episodi altre volte messi in secondo piano, come la Consegna delle Chiavi a Pietro e la contestazione dell’autorità.
Ma anche nei “misteri” abitualmente raffigurati viene sottolineata la mediazione umano/divina: chi veniva e viene a pregare in Sistina è invitato dagli affreschi quattrocenteschi a comprendere che la fede in Cristo è mediata dalla testimonianza ecclesiale e, in particolare, degli apostoli e dei loro successori e soprattutto di Pietro e dei suoi successori.
L’iconografia sottolinea come la storia della salvezza si compia non in astratto, bensì attraverso persone da Dio designate, opere da loro compiute, sacramenti istituiti, precise parole offerte agli uomini. La fede in Dio è così evidentemente fede nei suoi profeti e, infine, fede in Cristo stesso.
Già un versetto dell’Esodo sintetizzava in maniera straordinaria questa dimensione costitutiva della fede già veterotestamentaria, che non è solo fiducia in Dio, ma anche nella sua azione attraverso coloro che egli ha designato: «Israele credette in Dio e nel suo servo Mosè» (Es 14,31). Gesù, portando a pienezza la rivelazione, afferma spingendosi ben più in là del dettato veterotestamentario: «Se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio» (Gv 8,19).
Ancora di più la verità veterotestamentaria, che già annunciava la presenza di Dio nei suo segni, risplende così nel Nuovo Testamento, dove la fede nel Padre è accoglienza del Figlio, nella sua Parola, nei suoi sacramenti e nella sua chiesa.
Sisto IV, evidentemente, voleva che l’intera sequenza degli affreschi ricordasse come la salvezza divina passa precisamente attraverso il dono di Cristo e la sua presenza viva nella vita della chiesa.
La fede non è immediata, da Cristo all’uomo, bensì mediata dalla Tradizione della Chiesa con le sue figure investite, per un dono, di un’autorità che sola consente loro di offrire la grazia e permette a tutti di incontrare Cristo nella sua presenza ecclesiale e sacramentale.
Questo porta, conseguentemente, a porre in rilievo nel ciclo quattrocentesco della Sistina il pericolo della contestazione di tale mediazione, sia nella vicenda mosaica, sia in quella di Cristo, mentre solo l’obbedienza, la fiducia e la mediazione di quella Chiesa che Cristo ha voluto in terra sono garanzia piena, secondo gli affreschi, di un cammino in comunione con la volontà di Dio.
[1] Nuovo Direttorio per la catechesi del 2020, n. 170. Questo l’intero numero 170: «La catechesi e la liturgia, raccogliendo la fede dei Padri della Chiesa, hanno plasmato un modo peculiare di leggere e interpretare le Scritture, che conserva ancora oggi il suo valore illuminante. Esso si caratterizza per una presentazione unitaria della persona di Gesù attraverso i suoi misteri, cioè secondo i principali eventi della sua vita compresi nel loro perenne senso teologico e spirituale. Questi misteri sono celebrati nelle diverse feste dell’anno liturgico e sono rappresentati nei cicli iconografici che adornano molte chiese. In questa presentazione della persona di Gesù si uniscono il dato biblico e la Tradizione della Chiesa: tale modo di leggere la sacra Scrittura è particolarmente prezioso nella catechesi. La catechesi e la liturgia non si sono mai limitate a leggere separatamente i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, ma leggendoli insieme hanno mostrato come solo una lettura tipologica della sacra Scrittura consente di cogliere in pienezza il significato degli eventi e dei testi che raccontano l’unica storia della salvezza. Tale lettura indica alla catechesi una via permanente, ancora oggi di grande attualità, che permette a chi cresce nella fede di cogliere che niente dell’antica alleanza viene perduto con Cristo, ma in lui tutto trova compimento».
[2] Sulla questione, cfr. in dettaglio lo studio A. Lonardo, La Parola si è fatta carne, non libro. I “misteri” della vita di Gesù tra Scrittura, liturgia e arte, Cinisello Balsamo, 2019, San Paolo, (insieme a L. Mugavero), pp. 67-93. Per una riflessione su tale procedimento all’interno della Sacra Scrittura, cfr. 1/ Nel solco di Paul Beauchamp - Deuterosi, tipologia, e compimento – ovvero: la riscrittura biblica come poetica della Parola di Dio, di Roberto Vignolo 2/ Profili. Paul Beauchamp, 1924-2001, di Y. Simoens e Abramo vide il mio giorno e fu pieno di gioia, di Andrea Lonardo e Perché la Bibbia non è un libro, ma una voce vivente. E perché è il popolo di Dio il vero interprete delle Scritture. Sul rapporto fra Scrittura e Tradizione interrogato dal Sola Scriptura, di Andrea Lonardo. Sul ruolo della liturgia e della Tradizione nell’elaborazione concreta della tipologia, cfr. Tipologia biblica e patristica liturgia della Parola, di Mariano Magrassi. Per una riflessione sulla rilevanza di tale processo in catechesi, cfr. Solo una presentazione della Bibbia in chiave tipologica – dove ogni episodio veterotestamentario è figura della vita di Gesù e della vita del cristiano – permette di rendere conto della storia della salvezza (da Sofia Cavalletti e Gianna Gobbi) e «Il fatto che la liturgia abbia fatto sue e conservate lungo i secoli determinate esegesi tipologiche costituisce una specie di "consacrazione" di esse, tanto da poter essere considerate interpretazioni tradizionali e ufficiali della Chiesa». Al cuore della catechesi non c’è solo la Scrittura, ma anche la liturgia: solo la liturgia è in grado di “spiegare” la Scrittura attraverso la lettura tipologia della Bibbia. Tre riflessioni capitali di Sofia Cavalletti.
[3] Cfr. su questo, L. Alonso Schökel – J.L. Sicre Diaz, I profeti, Rom, Borla, 1984, pp. 296-302.
[4] Cfr. su questo l’immensa produzione di Manlio Simonetti e, in particolare, i due lavori sintetici M. Simonetti, Lettera e/o allegoria. Un contributo alla storia dell’esegesi patristica (Studia Ephemeridis Augustinianum 23), Roma, Augustinianum, 1985 e M. Simonetti, Profilo storico dell’esegesi patristica, Roma, Augustinianum, 1981. In forma abbreviata, cfr. La lettura cristologica e tipologica dell’Antico Testamento nel Nuovo Testamento (da Manlio Simonetti).
[5] La tipologia permette anche di dare senso a brani altrimenti incomprensibili delle Scritture stesse; cfr. su questo Nella Scrittura ci sono brani senza padrone fino alla venuta di Gesù, di Andrea Lonardo.
[6] Cfr. su questo Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo e/o ignorare Cristo significa ignorare le Scritture? Esegesi storico-critica ed esegesi tipologica nella famosa espressione di San Girolamo. Breve nota di Andrea Lonardo.
[7] Cfr. su questo Tornare alle origini significa semplicemente tornare alla Scrittura o riscoprire insieme ad essa anche i Padri della Chiesa? J. Ratzinger e il ritorno alle fonti. Appunti di Andrea Lonardo.
[8] A. Lonardo, Dove si eleggono i papi. Guida ai Musei Vaticani. Cappella Sistina. Stanze di Raffaello. Museo Pio Cristiano, Bologna, EDB, 2015, pp. 30-31.
[9] Per una visione di insieme degli artisti quattrocenteschi che lavorarono a Roma, vedi l’articolo Il quattrocento a Roma e la grande rinascita culturale nella città dei papi, di Antonio Paolucci.
[10] L’iscrizione, in alto, reca, unica fra tutte, la menzione dell’autore: opus Petri Perusini Castro plebis.
[11] C’è chi vi ha voluto vedere il giovane lebbroso già guarito – apparirà un lebbroso negli affreschi successivi –, ma Botticelli non indugia a precisare figurativamente chi sia il giovane in questione, perché con esso si allude alla definitiva purificazione: è l’Antica Alleanza che è importante e vera, ma che ormai cede il passo alla Nuova. Ancora meno convincente è la tesi di Pfeiffer che vi vede qui riferimenti politici alla storia dei Medici e in particolare alla Congiura dei Pazzi, cfr. in H.W. Pfeiffer, La Sistina svelata. Iconografia di un capolavoro, Milano, Jaca, 2007, pp. 38-42.
[12] L’affresco di Leonardo è del 1495-1498, questo della Sistina, invece, fra il 1481 ed il 1483. Sul Cenacolo di Leonardo in S. Maria delle Grazie a Milano, vedi Dal Codice da Vinci di Dan Brown ad una più rispettosa lettura iconografica del Cenacolo di Leonardo nel Refettorio di S. Maria delle Grazie a Milano, di Andrea Lonardo. Su Leonardo a servizio del pontefice e più in generale sulla sua vita e le sue opere, cfr. -Al tempo di Leonardo da Vinci non era vietata in Italia e in Roma la dissezione di cadaveri a scopo scientifico. Gli studi di Laurenza sulla questione e l’ipotesi che Giovanni degli specchi abbia cercato di utilizzare alcune posizioni filosofiche di Leonardo sull’anima per screditarlo senza successo presso la chiesa, mentre era stato proprio il papa, unitamente a Giuliano de Medici, a volerlo a Roma, perché collaborasse con lo Stato pontificio, invito che Leonardo era stato ben contento di accettare, di Andrea Lonardo -Vita di Leonardo da Vinci, di Guido Cornini -Il cattolicissimo Testamento di Leonardo da Vinci: «Primeramente el racomanda l’anima sua ad nostro Signore Messer Domine Dio, alla gloriosa Virgine Maria, a Monsignore Sancto Michele, e a tutti li beati Angeli Santi e Sante del Paradiso» -Giovanni Battista il testimone: un dito per indicare. Il Giovanni Battista di Leonardo da Vinci dal Louvre a Roma per la mostra Il potere e la grazia, di Andrea Lonardo -Cos’è il Codice Atlantico di Leonardo da Vinci. Non c’entra nulla col thriller di Dan Brown -L’uomo “vitruviano” di Leonardo da Vinci non è esoterico!, di Andrea Lonardo -Leonardo genio universale: un mito costruito dal fascismo. L'immagine di Leonardo da Vinci genio capace di intuire ogni sorta di invenzione fu modellata dalla propaganda fascista per accreditare il primato della scienza italica, di Alessandro Beltrami -La Luna vista da Leonardo. Pochi hanno messo in connessione i 50 anni dell’Apollo 11 con i 500 anni del genio da Vinci che tra i primi studiò e disegnò il fenomeno della 'luce cinerea', di Flavia Marcacci -Il Codice da Vinci: un “vero apocrifo”: divertissement, di Andrea Lonardo.
[13] I “misteri” di Cristo sono quegli eventi che la Tradizione individua, attraverso la costruzione progressiva ed esperienziale del ciclo delle feste liturgiche, come basilari nella trasmissione della Parola di Dio, come del primo alfabeto della fede, e nella celebrazione di essa. Sulla rilevanza dei “misteri” come “cristologia della Chiesa” e come chiave per la lettura della Scrittura in catechesi, cfr. il commento a Catechismo della Chiesa Cattolica 512 ss. e la riflessione teologica e pastorale in A. Lonardo, La Parola si è fatta carne, non libro. I “misteri” della vita di Gesù tra Scrittura, liturgia e arte, Cinisello Balsamo, 2019, San Paolo, (insieme a L. Mugavero), pp. 119-188 e, per la loro visualizzazione nei cicli figurativi, pp. 191-232. È il CCC a tornare a dichiarare che la sequenza dei “misteri” è fondante la presentazione della vita di Cristo nella catechesi. È stato Schönborn, in Principi direttivi nell’elaborazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, di Christoph Schönborn, a ricordare come «Ratzinger, in particolare, ha insistito molto sul fatto che i Vangeli andassero presentati nella catechesi secondo la dottrina classica dei mysteria vitae Christi. D’altro canto doveva essere evidente che lo scopo è quello di mettere in comunione con Gesù». Cfr. anche I “misteri”, in Il Catechismo della Chiesa Cattolica per imparare “la forza e la bellezza della fede”, di Andrea Lonardo.Redazione de Gliscritti[I simboli nel cristianesimo primitivo. Il sorgere dell’iconografia paleocristiana]. L’anello che sigilla, di Fabrizio Bisconti2024-03-04T22:55:00+01:002024-03-04T22:48:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6543Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 15/10/2021 un articolo di Fabrizio Bisconti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Roma e le sue basiliche e L’arte paleocristiana.
Il Centro culturale Gli scritti (4/3/2024)
I simboli della civiltà figurativa paleocristiana interessano l’intero mondo tardoantico e non solo le catacombe romane. Né è testimonianza un passaggio veloce del Paedagogus di Clemente Alessandrino, che rappresenta una sorta di manualetto del buon cristiano, un “galateo” da seguire nella comunità dei primi secoli.
Clemente Alessandrino nasce ad Atene intorno al 150, da famiglia pagana. Rare sono le notizie deducibili dalle sue opere, da integrare con alcuni rapidi passaggi di Eusebio di Cesarea, Epifanio e Girolamo. La sua formazione — sempre desumibile dalle opere attribuite — pare comportare una elevata cultura classica, una buona conoscenza della retorica, una sviluppata tensione verso la filosofia, verso la religione misterica e, più in generale, greca.
Si recherà — ancora giovane — in Italia meridionale, in Sicilia e in Palestina e approderà, intorno al 180, nella cosmopolita, multireligiosa e multietnica Alessandria di Egitto, dove si consumò la sua conversione al cristianesimo e dove conobbe il maestro Panteno. Questo ultimo segmento della sua vita intellettuale si configura come un estuario, dopo aver vissuto un elaborato processo di “alfabetizzazione” filosofica.
All’altezza di quegli anni, Alessandria, che si proponeva come seconda città dell’Impero, se non in postazione paritaria rispetto a Roma, si configura come un centro estremamente vivace e non solo — come è evidente — a livello economico, ma anche per quel che riguarda i pensieri, di tipo filosofico e religioso. Qui, si intrecciano i misteri, la cultura giudaica, proveniente dalla sintesi biblica e quella ellenistica, sulla scorta di Filone Ebreo, lo gnosticismo e le eresie, che emergono con Basilide, Valentino e Carpocrate, le scuole filosofiche alte e basse, sino ai livelli della chiromanzia.
La tradizione racconta che Panteno era stato discepolo di Giovanni l’Apostolo e che ad Alessandria la comunità cristiana era stata fondata da Marco l’Evangelista. Al di là di queste notizie, avvolte nelle nebbie dell’affabulazione, pare certo che la scuola di Panteno era privata e laica, tanto che pare poco probabile — nonostante un cenno di una lettera di Alessandro di Cesarea riportata da Eusebio (Historia Ecclesiastica VI , 11 , 6) — sia stato ordinato presbitero.
Il Didaskaleion di Panteno ebbe come successore proprio Clemente e tra i suoi discepoli c’era anche Origene. Sembra che tra il 202 e il 203, Clemente si sia stabilito in Cappadocia, presso il suo allievo Alessandro, futuro vescovo di Gerusalemme e protettore di Origene. Questo spostamento — secondo alcuni storici del cristianesimo — fu dovuto alle persecuzioni di Settimio Severo, ma è più probabile, che siano intervenute incomprensioni con l’accentratore vescovo Demetrio. La sua biografia, difficile da ricostruire, oscillante tra dati sicuri e ipotesi fumose, si conclude con la morte nel 215.
Tra le sue opere, dobbiamo ricordare il Protrettico, una sorta di apologia, sul tipo di quelle di Atenagora, Taziano e Giustino; gli Stromata, un insieme di appunti, presi per le sue lezioni al Didaskaleion; l’omelia Quale ricco si salverà?, che è un commento a Marco 10, 27 e, appunto, il Pedagogo, sul quale ci stiamo soffermando.
Tra i diversi atteggiamenti da tenere, Clemente raccomanda di usare gli anelli non per ornamento, ma per sigillare in conformità alla cura dell’economia domestica. In vero, se tutti fossero educati, non ci sarebbe neppure bisogno di sigilli, essendo ugualmente onesti sia i servi che i padroni, ma poiché la mancanza di educazione contribuisce molto a rendere disonesti, siamo costretti a usare i sigilli.
«Quanto alle figure sul nostro sigillo, esse siano una colomba o un pesce o una nave spinta dal vento o una lira musicale, come quella che aveva Policrate, oppure un’ancora di nave come portava incisa Seleuco, o infine, se uno è pescatore, si ricorderà dell’apostolo e dei fanciulli salvati dalle acque. Ma non dobbiamo portare incisi i volti degli idoli, ai quali ci è stato vietato prestare attenzione, e neppure una spada e un arco, noi che perseguiamo la pace, né una coppa, noi che pratichiamo la sobrietà. Molti tra i debosciati portano addirittura incisi [sui loro anelli] i propri amanti o le concubine, quasi che non volessero avere neppure la possibilità di dimenticare mai le loro passioni erotiche, con questa costante rimembranza della loro lussuria» [Il Pedagogo III,59,1)].
Il celebre passo di Clemente dimostra che l’uso dei simboli era molto diffuso nei primi secoli e che interessava anche gli oggetti di uso quotidiano. Questa prassi, in uso pure tra le classi elevate della societas cristiana, ci parla della grande valenza significativa dei simboli, che apre un estuario cristologico e salvifico.Redazione de GliscrittiI simboli nelle catacombe paleocristiane, l’ancora, il faro, il pesce, la nave, l’uccello, la pecora, il cristogramma, lo staurogramma, di Fabrizio Bisconti2024-03-04T22:48:00+01:002024-03-04T22:46:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6542Riprendiamo un brano dall’intervista di Angela Ambrogetti al prof. Fabrizio Bisconti, in occasione della IV Giornata delle catacombe, tenutasi il 16/10/2021, pubblicata su ACIStampa l’11/10/2021 al link https://www.acistampa.com/story/18214/la-iv-giornata-delle-catacombe-il-16-ottobre-e-dedicata-al-significato-dei-simboli-18214. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Roma e le sue basiliche e L’arte paleocristiana.
Il Centro culturale Gli scritti (4/3/2024)
L’immaginario collettivo guarda alle catacombe come ad un mondo nascosto, una sorta di «nascondiglio» sicuro al momento delle grandi persecuzioni. In realtà questi monumenti sotterranei, che ora vediamo spogli e disadorni, al momento delle loro origini erano «luoghi di attesa», in quanto coemeteria e, dunque, i «contenitori» di un sonno provvisorio, in vista della resurrezione. Questo significato peculiare comportò la decorazione dei meandri ipogei, dei loculi, degli arcosoli, dei cubicoli, con pitture, sarcofagi e mosaici. Ma le stesse sepolture mostravano chiusure con lastre incise che rappresentavano segni estremamente semplici, che ruotano attorno all’orbita del linguaggio figurativo simbolico. Rispetto alle scene iconografiche più complesse, che si ispirano agli episodi biblici, con un intento paradigmatico ed evocativo, i simboli rimandano velocemente alla visione originale della fede dei cristiani della prima ora, nel senso che fungono da spot pubblicitari, con finalità catechetiche e didattiche. I simboli sono tratti da tematiche più ampie, come quella cosmica, stagionale, bucolica, filosofica, marittima. Alcuni di questi possono anche essere raggruppati, come l’ancora, il faro, la nave e il pesce per alludere alla navigatio vitae del buon cristiano, ma anche all’accezione cristologica e battesimale. Ma possiamo fare un vero e proprio elenco di equivalenze simboliche: il mostro marino allude a Giona, la colomba con il ramoscello di ulivo nel becco a Noè, la pecora al buon pastore. Alcuni simboli trovano la loro origine nella cultura pagana, come il pavone e la fenice, che vogliono esprimere il concetto della resurrezione della carne. Il simbolo più diffuso e pregnante di significato è sicuramente il monogramma cristologico, ovvero il cristogramma, che intreccia le iniziali del nome di Cristo in greco (X e P) e lo staurogramma, che unisce ancora tali iniziali alla croce. Questo simbolo può essere arricchito dalle lettere apocalittiche alfa e omega, per caricare il significato simbolico del segno identitario dei cristiani, che confidano nella vittoria finale.
Quali simboli che troviamo nelle catacombe sono ancora validi per noi oggi e quali invece hanno perso il loro significato?
I simboli delle catacombe possono essere trascinati sino all’età contemporanea proprio per la valenza salvifica che essi implicano. È chiaro che il pesce e il cristogramma, in quanto equivalenze immediate alla figura del Cristo, sono ancora ben percepibili dai cristiani dei nostri tempi.
[…]Redazione de GliscrittiCosì Antonio Paolucci raccontava le meraviglie di Siena. Palazzo Pubblico, il Duomo, la Libreria Piccolomini, Santa Maria della Scala... Architettura e arte come orgoglio e libertà in una lectio magistralis del 2017 del grande storico dell’arte, di Antonio Paolucci2024-03-04T22:48:00+01:002024-03-04T22:45:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6537Riprendiamo da Avvenire un testo di Antonio Paolucci pubblicato il 5/2/2024. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Arte e fede, in particolare: -[La Maestà di Duccio di Buoninsegna]. La Maestà della vita, di Mariella Carlotti -Il Palazzo Pubblico e la Sala del Mappamondo, con la Maestà di Simone Martini (scheda per il pellegrinaggio degli universitari romani a Siena) -1/ Cos’è il Palio di Siena: un’intervista di Giuseppe Rusconi allo storico Roberto Barzanti 2/ Duccio Balestracci - Il Palio di Siena. Una festa italiana -“Il buon governo” di Ambrogio Lorenzetti: quando l’arte insegna alla politica, di Mariella Carlotti -Quando la certezza diventa creativa. Gli affreschi del Pellegrinaio di Santa Maria della Scala a Siena, di Mariella Carlotti - Il libretto del pellegrinaggio degli universitari a Siena 2019 con le schede di tutti i luoghi che si potranno visitare e il programma dettagliato.
Il Centro culturale Gli scritti (4/3/2024)
Per gentile concessione dell’Arcidiocesi di Siena-Colle di Val d’Elsa-Montalcino e l’Opera della Metropolitana di Siena pubblichiamo il testo della lectio magistralis che Antonio Paolucci, scomparso ieri a 84 anni, ha tenuto nel 2017 in piazza Duomo.
Siena. È talmente orgogliosa del proprio ruolo da non accettare supremazie e interferenze da parte di nessuno, pensate cosa deve essere stato per i senesi l’anno 1458 (annus mirabilis il 1458) perché in quell’anno un cittadino senese viene fatto Papa, Enea Silvio Piccolomini: grande aristocratico, grande intellettuale, grande politico e diplomatico; era stato Nunzio Apostolico in Boemia, in Germania e in Inghilterra, per poi venir consacrato Papa di Roma. Un figlio di Siena, un suo cittadino eminente assume la più importante carica religiosa del mondo cristiano.
È facile immaginare che in quell’anno mirabile 1458 i senesi dovevano essere ben contenti, felici che un loro concittadino illustre fosse arrivato a un ruolo così eccelso, e infatti nell’Archivio di Stato di Siena si trova la biccherna dell’anno 1458, nella cui copertina, a opera di Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta, è rappresentata l’incoronazione papale del cardinale Enea Silvio Piccolomini (le biccherne sono i libri contabili della città stato, raccolgono documenti preziosi, fondamentali per la vita finanziaria, economica, ma anche e soprattutto politica della città). È proprio per questa ragione che i documenti custoditi dai libri di biccherna dovevano avere un decoro particolare, di solito venivano chiamati gli artisti migliori – Giovanni di Paolo, Benvenuto di Giovanni, Matteo di Giovanni, il Beccafumi – per dipingerne la copertina.
Ebbene la biccherna dell’anno 1458 è dipinta da Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta e raffigura l’incoronazione di papa Pio II. Il Piccolomini è seduto in trono e due cardinali uno a destra e uno a sinistra gli mettono sul capo il triregno, il simbolo della triplice potestà del Papa: il Papa regna sul Paradiso, sulla terra e sull’Inferno, per questo sono tre le corone del triregno nella simbologia antica.
Sotto il trono del Papa incoronato c’è una veduta di Siena vista di profilo, con la Torre del Mangia, con il Duomo, con le torri e le case assiepate, con il giro delle mura e delle porte urbiche.
Ma subito troviamo un esempio della raffinata laicità senese, in alto a sinistra il Vecchietta ha dipinto l’aquila dell’impero, perché Siena è una repubblica di legittimazione imperiale, non papale.
Il messaggio politico che è contenuto in questa pittura del Vecchietta è molto chiaro: se qualcuno pensasse che adesso che un senese è diventato papa, noi Repubblica di Siena libera città-stato ci adeguiamo alla politica della Santa Sede, ebbene questo qualcuno si sbaglia, perché Siena è orgogliosa della sua autonomia, un’autonomia politica che l’aquila del Sacro Romano Imperatore protegge e difende.
Questo è il messaggio politico che è presente nella biccherna del Vecchietta che sta nell’Archivio di Stato. Tradotto in parole più semplici è come dire: noi senesi siamo buoni cattolici, siamo devoti figli di Santa Chiesa, siamo ovviamente orgogliosi e felici che un nostro concittadino sia stato fatto Papa, però la politica è un’altra cosa e l’autonomia della repubblica è qualcosa che non può essere condizionata da nessuna interferenza esterna, neanche da un Papa senese. Così ragionavano i senesi nei grandi secoli della loro storia.
Palazzo Pubblico e il Buon Governo
Del resto i senesi avevano un’idea incredibilmente moderna della politica e del governo. Entrando nel Palazzo Pubblico troviamo gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti, uno dei grandi artisti del Pantheon pittorico italiano. Ebbene, nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico laddove Ambrogio Lorenzetti ha dipinto i suoi affreschi del Buon Governo, negli anni trenta del Trecento, Siena e Ambrogio Lorenzetti hanno affermato e messo in figura un concetto e un’idea straordinariamente moderna, l’idea cioè dell’invisibilità, della pratica irrilevanza di chi concretamente gestisce il potere e, per contro, la perfetta didattica visibilità degli effetti del loro governo. Non è tanto importante sapere chi ci comanda, chi ci governa – vuol dire Ambrogio Lorenzetti negli affreschi della Sala dei Nove in Palazzo Pubblico –, non è importante quello, non è importante conoscere le facce e i nomi di quelli che ci governano. L’importante è vedere gli effetti che la loro amministrazione porta nella città.
Solo la città che noi abitiamo può dirci se le strade sono sicure e le campagne ben coltivate, se l’economia tira, se la città è prospera, operosa e felice, se i malfattori finiscono sulla forca. Questo dice Ambrogio Lorenzetti negli affreschi del Buon Governo e allora significa che il governo è buono; se succede il contrario, se la corruzione e l’anarchia dominano sulla città, se i partiti si dilaniano fra di loro, se trionfa la malavita, allora invece vuol dire che il governo è cattivo.
È davvero moderna questa riflessione sul governo che fa Ambrogio Lorenzetti negli anni trenta del Trecento. Oggi siamo abituati a dare una faccia, un nome a chi ci governa, ma invece bisognerebbe non badare tanto ai nomi e alle facce, come suggerisce Ambrogio Lorenzetti, dimostrando una straordinaria modernità.
Gli affreschi del Buon Governo sono un capolavoro di arte, ma anche di dottrina politica. Non è importante sapere chi sta al governo, a quale partito appartiene, se è di destra o di sinistra, l’importante è vedere come funziona la città, se le cose vanno come devono andare. Allora il governo è buono.
Infatti entrando nella Sala dei Nove (il cui nome fa riferimento ai nove che rappresentavano la magistratura elettiva, che nella Repubblica oligarchica senese tenevano pro tempore il potere esecutivo), si vedrà che i Signori Nove praticamente non si vedono, hanno una minima visibilità, non interessano, interessa piuttosto la città di Siena sotto la loro amministrazione e gli affreschi sono uno specchio, un monito di buona o di cattiva politica: questa era la modernità politica dell’antica Siena.
La bellezza abbagliante del Duomo
Si entra nel Duomo dei senesi come si entra in un reliquiario lucente di marmi policromi, di bronzi, di vetri colorati. Tutti ricordiamo la grande vetrata di Duccio di Buoninsegna che sta dentro la Cattedrale senese.
Varcando la soglia si capisce che il Duomo è insieme un reliquiario e una foresta di simboli, incamminandosi verso il presbiterio che sta in fondo, vediamo che all’inizio della navata centrale sul pavimento c’è intarsiata un’iscrizione bellissima: Castissimum Virginis templum caste memento ingredi. È in latino, ma un latino così facile che quasi non ha bisogno di traduzione: “Nel castissimo tempio dedicato alla Vergine Maria Regina del Cielo e regina di Siena, tu visitatore ricordati di entrarci con l’animo puro, con i pensieri puliti”, perché questo esige il Castissimum Virginis templum, e tutto intorno c’è uno straordinario tappeto di pietra, uno straordinario alfabeto basico della sapienza universale che per fortuna è stato reso visibile per iniziativa dell’Opera del Duomo e di Opera Laboratori.
C’è tutto nel pavimento intarsiato del Duomo di Siena: ci sono le età dell’uomo, ci sono le diverse sorti della fortuna, c’è la sapienza degli antichi, c’è Ermete Trismegisto, quello che portava con sé la immemoriale, ancestrale sapienza degli antichi egizi, ci sono le profetesse, le sibille: la sibilla delfica, la sibilla partica, la Sibilla Cumana e sotto di lei c’è persino una nota filologica sempre in latino che: cuius meminit Vergilius, “di cui parla Virgilio” nella celebre quarta egloga, dove si narra di un tempo felice con la pace distesa su tutta la terra.
Quella quarta egloga dagli esegeti cristiani era stata interpretata come prefigurazione di Cristo, del tempo felice della redenzione e, in questi mosaici pavimentali, dove sono all’opera i più grandi artisti senesi – Neroccio, Matteo di Govanni, Benvenuto di Giovanni, Pinturicchio –, ci sono le storie che prefigurano il Nuovo Testamento, le storie dell’Antico Testamento che prefigurano il Nuovo, il sacrificio di Isacco, Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia di fronte al popolo dell’esodo, la vittoria di Giuditta ebrea su Oloferne, nemico del popolo di Israele, la storia di Erode, quella di Davide e di Assalonne, del figlio ribelle Assalonne e del padre Davide, la Strage degli Innocenti di Matteo di Giovanni. Un incredibile groviglio di figure incastrate l’una nell’altra, una stilizzazione iperbolica che di fronte ai dipinti e alle figurazioni intarsiate di Matteo di Giovanni, Cesare Brandi diceva che le sue opere “quasi sollecitano la cortesia di una traduzione in persiano o in cinese”, tanto è sofisticato, raffinato, criptico nel suo modo di figurare.
Entrando nel Duomo dei senesi ci troviamo davanti a capolavori assoluti, come per esempio il Battista di Donatello, eseguito nei suoi anni tardi, databile al 1457, oppure il celebre pulpito di Nicola Pisano, scolpito con l’aiuto del figlio Giovanni e di Arnolfo di Cambio, il vertice supremo della scultura gotica italiana.
L'orgoglio di una identità forte
C’è però una cosa dentro al Duomo che soltanto a Siena è possibile trovare, una cosa che ci dà l’idea della spregiudicatezza intellettuale, della libertà mentale dei senesi e in nessuna chiesa del mondo vi è una cosa del genere. Siete mai stati nella Libreria Piccolomini in fondo al Duomo a sinistra?
Questa Libreria, si chiama appunto così, che il cardinale Tedeschini Piccolomini, nipote per parte di madre di Pio II, e poi lui stesso papa col nome di Pio III, ha voluto dedicare alla memoria del suo illustre parente presenta le storie della vita di Enea Silvio Piccolomini dipinte da Pinturicchio chiamato per decorare le pareti con i suoi viaggi in Europa, la preparazione della crociata, la sua incoronazione pontificia.
E pure vi è un gruppo scultoreo straordinario nella Libreria Piccolomini: accanto agli intarsi, ai mobili, ai codici miniati di Liberale da Verona, di Girolamo da Cremona, di Sano di Pietro, su un piedistallo di adeguata eleganza ci sono tre giovani donne, tre bellissime donne, le Tre Grazie, di una bellezza seduttiva e melodiosa, ma non sono figure dell’Antico Testamento e nemmeno del Nuovo, vengono dal mondo classico, dalla mitologia greco-romana, sono le Tre Grazie, tre fanciulle infinitamente e teneramente belle.
Soltanto il giovane Raffaello saprà mettere in figura la melodiosa, tenera bellezza nella tavoletta con le Tre Grazie che dipinse quando aveva 24-25 anni e che si trova in Francia nel Museo di Chantilly.
Ma vi immaginate una città che nel suo Duomo, consacrato alla Madonna che di Siena è Regina, mette tre donne nude che vengono dal mondo classico? Non è forse questo un segno della libertà mentale, della spregiudicatezza dei senesi che si unisce, senza contraddirlo, al loro pragmatismo politico e alla loro profonda religiosità?
Tutte cose che si tengono insieme e che fanno appunto l’identità di questo popolo, così come un altro aspetto, l’orgoglio dei senesi. Lo capite dal Duomo, questo Duomo che doveva essere tre volte più grande di quello che attualmente è, l’attuale pezzo di Duomo doveva essere il transetto di una Cattedrale più grande di cui sono rimasti soltanto gli avanzi, i ruderi, il Facciatone.
Quando l’architetto Lorenzo Maitani si presenta ai notabili della città dicendo di voler costruire un Duomo, una cattedrale che ha da essere pulcra, magna et magnifica – ossia bella, grande e magnifica –, si intende che deve essere magnifica la cattedrale dei senesi, perché bella non basta, deve surclassare la Santa Maria del Fiore dei fiorentini.
Ecco l’orgoglio senese che si colloca nel momento zenitale della storia politica e economica di questa città della prima metà del Trecento, quando Siena, ultima piazza bancaria sulla via Francigena, sulla Cassia prima di arrivare a Roma, era diventata un centro finanziario che attirava denaro, affari e capitali dall’Italia e dall’Europa.
In questo momento magico della loro economia e della loro storia i senesi si inventano l’idea di una chiesa così grande che deve far scomparire, annullare, schiacciare la basilica dei fiorentini; poi le cose andarono in modo del tutto imprevisto, ci furono la crisi economica e la grande peste del 1348, mutò radicalmente il quadro politico e quindi l’immenso Duomo che doveva oscurare quello dei fiorentini non si fece. È in questo stesso luogo che possiamo infatti capire questo altro tratto distintivo della storia del carattere dell’anima dei senesi, ovvero il loro orgoglio.
Santa Maria della Scala, l'ospedale geniale
Vi è infine, e questo ce lo consegna l’Ospedale di Santa Maria della Scala, l’aspetto caritatevole dei senesi. L’Ospedale di Santa Maria della Scala, finanziato dal Comune, ingranditosi nei secoli, ricco di molti lasciti, di molte proprietà, era diventato il complesso sanitario più avanzato, più prestigioso e più celebrato in Italia e in Europa.
All’interno dell’Ospedale di Santa Maria della Scala il genio caritatevole dei senesi si traduce in bellezza artistica. Una volta entrati nel Pellegrinaio di Santa Maria della Scala, fermiamoci di fronte agli affreschi di Domenico di Bartolo di Bartolo, di Priamo della Quercia, di Lorenzo Vecchietta e pensiamo ai malati che vivevano la loro infermità, la loro malattia ai piedi di tanta bellezza. Il ruolo terapeutico della bellezza, quello di cui tanto parlano i medici oggi, lo hanno inventato i senesi seicento anni fa, nel loro Ospedale di Santa Maria della Scala.
Un ospedale totalmente collegato al Duomo che, come dicono i documenti, si chiama Santa Maria della Scala perché sta ante gradus Ecclesiae maioris, sta davanti ai gradini della chiesa più grande, ovvero del Duomo. Quindi è un rapporto simbiotico quello tra Santa Maria della Scala e il Duomo.
In questo breve excursus vengono fuori i fondamentali caratteri distintivi della civiltà senese. Abbiamo visto la religiosità senese, la devozione alla Vergine Maria fatta regina della repubblica, la laicità dei senesi, orgogliosi di avere un Papa loro concittadino, ma anche pronti ad affermare la loro autonomia da qualunque ingerenza esterna, fosse pure quella di un Papa concittadino ed amico. Abbiamo inoltre visto la libertà mentale, la spregiudicatezza intellettuale dei senesi che mettono nel loro Duomo tre donne nude tra le più belle che mai si siano viste e che non vengono dall’Antico o dal Nuovo Testamento ma dalla mitografia pagana.
Poi abbiamo considerato l’orgoglio dei senesi che li spinge nella folle e disastrosa avventura del Duomo più grande di quello dei fiorentini. E infine, a conclusione, abbiamo ricordato la vocazione caritatevole di questa città, una città che ha inventato seicento anni fa la terapia della bellezza: si guarisce meglio e si guarisce prima, se stiamo in mezzo a delle cose belle. Questo i senesi lo avevano capito.Redazione de GliscrittiIl gesuita di origine ebraica David Neuhaus racconta la sua vita. Un’autobiografia di David Neuhaus e ulteriori link agli audio sul Deuteronomio e sulla lettera ai Romani2024-03-04T22:48:00+01:002024-03-04T22:42:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6544Riprendiamo sul nostro sito alcuni audio di David Neuhaus, tratti da sue riflessioni tenute presso la Piccola Famiglia dell’Annunziata. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Sacra Scrittura e I luoghi della Bibbia e della Storia della Chiesa; il link al canale Soundcloud de Gli scritti è https://soundcloud.com/gliscritti.
Il Centro culturale Gli scritti (4/3/2024)
Qui di seguito i link alle riflessioni di David Neuhasu SJ riprese su Gli scritti dal sito della Piccola Famiglia dell’Annunziata:
- David Neuhaus racconta la sua vita (Piccola Famiglia dell'Annunziata - settembre 2017) e ancora
- David Neuhaus Una introduzione al Deuteronomio
-Introduzione alla lettera ai Romani (David Neuhaus).Redazione de GliscrittiWenders in stato di grazia. L’insieme degli “adesso” rende i giorni “perfetti”. La routine quotidiana del pulire cessi pubblici a Tokyo non è mai una somma di gesti ripetitivi per il memorabile personaggio del film – capolavoro di Wim Wenders. La visione di Perfect Days” è un vero e proprio atto rivoluzionario. Partecipi di una storia dove succedono pochissime cose perché, in fondo, in quel poco c’è la vita intera. E così ti immedesimi con il volto di quell’uomo nell’immensità dei suoi gesti umili e armonicamente perfetti, di Walter Gatti2024-03-04T23:02:00+01:002024-03-04T12:22:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6547Riprendiamo da https://www.centroculturaledimilano.it/linsieme-degli-adesso-rende-i-giorni-perfetti/, un articolo di Walter Gatti pubblicato il 24/2/2024. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Cinema e Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (4/3/2024)
In un mondo di corse e di sbattimenti, di insulti e di emotività incontrollata, di pseudo-libertà e autentiche tirannie digitali, accomodarsi in platea per vedere “Perfect Days” di Wim Wenders è un atto rivoluzionario di portata planetaria.
Chi lo compie sa probabilmente già che nei 123 minuti di narrazione succede davvero poco. E soprattutto: nessuno si scazzotta, nessuno muore, nessuno scopa, non c’è sangue, e neppure tradimenti, cospirazioni o inseguimenti. Nessuno fa ragionamenti corretti.
E nemmeno scorretti, a volerla dire tutta, anche perché le prime parole vengono pronunciate dopo oltre 10minuti di storia. Per dirla in breve: accade poco dal punto di vista degli ingredienti abituali. Eppure succede tantissimo nella vita quotidiana di Hirayama, adetto alle pulizie dei cessi pubblici di Tokyo, che vive in un tugurio (tenuto però benissimo) in una periferia anonima della capitale nipponica.
“Ma chi te lo fa fare?
Il protagonista indiscusso del film – il quasi settantenne Koji Yakusho – passa il tempo a pulire water, lavandini, pavimenti, porta-carta igienica, specchi, porte a scorrimento. Lo fa con una dedizione sacrale, come se da quello che fa dipendesse tutto di lui e di ciò che lo circonda (e infatti il suo collega sfigato a un certo punto gli chiede: ma chi te lo fa fare ad essere così preciso?).
Il film racconta il tutto con una dedizione visiva analoga, sacra per l’appunto, seguendo il protagonista dalla mattina alla sera, istante per istante, dettaglio dopo dettaglio, fotogramma per fotogramma.
E tutto scorre sul grande schermo e tutto si replica pressocché identico a se stesso, per lo sconcerto (o il rapimento) dello spettatore: veglia, lavaggio e sistemazione dei baffi, vestizione con tuta blu, caffè (al distributore automatico), furgoncino nel traffico, arrivo per il lavoro alla toilette pubblica, gestione di un collega sfigato, eventi casuali collaterali (alcuni negativi, altri positivi), incontri inattesi (una ragazza, una nipote, una sorella ricchissima una pseudo-spasimante, un ex-marito della pseudo-spasimante), pranzo nel giardinetto da cui osservare il sole tra le foglie (uguali e sempre diverse, come anche i raggi che le illuminano), tante foto da fare con una piccola macchina fotografica, ritorno a casa, lettura di Faulkner, luce da spegnere, sonno ristoratore.
Quando è festa la routine cambia, perché si aggiungono i bagni pubblici, la libreria, il negozio che sviluppa le foto, il ristorante della pseudo-spasimante.
Quasi come in un monastero
Succedono cose, nel film, certo, ma impercettibili, quasi come in un monastero.
Ma la cinepresa non è tanto impegnata a cogliere le cose che capitano, quando il volto di chi le vive. Hirayama sta dentro le cose con una logica ferrea, e ad un certo punto dice alla nipotina (che è andata a trovarlo per cercare un po’ di riparo dalla ricca e si intuisce soffocante vita di famiglia): “Adesso è adesso. Un’altra volta è un’altra volta”. Adesso, insomma, è l’unica cosa che conta. L’insieme degli “adesso” crea, sembra sussurrare Wenders, i “perfect days”.
La cinepresa segue il volto del pulitore di cessi, si sofferma sui suoi occhi, sulle sue mani che puliscono e nettano e rendono scintillante il luogo meno cool di una metropoli.
E questo volto, e gli occhi che lo rendono così espressivo, si muovono su un preciso spartito musicale, rappresentato dalle canzoni che Wenders ha scelto per questo suo indimenticabile film.
Per il regista tedesco la musica non è mai un orpello, ma fa parte del plot (come per Scorsese) e contribuisce alla struttura della narrazione.
Nel 1974 per il suo Alice nelle città aveva voluto una delle band storiche del cosiddetto “kraut rock”, i Can, che avevano composto con lui la colonna sonora in poco più di 36 ore di lavoro continuo e comune. Per Paris-Texas aveva coinvolto il signore della musica delle radici americane, Ry Cooder. Per il Cielo sopra Berlino (1987) aveva voluto coinvolgere nelle riprese Nick Cave in una performance. E poi ancora: i mille pezzi celebri di Fino alla fine del mondo (dagli U2 ai Talkin’ Heads) o la colonna sonora di Non Bussare alla mia porta, curata da T Bone Burnett ancora con la partecipazione di Bono degli U2: ovunque c’è intensa cultura musicale e capacità di renderla utile. Ma in Perfect Days le canzoni si mostrano ancor più che nel passato come cartelli indicatori del discorso narrativo.
Il cantante Lou Reed
Un sorriso coraggioso e contagioso
A partire dal gioco esplicito realizzato sul titolo, che prende il via proprio da una canzone – Perfect Day – che Lou Reed ha inserito nel suo primo e leggendario album, Transformer.
Il protagonista ascolta il brano di Lou Reed in una delle tante mattine (I problemi sono stati lasciati soli, Fine settimana da soli, È così divertente, È semplicemente una giornata perfetta, Sono felice di averla passata con te, Pensavo di essere qualcun altro, pensavo di essere qualcuno di buono) in cui uscendo da casa guarda il cielo e indifferente alle previsioni meteo, affronta la giornata con un sorriso coraggioso e contagioso. Una giornata perfetta.
Giornate perfette, dice il titolo. Da una canzone al film. Conseguentemente perfetto è il modo di accordare la colonna sonora alla storia, avviluppandola come edera agli accadimenti. Patti Smith declama un suicidio in Redondo Beach, e la ragazza (che il collega di Hirayama sta cercando di rimorchiare) piange ascoltandola da una vecchia cassetta (non ci sono cd o mp3 nell’universo dell’ottimo pulitore di toilette).
Quando è giorno di festa, Hirayama se ne va in giro in bicicletta e lo accompagnano ironicamente i Kinks di Sunny Afternoon (Amo vivere così piacevolmente, Vivere questa vita di lusso, Amo oziare in un pomeriggio soleggiato). E poi ancora i Rolling Stone di Walkin’ Thru The Sleepy City, il Van Morrison di Brown Eyed Girl e la celebre House of the Rising Sun, proposta sia nella versione degli Animals, che in una versione giapponese (interpretata da Sachiko Kanenobu), che nel film fa parte di una delle sequenze più tenere e affettuose, quando il protagonista si trova nel ristorante della sua pseudo-spasimante scambiandosi occhiate sottili e intense.
Quel primo piano che dice tutto
Il finale è una sequenza banalmente epocale: primo piano su Hirayama che sta guidando al termine di vicende quotidiane, dentro il suo furgoncino, con una canzone che si prende la scena, Feeling Good di Nina Simone (È una nuova alba, È un nuovo giorno, È una nuova vita per me, e mi sento bene).
E mentre la voce della Simone si contrappunta con la sezione fiati del poderoso arrangiamento di Hal Mooney, sul volto di Hirayama – che è l’autentico palcoscenico dell’intero film – scorrono gioia, commozione, tenerezza, sconcerto, felicità, in un inseguirsi di fotogrammi che racconta una vita intera (e che fa ripensare allo scorrere delle visioni che accompagnano in primo piano il capitano David Bowman, nelle scene finali di 2001 – Odissea nello spazio, quelle in cui terrore e sgomento si mescolano nella sua caduta nell’infinito primordiale).
C’è una vita intera in poco più di un minuto, quell’adesso che è insieme gravoso e leggerissimo e che sta a suggerire la definitività dell’attimo e l’immensità del gesto quotidiano.
Ci sono oggi pochi registi in grado di sostenere questo tipo di immane leggerezza. Per dirne un paio: Aki Kaurismaki (anche il suo recentissimo Foglie al vento è da vedere e rivedere coraggiosamente) e Terence Malick, gente che sa portarti in un altro pianeta a partire (a volte) da un niente.
A proposito: di quest’ultimo, ormai da qualche anno, si attende l’uscita di Way of the Wind, un film in cui il regista dell’Illinois racconta la storia di Gesù Cristo. Data presumibile di uscita: ignota.Redazione de GliscrittiIl paradosso biblico della Terra di Israele nell’Antico Testamento, secondo l’esegesi moderna “canonica” e storico-critica. Una riflessione scritturistica complementare alle discussioni di politica internazionale su Israele e Palestina, di Andrea Lonardo2024-02-13T23:16:00+01:002024-02-13T23:12:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6534Riprendiamo sul nostro sito una recensione di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni e Sacra Scrittura, I luoghi della Bibbia e della storia della chiesa e Per la pace contro la guerra: mitezza e violenza.
Il Centro culturale Gli scritti (13/2/2024)
N.B. Le considerazioni che seguono non intendono assolutamente toccare tutti i punti della questione, né da un punto di vista storico, né da un punto di vista di diritto e politico. Intendono solo aggiungere al dibattito attuale alcune considerazioni teologiche e scritturistiche che hanno anch’esse un determinato peso.
1/ Israele/Palestina e i palestinesi musulmani e cristiani
Esiste un contributo che, per quanto indiretto, possa essere dato dalla ricerca teologica in merito al rapporto fra terra e popolo ebraico nelle Scritture e in merito al rapporto dell’Islam e dei palestinesi con la medesima terra?
Vale la pena, per una corretta lettura della storia che ha rilievo anche nella comprensione del presente, ricordare che una sola volta Maometto, secondo la tradizione islamica, sarebbe giunto a Gerusalemme. Essa è chiamata in arabo Al-Quds – cioè “la [città] santa – proprio a motivo del viaggio notturno che il profeta fece portato da una “cavalcatura alata”, dalla Mecca a Gerusalemme, per salire poi “in cielo” in quella notte e ricevere rivelazioni ed essere infine ritrasportato alla Mecca tramite la stessa cavalcatura alata, nota dalle fonti islamiche come Burāq – sulla questione di tale pretesa islamica cfr. Nomi arabi e nomi ebraici: l’UNESCO cancella la storia chiamando solo Al-Aqṣa Mosque/Al-Ḥaram Al-Sharif e non anche Bet HaMikdash, Har HaBayit o Temple Mount la spianata del Tempio o delle Moschee. Breve nota storica sui fondamenti di una discussione importante. Breve nota di Andrea Lonardo.
Un aiuto alla comprensione di tale episodio passato dovrebbe essere apportato dalle università che hanno il compito di fornire alle nuove generazioni islamiche gli strumenti critici e scientifici per valutare le fonti e discernere ciò che è storico e ciò che non lo è.
Qualunque cosa si pensi di tale episodio raccontato nelle fonti islamiche, ciò che è certo è che le armate islamiche giunsero a Gerusalemme e la conquistarono immediatamente dopo la morte di Maometto, dopo un assedio di sei mesi nell’anno 637. Ciò avvenne esattamente 5 anni dopo la sua morte. In pochi anni, dal 637 al 640 (l’anno in cui cadde infine Cesarea Marittima, il grande porto, attaccata secondo le fonti da 17.000 soldati arabi), le armate musulmane conquistarono l’intera Palestina e assalirono contemporaneamente l’Egitto.
Un lento processo di islamizzazione portò nei secoli ad una estrema riduzione della presenza cristiana, ma ancora oggi molti dei palestinesi sono rimasti cristiani, resistendo in ben millequattrocento anni di sottomissione – anche a Gaza è superstite una piccolissima comunità cristiana che è erede delle tradizioni antiche da ben prima di quel 637-640 che vide la fine del governo bizantino in quelle terre, e che si è via via arabizzata.
A sua volta il cristianesimo era lì sorto a motivo del Cristo, sotto dominazione romana.
Erano stati i romani “pagani” a togliere giurisdizione alla popolazione ebraica, ponendo fine alla relativa indipendenza con le armi, mentre il cristianesimo vi era giunto non con armato, ma a motivo di una progressiva cristianizzazione avvenuta in forma pacifica all’interno dell’impero che prima aveva perseguitato la fede cristiana e poi l’aveva via via accolta.
La diaspora ebraica si deve, quindi, con evidenza non ai cristiani, ma a Roma, al tempo in cui era ancora pagana.
I cristiani sono gli unici a non chiedere un possesso territoriale in Israele/Palestina, ma chiedono che sia conferito loro il diritto di essere cittadini a tutti gli effetti e non minoranza di serie B.
Comunque ai primi secoli, a partire dal 637, di dominio arabo seguì un periodo di dominio sempre islamico ma delle popolazioni turche a partire prima dai mamelucchi e poi degli ottomani – durato quasi otto secoli – che impoverì estremamente la popolazione araba locale, poiché tutti beni e la cultura vennero “traferiti” a Costantinopoli/Istanbul – non si deve mai dimenticare che le due popolazioni musulmane degli arabi e dei turchi non hanno quasi mai avuto buoni rapporti nei secoli.
Al dominio turco seguì quello brevissimo occidentale, di circa ventinove anni, del Mandato Britannico che, pur non potendo per ovvie ragioni di durata, fare più danni di quello ottomano, nondimeno non ha contribuito allo svilupparsi del paese.
Dal 637 in poi, le popolazioni arabe hanno abitato la terra vivendo prima sotto dominio ottomano, poi sotto quello del Mandato inglese e poi, con forme alterne, sotto la Giordania e l’Egitto e poi con parziali concessioni di libertà israeliana, ad eccezione degli arabi rimasti in Israele dopo il 1948, i cosiddetti Israeli Arabs che sono cittadini israeliani.
2/ Israele/Palestina e le Sacre Scritture ebraiche
Se si guarda alla terra con gli occhi delle Scritture ebraiche e con la storia del popolo d’Israele, il rapporto con la terra è molto più decisivo che quello che ha con essa il popolo palestinese. Se quest’ultimo non ha una storia religiosa peculiare di rapporto con quella terra – a parte il viaggio notturno del profeta – ha dalla sua, invece, tanti secoli di permanenza, dovuti però all’espulsione di Israele.
Israele, dai luoghi in cui dovette fuggire, ha sempre cantato alla terra d’Israele come al suo grande desiderio. L’espressione con cui si chiude il seder pasquale – “L’anno prossimo a Gerusalemme” – è esemplare di questo anelito che non è mai mancato in alcun tempo e in alcun luogo.
Il Tempio non è per Israele il luogo in cui è avvenuto un fatto religiosamente importante durato una notte, bensì è il centro – in ebraico si dice semplicemente hammaqom, il “luogo”, per eccellenza – di ogni promessa e di ogni attesa.
Ovviamente nella disputa su di esso tutto è complicato non solo dal fatto, unico nella storia, che due religioni guardino allo stesso luogo come sacro, ma ancor più dal fatto che i musulmani si dichiarino figli di Abramo, ma ritengano totalmente false le Scritture di Israele e disconoscano anche storicamente la storia di Israele, per cui non prendono nemmeno in considerazione che quello sia “almeno” anche il luogo di Israele.
Per gli arabi musulmani, la storia biblica di Israele, così come la racconta l’Antico Testamento, è semplicemente falsa per cui nemmeno la leggono – nessun musulmano legge la Bibbia, a differenza dei cristiani che ritengono ispirata da Dio ogni parola dell’AT, perché secondo la rivelazione coranica essa è falsa e falsificata dagli ebrei e dai cristiani. Ciò che dei diversi personaggi biblici è ritenuto vero è ciò che è raccontato di loro nel Corano che fornisce avvenimenti molto diversi da quelli biblici, ne tace molti, e ne aggiunge altri.
In realtà, non c’è alcun dubbio che l’Antico Testamento contenga la promessa di Dio della terra al suo popolo Israele.
Ci sono però considerazioni di tre tipi che vanno evocate per comprendere più criticamente il contributo della Bibbia alla discussione.
A/ Innanzitutto una considerazione che si è sviluppata solo nei moderni studi storico-critici sugli eventi della storia veterotestamentaria.
L’esegesi moderna e ancor più modernissima dubita fortemente di molti episodi, soprattutto di quelli precedenti all’esistenza dei due regni di Giuda e di Israele divisi fra di loro.
Nessuno oggi crede più alla conquista di Gerico – solo per fare un esempio – ed i racconti di conquista sono proprio quelli che rendono problematica la lettura della Bibbia anche agli stessi cristiani palestinesi che non vi si riconoscono e che non sanno come interpretarli, al punto che qualcuno chiede che non siano nemmeno letti nella liturgia.
Oggi l’esegesi moderna ha evidenziato che non solo essi hanno bisogno di una lettura allegorica, - come è sempre avvenuto – ma che la conquista, così come è descritta, ad esempio, nel libro di Giosuè, non è mai avvenuta (Cfr. sulla questione i diversi approcci in Brani di difficile interpretazione della Bibbia: il Libro di Giosuè (da J.-L. Ska, J.L. Sicre, Origene, A. Lonardo)).
B/ Ma gli studi biblici moderno mettono in risalto anche che le tre grandi sezioni della Scrittura ebraica si chiudono tutte in maniera aperta, con una terra che in quel momento non è ancora in pieno possesso di Israele oppure è stata persa e deve essere riabitata.
Questo permette di ricordare come il rapporto di Israele con la sua terra, pur essendo indiscusso, è sempre stato problematico, da un punto di vista biblico e teologico.
Lo ricorda J.L. Ska che ha mostrato, con una lettura di rara profondità, come le tre grandi sezioni della Bibbia ebraica si chiudano tutte in maniera aperta[1]: -la Torah (in greco Pentateuco) si chiude con la morte di Mosè fuori della Terra promessa e con una Terra che ancira tutta da conquistare e che non è ancora realtà, -i Nebiim (i profeti) si chiudono con l’ultimo capitolo di Malachia, che narra di un tempo in cui probabilmente il popolo non aveva ancora ricostruito il Tempio, ed è un annuncio del ritorno di Elia che dovrà purificare Israele nel futuro, -i Ketubim (gli “scritti”, i nostri sapienziali), si chiudono con l’ultimo capitolo del secondo libro delle Cronache che annunzia che Israele in esilio potrà tornare a Gerusalemme su invito del re Ciro di Persia.
Insomma, si potrebbe dire da un punto di vista biblico che la promessa della terra è certa, ma che la Scrittura dice che poi essa è sempre ancora da ottenere, perché è sempre stata persa, così come il Tempio è sempre stato distrutto. Di fatto la storia di Israele, prima della ricostituzione dello Stato di Israele nel 1948, è storia di una terra persa al tempo dei romani, ma, in fondo, anche prima.
È un paradosso di Israele che la terra (che è promessa) e il Tempio (che è il luogo della presenza stessa di Dio) siano nella Scrittura e nella storia coeva al Nuovo Testamento l’una persa e l’altro distrutto.
c/ Un altro grande questione biblica va evocata e precisamente il fatto che ad Israele è certamente promessa quella terra, ma non in esclusiva. Sono numerosissimi i brani che chiedono al popolo eletto di aver cura dello straniero che dimora nei propri confini. Da questo ulteriore punto di vista teologico, non è da escludere a priori una visione dove l’intera terra di Israele possa essere tutta un unico Stato, cioè lo Stato di Israele – cosa ovviamente inaccettabile per Hamas e per molti palestinesi, ma di fatto accettata dai cosiddetti Israeli arabs, palestinesi con passaporto israeliano – dove però i palestinesi non siano cittadini di serie B, bensì cittadini a tutti gli effetti. (cfr. su questo recentemente Israeliani e palestinesi insieme con un solo Stato e l’autonomia. Due milioni di arabi sono già cittadini integrati e vi sono promettenti esperienze di convivenza. Servirebbero vera uguaglianza di trattamento e la possibilità di uno statuto giuridico proprio, di Antonio Mattiazzo).
La prospettiva ebraica non si basa solamente sul diritto di ogni popolo ad avere una terra, sancito dal diritto internazionale – ciò vale anche per i palestinesi – ma anche e ancor più su di una promessa di tipo religioso.
Ovviamente tale lettura teologica è differente da quella cristiana la quale, leggendo i testi sulla terra d’Israele in senso allegorico, come annuncio di una vita in piena comunione con Dio, non rivendica il possesso di alcun territorio.
Appendice. Un brano di Francesco Rossi de Gasperis che aiuta a comprendere la complessità della questione
da Francesco Rossi de Gasperis S.I., L’intifada palestinese, una pietra sul dialogo ebraico-cristiano?. In "Mondo e Missione", marzo 2002 (il testo è stato ripreso da una riproduzione on-line non autorizzata dall’autore) Ho cercato di indicare alcuni criteri di interpretazione che evitino […] strumentalizzazioni di destra e di sinistra, nel mio Excursus: "Creazione, alleanza, escatologia", in: F. Rossi de Gasperis-A. Carfagna, "Prendi il Libro e mangia!", vol. I: "Dalla Creazione alla Terra promessa" (Bibbia e spiritualità, 3), Edb, Bologna, seconda ristampa 1999, 287-381, spec. 372-379. Si potrà vedere anche il nostro secondo volume: "Prendi il Libro e mangia!", vol. II: "Dai Giudici alla fine del Regno" (Bibbia e spiritualità, 7), Edb, Bologna 1999, 9-20. Il dono della terra a un popolo particolare da parte dell’unico Dio di tutti non crea in quel popolo alcun "diritto esclusivo" di proprietà, quando la vocazione divina designa lo stesso popolo a una funzione sacerdotale a beneficio di tutti gli altri. Né palestinesi né ebrei - e nemmeno italiani o "extra-comunitari" - hanno diritto di possedere esclusivamente un determinato paese. La terra è di Dio e noi siamo presso di lui come forestieri e inquilini (Lv 25,23). Il dono della terra a Israele è sempre stato, attraverso i secoli, legato ai contesti e ai condizionamenti socio-politici del momento. Oggi queste condizioni si esprimono nelle dichiarazioni delle Nazioni Unite, che impongono una convivenza ai due popoli sull´unica terra Israele-Palestina. Si tratta di un dono che non mette fuori “gli altri”, chiunque essi siano.
Detto questo, però, nessuno che legga la Bibbia ebrea-cristiana come parola di Dio può negare che Israele abbia una sua, essenziale, relazione con questa terra e con Gerusalemme. Quando la radio e la Tv italiane parlano dei “soldati di Tel Aviv” o del “governo di Tel Aviv”, esse offendono il popolo israeliano, per il quale l’unica Città capitale non può essere un’altra da Gerusalemme. Tale simbolismo teologale dell’Israele attuale (non necessariamente di uno “Stato o dell’attuale Stato” d’Israele) non è accettata né dai musulmani, i quali negano radicalmente che vi sia un popolo particolare eletto da Dio (lo ha detto chiaramente anche Bashar al-Assad, quando ha ricevuto il Papa nell’aeroporto di Damasco), né, come si è visto, da numerosi cristiani palestinesi. Questo invece è quello che noi crediamo: la salvezza universale dell’umanità è disegnata da Dio sull’unico Figlio, Gesù Messia, profetato dal suo popolo ed evangelizzato dalla sua Chiesa (cfr. Rm 8, 29-30; 1Pt 1, 10-12). L’esigenza universale della giustizia e dei diritti dell’uomo, nonostante le apparenze, non può e non deve essere conflittuale con il particolarismo dell’alleanza, che congiunge le Chiese cristiane a Israele. Secondo la Bibbia, certo, una tensione esiste tra l’economia della giustizia della creazione e l’economia storica dell’alleanza (cfr. la gelosia delle genti per Israele), una tensione che non è sempre chiara nemmeno alla coscienza di molti cristiani occidentali. Chi insiste di più sulla giustizia universalistica della creazione sembra dimenticare e trascurare la dimensione storica dell’elezione e dell´alleanza (e parteggia per i palestinesi contro gli israeliani), mentre chi tiene di più alla fede biblica sembra privilegiare il particolarismo dell’elezione e dell’alleanza di Israele (e parteggia per gli israeliani a scapito dei palestinesi).
[1] Sulle conclusioni “aperte” delle tre parti delle Scritture ebraiche, cfr. J.L. Ska, Il Canone ebraico e il Canone cristiano dell’Antico Testamento, in “La Civiltà Cattolica”, 1997 III, pp. 213-225 (quaderno 3531-3532) e poi più volte nelle sue introduzioni all’AT.Redazione de GliscrittiPaolo: il “vero fondatore del cristianesimo”?, di Luigi Walt2024-02-13T23:15:00+01:002024-02-13T23:08:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6529Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Luigi Walt, pubblicato in 3 parti il 20/11, il 21/11 e il 22/11/2008 sul Blog Paolo 2.0 (https://letterepaoline.net/2008/11/20/paolo-il-“vero-fondatore-del-cristianesimo”/ ; https://letterepaoline.net/2008/11/21/paolo-il-“vero-fondatore-del-cristianesimo”-2/ e https://letterepaoline.net/2008/11/22/paolo-il-“vero-fondatore-del-cristianesimo”-3/). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Sacra Scrittura e, in particolare: -Brevissima introduzione all’epistolario paolino, di Andrea Lonardo -Introduzione all’epistolario paolino. Dispense del prof. Giancarlo Biguzzi -La ricerca sul Gesù storico (I parte) -La ricerca sul Gesù storico (II parte). -La ricerca sul Gesù storico (III parte), di Andrea Lonardo.
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Paolo: il “vero fondatore del cristianesimo”?, di Luigi Walt - 1
Giorni fa, in una popolare trasmissione televisiva, si è udito il giornalista Corrado Augias affermare con sicurezza che il “vero fondatore” del cristianesimo non sarebbe stato Gesù, bensì Paolo. Ma cosa si può dire al riguardo, da un punto di vista storico?
Sappiamo che sul rapporto fra Gesù e Paolo si è scritto talmente tanto, negli ultimi due secoli, che sarebbe impresa impossibile – e tutto sommato inutile – riassumere anche solo i principali termini della questione in un semplice intervento divulgativo. Possiamo provare ugualmente a spendere qualche parola sulla faccenda, prendendola (apparentemente) da lontano.
L’idea espressa da Augias, innanzitutto, non è affatto nuova. E c’è da dubitare che il giornalista l’abbia desunta da uno dei due storici che ha intervistato per le sue fortunatissime Inchiesta su Gesù (Mauro Pesce, Università di Bologna) e Inchiesta sul cristianesimo (Remo Cacitti, Università statale di Milano).
La contrapposizione tra Gesù e Paolo, in realtà, è uno dei tanti miti dell’esegesi storica otto-novecentesca. Se ne potrebbe persino indicare, a un dipresso, la data di nascita: è il 1831, l’anno in cui il teologo tedesco Ferdinand Christian Baur la espone per la prima volta in un articolo che passerà alla storia, pubblicato presso il “Tübinger Zeitschrift für Teologie”.
Baur, esponente di spicco della cosiddetta Scuola di Tubinga, vedeva nell’organizzazione istituzionale della “Grande Chiesa” il risultato di una conciliazione “hegeliana” fra due opposte fazioni, che si sarebbero fronteggiate alle origini del cristianesimo: da una parte un movimento di matrice “pagana” e “universalista” (il “partito di Paolo”), dall’altra un movimento di matrice “giudaica” e “particolarista” (il “partito di Cristo”, capeggiato da Pietro). Le prime autorevoli critiche a Baur, formulate da J.B. Lightfoot e da A. von Harnack, riuscirono solo in parte a divincolarsi dalla sua valutazione dicotomica, e troppo schematica, delle vicende cristiane dei primi secoli.
Dato che nella storia – e ancor meno nella storiografia – non si danno mai novità assolute, è ben probabile che vi sia stato qualcuno a sostenere la stessa cosa prima di lui, ma non dispongo dell’erudizione necessaria per provarlo (mi viene in mente il caso di Reimarus, e della sua Apologia degli adoratori razionali di Dio, pubblicata da Lessing: ma temo che la nostra ricostruzione della storia dell’esegesi moderna risenta troppo dei quadri riassuntivi forniti dagli studiosi tedeschi sulla scia di Albert Schweitzer).
Andando a ritroso si potrebbe trovare qualcosa del genere, seppure non espresso in maniera così estrema, nelle lezioni di filosofia della storia di Schelling, col loro nucleo gioachimita, e più in generale nelle paludi dell’idealismo tedesco, nell’enciclopedismo massonico del Settecento, in certi ambienti radicali della Riforma, giù giù fino alla letteratura pseudo-clementina, con la sua “leggenda nera” intorno all’apostolo.
Nell’Ottocento, quando apparve nell’ambito degli studi storici e teologici, l’idea servì a slegare Paolo, inteso come simbolo di una Chiesa istituzionale, visibile, gerarchica, dall’eredità di un Gesù percepito come maestro inoffensivo (e frainteso) di morale. In breve, essa fu il risultato di un a priori ideologico, non di un’indagine storica rigorosa.
Cadere in questo tipo di trappole, beninteso, non è difficile neppure oggi. Gli storici e gli esegeti, negli anni più recenti, cercano di aggirarle evitando affermazioni che suonino troppo generalizzanti. Dire che Paolo avrebbe “fondato” il cristianesimo, nell’ottica del I secolo, è un po’ come dire, nell’ottica del XIX e del XX secolo, che Gramsci fu il vero autore del Capitale di Marx: significa scambiare un effetto, e neppure il principale, per la causa.
Paolo non agì come un outsider, non piombò dal nulla in mezzo ai primi seguaci di Gesù, né le sue posizioni possono essere valutate come del tutto originali e solitarie. Tra Gesù e Paolo non può esserci stato il vuoto. Abbiamo l’inestimabile fortuna di possedere alcune lettere scritte di suo pugno, e siamo sempre tentati di considerarle straordinariamente importanti, ma la faccenda si complica non appena ci accorgiamo che altri documenti del cristianesimo nascente, in maniera del tutto indipendente dall’apostolo, sembrano condividerne alcune linee ideali.
L’importanza di Paolo, in altri termini, non va esagerata, nel suo immediato contesto di azione. Si faceva allusione, tempo addietro, alla necessità di considerare gli elementi pre-paolini in Paolo: ebbene, un’indagine in tal senso toglie immediatamente la terra sotto i piedi a chiunque voglia attribuire all’apostolo il ruolo di “autentico fondatore” del cristianesimo. Altra cosa è se intendiamo proiettare su di lui quel che non ci piace (o ci piace) del cristianesimo successivo, o se vogliamo leggerne le epistole alla luce della nostra personale comprensione del mondo e della storia. Ma questo è già stato fatto ad abundantiam, e non ha condotto molto lontano…
Paolo: il “vero fondatore del cristianesimo”?, di Luigi Walt - 2
L’indagine storico-critica, soprattutto a partire dal Novecento, ha sostenuto in varie occasioni l’ipotesi di una radicale discontinuità fra l’originaria predicazione di Gesù, evidentemente del Gesù “storico”, e il pensiero e l’opera di Paolo. Alcuni, specialmente a partire da una celebre definizione di William Wrede (1904), hanno pensato all’apostolo come ad una sorta di “secondo fondatore del cristianesimo”, o ne hanno sottolineato il ruolo di “ellenizzatore”, con la precisa intenzione di sganciarlo dal contesto culturale ebraico in cui si mosse Gesù e al quale, indubbiamente, appartenne anche Paolo.
L’ebraicità di Paolo, in termini di appartenenza etnico-culturale e religiosa, emerge innanzitutto dalle affermazioni autobiografiche disseminate nell’epistolario (cf. ad es. 2Cor 11,22; Rm 11,1; Fil 3,5-6), ma anche dalla testimonianza degli Atti degli apostoli: per quanto riguarda la lingua orale usata dall’apostolo (cf. At 22,1-3), per il rispetto che questi avrebbe dimostrato nei confronti della scansione temporale delle festività giudaiche (un esempio in 1Cor 16,8: «Mi fermerò ad Efeso fino a Pentecoste», con riferimento ovviamente alla festa di Shavuot), per il semplice fatto ch’egli avrebbe accettato la frequentazione del Tempio (cf. At 21,17-26), senza considerare il dato più ovvio, ovvero il massiccio richiamo dell’apostolo alle Scritture ebraiche.
Secondo André Chouraqui, Paolo avrebbe addirittura «patito più di tutti le confusioni che sono sorte dal tragico rovesciamento di situazione prodottosi col disastro del 70. Il suo pensiero acquista, infatti, un senso diametralmente opposto se viene interpretato in rapporto alle realtà politiche e spirituali che hanno preceduto la distruzione del tempio d’Israele (…). A differenza di una importante frazione del giudaismo ellenistico, Paolo non ha mai rotto con le sue radici ebraiche e rabbiniche, che conosceva infinitamente meglio di un altro grande ebreo del suo tempo, Filone alessandrino. Lo studioso cattolico Bonsirven aveva già visto bene come il pensiero di Paolo non possa comprendersi nelle sue fonti se non alla luce delle prospettive e delle tecniche dell’esegesi rabbinica. […] Malgrado l’antilegalismo che gli si attribuisce sistematicamente, senza preoccuparsi troppo del significato reale delle sue analisi circa la fede e la legge, Paolo è rimasto per tutta la vita un ebreo fervente e praticante» (Gesù e Paolo. Figli di Israele, trad. it. Qiqajon, Magnano 2000, pp. 79-81).
Le affermazioni di Chouraqui, nella sostanza, sono confermate oggi da un’abbondante letteratura critica, e fanno ormai parte del sensus communis della ricerca. Tuttavia, non possiamo non avvertire come anacronistico il richiamo dell’autore all’espressione “radici rabbiniche”: bisognerebbe parlare, piuttosto, di radici farisaiche. Ugualmente azzardata, da un punto di vista storico, risulta l’affermazione per cui l’ebreo Paolo avrebbe conosciuto molto meglio dell’ebreo Filone le proprie “radici ebraiche”. In realtà, una considerazione rigorosa della “ebraicità” di Paolo, di Filone, come pure dello stesso Gesù, è possibile soltanto a prezzo di un’altrettanto rigorosa definizione storica di cosa significasse, all’epoca loro, essere ebrei: appartenere, cioè, a un contesto culturale e religioso estremamente variegato e dinamico, che non può essere semplicisticamente assimilato alla “ebraicità”, nell’accezione moderna del termine (errore compiuto dallo stesso Chouraqui: a rigore, infatti, si dovrebbe parlare di “radici ebraiche” anche per il giudaismo rabbinico, evitando la piana identificazione di questo col mondo giudaico precedente alla distruzione del Tempio di Gerusalemme, avvenuta nel 70).
In quanto ebrei, Paolo e Gesù condivisero senza dubbio, almeno in larga parte, il medesimo orizzonte concettuale. E questo nonostante provenissero da mondi socialmente diversi: Gesù crebbe in un ambiente rurale, del quale conservò moltissime caratteristiche; Paolo, invece, fu un individuo schiettamente urbano e cosmopolita.
Paolo: il “vero fondatore del cristianesimo”?, di Luigi Walt - 3
Una rilettura del rapporto tra Gesù e Paolo in termini di contrapposizione tra campagna e città è stata tentata, in termini suggestivi, dallo storico Wayne A. Meeks:
«Paolo era uomo di città e la presenza della città traspira dal suo linguaggio. Le parabole di Gesù che parlano di seminatori e di zizzania, di mietitori e di casolari dal tetto di malta, ci rimandano [invece] a sentori di letame e di terra; del resto, nella lingua greca dei vangeli, avvertiamo l’eco dell’aramaico parlato nei villaggi della Palestina. Quando Paolo costruisce una metafora parlando di olivi o di orti, invece, il testo è fluido, ed evoca più un’aula scolastica che una fattoria. Paolo dà a vedere di essere più a suo agio con gli stilemi della retorica greca, che rimandano al ginnasio, allo stadio o alla bottega artigiana» (I Cristiani dei primi secoli. Il mondo sociale dell’apostolo Paolo, trad. it. Il Mulino, Bologna 1992, p. 45).
In queste affermazioni, non è la contrapposizione tra Gesù e Paolo a non funzionare, quanto l’idea di una separazione così netta tra la vita delle città antiche e la vita delle campagne. Non è forse, tutto ciò, il risultato di una idealizzazione moderna, nutrita a sua volta delle tante dichiarazioni degli autori classici che esaltano la quiete rurale contro il trambusto della vita cittadina? Continua infatti Meeks:
«Quando Paolo con accenti retorici fa l’elenco dei luoghi in cui si è trovato in pericolo, distingue il mondo in città, deserti e mari (2Cor 11,26), e cioè il suo mondo non comprende la chōra, vale a dire le campagne coltivate: fuori della città non c’è nulla, ossia si incontra l’erēmia [il deserto]» (op. cit., p. 46).
Ma le cose stavano realmente così? Era questo, il pensiero dell’apostolo? L’impressione è che Meeks si stia lasciando trascinare dalla propria argomentazione, sovra-interpretando il passaggio citato di Paolo, che intendeva semplicemente riferirsi ai luoghi più pericolosi attraversati durante i suoi viaggi: città, come ad esempio Damasco; deserti, come quelli che s’incontrano ancora oggi sull’arido altipiano anatolico (infestato da briganti e predoni, stando ai resoconti del tempo); mari, frequentando i quali, all’epoca dell’apostolo, far naufragio era un’evenienza tutt’altro che remota (poco oltre nello stesso passaggio di 2Cor, Paolo ne rammenta tre!).
Dobbiamo inoltre considerare cosa fosse una città, nell’esperienza concreta di un uomo del I secolo. Sappiamo che nessun autore antico, tantomeno geografi come Pausania o Strabone, si è mai preoccupato di dare una definizione accurata di polis. E che certamente non era la grandezza o il numero degli abitanti, a fare di un agglomerato di case una città: molti centri considerati come città di rilievo non superavano il numero di abitanti che oggi attribuiremmo a un modesto villaggio.
La differenza, probabilmente, consisteva nella presenza di servizi governativi, di un teatro, di luoghi di culto o di infrastrutture: ma ciò non toglie che la chōra, il terreno coltivabile che circondava la città, venisse percepita anche a livello amministrativo come facente parte a pieno diritto dell’area urbana. Pochi passi lungo strade rumorose e polverose, puntellate durante il giorno dal traffico degli uomini e dei loro animali, e la si poteva raggiungere: campi coltivati, vigne e pascoli non potevano essere troppo distanti, in un mondo in cui la terra era la principale fonte di ricchezza e di sostentamento, se non proprio l’unica. Persino a Roma, stando alle stime che gli storici riescono a ricavare faticosamente dalle fonti, una parte non piccola della popolazione possedeva il proprio “campicello”. E una città come Patavium, l’odierna Padova, era celebre per i suoi allevamenti di pecore. Gli esempi, naturalmente, si potrebbero moltiplicare.
Cosa possiamo dedurre, allora, dalla corretta affermazione di Meeks per cui la missione di Paolo fu essenzialmente «un’iniziativa a carattere urbano»? Fondamentalmente due cose: che Paolo si mosse sempre lungo le strade battute dalla diaspora ebraica, e che cercò altresì di lavorare i centri più importanti dell’Impero, quasi fossero una terra da coltivare, ben sapendo che questa terra era già stata resa fertile dalla presenza dei fratelli “Giudei”, e che sarebbe stato più semplice conquistare le varie periferie partendo dai loro centri.
Crolla così, come un castello di carte, l’idea tanto diffusa che Paolo, in quanto “ellenizzatore”, abbia “tradito” il pio ebreo Gesù. L’apostolo, da questo punto di vista, si dimostra persino più “ebreo” dello stesso Gesù, il quale appare invece – e ciò sia detto senz’alcuna ironia – molto più simile a un “pagano”, nel senso etimologico della parola: un abitatore dei pagi, cioè di quei villaggi che – alla stregua di Nazareth – risultavano marginali, periferici rispetto ai grandi centri amministrativi e politici del tempo.
La fantasia della storia, ancora una volta, supera quella degli storici.Redazione de GliscrittiChe importanza ha che Dante Alighieri fosse un guelfo bianco? Della letteratura, della filologia e del politicamente corretto. Andrea Lonardo commenta un breve video di Franco Nembrini su guelfi, ghibellini e Dante Alighieri2024-02-13T23:09:00+01:002024-02-13T23:05:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6532Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Letteratura, Dante Alighieri e Storia medioevale.
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Un ragazzo delle superiori mi chiede delucidazioni su Dante, guelfi e ghibellini, guelfi neri e guelfi bianchi.
Rigiro subito la domanda a Franco Nembrini: mi risponde che è fuorviante l’importanza data a tale questione nello studio di Dante. “Non ne ho mai parlato a scuola come di una questione decisiva, perché altre sono le questioni capitali” – mi spiega.
E precisa che vale la pena innanzitutto parlare della litigiosità che è sempre presente nell’uomo.
Dante non dà eccessiva importanza al suo essere un “guelfo bianco”, ma parla invece della litigiosità costante degli uomini e di come affrontarla!
Non solo degli uomini in generale, ma è proprio a Firenze che tale litigiosità è sempre presente ed è esasperata.
Già questo approccio mi sembra geniale, perché generalizza una questione sollevandola subito dal suo angusto ambito storico-scientifico.
Aggiunge poi che per Dante sono chiarissimi i ruoli positivi del pontefice e dell’imperatore che egli non oppone mai come opposti e escludentesi a vicenda.
Se Dante mette all’inferno Bonifacio VIII egli ha una stima infinita del ruolo petrino e sa, al contempo, quando siano necessari gli imperatori e allo stesso modo i liberi Comuni.
Dante non si perde in dettagli secondari, che fra l’altro mutano nel giro di un brevissimo volgere di anni.
La sintesi di Dante è sempre più in alto e spiazza quelli che amano le facili contrapposizioni.
È la scuola che a volte abbassa il livello e cerca di restringere la statura di personaggi come Dante, che “cantano” bel al di là delle contrapposizioni politiche, confinandoli in un angusto ambito politico.
Poi, dopo averlo ascoltato, rifletto che dare tanta attenzione ad un particolare politico e in fondo non decisivo è come se qualcuno oggi, nel valutare un grande poeta, ritenesse così fondamentale soffermarsi a considerare se egli abbia preferito uno o l’altro dei diversi leader del centrosinistra: ma veramente preferire Renzi o Gualtieri o la Schlein o Bonaccini fa una grande differenza? Lo stesso vale per la destra: ma se un grande poeta avesse dato il suo voto, in un determinato passaggio elettorale, alla Meloni oppure a Salvini o ancora a Berlusconi, questo farebbe una differenza sostanziale? Non si dimentichi dei voltafaccia da un governo ad un altro della Repubblica contemporanea – si pensi solo al primo e al secondo Governo Conte con alleanze diversissime.
Ma veramente essere guelfi bianchi o neri fa la differenza nella Commedia dantesca?
Quante volte nella storia le litigiosità e le presunte diversità si sono rivelate fumo. Non lo dimentichiamo quando parliamo di guelfi bianchi e di guelfi neri. “Paulo maiora canamus”!
Dante è immerso nella storia, ma la sua grandezza è proprio quella di porsi da un diverso punto di vista che abbraccia tutte le parzialità.
https://www.youtube.com/watch?v=3oYD1CbkW7cRedazione de GliscrittiI luoghi di Santa Melania la giovane (Juniore) a Gerusalemme. Note storiche di Andrea Lonardo2024-02-13T23:04:00+01:002024-02-13T22:59:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6535Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo, che è stato parroco di Santa Melania la giovane (Juniore) in Roma. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Maestri nello Spirito. Su Melania la giovane, cfr. in particolare: -Melania la giovane, Santa nel matrimonio e nella vita monastica: Una testimonianza dei tempi di Agostino di Ippona -Vita di Santa Melania Juniore, di padre Modesto Ivano Giacon -Gli scavi archeologici sulla residenza romana di S. Melania -Cenni sulla vita di Melania la giovane, di p.Tomás Spidlik -Alcuni brani dal volume di p. Spidlik, ' Melania la benefattrice ' -La presenza di Melania in Africa ed il problema della sua enorme ricchezza, desiderata dai cristiani di Ippona, nell'epistolario di S. Agostino -Testo integrale della Vita di S. Melania, scritta dal prete Geronzio, suo discepolo e cappellano -Melania la giovane nei Carmi di Paolino di Nola -La dedica a Melania la giovane dell'opera anti-pelagiana di S. Agostino "La grazia di Cristo ed il peccato originale" -La vita di Melania nella testimonianza della Storia Lausiaca di Palladio, suo contemporaneo.
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Tomba di santa Melania a Gerusalemme
Melania la giovane (Melania l’anziana è la nonna, anch’essa santa), nacque nel 383, si sposò a 14 anni con Piniano (poi anche lui santo) nel 397. Morti i due figli della coppia, decisero di vivere entrambi come monaci e giunsero infine a Gerusalemme nel 417.
Nel 431, dopo quattordici anni di vita a Gerusalemme insieme con la figlia, morì santamente la madre di Melania, Albina, e l’anno dopo anche Piniano. Melania morì nel 439.
Le fonti[1] raccontano che in un primo tempo Melania scelse di abitare all’interno degli edifici dell’Anastasis, oggi Santo Sepolcro (che dovevano includere allora ampie zone di accoglienze per i pellegrini): Geronzio, suo confessore, racconta che lì ella si spogliò di beni, chiedendo di essere inserita lei stessa nella lista dei poveri di Gerusalemme, per ricevere aiuti dalla Chiesa.
Lì dimorava sola con la madre e frequentava i “vescovi”, che interrogava per conoscere il significato delle Scritture e dalle cui parole scriveva appunti di studio sul suo taccuino. Quando a sera l’Anastasis veniva chiusa, Melania passava la notte dinanzi al martyrium del Calvario, quindi probabilmente all’aperto, nel quadriportico che lo collegava con l’Anastasis, e vi restava fino al mattino quando, dopo aver cantato gli “inni mattinali” (le odierne Lodi) con i monaci e le monache che giungevano all’Anastasis, tornava nella sua cella, che, come si è detto, era vicino al Santo Sepolcro.
Quando nel 419 potè liquidare i restanti beni che ancora le rimanevano, decise con Piniano di recarsi presso le celle dei monaci e delle monache dei monasteri copti del deserto in Egitto, per apprendere ulteriormente la vita monastica.
Tornata da quel pellegrinaggio – è la seconda volta che giunge a Gerusalemme - si ammalò seriamente e così Piniano. Decise allora di andare a vivere sul Monte degli Ulivi in una cella già costruita da sua madre, dove abitò per 14 anni. Lì si reco a trovarla anche Paola, figlia di un figlio di Santa Paola Romana e di Leta, insomma una seconda Paola che fu cugina di Melania, che visse nel gruppo monastico femminile che si riunì intorno a Gerolamo a Betlemme e che lo assistette in punto di morte.
Alla morte della madre, nel 431, Melania fece costruire, con l’aiuto di Piniano, un monastero per 90 monache, con alcune ragazze che ella riuscì a strappare a vite immorali.
Anche «Piniano aveva abbracciato, da parte sua, la vita monastica. Palladio (H.L. LXI, p. 157) ce lo descrive “con trenta monaci” che leggono, s’occupano dell’orto e tengono serie conferenze»[2].
Alla morte di Piniano, nel 432, Melania andò a vivere in una cella nei pressi dell’Apostoleion – poiché l’Eleona, come si dirà a breve, già esisteva, si può ritenere che ci si riferisca ad una cappella con annesso monastero costruito nei pressi -, da lei stessa fatto precedentemente costruire sul Monte degli Ulivi, dove fece anche seppellire Piniano. Lì visse per quattro anni.
L’Apostoleion «era stato eretto dalla santa in onore degli apostoli, senza dubbio in ricordo dei differenti incontri che essi ebbero con il Cristo sul Monte degli Ulivi (“tradizione” del Pater, “apocalisse sinottica”, ultime parole prima dell'Ascensione)»[3].
Fece poi costruire “un monastero di santi uomini, perché celebrassero senza interruzione i salmi notturni e diurni nel luogo dell’Ascensione del Signore e nella grotta dove il Salvatore si intrattenne con i santi discepoli, parlando della fine dei tempi”[4].
Il luogo è da identificarsi con un edificio annesso o comunque vicino al «santuario costantiniano dell’Eleona, che riuniva i due ricordi evangelici»[5].
Di ritorno da Costantinopoli, quando giunse per la terza e ultima volta a Gerusalemme, fece poi costruire un terzo martyrium, dove, diceva: «Ecco il luogo dove sono stati i piedi del Signore». È da ritenersi probabilmente che fu Melania a volere l’istituzione di un ulteriore cappella per venerare l’Ascensione di Cristo, esattamente dove già esisteva la Chiesa dell’Ascensione, oggi Moschea dell’Ascensione[6], sottolineando ancor più la differenza dal luogo dove era venerata precedentemente, nell’Apostoleion, come si è già visto afferma precedentemente la stessa Vita di Melania scritta da Geronzio.
L’ultimo pellegrinaggio della sua vita fu a Betlemme, dove la accompagnò Paola, figlia di Laeta. Al ritorno si ritirò in preghiera presso «la grotta degli insegnamenti di Cristo, santuario servito dal monastero degli uomini»[7] all’Eleona. Poi rientrata in monastero si sentì mancare le forze, finché morì.
Tragicamente «i monasteri di Melania scomparvero nel fatale anno 614, quando le truppe di Cosroe saccheggiarono la Città Santa. Una composizione poetica di Onofrio e le notizie di un monaco di San Saba ci riferiscono terribili dettagli di questa distruzione dei principali santuari cristiani in Terra Santa. Fu una catastrofe che ci ricorda la rovina del tempio di Jahvè al tempo della guerra giudaica descritta da Giuseppe Flavio»[8].
I luoghi precedentemente descritti di Melania a Gerusalemme possono a questo punto essere identificati nella topografia moderna di Gerusalemme con un buon grado di probabilità.
La cella e la tomba di Melania sono venerati nel monastero ortodosso greco della Megali Panagia (Gran Madre di Dio) che è in HaKoptim street/Aqabat Khan el-Aqbat, vicino l’Anastasis (Santo Sepolcro). Si può ragionevolmente ritenere che tale luogo corrisponda alla cella della sua prima permanenza gerosolimitana, non appena ella vi giunse.
Lì è appunto, la venerata sua tomba.
L’Apostoleion, dove Melania seppellì Piniano e dove fondò il monastero maschile sul Monte degli Ulivi è ovviamente la basilica costantiniana dell’Eleona/Chiesa del Pater noster[9], con le grotte annesse che ricordano la predicazione di Gesù sulla distruzione del Tempio unitamente al discorso apocalittico e all’insegnamento del Padre nostro – ma anche originariamente la preghiera del Gestemani (Eleona viene dal greco elaion che significa “oliveto”) e l’ingresso in Gerusalemme. Esso preesisteva a Melania e Piniano ed è da supporsi che lì ella costruì degli edifici monastici.
Il martyrion dell’Ascensione, distinto dall’Eleona, è la piccola chiesa, poi trasformata in basilica bizantina e poi in moschea, dell’Ascensione, in cima al Monte degli Ulivi, iniziata da una nobildonna romana, Poimenia, nel 378. È da ritenersi che la costruzione che la Vita di Melania presenta come iniziata ex novo da Melania sia una cappella a fianco di tale chiesa già esistente[10].
La cella - prima della madre e poi di Melania stessa - e il monastero delle monache dove visse più a lungo a Gerusalemme sul Monte degli Ulivi (che si può immaginare sia un ampliamento della cella stessa della madre) sono più difficili da indentificare con precisione.
Scavi condotti all’interno del Monastero delle Benedettine di Nostra Signora del Calvario sul Monte degli Ulivi, fra l’Eleona e l’Ascensione, portano a ritenere che lì potrebbe essere il monastero delle monache che venne costruito e poi abitato da Melania stessa – la notizia nasce da un dialogo a voce con le monache del luogo, ma Joseph Patrich, archeologo e docente della Hebrew University of Jerusalem, ha affermato in un’intervista che “the exact locations of these two original monasteries [quello femminile con la cella originaria di Melania e quello maschile, entrambi sul Monte degli Ulivi] are unknown”[11].
Per una presentazione divulgativa della vita di Elena imperatrice, madre di Costantino, cfr. il video Santa Croce in Gerusalemme. Elena e Costantino dal mito alla storia:
https://www.youtube.com/watch?v=e1K3rPuHqcI
[1] Il riferimento è a Vita di Santa Melania, scritta dal prete Geronzio, suo discepolo e cappellano, nella traduzione di Angelika Delogu Falcucci, rivista da Andrea Lonardo, dalla versione francese di Sources Chrétiennes 90, Vie de Sainte Mélanie (ed. D. Gorce), Les Editions du Cerf, Parigi, 1962, 35-36, con relative note.
[2] Nota di D. Gorce a p. 206 di Vie de Sainte Mélanie (ed. D. Gorce), Les Editions du Cerf, Parigi, 1962 (Sources Chrétiennes 90). L’intero testo con le sue note è in italiano in Vita di Santa Melania, scritta dal prete Geronzio, suo discepolo e cappellano, nella traduzione di Angelika Delogu Falcucci, rivista da Andrea Lonardo.
[3] Nota di D. Gorce a p. 220 di Vie de Sainte Mélanie (ed. D. Gorce), Les Editions du Cerf, Parigi, 1962 (Sources Chrétiennes 90). L’intero testo con le sue note è in italiano in Vita di Santa Melania, scritta dal prete Geronzio, suo discepolo e cappellano, nella traduzione di Angelika Delogu Falcucci, rivista da Andrea Lonardo.
[4] Vie de Sainte Mélanie (ed. D. Gorce), Les Editions du Cerf, Parigi, 1962 (Sources Chrétiennes 90) 49, pp. 220-221. L’intero testo con le sue note è in italiano in Vita di Santa Melania, scritta dal prete Geronzio, suo discepolo e cappellano, nella traduzione di Angelika Delogu Falcucci, rivista da Andrea Lonardo.
[5] Così D. Gorce a p. 220 di Vie de Sainte Mélanie (ed. D. Gorce), Les Editions du Cerf, Parigi, 1962 (Sources Chrétiennes 90). L’intero testo con le sue note è in italiano in Vita di Santa Melania, scritta dal prete Geronzio, suo discepolo e cappellano, nella traduzione di Angelika Delogu Falcucci, rivista da Andrea Lonardo. L’autore rimanda a A. Vincent “L’Eléona, sanctuaire primitif de l’Ascension”, in “Revue Biblique”, LXIV, 1957, pag. 48-71.
[6] È importante ricordare che i musulmani credono che Cristo sia asceso al cielo e venerano anch’essi il luogo esatto dove per l’ultima volta egli poggiò i piedi in terra, ma negano la precedente morte in croce, che ritengono inventata dai cristiani, motivo per il quale non leggono i Vangeli che ritengono falsi: a loro avviso, per la sura IV che afferma “Né lo uccisero, né lo crocifissero, ma solo sembrò a loro di aver fatto questo”, ritengono che Dio/Allah abbia fatto trasportare miracolosamente Gesù dall’Ultima Cena per farlo subito ascendere in cielo dal Monte degli Ulivi in corpo e anima e dove è l’attuale Moschea venerano le ultime “orme” di Gesù/ʿĪsā in terra. È per questo che la fede islamica crede che Gesù non sia ancora morto, ma debba tornare in terra alla fine dei tempi, morire e poi risorgere. Ovviamente l’eliminazione della croce porta all’eliminazione del perdono dei peccati gravi, perdono che per i cristiani è determinato proprio dal “mistero” della croce; su questo, cfr. I musulmani di fronte al mistero della croce: rifiuto o incomprensione?, di M. Borrmans.
[7] Così D. Gorce a p. 255 di Vie de Sainte Mélanie (ed. D. Gorce), Les Editions du Cerf, Parigi, 1962 (Sources Chrétiennes 90). L’intero testo con le sue note è in italiano in Vita di Santa Melania, scritta dal prete Geronzio, suo discepolo e cappellano, nella traduzione di Angelika Delogu Falcucci, rivista da Andrea Lonardo.
[8] Tomáš Špidlík, Melania la giovane, la benefattrice, Milano, Jaca, 1996, pp. 143-144.
[9] Tre furono gli edifici costruiti da Elena imperatrice e madre di Costantino in Terra Santa: la Basilica della Natività a Betlemme, la Basilica dell’Eleona sul Monte degli Ulivi e l’Anastasis/oggi Santo Sepolcro in Gerusalemme. Cfr. su questo Come la Palestina diventò Terra Santa, di Pietro Kaswalder ofm.
[10] Indagini archeologiche e studi successivi sulla Chiesa dell’Ascensione sono stati condotti da Corbo: cfr. V.C. Corbo, Ricerche archeologiche al Monte degli Ulivi (Collectio Maior 16), Jerusalem 1965 (rist. 2004).
[11] M. Lidman, New water: Benedictine Sisters in East Jerusalem revive ancient cisterns, articolo pubblicato l’8/12/2016 al link https://www.globalsistersreport.org/news/environment/new-water-benedictine-sisters-east-jerusalem-revive-ancient-cisterns-43766 (consultato l’1/1/2024).Redazione de GliscrittiQuando mai Gesù ha detto che bisogna leggere, che fare cultura è importante, che vale la pena riflettere e scrivere? Breve nota di Andrea Lonardo2024-02-13T22:58:00+01:002024-02-13T22:56:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6531Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Sacra Scrittura ed Educazione e cultura.
Il Centro culturale Gli scritti (13/2/2024)
Se ci si fermasse solo alle parole pronunciate alla lettera da Gesù, si potrebbe ritenere superficialmente che lo studio e la cultura non appartengano al cristianesimo e che non siano importanti per la fede.
Mai, infatti, Gesù dice ai suoi discepoli di leggere o di studiare. Mai esiste un riferimento a scuole e università nelle parabole.
Mai si indica un apostolo o una discepola di Gesù che passi ore e ore in una biblioteca o che, per l’epoca, consumi i suoi occhi sui rotoli o sui papiri e le pergamene.
Se ci si basasse sul Sola scriptura neotestamentaria, si potrebbero citare solo pochi versetti sullo stesso fatto dello scrivere e, quindi, del leggere.
In Paolo si ricorda: “Portami i libri e le pergamene” (2 Tm 4,13).
In Apocalisse si dice: “Scrivi ciò che hai visto” (Ap 1,19).
Matteo ricorda che per Gesù ci sono scribi sapienti divenuti discepoli del regno che “traggono dal loro tesoro cose antiche e cose nuove” (Mt 13, 52).
Nel finale di Giovanni si dice che è “il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte e che “vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere” (Gv 21, 24-25).
I riferimenti allo scrivere e al leggere conseguente sono apparentemente pochi – fra breve si ricorderanno altri testi – eppure se ben compresi, già questi soli passaggi sono enormi.
Ma se guardiamo il non detto è chiarissimo che Gesù non solo parlava aramaico, ma sapeva anche leggere l’ebraico non vocalizzato – si pensi al rotolo di Nazaret dove egli trova e legge Isaia che, come è d’uso nelle sinagoghe ancora oggi, non era vocalizzato.
È evidentissimo che Gesù aveva studiato, anche se non sappiamo dove e come, in profondità le Scritture e le citava continuamente per mostrare come esse si compivano in Lui.
Il mio professore del Pontificio Istituto Biblico di Greco neotestamentario, John Welch S.J., sosteneva – e credo a ragione – come Gesù conoscesse anche il greco, in una Galilea dove il greco era utilizzato frequentemente e dove alcuni dei discepoli, come Andrea, avevano chiaramente nomi greci – diversi esegeti paragonano il greco della koinè all’inglese odierno, che, almeno in alcune espressioni d’uso comune, è noto a tutti coloro che hanno un minimo di cultura.
Da tekton, cioè precisamente manovale e non falegname – le case allora avevano travature in legno e anche la moderna parola architetto, ricorda colui che è il capo dei manovali – Gesù dovette apprendere ed utilizzare i conti e la contabilità, il disegno e la progettazione tecnica di case, anche se piccole, apprendere l’utilizzo di strumenti di lavoro con i loro segreti e le loro potenzialità.
In quei trent’anni di vita nascosta Gesù si misurò con la cultura e vi crebbe.
Ed è per questo che tutto il suo parlare e argomentare risplende della lettura dei segni dei tempi come così dello stare nel linguaggio e nella sapienza dei popoli: cosa fa un amministratore, cosa uno scriba sapiente, cosa un contadino, un pescatore, come si comporta un militare che calcola se ha le forze per una battaglia, cosa riflette un amante delle diverse specie della natura che vestono i loro colori, come ragiona uno che sa come porre le fondamenta di una casa, cosa è il corpo e come guarisce, cosa è la gratitudine, cosa è uno sposo per la sposa e cosa sono i figli, come si comportano, come si allontanano e come tornano e come si accompagnano, cosa è avere servi addetti alle proprie cose, cosa è un’eredità e cosa è andare da un avvocato per una lite, cosa è l’esperienza di una torre che cade o del male che si abbatte a causa del potere politico di Pilato, cosa è il governo di Erode Antipa e la danza di una donna capace, a motivo dell’invidia, di far uccidere un profeta, quanti anni sono necessari per abbellire il Tempio da parte di Erode e cosa è l’usura del tempo e dell’inimicizia umana che tutto distrugge, cosa è una donna che ha avuto sei amanti e non è mai stata soddisfatta, cosa è un amico che muore e cosa la sua resurrezione, cosa è la speranza dell’uomo e la sua preghiera.
Mai Gesù condanna gli studi degli scribi, anzi invita a farsi loro discepoli, limitandosi a ricordare di non comportarsi poi come loro si comportano.
Come intuiscono diversi esegeti – è il caso di Jeremias solo per citarne uno – Gesù insegnò ai suoi in forma orale, utilizzando tecniche di memorizzazione, che erano molto più comuni all’epoca di oggi, quando si era capaci di ricordare a memoria interi poemi.
E i suoi discepoli annunziarono quanto egli predicava già prima della Pasqua, recandosi a due a due ad insegnare ciò che egli insegnava e imparando a ritenere quanto egli andava predicando.
Se la viva trasmissione delle sue parole e la testimonianza viva di quanti egli compiva precedevano la scrittura del Nuovo Testamento, se la chiamata degli apostoli - con Simone detto da lui Cefa e il numero dei Dodici che rinnova la nascita del popolo ebraico con i dodici figli di Giacobbe - attesta con evidenza quanto Gesù volesse la Chiesa ben prima e ben oltre gli scritti che ne parlano, d’altro canto è evidente che proprio quegli scritti pur successivi sono un segno chiarissimo di come tutti sapessero che il Cristo amava che si scrivesse, si leggesse e si studiasse, gettando, come in una bottiglia nel mare, un messaggio che potesse essere raccolto anche al di là dei confini dei credenti.
L’esistenza stessa della Sacra Scrittura mostra come i discepoli di Gesù avessero chiaro che, se prima di tutto veniva la parola e la testimonianza viva, sarebbe stato sbagliato dimenticare poi il valore dello scrivere.
Si scrive per non dimenticare, ma anche per trasmettere ad altri in maniera che qualcosa resti. Si scrive per amore di espressioni, ricordi e pensieri che non debbono cancellarsi mai.
La Sacra Scrittura è un dono della Chiesa al mondo, perché tutti possano conoscere quel tesoro.
Si ponga mente al fatto di incredibile importanza che i Vangeli e tutti gli scritti del NT – nessuno escluso – vennero scritti in una lingua diversa da quella che parlava Gesù. Che salto culturale, che viaggio fra culture, parlare di Lui in un’altra lingua, il greco.
Ma che valore ne deriva alla bellezza della cultura e al suo utilizzo nella fede!
È il viaggio che già aveva compiuto tutto l’AT, non solo immane patrimonio di cultura, ma anche tesoro traghettato dai maestri ebrei con la loro versione dei LXX e le altre versioni ellenistiche, nel greco, nella lingua parlata dagli ebrei della diaspora e dai pagani, con la Bibbia greca utilizzata poi da Paolo[1].
Già i sapienziali avevano mostrato un amore enorme al pensiero dei popoli, dalla confutazione dello scetticismo compiuto da Qohèlet, che mostra che è dell’uomo che bisogna diffidare e non di Dio, dalla problematizzazione del male compiuta da Giobbe, dalla raccolta della sapienza dei saggi in Proverbi e Siracide, con l’invito a viaggiare a studiare, dalla scelta decisa di fare poesia dei Salmi e del Cantico dei Cantici, perché anche la poesia e la poesia d’amore è cultura capace di parlare ai cuori. Per non parlare poi della Sapienza, insieme ebraica e greca.
Ma, poi ancora nel Nuovo Testamento, è Paolo a parlare all’Areopago e citare le are pagane con le dediche agli “dèi ignoti” e gli stichi dei poeti.
Ed è Luca a assicurare di aver fatto ricerche storiche e di aver confrontato testi diversi, cosa di cui siamo sicuri sia avvenuta proprio quando raffrontiamo i diversi sinottici e poi Giovanni.
Ed è la comunità giovannea ad intervenire più volte nella stesura del quarto Vangelo.
Le lettere di Paolo, e le deutero e trito paoline, come le lettere alle sette chiese, come le lettere apostoliche, mostrano come la qualità della scrittura nell’invio reciproco di testi e di dissertazioni – Romani ed Ebrei sono veri e propri trattati dogmatici e non testi narrativi – appartenga al cristianesimo primitivo che intese subito fare cultura.
È per questo che i padri della Chiesa furono poi filosofi e teologi, proseguendo tale scia. Sono “padri” della Chiesa, perché ciò che loro hanno fatto lo hanno insegnato alle generazioni successive come costitutivo[2].
Agostino arriverà a scrivere: Fides si non cogitata nulla est[3].
Sì, senza cultura non c’è vera fede[4]. Ognuno deve avere una comprensione “colta”, “coltivata”, della fede tanto quanto è la sua competenza negli ambiti della vita. In proporzione, insomma: se uno fosse più competente nell’ambito dell’avvocatura o della ricerca scientifica rispetto alla propria conoscenza della fede, avrebbe una vita spirituale infantile e debole.
In qualche modo si inganna, quindi, Ermanno Olmi, quando nel film Centochiodi del 2007 volle lasciar intuire che i libri erano pericolosi ed andavano crocifissi, perché solo l’esperienza vivente di un gruppo di barcaioli del Po avrebbero potuto testimoniare il Vangelo: ma fare un film come il suo non equivale a fissare delle immagini, esattamente come si fa con un libro? Se l’assunto fosse stato vero, egli non avrebbe dovuto girare un film e si sarebbe dovuto, invece, limitare a vivere il Vangelo e a raccontarlo con la propria esistenza, mentre invece ne fece pellicola.
Certo Gesù non scrisse niente e nemmeno disse di scrivere, perché fosse chiaro che Lui stesso era la Parola di Dio completa e che la Chiesa lo trasmetteva con la presenza eucaristica – più viva e forte di centomila testi letterari – e con la carità vicendevole dei discepoli. Ma altrettanto certamente egli non solo non escluse la cultura, ma anzi la implicò, crescendo in essa egli stesso e istruendo i suoi.
Essi compresero, per questo, che era volontà del loro Signore che essi si immischiassero nelle modalità abituali di maturazione dell’uomo, fin nello scrivere. E lo Spirito Santo si servì di tale intuizione per sostenere e illuminare gli scrittori dei vangeli e delle lettere con la sua ispirazione.
Cristo vuole la cultura, non lo dimentichiamo.
E anche i suoi discepoli che ebbero enorme attenzione alla dimensione sociale, nei secoli, lo attestano. Si pensi solo a don Lorenzo Milani. Come ha detto papa Francesco: «Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani».
[1] Sull’enorme valore delle diverse traduzioni della Bibbia, in particolare della LXX, e sul rapporto fra Scrittura e trasmissione orale in Israele e nella Chiesa, cfr. A. Lonardo, La Parola si è fatta carne, non libro. I "misteri" della vita di Gesù tra Scrittura, liturgia e arte, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2019 (insieme a L. Mugavero).
[2] Cfr. su questo Tornare alle origini significa semplicemente tornare alla Scrittura o riscoprire insieme ad essa anche i Padri della Chiesa? J. Ratzinger e il ritorno alle fonti. Appunti di Andrea Lonardo.
[3] S. Agostino, De praedestinatione Sanctorum, c. II, 5. Cfr. su questo Fides non cogitata, nulla est (da Clemente Riva).
[4] Cfr. su questo «Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta». Perché la Santa Sede ritiene la cultura una questione decisiva nell’annuncio del Vangelo e nel servizio all’umanità. Lettera di Giovanni Paolo II con cui viene istituito il Pontificio Consiglio della Cultura.Redazione de Gliscritti«Per quanto dicano di essere democratici, i giornali non si occupano che delle minoranze». Breve nota di Andrea Lonardo su di un brano di G.K. Chesterton sul giornalismo e sull’esibizione del male nei media2024-02-13T22:53:00+01:002024-02-13T22:49:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6528Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Educazione e media.
Il Centro culturale Gli scritti (13/2/2024)
In La sfera e la croce G.K. Chesterton afferma con la sua abituale acutezza:
«Una delle grandi debolezze del giornalismo, che riflette comunque la nostra esistenza moderna, è che un’immagine o un fatto devono essere composti solamente da eccezioni.
Ad esempio, annunciamo con squilli di tromba sui manifesti che un uomo è caduto da un’impalcatura, ma non facciamo altrettanto se un uomo non è caduto da un’impalcatura.
Eppure quest’ultimo fatto è fondamentalmente più eccitante, perché ci segnala che questa torre viva, ricca di terrore e di mistero - l’uomo - è ancora in giro sulla terra. Che l’uomo non sia caduto da un’impalcatura è realmente più sensazionale ed è anche qualche migliaio di volte più frequente.
Ma non ci si può ragionevolmente aspettare dal giornalismo che insista nello scrivere di miracoli permanenti.
Non si può pretendere dagli occupatissimi redattori dei giornali di mettere sulle loro locandine titoli come “Il signor Wilkinson è ancora illeso”, oppure “Il signor Jones, di Worthing, non è ancora morto”.
Non possiamo annunciare la felicità di tutta l’umanità. Non possiamo descrivere tutte le forchette che non sono state rubate, o tutti i matrimoni che non si sono perdutamente sciolti.
Da questo consegue che il quadro completo che pretendono di darci della vita è necessariamente falso, poiché essi sono in grado di presentarci solo l’insolito. Per quanto dicano di essere democratici, i giornali non si occupano che delle minoranze» (da G.K. Chesterton, The Ball and the Cross).
La genialità di questa riflessione è sconvolgente e mostra la parzialità di qualsivoglia mezzo di informazione che non sia attento al bene che è così diffuso.
Ricordo un passaggio geniale di un giornalista che, offrendo la sua testimonianza ad un’enorme gruppo di giovani radunato nella Basilica di San Francesco ad Assisi per uno degli incontri di Giovani verso Assisi, così spiegava loro:
«Il male è molto più televisivo del bene. È più appariscente, perché è rapido. Se io distruggo le Torri Gemelle con attacchi suicidi, ciò avviene in pochissimi secondi e basta che qualcuno abbia ripreso l’attacco perché esso divenga virale e in un istante il video sia visto da miliardi di persone nel mondo. All’opposto, io non potrei mai titolare un articolo – e men che meno girare un video – affermando: “Oggi milioni di mamme e padri hanno amato i loro figli, li hanno accompagnati a scuola e hanno preparato il cibo per loro. Che notizia sarebbe? Nessuno la leggerebbe. Ma se una mamma uccide il suo bambino, ecco che questa notizia finisce su tutti quotidiani e su tutti i social. Il bene non è televisivo, perché è lento. Per educare un figlio ci vogliono venti anni, per ammazzarlo, basta un secondo. Il male è rapido e televisivo, ma non è più vero e frequente del bene».
Chi scrive o realizza video o rilancia notizie sui social decida allora da che parte stare, se da quella del bene o se da quella della continua diffamazione della creazione.Redazione de GliscrittiPerché non esistono pale d’altare di Rembrandt? Del rifiuto delle immagini nelle chiese presso i calvinisti del Cinquecento e del Seicento. Breve nota storico-artistica di Andrea Lonardo2024-02-13T22:46:00+01:002024-02-13T22:43:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6527Riprendiamo sul nostro sito una recensione di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Arte e fede, Riforma protestante e Musica classica.
Il Centro culturale Gli scritti (12/2/2024)
Il pregiudizio teologico sulle immagini che ebbe inizio già con il luteranesimo – con Carlostadio che venne frenato da Lutero stesso nella distruzione delle immagini[1] - ebbe conseguenze anche nei secoli a venire e, in particolare nel Seicento, al tempo di Caravaggio.
Si pensi al fatto che dei due grandi delle Fiandre di allora, Rubens e Rembrandt, si hanno pale d’altare solo del primo, poiché nella suddivisione delle Province egli visse nelle aree che rimasero cattoliche, mentre Rembrandt[2] visse in quelle governate dai calvinisti dove non ci furono più commissioni di pale d’altare, poiché le chiese restarono spoglie di ogni immagine.
Ha scritto Nesselrath in proposito: «La società calvinista ebbe inevitabilmente un impatto sui dipinti [di Rembrandt]: da un lato i calvinisti furono la causa della totale assenza di commissioni di grandi pale d'altare, mentre d’altro canto Rembrandt dipinse i loro ritratti tra i distinti i cittadini di Amsterdam, dal momento che ritrasse seguaci di ogni fede e di ogni confessione religiosa»[3].
Rembrandt conobbe tramite racconti i dipinti del Merisi – che non vide mai di persona perché non si recò mai a Roma – e si ispirò indirettamente all’utilizzo della luce di Caravaggio, ma le sue tele furono sempre di dimensioni molto più piccole perché dipinte per residenze private o pubbliche, ma mai per luoghi di culto.
Diversi pittori dell’epoca hanno dipinto gli interni delle chiese dei Paesi Bassi del Seicento ed essi sono assolutamente nudi e scarni, senza alcuna immagine – si pensi ai dipinti di Saenredam e di Houckgeest[4], come a quelli di de Witte.
Lo stesso Vermeer, divenuto cattolico a motivo del suo matrimonio, non dipinse pale d’altare, anche se molte sue tele hanno un simbolismo morale e spirituale sotteso. L’Allegoria della fede – in realtà un’Esaltazione della fede cattolica a motivo dell’esplicita presenza del calice che rimanda al sacramento dell’Eucarestia - reca un drappo a coprire la finestra, inusuale in tali raffigurazioni, dipinto secondo i critici a ricordare la condizione delle piccole aule di culto cattoliche che per legge non dovevano essere visibili dalle strade, pur essendo ammesse[5]. A suo modo, insomma, anche tale tela di Vermeer, dipinta forse per un committente gesuita o comunque cattolico, ricorda il divieto di esporre opere nelle chiese.
Interessante è che, se si vuole comprendere la pittura romana del Cinquecento e del Seicento e quindi anche quella di Caravaggio è fondamentale – anche se pochi lo fanno – guardare al contesto internazionale di allora e alle diverse visioni del tempo[6] in merito alla liceità di commissionare pale d’altare per le chiese: fuori di Roma e della penisola italiana il Merisi non avrebbe mai potuto dipingere tele come quella della Cappella Contarelli o della Cappella Cerasi, come la Madonna di Loreto o la Morte della Vergine o la Madonna del Serpe o la Deposizione, perché esse gli sarebbero state vietate.
[1] Sulla posizione di Carlostadio a Wittenberg in merito alla distruzione delle immagini e sulle reazioni di Lutero, cfr. O. Christin, I protestanti e le immagini, in E. Castelnuovo – G. Sergi, Arti e storia nel Medioevo. Il Medioevo al passato e al presente, IV, Torino, Einaudi, 2004, pp. 93-115.
[2] Per un primo approccio a Rembrandt van Rijn, cfr. P. Lecaldano (Apparati critici e filologici), L’opera pittorica completa di Rembrandt van Rijn, Milano, Rizzoli, 1978.
[3] A. Nesselrath, Il mondo in guerra intorno a Rembrandt, in AA VV, Rembrandt in Vaticano. Immagini fra cielo e terra, Mora-Città del Vaticano, Zornmuseet-Musei Vaticani, 2016, p. 27.
[4] Su Pieter Saenredam (1597-1665) e i suoi interni delle chiese di St Odolfo a Assendelft o di St Bavo in Haarlem e su Gerrit Houckgeest (1600-1661) e gli interni da lui dipinti della Oude Kerk di Delft o della Nieuwe Kerk della stessa città, con la tomba di Guglielmo il Taciturno, cfr. J. Kiers – F. Tissink (a cura di), The Glory of the Golden Age. Dutch Art of the 17th Century. Painting, Sculpture and Decorative Art, Amsterdam, Waanders, 2000, pp. 121-127. Su Emanuel de Witte e il suo interno della Oude Kerk di Amsterdam, cfr. W. Liedtke, scheda su Emanuel de Witte. Interno di chiesa gotica con motivi della Oude Kerk di Amsterdam, in S. Bandera – W. Liedtke – A.K. Wheelock, Vermeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese, Ginevra-Milano, Skira, 2012, p. 236.
[5] Sul dipinto Allegoria della fede e il drappo che copre la finestra, cfr. W. Liedtke, scheda su Johannes Vermeer. Allegoria della Fede, in S. Bandera – W. Liedtke – A.K. Wheelock, Vermeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese, Ginevra-Milano, Skira, 2012, p. 218. Sul cattolicesimo di Vermeer e la condizione dei cattolici sotto il governo calvinista seicentesco dei Paesi Bassi, cfr. A.K. Wheelock, Vermeer e il secolo d’oro dell’arte olandese, inS. Bandera – W. Liedtke – A.K. Wheelock, Vermeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese, Ginevra-Milano, Skira, 2012, pp. 21-40, in particolare pp. 23, 28-30 e 33. Per una prima presentazione generale del pittore, cfr. A.K. Wheelock, Vermeer. The complete Works, New York, Harry N. Abrams Publishers, 1997 e P. Bianconi (Apparati critici e filologici), L’opera completa di Vermeer di Delft, Milano, Rizzoli, 1999.
[6] Analogamente solo uno sguardo alle politiche culturali e scientifiche dei diversi paesi dell’Europa del Seicento permette di situare più precisamente ciò che avvenne nella penisola italiana e le censure relative. Si pensi, solo per illuminare la questione con qualche esempio, che nel 1642 l’Inghilterra sotto governo puritano emanò le misure restrittive nei confronti dei teatri e nel 1647 ne decretò la sistematica distruzione in tutto il paese, perché si riteneva che gli spettacoli teatrali corrompessero i costumi del popolo (cfr. su questo P. Spinucci, Teatro elisabettiano teatro di stato. La polemica dei puritani inglese contro il teatro nei secc. XVI e XVII, Firenze, Olschki, 1973). I puritani decretarono, negli stessi anni, la distruzione di tutti gli organi nelle chiese e imposero l’abbandono di strumenti come i violini, in quanto strumenti che avevano il potere di distrarre il popolo (solo con la “restaurazione” di Carlo II si ebbe una rinascita musicale in Inghilterra con figure come quella di Henri Purcell; cfr. su questo La “democrazia” di Cromwell non bandì solo il teatro, ma proibì anche gli strumenti musicali (breve nota del Centro San fedele di Milano all’interno di un gruppo di testi di Andrea Lonardo sull’Inghilterra). Anche in campo scientifico se si vuole comprendere il dibattito che sorse intorno a Copernico e a Galileo Galilei e la condanna dell’eliocentrismo è necessario ricordare che le polemiche avvennero in tutto Europa e che il geocentrismo fu difeso non solo dal pontefice, ma anche da Lutero, Melantone e Calvino e che l’ultima condanna di un sostenitore dell’eliocentrismo fu quella dell’astronomo Niels Celsius che venne costretto ad abiurare dalla sua dottrina dai docenti luterani dell’Università di Uppsala nel 1679, ancora quarant’anni dopo l’astronomo pisano: lo studioso aveva difeso la centralità del sole nell’opera De principiis astronomicis propriis (sulla condanna di Celsius, cfr. H. Sandblad, The Reception of the Copernican System in Sweden, in Colloquia Copernicana I, Études sur l’audience de la théorie héliocentrique (Studia Copernicana V), Polska Akademia Nauk, Wroclaw, 1972, pp. 241-270, in particolare pp. 251-259). Significativo è che il tentativo di differire le tesi di Galilei si basò in tutta Europa sulle ipotesi dell’astronomo luterano danese Tycho Brahe che nel 1588 pubblicò il trattato De mundi aetherei recentioribus phaenomenis che proponeva che tutti i pianeti, ad eccezione della terra, girassero intorno al sole: solo la terra sarebbe stata fissa e il sole avrebbe girato intorno ad essa, trascinando con sé nella rotazione tutti gli altri pianeti (sull’ipotesi cosmologica di Brahe, cfr. M. Bersanelli, Il grande spettacolo del cielo. Otto visioni dell’universo dall’antichità ai nostri giorni, Milano, Sperling & Kupfer, 2016, p. 115-118). Il vero dibattito che si sviluppò intorno a Galilei in tutto il Seicento, sia nei paesi cattolici che in quelli protestanti, non si contrapponevano più il sistema tolemaico a quello copernicano, ma invece quello ticoniano (di Tycho Brahe a appunto) all’eliocentrismo. Dinanzi alle nuove osservazioni astronomiche, che venivano via via confermando la rotazione dei diversi pianeti intorno al sole, la difesa si assestò su di un eliocentrismo “moderato” che salvasse la centralità della sola terra (sull’intera questione e sul dibattito trasversale sull’eliocentrismo che infiammò sia i paesi cattolici che quelli protestanti, cfr. A. Lonardo, Galilei fu il fondatore degli studi biblici moderni, più che il padre dell’eliocentrismo. Una nuova prospettiva sull’astronomo pisano, al link https://www.gliscritti.it/blog/entry/4236 consultato in data 26/12/2023).Redazione de Gliscritti«Vorrei dipingere uomini e donne con un non so che di eterno, di cui una volta ne era simbolo l'aureola, che noi cerchiamo di rendere con lo stesso raggiare, con la vibrazione dei colori». I testi dalle lettere di van Gogh e la prima predica che fece come pastore a Londra letti nel corso dell’incontro su Vincent van Gogh del ciclo ascoltando i maestri2024-01-16T23:37:00+01:002024-01-16T23:33:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6522Riprendiamo sul nostro sito il video dell’incontro/spettacolo su Vincent van Gogh del ciclo Ascoltando i maestri e i testi che sono stati letti nel corso dell’incontro. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Arte e fede; cfr., in particolare, Nel 150° anniversario della nascita di Vincent van Gogh (1853-2003). Dal Sermone domenicale sul Salmo 119, 19 al Campo di grano con corvi. Vivere in compagnia della speranza e nella sua assenza, di Andrea Lonardo.
Il Centro culturale Gli scritti (14/1/2024)
https://www.youtube.com/watch?v=vVelEO3gUNo
N.B. I testi qui sotto presentati sono stati scelti da Andrea Lonardo e adattati da Francesco D’Alfonso
1/ dalla Lettera a Theo da Arles, 11 agosto 1888
Mio caro Theo,
non sarei per nulla stupito se fra poco gli impressionisti trovassero a ridire sul mio modo di dipingere, che è stato fecondato più dalle idee di Delacroix che dalle loro. Perché invece di cercare di rendere esattamente ciò che ho davanti agli occhi, mi servo del colore in modo più arbitrario per esprimermi con intensità.
Comunque lasciamo stare la teoria, voglio darti un esempio di ciò che intendo dire. Vorrei fare il ritratto di un amico artista che sogna i grandi sogni, che lavora come l'usignolo canta, perché questa è la sua natura. Quest'uomo dovrebbe essere biondo. E vorrei mettere nel quadro la stima e l'amore che ho per lui. Lo ritrarrei dunque così com'è, più fedelmente possibile, per cominciare.
Ma il quadro non sarebbe terminato così. Per finirlo farò il colorista arbitrario. Esagererò il biondo dei capelli, arrivando ai toni arancione, ai gialli cromo, al limone pallido. Dietro la testa, invece di dipingere il muro banale del misero appartamento, dipingerò l'infinito, farò uno sfondo semplice del blu più ricco, più intenso che riuscirò ad ottenere; da questa semplice combinazione, la testa bionda, illuminata su questo sfondo blu sontuoso, rende un effetto misterioso come di stella nell'azzurro profondo. Nella vita e nella pittura posso fare bene a meno del buon vino, ma non posso, io che soffro, fare a meno di qualcosa più grande di me, che è la mia vita, la potenza creativa. E quando si è frustrati nella potenza fisica, si cerca di dar vita ai pensieri al posto dei figli, e si partecipa così dell'umanità. E con un quadro vorrei poter esprimere qualcosa di commovente come una musica. Vorrei dipingere uomini e donne con un non so che di eterno, di cui una volta ne era simbolo l'aureola, che noi cerchiamo di rendere con lo stesso raggiare, con la vibrazione dei colori.
2/ I primi passi
Mio caro Theo,
ora la cosa principale è che il tuo matrimonio non vada per le lunghe.
Sposandoti, tu renderai la mamma tranquilla e felice, e farai quello che è necessario alla tua sistemazione nella vita e nel commercio.
Sarai apprezzato dalla società alla quale appartieni, ma forse non più di quanto gli artisti pensano che talvolta anch'io ho lavorato e sofferto per la comunità...
Certo che da me, tuo fratello, tu non vorrai delle felicitazioni banali e l'assicurazione che sarai di colpo trasportato in un paradiso.
Ma con tua moglie cesserai di essere solo, ed è questo che auguro anche a nostra sorella.
Dopo il matrimonio tu vedrai il tuo cammino tracciato e la tua casa non sarà più vuota.
3/ Il seminatore al tramonto
Mio caro Bernard,
il Cristo soltanto - fra tutti i filosofi, maghi, eccetera – ha affermato come principale certezza la vita eterna del tempo, il nulla della morte, la necessità e la giustificazione d'essere della serenità e della dedizione.
Egli ha vissuto serenamente, come il più grande artista di tutti gli artisti, sdegnando sia il marmo che l'argilla e il colore, e lavorando sulla carne viva.
Vale a dire che questo artista – inaudito, quasi inconcepibile - non faceva né statue, né quadri, né libri: egli faceva... degli uomini vivi, degli immortali.
Questo grande artista non ha fatto neppure dei libri. Questo grande artista, il Cristo, se disdegnava a scrivere dei libri sulle idee, non ha disdegnato la parola parlata, la parabola soprattutto (che seminatore, che mietitura!).
Chi di noi oserebbe dire che abbia mentito il giorno in cui, predicando con disprezzo la rovina delle costruzioni romane affermò: «E anche quando il cielo e la terra saranno passati, le mie parole non passeranno».
Queste parole dette sono fra i più alti vertici raggiunti dall'arte, che diventa forza creatrice, pura potenza creatrice.
Queste considerazioni, mio caro amico, ci portano ben lontano: ci sollevano al di sopra della stessa arte. Esse ci fanno intravedere l'arte di creare la vita, l'arte di essere dei vivi immortali.
Mio caro Bernard,
non ti nascondo che amo la campagna perché ci sono cresciuto - delle ondate di ricordi di altri tempi, delle aspirazioni di questo infinito di cui il seminatore e il covone sono i simboli, mi incantano ancora come una volta.
4/ La Pietà
In queste settimane ho dipinto qualcosa anche per me – ma nella mia stanza da letto non mi piace molto vedere i miei quadri – perciò ne ho copiato uno di Delacroix, una Pietà, vale a dire un Cristo morto con la Mater Dolorosa.
All’entrata di una grotta giace sdraiato, con le mani in avanti sul fianco sinistro, il cadavere sfinito, e la donna sta dietro. È sera, dopo la tempesta, e questa figura desolata, vestita di azzurro – le sue vesti agitate dal vento – si stacca contro un cielo dove vagano nuvole viola orlate d’oro. Anch’essa con un grande gesto disperato allarga in avanti le braccia vuote. E poiché il viso del morto è nell’ombra, la pallida testa della donna si staglia chiara contro una nuvola – contrasto che fa sì che queste teste sembrino un fiore scuro e un fiore pallido avvicinati insieme per valorizzarsi.
Delacroix non disegna una Mater Dolorosa alla maniera delle statue romane: ella ha invece l’aspetto pallido, lo sguardo perduto e vago di una persona stanca di essere in angoscia e in pianto e in veglia.
Se ora mi vedessi lavorare alla Pietà, non diresti che sono malato: con i pensieri limpidi, con la mano sicura, ho disegnato senza prendere una sola misura del quadro di Delacroix, nella quale ci sono ben quattro mani e braccia in primo piano, gesti e posizioni di corpo non proprio comode e semplici.
Io so che la guarigione viene – se si è coraggiosi – dal di dentro, con la rassegnazione alla sofferenza e alla morte, con l'abbandono della propria volontà e dell'amor proprio. Ma ciò non ha importanza per me, mi piace dipingere, mi piace vedere gente e cose, e mi piace tutto ciò che costituisce la nostra vita. Sì, la vita vera sarebbe un'altra cosa, ma io non credo di appartenere a quella categoria di anime che sono pronte a vivere e anche a soffrire in qualsiasi momento.
Che cosa strana è il tocco, il colpo di pennello. All'aria aperta, esposti al vento, al sole, alla curiosità della gente, si lavora come si può, si riempie il quadro alla disperata. Ed è proprio facendo così che si coglie il vero e l'essenziale – questa è la cosa più difficile.
Io prevedo già che il giorno in cui avrò un certo successo, comincerò a rimpiangere la mia solitudine e il mio accoramento di qui, quando guardo attraverso le sbarre di ferro della mia cella il falciatore nei campi ai miei piedi.
La disgrazia serve a qualcosa.
Per riuscire, per assicurarsi un successo che duri, bisogna avere un temperamento diverso dal mio, io non farò mai ciò che avrei potuto e dovuto volere e perseguire.
5/ dal Sermone di Vincent van Gogh inviato al fratello Theo
N.B. di Andrea Lonardo L'immagine del sentiero del famoso Campo di grano con corvi degli ultimi giorni di van Gogh appare anche in un'opera giovanile di van Gogh, ma con una variante di grande rilevanza: la presenza dell'Angelo di Dio. Tale opera non è pittorica, ma letteraria: è il Sermone domenicale sul Salmo 119, 19, la sua prima predica, tenuta in Inghilterra all'età di 23 anni. Vincent van Gogh, figlio di Theodorus van Gogh, pastore della Chiesa Riformata Olandese, fu, infatti, per alcuni anni, anch’egli predicatore evangelico. Quando ritornò, nel marzo del 1876, all'età di 23 anni, a Londra (dove già aveva abitato due anni, a partire dal 1873) iniziò a lavorare alla scuola del Rev. William P. Stokes a Ramsgate. Era responsabile di 24 ragazzi, tra i 10 ed i 14 anni d'età. Passò poi ad insegnare alla scuola del Rev. T. Slade Jones, predicatore metodista, a Isleworth. In questo periodo, come appare dalle sue lettere al fratello Theo, si dedicò sempre più allo studio della Bibbia. Nell'estate dello stesso anno, il 1876, iniziò a pensare seriamente di dedicare la sua vita alla predicazione cristiana. Il rev. Jones acconsentì ad assegnargli maggiori responsabilità verso la comunità cristiana del luogo. Van Gogh tenne il suo primo sermone domenicale - che ebbe appunto per tema il versetto del Salmo 119, 19 "Sono uno straniero sulla terra, non mi nascondere i Tuoi comandamenti" - il 29 ottobre 1876, in un culto metodista. È van Gogh stesso ad averlo trascritto, per inviarlo in una lettera al fratello Theo (è in questo modo che esso è giunto fino a noi). Il sermone, dopo aver a lungo invitato a meditare sulla vita come pellegrinaggio, attingendo alla testimonianza biblica, si chiude evocando proprio l'immagine del sentiero. Ma, sul sentiero, appare una donna, o una figura in nero, l'Angelo di Dio, l'immagine della presenza di Dio e della sua Provvidenza, ad incoraggiare il passo ansioso dell'uomo. Le parole del Sermone fanno qui riferimento ad un'opera di George Henry Boughton (1833?-1905), pittore, di cui il Van Gogh Museum di Amsterdam custodisce la tela Dio ti sia favorevole! Pellegrini che si mettono in cammino per Canterbury, del 1874. Anche in questa tela, che non è la stessa citata da van Gogh, Boughton mostra due pellegrini alla presenza della “figura nera” – qui è chiaramente un predicatore cristiano. Il Sermone è accluso alla lettera 79 da Isleworth. Così Vincent van Gogh lo presenta: «Theo, tuo fratello ha predicato per la prima volta, domenica scorsa, nella casa di Dio di cui è scritto: “In questo luogo, io darò la pace”. Ti accludo una copia di quanto dissi. Possa essere il primo di una lunga serie di sermoni» . Queste invece le parole finali della Lettera al fratello: «Salendo sul pulpito, mi sentii simile a qualcuno che uscendo da una buia caverna sotterranea ritorni nella calda luce del giorno. Il pensiero che, in avvenire, predicherò il Vangelo ovunque vada mi procura una gioia profonda. Per compiere bene tale missione, bisogna portare il Vangelo in cuore. Possa il Signore concedermi questa grazia».
La nostra vita è il cammino di un pellegrino.
Una volta ho visto un bellissimo quadro: era un paesaggio alla sera. In distanza, sul lato destro, una fila di colline appariva azzurra nella leggera nebbia della sera. Su quelle colline lo splendore del tramonto, le nuvole grigie con i loro orli d'argento, d'oro e di porpora. Il paesaggio è una pianura o una landa, coperte di erba e di foglie gialle perché era autunno. Attraverso il paesaggio una strada porta a un'alta montagna, lontana, molto lontana: sulla cima di quella montagna è una città su cui il sole tramonta glorioso. Sulla strada cammina un pellegrino, con qualcosa in mano. Ha già camminato per lungo tempo ed è molto stanco. E ora incontra una donna, o una figura in nero, che fa pensare alla parola di San Paolo: «Come essere colmi di pena eppure gioire sempre». Quell'Angelo di Dio è stato messo là per incoraggiare i pellegrini e rispondere alle loro domande, e il pellegrino le chiede:
«La strada va su per la collina tutto il tempo?».
E la risposta è: «Si, fino alla fine».
E lui chiede di nuovo: «E il cammino durerà tutto il giorno?».
E la risposta è: «Dalla mattina alla sera amico mio».
E il pellegrino va avanti colmo di pena eppure sempre gioendo – pieno di pena perché è così lontano e la strada così lunga. Pieno di speranza mentre guarda su, verso la città eterna, lontana, risplendente nella luce della sera e pensa a due antichi detti che ha sentito tanto tempo fa.
Uno è: “Molta lotta deve essere combattuta. Molta sofferenza deve essere sofferta. Molte preghiere devono essere pregate. E allora la fine sarà pace”.
E l'altro è: “L'acqua arriva alle labbra, ma non arriva più in alto”.
Ed egli dice: Sarò sempre più stanco ma anche sempre più vicino a Te.
L'uomo non deve lottare sulla terra? Ma c'è una consolazione da Dio in questa vita. Un Angelo di Dio che conforta l'uomo, che è l'Angelo della Carità. Non dimentichiamolo.
E quando ognuno di noi torna alle cose quotidiane e ai doveri quotidiani non dimentichiamo che le cose non sono quello che sembrano, che Dio ci insegna cose più alte attraverso le cose della vita quotidiana, che la nostra vita è il cammino di un pellegrino, e che noi siamo stranieri sulla terra, ma che noi abbiamo un Dio e padre che protegge gli stranieri, - e che siamo tutti fratelli.
6/ Dalle ultime lettere di Vincent van Gogh, giugno-luglio 1890
Io sono completamente preso dalla immensa pianura con i campi di grano contro le colline, senza confini come un mare, di un giallo, di un verde tenero, delicato, il viola tenero di un pezzo di terreno zappato e sarchiato, con il verde delle piante di patate in fiore che forma un disegno a scacchi regolari, e tutto ciò sotto un cielo a tonalità delicate di azzurro, bianco, rosa e violetto.
Vedete, di solito cerco di essere di buon umore, ma la mia vita è attaccata a un filo, il mio passo vacilla. Tuttavia, ho dipinto ancora tre grandi quadri: sono delle immense distese di grano sotto cieli nuvolosi, e non mi sento assolutamente imbarazzato nel tentare di esprimere tristezza, e un'estrema solitudine.
Come attraverso un fondo di bicchiere, oscuramente - così mi appare la vita, ed il perché del dire addio, le partenze, l'irrequietezza continua.
Per me la vita può ben continuare a restare isolata. Coloro cui mi sono più affezionato, mai li ho visti altrimenti che come attraverso un fondo di bicchiere, oscuramente. Eppure una ragione c'è perché a volte ci sia una maggiore armonia nel mio lavoro. Dipingere è un'entità a sé. L'anno scorso lessi in un qualche libro che lo scrivere o il dipingere un'opera era come avere un figlio. Questo non lo ritengo valido nel caso mio - ho sempre pensato che la seconda delle due cose fosse la migliore e la più naturale. È proprio per questo che mi sforzo al massimo, anche se accade che proprio quel mio lavoro è compreso meno, è per me ciò che costituisce il solo legame fra il passato e il presente.Redazione de GliscrittiIl catechismo continua oltre la guerra: Prima Comunione per i bimbi di Gaza. Guidati da due religiose peruviane hanno proseguito il catechismo nonostante il conflitto. Domenica hanno ricevuto il Sacramento, di Lucia Capuzzi2024-01-16T23:30:00+01:002024-01-16T23:29:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6525Riprendiamo da Avvenire un articolo di Lucia Capuzzi, pubblicato l’11/1/2024. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Dialogo fra le religioni, I luoghi della Bibbia e della storia della chiesa e Per la pace contro la guerra: mitezza e violenza.
Il Centro culturale Gli scritti (14/1/2024)
I bambini con padre Yusuf al temine della celebrazione della Messa in cui hanno ricevuto la Prima Comunione - Facebook parrocchia Sacra Famiglia
Le bombe non hanno fermato [gli incontri di] catechismo.
I bambini hanno continuato a prepararsi per la Prima Comunione, guidati da María del Pilar e María del Perpetuo Socorro Llerena Vargas, religiose missionarie peruviane della Famiglia del Verbo Incarnato.
Domenica scorsa, giorno in cui si celebra il Battesimo del Signore, così, i bambini della Sacra Famiglia, l'unica parrocchia cattolica di Gaza, hanno ricevuto l'Eucarestia.
Avrebbe dovuto impartirgliela il cardinale Pierbattista Pizzaballa, nella tradizionale visita alla Striscia di dicembre. Purtroppo, però, il Patriarca non ha potuto raggiungere l'enclave a causa del conflitto.
È stato, così, il parroco vicario, padre Yusuf, ad amministrarla. «Abbiamo addobbato la chiesa con il poco che avevamo perché fosse un giorno speciale per tutti».
Il Patriarcato latino di Gerusalemme ha sottolineato il grande impegno della Sacra Famiglia nel continuare ad impartire i Sacramenti «in questo tempo di difficoltà. Tutti i giorni si celebra la Messa a cui partecipano i tanti che hanno trovato rifugio all'interno della Chiesa».
I cristiani nella Striscia sono 992, di cui 135 cattolici, su un totale di 2,3 milioni di abitanti che la Chiesa assiste – senza distinzione di religione – con tre scuole, tre centri per i più poveri, dieci centri sanitari.
Il complesso parrocchiale della Sacra Famiglia ospita quasi seicento sfollati.Redazione de GliscrittiPapa Francesco stesso ha spiegato al clero romano come interpretare la recente dichiarazione Fiducia supplicans relativamente alle benedizioni a persone omosessuali: benedizione alle persone in quanto tali, non alla loro relazione. Breve nota di Giovanni Amico2024-01-16T23:30:00+01:002024-01-16T23:27:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6524Riprendiamo sul nostro sito una nota di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender.
Il Centro culturale Gli scritti (14/1/2024)
Diversi amici del clero romano mi hanno raccontato delle diverse domande del clero romano rivolte a papa Francesco sull’interpretazione della recente dichiarazione sulle benedizioni Fiducia supplicans del Dicastero per la dottrina della fede, pubblicata il 18 dicembre del 2023, nella quale un paragrafo invita a dare la benedizione anche a persone che vivono relazioni omosessuali.
Mi hanno spiegato – e la fonte è certa poiché tutti concordavano - che il pontefice è stato chiarissimo, anche perché ci sono stati quattro interventi sul tema, tre che esprimevano perplessità e uno, di orientamento opposto alle tre, che invitava invece a riconoscere le relazioni tout court.
Il pontefice ha affermato in maniera assolutamente chiara e inequivocabile che la benedizione viene data alle persone e non alla relazione.
Ha detto che nelle relazioni omosessuali vale lo stesso principio della sessualità tout court e che, quindi, dove non c’è matrimonio, le relazioni sessuali ricadono sotto il Sesto comandamento.
Quindi quando c’è richiesta di perdono nella Confessione sacramentale bisogna – ha insistito sul “bisogna” - concedere l’assoluzione che non deve mai essere negata.
Ma appunto si tratta di misericordia, di perdono, e non di benedizione di unioni.
Ha ricordato che si benedicono anche politici che sono notoriamente in peccato contro la giustizia o l’uso del denaro e che questo non implica un assenso al loro modo di vivere – è ovviamente c’è grande diversità fra gli uni e gli altri -, ma è una benedizione su di loro per chiedere conversione e la misericordia di Dio o salute.
La benedizione deve essere donata alle persone che la chiedono - papa Francesco ha sottolineato questo “dovere” di benedire -, perché esse stanno chiedendo in maniera sincera che Dio le illumini e le guidi, perché, così facendo, esse riconoscono il loro bisogno della misericordia di Dio e Dio non farà mancare la sua grazia.
Poiché le perplessità sono state espresse anche da due preti africani in servizio a Roma, il papa ha ricordato che le diverse conferenze episcopali debbono applicare il documento a seconda delle sensibilità locali e che, quindi, una volta che il cardinal Fridolin Ambongo, arcivescovo di Kinshasa e presidente delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Sceam/Secam), ha scritto a nome delle diverse chiese africane che la benedizione non verrà data in quei paesi, quel parere vale per quelle nazioni e quelle chiese, in nome dell’autonomia delle diverse Chiese e nel rispetto dei loro usi e costumi.Redazione de Gliscritti1/ Tommaso Moro portava il nome di Thomas Becket, il santo che si oppose al potere indebito dei laici e dei re sulla chiesa: la sua testimonianza aiuta a capire tanti snodi della storia. Breve nota di Andrea Lonardo 2/ San Tommaso Becket, vescovo e martire 3/ Dalle «Lettere» di san Tommaso Becket, vescovo2024-01-16T23:25:00+01:002024-01-16T23:24:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.65181/ Tommaso Moro portava il nome di Thomas Becket, il santo che si oppose al potere indebito dei laici e dei re sulla chiesa: la sua testimonianza aiuta a capire tanti snodi della storia. Breve nota di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Storia ed Ecclesiologia.
Il Centro culturale Gli scritti (14/1/2024)
Certamente nella Chiesa esiste il clericalismo. Esistono preti e vescovi che sono clericali, che pretendono di decidere loro e solo loro, senza ascoltare nessuno, facendosi arbitri di ogni decisione e pretendendo di controllare ogni cosa, senza avere fiducia nell’azione e nel pensiero libero di altri preti o dei laici.
Ma esiste anche il rischio reale che interessi esterni di laici, di intellettuali o di potenti asservano a sé la chiesa e pretendano di ridurne lo spazio di libertà, per farne un loro possesso ed utilizzarla per i loro fini.
Ciò si è verificato infinite volte nella storia. In uno di essi fu l’arcivescovo di Canterbury, Thomas Becket a venire ucciso, perché il re d’Inghilterra Enrico II pretendeva di decidere della scelta dei vescovi e del diritto e delle proprietà della Chiesa.
Becket, figura di vescovo amatissimo, sentì di dover difendere la Chiesa – e la sua obbedienza al pontefice – proprio perché il laicato voleva asservirla e farne una sua pedina, finendo martirizzato per questo.
Egli sapeva che la Chiesa doveva essere libera il più possibile dai giochi di potere del mondo laico.
Quando si studiano i periodi “peggiori” della storia della chiesa è necessario domandarsi, per una corretta analisi storiografica, se tale cedimento delle massime autorità della Chiesa fu dovuto all’immoralità del clero o se, prima ancora, furono i poteri laici a volersi infiltrare all’intero dell’episcopato, per cercare di determinare le sorti storiche del loro tempo.
Si pensi, in primo luogo, al cosiddetto secolo di ferro, il X secolo, quando le famiglie nobili romane si impossessarono del papato, al punto che una nobildonna, Marozia, fece sì che ben tre dei suoi parenti, in successione fossero eletti pontefici. A chi attribuire la maggiore responsabilità di tale situazione? Al clero certamente corrotto o all’abilità di introdurre nelle file del clero via via propri rampolli per decidere dell’elezioni dei nuovi pontefici?
È evidente che, pur dinanzi alle colpe del clero, una gran parte di responsabilità va attribuita proprio al desiderio dei laici di determinare la politica di Roma, controllando il vescovo di Roma.
Lo stesso si può dire del periodo del papato rinascimentale – si pensi ad Alessandro VI, papa Borgia. Anche qui certamente si deve riconoscere la corruzione di cardinali e vescovi, ma non fu determinante anche la pressione della monarchia spagnola che pretendeva, controllando i propri cardinali, che il conclave si orientasse in una determinata maniera?
Quanto scritto, per equilibrare le visioni ecclesiologiche che, a volte, ritengono che la questione sia semplicemente concedere maggior potere al laicato, per avere una Chiesa più fedele al Vangelo.
Il problema è che il peccato presente sia nel clero che nei laici fa sì che la libertà della Chiesa non sia garantita dalla presenza del laicato, bensì dalla vittoria, almeno parziale e progressiva, sul peccato.
Tommaso Moro portò il nome di Battesimo dell’arcivescovo di Canterbury, San Thomas Becket appunto. Lui, laico e non ecclesiastico, si trovò a difendere la libertà della Chiesa ancora una volta dall’intrusione dei poteri laici, nel suo caso della corona inglese rappresentata da Enrico VIII che pretendeva sia in materia matrimoniale, sia nella guida della Chiesa locale, che fosse il monarca e i suoi politici a decidere, contro il parere del vescovo di Roma e della tradizione cristiana più in generale.
Anche Moro pagò con la vita la sua testimonianza che della vita della Chiesa non si dovesse fare ciò che si vuole e che non potessero essere figure solo perché laiche a decidere di essa.
2/ San Tommaso Becket, vescovo e martire
Riprendiamo sul nostro sito un breve profilo della vita di san Thomas Becket pubblicata sul sito della Diocesi di Milano (https://www.chiesadimilano.it/almanacco/santo-del-giorno/sdg-anno-a-2022-2023/san-tommaso-becket-vescovo-e-martire-2-2-1096475.html). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Maestri nello Spirito e Storia medioevale.
Il Centro culturale Gli scritti (14/1/2024)
Nasce a Londra nel 1118 da una famiglia normanna di mercanti. Dopo aver concluso brillantemente gli studi di diritto a Londra e a Parigi, entrò nelle grazie del re d’Inghilterra Enrico II, di cui divenne consigliere e confidente, fino ad essere nominato nel 1155 Cancelliere dello Scacchiere. Per sette anni Becket ricambiò fedelmente l’amicizia del re condividendo con lui fatiche e preoccupazioni di governo, oltre che sfarzo e spensieratezza di vita.
Alla morte dell’arcivescovo Teobaldo, nel 1162, Enrico II, nonostante l’opposizione dell’amico, volle nominarlo arcivescovo, nella fiducia che con le sue brillanti doti di amministratore Tommaso potesse aiutarlo a risolvere i problemi esistenti tra casa reale e alti prelati inglesi.
Ma per Tommaso questa nomina segnò un profondo cambiamento di vita: egli cominciò a seguire il costume e l’austerità dei monaci del tempo e a considerare come legge suprema l’evangelo di Gesù. I poveri furono ospiti privilegiati alla sua mensa. Si trovò inoltre presto in contrasto con il re, difendendo egli l’autonomia della Chiesa contro le indebite rivendicazioni reali codificate nelle Costituzioni di Claredon (1164). Abbandonato dai confratelli nell’episcopato, che preferivano tenere una linea più morbida con il re, tiepidamente difeso dal papa, osteggiato dalla nobiltà, fu costretto a un lungo esilio in Francia.
A seguito di una momentanea riconciliazione con il re, Tommaso nel novembre del 1170 rientrò a Canterbury, senza però mutare le sue posizioni in difesa della libertà della Chiesa d’Inghilterra. Nonostante il pericolo cui consapevolmente andava incontro, Tommaso continuò sulla sua strada, convinto di difendere la causa di Dio contro Cesare.
E solo qualche giorno dopo, il 29 dicembre 1170, al termine dei vespri, fu ucciso di spada davanti all’altare della sua cattedrale. Aveva rifiutato di difendersi e, respingendo il tentativo dei monaci di barricare le porte della chiesa, prima di cadere colpito aveva pronunciato le parole: “Sono pronto a morire per il nome di Gesù e per la difesa della Chiesa”.
Canonizzato nel 1173, la sua memoria è celebrata a Roma fin dal XII secolo.
3/ Dalle «Lettere» di san Tommaso Becket, vescovo (Lett. 74; PL 190, 533-536)
Riprendiamo sul nostro sito il brano dalle lettere di Becket presente nell’Ufficio delle Letture della sua festa, il 29 dicembre. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Maestri nello Spirito e Storia medioevale.
Il Centro culturale Gli scritti (1/1/2024)
Se ci preoccupiamo di essere quello che si dice di noi e vogliamo conoscere, noi che siamo chiamati vescovi e pontefici, il significato del nostro appellativo, è necessario che con ininterrotta sollecitudine consideriamo e imitiamo l’esempio di colui che, costituito da Dio pontefice in eterno, offrì se stesso per noi al Padre sull’altare della croce e che, dall’altissimo osservatorio dei cieli, continuamente scruta gli atti e le intenzioni di tutti gli uomini, per dare a ciascuno, alla fine, secondo le sue opere.
Infatti noi, succedendo agli apostoli e agli uomini apostolici nel più alto grado delle chiese, abbiamo assunto sulla terra le sue veci, ne abbiamo ricevuto la gloria del nome, l’onore della dignità e ne possediamo nel tempo i frutti delle fatiche spirituali, affinché per mezzo del nostro ministero venga distrutto l’impero del peccato e della morte, e l'edificio di Cristo, ben compaginato nella fede e nel progresso delle virtù, cresca nel signore come tempio santo.
E in verità grande è il numero dei vescovi. Noi, nella consacrazione, abbiamo promesso una sollecitudine e una attenzione più diligente nell’insegnare e nel governare, e ogni giorno ne facciamo la professione con le parole, ma volesse il cielo che la fedeltà alla promessa fosse avvalorata dalla testimonianza delle opere! La messe è certamente abbondante e per raccoglierla e adunarla nel granaio del Signore non basterebbe uno, né pochi.
Chi tuttavia dubita che la chiesa di Roma sia a capo di tutte le chiese e fonte della dottrina cattolica? Chi ignora che le chiavi del regno dei cieli sono state date a Pietro? La struttura di tutta la Chiesa non si innalza forse nella fede e sull’insegnamento di Pietro, finché tutti andiamo incontro a Cristo come uomo perfetto, nell’unità della fede e nella conoscenza del Figlio di Dio?
È necessario che siano molti quelli che piantano, molti quelli che irrigano: l’espansione della parola e l’incremento dei popoli lo esigono; già l’antico popolo, cui bastava un solo altare, aveva per necessità molti maestri; tanto più ora per la venuta e l’affluenza di popoli, per i quali non basterebbe il Libano per il fuoco dei sacrifici e non sarebbero sufficienti per l’olocausto gli animali non solo del Libano, ma neppure di tutta la Giudea. Ma chiunque sia che irriga e pianta, Dio non dà incremento se non a colui che ha piantato nella fede di Pietro e aderisce alla sua dottrina.
E veramente a lui ci si riferisce per le massime cause del popolo che devono essere esaminate dal Sommo Pontefice, e i giudici della Chiesa sono posti sotto di lui, perché sono chiamati a parte della sollecitudine per esercitare la potestà loro affidata.
Ricordatevi infine come sono stati salvati i nostri padri, in che modo e in mezzo a quante difficoltà la Chiesa è cresciuta e si è dilatata; quali tempeste abbia superato la nave di Pietro, che ha Cristo come capitano; come alla corona siano giunti coloro la cui fede brilla più chiaramente nelle tribolazioni.
Così è andata innanzi la schiera di tutti i santi, perché sia vero per sempre che non sarà coronato se non colui che avrà combattuto secondo le regole (cfr. 2 Tm 2, 5).Redazione de Gliscritti«Non scegliamo di ciò che disse Gesù soltanto quello che ci fa comodo». Benedetto XVI, il testo inedito a un anno dalla morte. L’introduzione che il Papa Emerito scrisse per l’edizione del suo Gesù di Nazaret, in uscita in Russia2024-01-16T23:19:00+01:002024-01-16T23:17:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6516Riprendiamo da Il Corriere della sera l’introduzione che il Papa Emerito Benedetto XVI scrisse per l’edizione del suo Gesù di Nazaret, in uscita in Russia: il testo è apparso sul quotidiano il 31/12/2023. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Cristianesimo e Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (14/1/2024)
Pubblichiamo l’introduzione che Benedetto XVI ha scritto, dieci mesi prima di morire, per l’edizione del suo Gesù di Nazaret che esce in Russia, proprio a un anno dalla sua scomparsa. Il testo porta la data del 22 febbraio 2022, due giorni prima dell’invasione russa dell’Ucraina. La pubblicazione in russo ha un senso essenzialmente religioso. Ma è evidente il suo valore diplomatico, dopo il gelo tra Santa Sede e Patriarcato di Mosca seguito all’appoggio di Kirill a Putin. Il volume ha le prefazioni del cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, e del Metropolita Antonij, «ministro degli Esteri» del Patriarcato ortodosso. Sarà presentato a Mosca il 17 gennaio. Un’iniziativa che richiama la «diplomazia del Vangelo» di Giovanni XXIII, dice il professor Pierluca Azzaro, curatore dell’Opera omnia di Ratzinger: «Come ci ricorda spesso Benedetto XVI, in Europa solo la fede cristiana si è sempre dimostrata storicamente la forza decisiva della riconciliazione». (g.g.v)
È per me una lieta sorpresa, per la quale posso solo ringraziare di cuore, il fatto che il Patriarcato di Mosca, unitamente all’Accademia «Sapientia et Scientia», pubblichi in russo il mio libro Gesù di Nazaret — apparso in tre volumi, ora raccolti nel VI tomo della mia Opera omnia — per renderlo in questo modo accessibile ai lettori russi e in particolar modo ai sacerdoti.
La coltre di nebbia su Gesù
In questo libro ho voluto diradare la coltre di nebbia che molte interpretazioni di Gesù hanno steso attorno alla sua figura. Il Vangelo di Giovanni ci indica l’autentico centro della sua figura: «Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,17s). «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia» (Gv 1,16).
Riconoscere il Dio vivente
Questo messaggio, in molti, oggi (e non solo oggi), suscita naturalmente critica o rifiuto. Volentieri di Gesù si fa propria una cosa o l’altra, ma riconoscere in lui la pretesa dello stesso Dio vivente, per molte persone, è insopportabile. È ancora una volta il Vangelo di Giovanni a descriverci esattamente questa situazione. Nel capitolo VI, c’imbattiamo nella concreta interpretazione di questa promessa per la nostra vita e nella tentazione dell’abbandono di Gesù.
In una sorta di cristologia eucaristica, Giovanni ci dice come il Signore ci venga concretamente incontro nel Pane eucaristico e debba in qualche modo essere mangiato da noi — in modo, peraltro, da trasformare lo stesso processo del mangiare. Normalmente, le cose che l’uomo mangia vengono trasformate nel processo della digestione, e viene espulso quello che il nostro corpo non può utilizzare.
L’eucarestia
Nell’Eucaristia avviene il contrario: quello che mangiamo è più di noi stessi. Il pane di Dio, la manna, che il Signore ci dà, è lui stesso. Egli trasforma noi in lui stesso e ci purifica da quello che non è compatibile con lui. Così il capitolo VI del Vangelo di Giovanni delinea un’ecclesiologia eucaristica, che è al contempo soteriologia. Nel capitolo VI della Prima lettera ai Corinzi, Paolo accenna alla medesima cosa. Così come l’uomo e la donna, unendosi, diventano una carne sola, allo stesso modo l’unione con Cristo ci rende un unico spirito, vale a dire un’unica esistenza pneumatica. Qui viene ripresa l’immagine della Chiesa come corpo fatto di molte membra sviluppata nel capitolo XII della Prima lettera ai Corinzi e viene orientata alla prospettiva giovannea. La Chiesa non rappresenta solo nel complesso l’organismo di Cristo nel mondo. Anche ogni singolo è un’esistenza pneumatica con il Signore e ognuno è chiamato nella sua vita a rappresentare interamente il Signore.
La manna scesa dal cielo
Ma ritorniamo al capitolo VI del Vangelo di Giovanni. Il fatto che Gesù voglia dare a tutti da mangiare il pane disceso dal Cielo, la manna, promettendo in questo modo l’immortalità, viene accolto favorevolmente, certo. Ma che egli identifichi con sé stesso il pane disceso dal Cielo e parli della sua carne, questo incontra un rifiuto. In effetti costituisce un salto enorme parlare del pane del suo corpo, della carne del Figlio dell’uomo che concede l’immortalità. Egli stesso, effettivamente, nella sua risposta ai discepoli, dirà: «La carne non giova a nulla» (Gv 6,63). Non è necessario, ora, affrontare nello specifico le complicate questioni terminologiche che qui si pongono.
Il farsi carne della parola
La cosa essenziale è che, da un lato, il mistero del farsi uomo è descritto con l’espressione del farsi carne della parola. Il punto qui è che il Logos, il Figlio eterno, nel farsi uomo lega sé stesso concretamente alla carne, alla realtà storica, e che, in tal modo, l’atto di fede che ci lega al Figlio dell’uomo significa proprio anche il «mangiare» la carne di Gesù. Dall’altro lato, resta vero che la carne come tale, vale a dire un’interpretazione puramente intramondana della Scrittura e della Parola di Dio, non conduce alla salvezza ma si frappone ad essa. La reazione della gente a questa pretesa di Gesù viene così descritta da Giovanni: «Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui» (Gv 6,66).
La risposta dei discepoli
Gesù a questo punto non mendica una qualche approvazione delle sue parole e men che mai pensa di ridurre la sua pretesa. Dopo l’abbandono dei discepoli si rivolge ai Dodici e chiede loro: «Forse anche voi volete andarvene?». E Simon Pietro gli rispose: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,67ss). Sono decisivi due elementi. In primo luogo, che Gesù ha parole di vita eterna. Chiarita in questo modo l’essenza della sua dottrina, ne consegue la definizione della natura del suo essere: è il Santo di Dio. La giusta risposta a Gesù è sempre una duplice risposta: riconoscimento del suo essere e riconoscimento di quello che egli dice e fa.
La via per la vita
Questo vale oggi come allora. La tentazione, oggi, è la medesima di allora. Si è pronti a scegliersi dalle parole di Gesù qualcosa che ci piace. Ma non si è disposti ad accettare lui stesso e, a partire da lui, la totalità della sua testimonianza. Ma così si smette di andare con lui e ci si separa così dalla grazia della vita eterna. Con il mio libro Gesù di Nazaret desidero aprire il cuore per decidere di seguirlo totalmente. Insieme alla conoscenza di Gesù, esso intende al contempo suscitare l’amore per lui, per trovare così, aldilà di tutto ciò che è intramondano, la via che conduce alla vita.
Copyright Libreria Editrice Vaticana (traduzione di Pietro Luca)Redazione de GliscrittiGli eroi cattolici dimenticati che seppero dire no a Hitler. Non solo i giovani della “Rosa Bianca” e non solo in Germania, ma anche in Austria e in Alto Adige: preti e laici dai cui scritti emerge una fede incrollabile, di Gerolamo Fazzini2024-01-16T23:12:00+01:002024-01-16T23:08:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6526Riprendiamo da Avvenire un articolo di Gerolamo Fazzini, pubblicato il 13/1/2024. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Nazismo e fascismo e Per la pace contro la guerra: mitezza e violenza.
Il Centro culturale Gli scritti (14/1/2024)
Padre Heinrich Dalla Rosa
Tra i volumi sulla Shoah e dintorni che, con l’approssimarsi della Giornata della memoria, torneranno ad affollare le librerie, un posto particolare lo occupa La lama e la croce. Storie di cristiani che si opposero a Hitler, in uscita da Lev (Libreria editrice vaticana, pagine 128, euro 15,00): un documento prezioso, un’autentica sorpresa.
Lo firma il giornalista e scrittore altoatesino Francesco Comina, che da anni indaga sul tema e ha già dedicato due libri a Franz Jägerstätter e a Josef Mayr-Nusser, rispettivamente per Emi e Il Margine.
A metà tra l’indagine giornalistica e il reportage storico, il nuovo lavoro di Comina ha il merito di presentare diversi nomi molto interessanti e sconosciuti. Tant’è che in alcuni casi non sono nemmeno menzionati in due testi monumentali sul tema, ovvero il recente Il soffio dello Spirito. Cattolici nelle Resistenze europee di Giorgio Vecchio e Churches and Religions in the Second War di Jan Bank e Lieve Gevers. Grazie alla sua familiarità con la lingua tedesca, infatti, l’autore ha potuto accedere a testi usciti in Germania e in Austria, ma non nel Belpaese.
L’altro motivo di interesse della nuova pubblicazione Lev è il fatto che, una volta di più, emerge come gli oppositori cristiani al nazismo non siano stati pochi eroi solitari, ma una galassia composita, disseminata in vari Paesi. Ne facevano parte sia uomini che donne; ecclesiastici, religiose e laici, persone adulte o anziane, ma anche giovani coraggiosi.
Ad accomunare questi personaggi è il fatto che hanno tutti seguito la voce della coscienza fino in fondo, in un’epoca in cui l’indottrinamento propagandistico e la violenza sistematica contro i “non allineati” scoraggiavano qualsiasi forma di pensiero critico e resistenza, fiaccando la volontà anche dei più coraggiosi. Dunque, persone di cui vale la pena di custodire la memoria.
Come afferma Comina: «Dobbiamo raccontare che ci sono stati uomini e donne più forti dell’odio, che hanno vissuto totalmente, in mezzo alla tempesta, a imitazione di Cristo, fra i sentieri polverosi di una verità nonviolenta e di una fedeltà umana alla carità».
Eva Maria Buch
Su Franz Jägerstätter sono usciti libri e, nel 2019, lo stupendo (ma quasi introvabile) film di Terrence Malick Una vita nascosta.
Di molti altri, però, non si conosce granché. Come osserva Comina, poco o nulla in Italia si sa di un’iniziativa analoga a quella della celebre “Rosa Bianca”, promossa da un diciannovenne, Walter Klingenbeck, che finì ghigliottinato il 5 agosto 1943, negli stessi mesi dei giovani della Weisse Rose, sempre a Monaco.
Come Sophie Scholl e compagni, anch’egli e i suoi amici erano mossi dalla fede cristiana, tant’è che la diocesi di Monaco sta valutando la possibilità di aprire il processo di beatificazione per Klingenbeck. «Anche loro distribuivano volantini, girando col pennello, la notte, per scrivere “Freiheit” e “Victory” sui muri dei palazzi. Addirittura, avevano ideato (e quasi messo in funzione) una radio clandestina di opposizione».
Commuovente l’ultima lettera scritta dal giovane, pocoprima di essere assassinato, a un coetaneo che, arrestato, aveva ottenuto la grazia: «Ho appena ricevuto l’estrema unzione e sono calmo e raccolto. Se vuoi fare qualcosa per me, recita il Padre Nostro qualche volta. Arrivederci. Walter».
Non meno toccanti le storie di suor Maria Angela Autsch, nota come “l’angelo di Dachau” e delle due giovani laiche: Eva Maria Buch e Maria Terwiel. Donne straordinarie, salite sul patibolo ripetendo come una giaculatoria la pagina evangelica delle Beatitudini.
Entrambe appartenevano alla “Rote Kapelle” (l’Orchestra rossa), organizzazione antinazista accusata falsamente dalla Gestapo di essere un gruppo di spionaggio filo-sovietico «quando invece si trattava, in realtà, di una forma variegata di resistenza all’ideologia hitleriana, dove convivevano culture politiche e religiose diversificate».
Anche Franz Reinisch, frate dell’ordine dei Pallottini ucciso il 21 agosto 1942, fa parte dell’esercito dei dimenticati. Osserva Comina, dopo aver notato che la bibliografia disponibile su questa figura è quasi solo in lingua tedesca: «Perfino in Alto Adige pochissimi lo conoscono, nonostante abbia vissuto a Bolzano e a Brunico, si sia formato nel seminario di Bressanone e una casa di pallottini sia ancor oggi attiva a Merano».
Un’interessante figura scovata da Comina è un prete di origine altoatesina, Heinrich Dalla Rosa, che ha svolto in suo ministero in Austria ed è stato ghigliottinato nel gennaio ’45 a Vienna, a soli 35 anni di età. La sua colpa? Aver criticato apertamente il regime nazista, azzardando pubblicamente la previsione della sconfitta di Hitler.
Il ritratto che ne fa l’autore è quello di un uomo che amava intensamente la vita quanto la sua vocazione sacerdotale. «Era aperto. Nelle funzioni religiose inseriva spesso elementi di modernità, come la lingua tedesca nei canti e nelle celebrazioni. Affascinava i giovani con la sua chitarra e la sua bella voce. Amava la montagna e spesso organizzava gite anche difficoltose». E «Salutatemi le mie montagne!», fu la raccomandazione ai familiari prima di essere ucciso. Ebbe poi il tempo per l’ultima professione di fede: «Viva il vero Re, viva il Cristo!».
Maria Terwiel
Di tutte le figure presentate nel volume di Lev, a giganteggiare - quanto a preparazione culturale e orizzonte profetico - è indubbiamente padre Max Josef Metzger, di cui la diocesi di Friburgo nel 2006 ha avviato il processo di beatificazione. Sulla sua tomba si legge: «Ho offerto la mia vita per la pace del mondo e per l’unità della Chiesa».
In quelle parole, pronunciate subito dopo la sentenza di condanna a morte, c’è la sintesi di un’intera vita. Metzger, infatti, è stato sia un pioniere del pacifismo europeo (lui, ex cappellano militare volontario al fronte nel primo conflitto mondiale) nonché un alfiere dell’ecumenismo.
Annota Comina: «Metzger sprona i cattolici a unire tutti gli sforzi per creare una “Unione di pace” dei cattolici tedeschi. Scrive addirittura un manifesto d’intenti che può essere considerato come la prima fondazione di un movimento pacifista cristiano».
Con dieci anni di anticipo, preannuncia l’avvento della Seconda guerra mondiale con parole che oggi suonano tristemente profetiche. «Nel 1929 a L’Aia è relatore ad uno dei primi incontri sul tema dell’obiezione di coscienza al servizio militare - racconta Comina - . Il suo discorso è di un’attualità sconcertante».
Animato da forte spirito ecumenico, nel 1938 fonda in Baviera la Fraternità interconfessionale “Una Sancta”. L’anno dopo la Gestapo lo arresta; condannato a morte, Metzger viene ucciso il 17 aprile 1944. Nel 2008 le Edizioni san Paolo pubblicarono una preziosa antologia dei suoi scritti, La mia vita per la pace. Lettere dalle prigioni naziste scritte con le mani legate. Purtroppo oggi risulta fuori catalogo.Redazione de GliscrittiCorso per il 1700esimo anniversario della dedicazione della Basilica di San Giovanni in Laterano (324-2024) (prima parte del corso. I file audio del primo anno di corso dalle origini fino all’“esilio avignonese”. Barbagallo, Lonardo, Papi, Filacchione, Romano2024-01-16T23:02:00+01:002024-01-16T23:01:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6523Riprendiamo sul nostro sito i file audio delle quattro lezioni tenutesi dinanzi alll Cattedra, nel presbiterio della basilica di San Giovanni in Laterano per il corso dedicato al 1700esimo anniversario della dedicazione della Basilica di San Giovanni in Laterano (324-2024). Gli audio sono relativi al primo anno di corso dalle origini fino all’“esilio avignonese”. Sono intervenuti i proff. Sandro Barbagallo, Andrea Lonardo, Caterina Papi, Penelope Filacchione, Serena Romano. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Arte e fede e Roma e le sue basiliche. Per altri file audio di Andrea Lonardo, cfr. il canale Soundcloud Gli scritti.
Il Centro culturale Gli scritti (14/1/2024)
N.B. La seconda parte del Corso, dall’“esilio avignonese” fino ai giorni nostri si terrà dopo l’estate 2024.
14 NOVEMBRE 2023: La Basilica Lateranense come chiave per comprendere la città di Roma e la sua storia
-Sandro Barbagallo, Per una comprensione d’insieme della Basilica Lateranense e dell’intero complesso
-1700esimo anniversario Laterano 1 relazione Sandro Barbagallo
-Andrea Lonardo, La basilica Lateranense fino al periodo avignonese come chiave per comprendere Roma
-1700esimo Laterano Corso 2 relazione Andrea Lonardo
21 NOVEMBRE 2023: La fondazione costantiniana della Basilica Lateranense e il periodo patristico
-Andrea Lonardo, Visita alla Loggia delle Benedizioni su piazza San Giovanni in Laterano
-Caterina Papi, Gli edifici costantiniani in Roma, come chiave per comprendere il futuro sviluppo dell’architettura cristiana
-1700esimo Laterano 3 Lonardo visita loggia Caterina Papi edilizia costantiniana
28 NOVEMBRE 2023: La Basilica Lateranense in età medioevale fino all’esilio avignonese
-Penelope Filacchione, Il ruolo dei due poli di San Pietro in Vaticano e San Giovanni in Laterano nello sviluppo di Roma nell’alto medioevo: la via papalis
-1700esimo Laterano Corso 4 relazione Penelope Filacchione
-Serena Romano, Il Laterano: immagini e tradizione
-1700esimo Laterano Corso 5 relazione Serena Romano
5 DICEMBRE 2023
In questa data si sono tenute le visite agli scavi archeologici sottostanti la Basilica Lateranense e al Palazzo Apostolico costruito da Sisto V (non esistono registrazioni di tali visite)Redazione de GliscrittiPreghiera degli studenti universitari, ispirata a san Tommaso d’Aquino2024-01-14T18:35:00+01:002024-01-14T18:30:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6248Riprendiamo sul nostro sito una preghiera ispirata a San Tommaso d’Aquino utilizzata da Andrea Lonardo e dall’Ufficio per la cultura e l’università della diocesi di Roma. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Università.
Il Centro culturale Gli scritti (6/11/2022)
Padre, nella tua Sapienza hai creato gli Angeli e li hai posti con meraviglioso ordine in cielo; hai disposto con grandissima armonia la vita dell’intero universo; Tu sei la vera sorgente della Luce e della Sapienza e il Principio dal quale tutto dipende di ogni cosa.
Degnati di infondere nelle tenebre del mio intelletto un raggio della tua chiarezza che allontani da me le tenebre del peccato e dell’ignoranza.
Tu che sciogli e fai parlare le lingue dei bambini, ingentilisci la mia parola e dà alle mie labbra la grazia della tua benedizione.
Dammi acutezza per intendere, capacità per ricordare, misura e facilità nell’imparare, penetrazione di ciò che leggo, grazia di parola.
Dammi forza per cominciare bene il mio studio, guidami nel tempo della fatica, conducimi fino al compimento.
E Tu Cristo Gesù, mio Salvatore, che sei Provvidenza e grazia, accompagnami nelle scelte: fa che lo studio sia amore per le persone che mi affidi e mi affiderai, sia cammino per costruire un giorno la mia famiglia e servire nel lavoro e nella verità questo tempo che ami,
Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen.Redazione de GliscrittiIsraeliani e palestinesi insieme con un solo Stato e l’autonomia. Due milioni di arabi sono già cittadini integrati e vi sono promettenti esperienze di convivenza. Servirebbero vera uguaglianza di trattamento e la possibilità di uno statuto giuridico proprio, di Antonio Mattiazzo2024-01-16T23:28:00+01:002024-01-08T23:10:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6513Riprendiamo da Avvenire un articolo di Antonio Mattiazzo, vescovo emerito di Padova, dal 2019 residente in Terra Santa, pubblicato il 28/12/2023. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Dialogo fra le religioni, I luoghi della Bibbia e della storia della chiesa e Per la pace contro la guerra: mitezza e violenza. Di David Neuhaus, cfr. su Soundcloud Gli scritti, la storia della sua conversione e della sua vita David Neuhaus racconta la sua vita (Piccola Famiglia dell'Annunziata - settembre 2017) e ancora David Neuhaus Una introduzione al Deuteronomio e Introduzione alla lettera ai Romani (David Neuhaus).
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2024)
Su “Avvenire” del 21 dicembre, Vittorio Possenti di fronte al sanguinoso e perdurante conflitto tra Israele e Palestina ribadiva come «unica soluzione» quella dei due Stati. È la soluzione che viene generalmente proposta a livello politico-diplomatico. Chi la propone di solito non spiega come si farebbe oggi la spartizione del territorio tra i due Stati e questo solleva un problema di non poco conto. Ci si può domandare: è proprio l’unica soluzione? In realtà, non sono poche le persone che si chiedono se la risoluzione 181 dell’Onu nel 1947 che prevedeva due popoli e due Stati, dopo 76 anni sia oggi realistica e plausibile.
C’è da dubitarne. Infatti, diversi analisti e conoscitori della situazione sul campo la ritengono irrealistica. In un articolo della Newsletter di ottobre 2023 di Oasis, rivista specializzata nelle questioni del Medio Oriente, è detto enfaticamente: «La questione dei due Stati…sul terreno è morta e sepolta da decenni».
È istruttivo al riguardo che nei sondaggi pubblicati di recente sia in Israele sia in Palestina, la maggioranza si sia discostata dalla prospettiva dei due Stati. In un sondaggio del settembre 2022, solo il 32% di israeliani si è detto favorevole a tale soluzione. Alla stessa data secondo un sondaggio nei Territori, solo il 37% dei palestinesi era a favore.
Quali le ragioni? Sono più di una. Anzitutto, la situazione odierna sul campo. Scrive al riguardo il gesuita David Neuhaus (ebreo convertito), profondo conoscitore della regione:
«Se si osserva la realtà dopo decenni di invasione israeliana delle terre occupate nella guerra del 1967, con l’incessante costruzione di insediamenti ebraici, di strade israeliane e di altre infrastrutture, la soluzione dei due Stati oggi sembra poco realistica».
Occorre poi considerare la situazione demografica, la quale è notevolmente cambiata dal 1948, per cui oggi molti ebrei e arabi vivono fianco a fianco in un piccolo territorio. I numeri sono questi: 7 milioni di ebrei israeliani e 7 milioni di arabi palestinesi – 5 milioni dei quali situati nelle aree occupate da Israele nel 1967, e 2 milioni sono cittadini israeliani – mentre oltre 670.000 ebrei israeliani vivono in Cisgiordania.
I due milioni di arabi che sono cittadini israeliani fanno il servizio militare, godono di diritti e vivono un’esistenza confortevole, pur con alcune discriminazioni rispetto agli ebrei israeliani. Non mancano arabi che rivestono incarichi di dirigenza in ambito sanitario, giuridico, politico. Vi sono, in particolare, 8 “città miste” – come Ramle, Akko - nelle quali ebrei e arabi musulmani e cristiani abitano insieme. Da notare ancora che sono presenti alla Knesset due partiti arabi con 10 rappresentanti. Ebrei e arabi vengono quindi in continuo contatto; vi sono molti arabi che lavorano con ebrei. È importante rilevare, inoltre, che diversi Stati arabi hanno riconosciuto lo Stato di Israele, nonostante la sua politica verso i palestinesi.
Per queste ragioni scrive padre Neuhaus:
«Se nella realtà odierna non è possibile ritagliare due Stati vitali, sovrani e sicuri, la ripartizione non porterà alla giustizia e alla pace, tanto desiderate, tra israeliani e palestinesi» (Ripensare la ripartizione della Palestina? in La Civiltà Cattolica, 19, p. 370).
Il grosso e insoluto nodo della questione è costituito dai cittadini arabi palestinesi che all’interno di Israele costituiscono un quarto della popolazione, ma non godono di uguali diritti. Una cosa è certa: finché i palestinesi saranno di serie B e in precaria situazioni socio- economica continuerà il conflitto.
Poste queste premesse, si può avanzare una proposta innovativa, cominciando con una presa di posizione molto competente e autorevole. Nel maggio 2019 l’Assemblea degli Ordinari Cattolici di Terra Santa (monsignor Pierbattista Pizzaballa, poi Patriarca, con vescovi ausiliari e vicari) ha fatto questa importante Dichiarazione:
«Chiamiamo i cristiani in Palestina-Israele a unire le loro voci con ebrei, musulmani, drusi, e tutti coloro che condividono questa visione di una società basata sull’uguaglianza e sul bene comune, e a invitare tutti a costruire ponti di mutuo rispetto e amore. A nulla è servita la proposta della “soluzione dei due Stati”. Pertanto, ci facciamo promotori di una visione secondo cui tutti in questa Terra Santa hanno piena uguaglianza. Nel passato abbiamo vissuto insieme in questa terra, perché non potremmo viverci insieme anche nel futuro?».
Possiamo sintetizzare il pensiero degli Ordinari di Terra Santa dicendo: non offrono una propria soluzione statuale-politica, ma appaiono scettici sulla formula dei due Stati; propongono fortemente il principio della piena uguaglianza di tutti; invitano alla convivenza pacifica, come è avvenuto già nel passato. In questa prospettiva, è da prendere in considerazione una proposta innovativa, la quale è ispirata da una visione profetica che si concretizza in un nuovo assetto politico-amministrativo.
Riflettiamo che, quando ci si trova davanti a un’impasse duratura e senza sbocchi, connotata da continui conflitti armati, sono i profeti che offrono una nuova visione, che chiama alla conversione e richiede di essere tradotta in realtà.
Visione profetica. Il richiamo è anzitutto ai profeti di Israele, i quali hanno aperto una breccia nella logica del nazionalismo integralista, mettendolo nella prospettiva di un orizzonte universale. Isaia, in particolare, vede Gerusalemme non come città chiusa, ma aperta a tutti i popoli. La prospettiva universalistica è coronata dalla visione della pace: «Spezzeranno le loro lance e ne faranno aratri, delle loro lance ne faranno falci, una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra» (Is 2, 4).
In secondo luogo, non si dovrebbe disattendere il fatto che ebrei, arabi musulmani e cristiani si richiamano ad Abramo e sono ugualmente figli di Abramo. Era la visione profetica del grande Giorgio La Pira.
È interessante considerare come lo Spirito ha suscitato segni concreti di questa visione profetica: il villaggio di Neve Shalom|Wahat al-Salam (in ebraico e arabo significa “oasi di pace) situato tra Gerusalemme e Tel Aviv-Giaffa. Fondato nel 1972 da padre Bruno Hussar, o.p., in esso vivono insieme 80 famiglie: ebrei, musulmani, cristiani. In qualche “città mista”, in particolare a Ramle, vi sono esperienze molto positive di dialogo tra ebrei e arabi. Vi sono inoltre altre persone attive - come Robi Damelin- e associazioni, come l’Alliance for Middle-East Peace, che portano avanti una visione e una prassi di riconciliazione e dialogo.
Esiste, dunque, una corrente di pensiero molto significativa, di ispirazione profetica, religiosa, umanitaria e politica orientata verso la convivenza dei due popoli piuttosto che verso la divisione in due Stati. La grande sfida per la convivenza tra ebrei israeliani e arabi musulmani è oggi di natura religiosa e culturale, anche perché le divisioni, le disparità socio-economiche e i conflitti hanno innalzato muri, e scavato fossati d’odio in molti. In questa situazione, i cristiani e la Chiesa hanno un compito, una responsabilità e una testimonianza tutta particolare da svolgere per l’opera di dialogo e di riconciliazione.
Ciò premesso, quale assetto statuale-politico proporre? Alcuni sostengono l’idea di uno Stato Federale, formato cioè dall’unione di due Stati che conservano una parte della loro sovranità, uniti sul piano territoriale e politico, ma assoggettati ciascuno ad un’autorità governativa superiore. Questa proposta sembra complicata e irta di notevoli difficoltà: quale forma superiore di governo dovrebbe avere, come sarebbe scelto ed eletto il Presidente? I due Stati probabilmente continuerebbero ad avere disparità economiche, generando nuovi conflitti.
Una proposta innovativa più semplice sul piano statuale, fondata sulla convivenza, ma che domanda conversione di mentalità, è articolate in due punti.
Primo, un solo Stato: quello di Israele, ma effettivamente democratico, ossia che assicuri uguaglianza e pari dignità e diritti a tutti i cittadini al suo interno. La ragione della opzione per un solo Stato poggia sul fatto che Israele è in posizione di forza, potentemente organizzato sul territorio e riconosciuto come Stato dall’Onu e da altri Paesi arabi. Uno Stato palestinese esiste solo sulla carta e non è riconosciuto come Stato membro dall’Onu, ma solo come Osservatore. Inoltre, come s’è detto, non avrebbe effettiva consistenza ed è prevedibile che sorgerebbero nuovi conflitti.
Secondo, i cittadini arabi palestinesi, oltre ad essere riconosciuti e godere di pieni diritti come cittadini, si organizzerebbero con proprio statuto giuridico in una sorta di Regione o Provincia autonoma (alla stregua dell’Alto Adige o della Valle d’Aosta) dal punto di vista amministrativo, con un proprio Parlamento, come sviluppo dell’attuale Autorità nazionale palestinese.
Due contendenti si mettono d’accordo, oltre che per ragioni ideali, per convenienza e interesse. Quali sarebbero i vantaggi? Gli arabi palestinesi, attualmente in condizioni economiche e sociali inferiori, godrebbero di pieni diritti e vantaggi sociali-economici, come i palestinesi cittadini israeliani. In quanto agli ebrei, non continuerebbero a essere in stato di guerra permanente con un gravoso servizio militare e consistenti oneri per mantenere la sicurezza.
Il vantaggio sommo per tutti sarebbe l’inizio di un’era di pace.Redazione de GliscrittiI veri proletari, quelli che hanno figli. Breve nota di Andrea Lonardo2024-01-08T23:11:00+01:002024-01-08T23:08:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6521Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Educazione e famiglia e Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2024)
Si pone poca attenzione al fatto che l’etimologia di proletario ha origine da prōles, ‘prole’; in origine “chi non possiede altri beni oltre ai propri figli”. Nella Roma antica apparteneva al proletariato, cioè all’infima delle classi, chi non poteva dare altri contributi allo stato che i propri stessi figli.
Anche in età moderna, la classe operaia – qui già il termine aveva subito un’evoluzione di significato – era comunque la classe che aveva tanti bambini e che li mandava a lavorare ancora piccoli, per avere di che mantenersi e mantenerli.
In un tempo di dimenticanza delle generazioni e delle discendenze è inevitabile che si dimentichi cosa sia il proletariato.
Tutti cercano ricchezza al di fuori delle generazioni e della cura dei figli.
Eppure, resta vero nel fondo ciò che era a fondamento dell’antica etimologia e delle antiche e sempre nuove – perché sono “originarie”! - dinamiche.
È “povero” chi ha bambini, chi vive per crescerli ed educarli. È povero proprio nel senso cristiano e quindi anche francescano, perché non pensa a sé, ma ad altri, al prossimo, al più vicino, ai propri figli e vive e perde la vita e muore per essi, perché è carico di amore e di carità cristiana.Redazione de GliscrittiConvincere, questo è il segreto della sinodalità, di Giovanni Amico2024-01-08T23:11:00+01:002024-01-08T23:06:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6517Riprendiamo sul nostro sito una nota di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Teologia pastorale.
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2024)
La sinodalità è oggi più che mai necessaria, perché sia nella Chiesa, sia fuori della Chiesa, le persone sono spaccate in due fronti.
A nulla servirebbe compattare l’uno o l’altro fronte se non si riuscisse a convincere chi pensa altrimenti, cioè l’altra metà.
Sarebbe una sinodalità fatta solo da una metà delle persone che si contrapporrebbe poi all’altra metà, senza aver convinto.
Convincere è vincere insieme: etimologicamente è proprio con-vincere, vincere con, vincere insieme.
È ciò che avvenne nella prima assemblea degli Atti degli Apostoli a Gerusalemme. Tutti si parlarono insieme e ne uscì fuori una decisione presa all’unanimità, poiché tutti erano stati “convinti” dallo Spirito.
Lo stesso desiderò Giovanni XXIII, quando alla prima votazione sul documento che sarebbe poi diventato la Dei Verbum si accorse che 1/3 dei vescovi non era d’accordo. Ebbe il coraggio di ritirare la bozza, perché un documento accettato solo da 2/3 del Concilio avrebbe spaccato la Chiesa.
Si lavorò ad una nuova stesura che fosse accettata da tutti e solo nel 1965, alla fine del Concilio, i tempi erano ormai maturi e il documento fu votato quasi all’unanimità.
Lo Spirito aveva convinto tutti, ma tutti erano stati disponibili a non fare passi non convincenti e non condivisi da tutti – non solo dalla metà, fosse pure la maggioranza.
Ecco il convincere, l’incontrarsi fra gruppi con visioni differenti, per cercare come spingere “oltre” le posizioni, fino ad aver convinto veramente tutti.
Se non si facesse lo sforzo e la fatica di convincere tutti, di parlare con tutti, di trovare mediazioni significative e al di sopra, più alte, per giungere ad un’armonia di visioni, i risultati sarebbero di fatto poi irrilevanti, perché le decisioni potrebbero poi solo essere imposte agli altri e, quindi, si avrebbe una contraddizione in termini di sinodalità: sarebbe un imporsi sull’altra metà.Redazione de GliscrittiI corollari della distorsione cognitiva detta effetto Dunning-Kruger: «Gli incompetenti si dimostrano estremamente supponenti». Considerazioni varie su Dunning-Kruger, di Andrea Lonardo e da Jacopo Pasetti e Avvenire2024-01-08T23:06:00+01:002024-01-08T23:02:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.65191/ «Gli incompetenti si dimostrano estremamente supponenti». Attenzione! Questo principio vale anche per l’intellighenzia, di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2024)
Non nuova, ma riformulata con termini attuali, appare la tesi di Dunning e Kruger[1]: «Gli incompetenti si dimostrano estremamente supponenti».
Chi è più competente e sapiente è sempre più moderato nei toni e nelle argomentazioni, è più cosciente dei limiti delle proprie motivazioni, al limite è anche in qualche modo dubbioso.
L’ignorante è saccente e arrogante, crede sempre di essere competente in qualsivoglia argomento e non ascolta ragioni: difende le sue tesi con presunzione, perché è inconsapevole della propria ignoranza, perché non ha gli strumenti nemmeno per rendersi conto della parzialità del proprio punto di vista.
Ma, attenzione, chi si rifà agli studi di Dunning e Kruger spesso non pone in rilievo due aspetti della questione.
a/ Innanzitutto il fatto che l’arroganza può derivare anche da un malcelato complesso di inferiorità: chi si sente a torto sempre vittima e sempre inferiore, diviene arrogante e presuntuoso quasi a voler dire a sé stesso e agli altri di essere in grado di svelare le menzogne altrui.
Se fosse più consapevole del proprio valore non avrebbe bisogno di cercarne una falsa conferma nella demolizione aggressiva delle tesi altrui. Sarebbe più pronto ad imparare, se pensasse di esserne capace.
b/ In secondo luogo è da considerare ciò che viene invece sistematicamente ignorato, e cioè che i semplici hanno una vera sapienza che talvolta non hanno gli intellettuali competenti.
Esiste, infatti, una sapienza di vita per cui un anziano, che anche non avesse studiato, coglie aspetti della realtà che sfuggono all’intellighenzia, che invece si arrocca dietro il principio Dunning e Kruger, quasi che tale tesi le desse sempre ragione come se gli intellettuali fossero i veri “competenti”.
Un uomo o una donna capaci di vedere con occhi semplici la complessità del reale hanno commenti precisissimi sulle persone come: “Ma quello chi si crede di essere?”. O ancora: “Ma quello è una persona totalmente sola e che non ha nessun amico”. O ancora: “Non basta aver studiato, bisogna anche saper essere gentili e attenti, bisogna saper educare i propri figli, bisogna avere una speranza che superi le forze dell’uomo, bisogna avere una fede”. O ancora: “Ma guarda i figli di quel professore, stanno male, si vede che sono tristi e non hanno trovato un senso alla loro vita e loro padre nemmeno se ne accorge”.
Una persona che ha esperienza di vita sa che la cultura accademica non è tutto e si accorge quando una persona non è armonica dai suoi gesti. Se ne accorge per la sua incapacità di ascolto o anche solo dal fisico.
Si accorge, vedendo come una persona si muove e veste, o vedendo come mangia o come frequenta sempre le stesse persone, che non è serena e in pace.
Spesso un nonno o una nonna sono capaci di dire alla propria nipote che si è innamorata di qualcuno: “Ma lo vedi che quello non sta bene?” “Ma lo vedi che non è sereno?” “Ma lo vedi che non ti ama veramente, che non ti lascia libero o che se ne frega?” “Non vedi che fa sempre di testa sua?”
C’è una competenza e un’esperienza di vita che hanno anche i semplici. Tale semplicità a volte è un vero antidoto per giudicare tesi e argomentazioni di persone in apparenza “competentissime”, ma rinchiuse invece nei loro fortilizi intellettuali, nei quali non c’è posto per la vita vera.
L’intellighenzia si arrocca talvolta dietro la propria presunta competenza per tenersi alla larga dalla vera conoscenza, dalla conoscenza dei semplici che ti sgamano subito, che conoscono invece il valore della sincerità, della lealtà, dell’ammissione delle colpe, dell’equilibrio mentale, del desiderio di Dio e dell’importanza della preghiera che nasce dalla consapevolezza della propria pochezza.
Anche questo aspetto si deve porre in rilievo quando si cerca di comprender quanto sia attuale il principio di Dunning e Kruger.
2/ Effetto Dunning-Kruger, come salvarsi dalla disinformazione che dilaga sui social, di Jacopo Pasetti
Riprendiamo sul nostro sito alcuni passaggi di un articolo di Jacopo Pasetti pubblicato su Il sole 24 Ore il 24/2/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2024)
[…]
Per portare i giovani ad una maggiore consapevolezza della necessità di approfondire ciò che ascoltano e ciò che studiano, prima di lanciarsi in ardite ipotesi, si può partire […] dalle parole di David Dunning e Justin Kruger: “Le persone incompetenti non solo giungono a delle conclusioni sbagliate e compiono delle scelte sfortunate, ma la loro incompetenza li priva dell’abilità di rendersene conto e alimenta la supponenza con cui pretendono di convincere gli altri”.
Sebbene l’effetto spiegato da Dunning e Kruger prenda il loro nome solo nel recente passato, troviamo diversi esempi che ci mostrano come l’intuizione è partita parecchi secoli addietro. Già nel quattordicesimo secolo avanti Cristo, il Faraone Akhenaton affermava: “Il folle è ostinato e non ha dubbi. Conosce tutto tranne la propria ignoranza”.
Nel quinto secolo avanti Cristo era invece Socrate a sottolineare: “È sapiente solo chi sa di non sapere, non chi s’illude di sapere e ignora così perfino la sua stessa ignoranza”.
Il merito di David Dunning e Justin Kruger è stato quello di intuire la possibilità di studiare i concetti espressi dal Faraone e da Socrate e di misurare con esperimenti concreti la propensione di chi è poco competente a sopravvalutarsi.
Proprio dal loro lavoro ha trovato conferma pratica la teoria alla base dell’effetto che da loro prende nome e che rappresenta una distorsione cognitiva per la quale alcune persone poco competenti in un determinato ambito, sono portate ad una troppo elevata convinzione verso le proprie capacità.
La fiducia in sé stessi che ne genera porta queste persone a proporsi come esperte proprio laddove manca loro la conoscenza. Conseguenza di questa “presunzione di sapere” è il contrastare con supponenza chiunque altro discuta o si confronti sugli stessi argomenti, a prescindere dalla sua competenza.
L’incapacità metacognitiva di riconoscere i propri limiti è alla base della teoria dei due studiosi. Ma esiste un secondo fenomeno che, involontariamente, aumenta la superbia di chi non è conscio della propria incapacità. Si tratta della distorsione opposta a quella precedentemente citata.
Alle volte chi possiede una reale passione per la conoscenza in un determinato campo desidera continuare ad approfondire e non si accontenta mai di quanto conosce. Tuttavia, il rischio, connesso a questo continuo desiderio di sapere, è che possa nascere una errata percezione del “quanto si è realmente competenti” e una bassa convinzione della completezza del proprio sapere.
Questa idea distorta, oltre a poter produrre una riduzione della fiducia in sé stessi, può condurre le persone più preparate e più competenti a riconoscere erroneamente in individui che ostentano sicurezza un sapere quantomeno simile al proprio. Questa situazione è riconosciuta come sindrome dell’impostore e può portare anche persone competenti a dare ascolto a teorie basate sulla forza dell’ego più che su una reale preparazione. Secondo Dunning e Kruger «l’errore di valutazione dell’incompetente deriva da un giudizio errato sul proprio conto, mentre quello di chi è altamente competente può derivare da un equivoco sul conto degli altri».
L’effetto Dunning-Kruger
La ricerca dei due studiosi trae origine da un particolare fatto di cronaca: la storia di Mc Arthur Wheeler il quale, avendo osservato la proprietà del succo di limone che lo rende invisibile quando usato come inchiostro, ha ipotizzato che l’invisibilità stessa fosse una caratteristica generata proprio dal limone. Dopo aver cosparso il viso di succo, Wheeler partì per rapinare una banca convinto di non poter esser visto da nessuno. Ovviamente non andò così. Quando Dunning lesse quanto accaduto formulò questa teoria “Se quest’uomo è troppo stupido per fare una rapina in banca, forse è anche troppo stupido per accorgersi di essere troppo stupido”.
A valle di questa considerazione i due ricercatori hanno studiato, all’interno classi di studenti in diverse aree, un modo per collegare il livello di sapere in materie differenti all’abilità di auto-valutare con precisione le proprie prestazioni.
Quello che è emerso dallo studio è sembrato subito disarmante nella sua semplicità. Le persone con poca competenza sono portate a percorrere continuamente due vie: sovrastimare in modo esagerato le proprie performance e sottostimare il livello medio di prestazione dell’intero gruppo di cui fanno parte. Risulta evidente come la predisposizione all’errore di chi è poco preparato sia decisamente elevata.
Dallo studio emergevano anche segnali a sostegno dei pericoli della sindrome dell’impostore: talvolta chi ascolta può risultare colpito dal fascino che sa suscitare la confidenza in sé stessi che hanno persone che non si mettono mai in discussione pur possedendo una conoscenza superficiale.
Più difficile appare invece riconoscere, dietro all’ostentata sicurezza, la totale assenza di percezione dei propri limiti e la non comprensione degli errori nei quali si può incappare.
La buona notizia è che una volta consapevoli di esser caduti preda dell’effetto Dunning-Kruger, grazie al progredire dell’apprendimento come risposta ad esso, il fasullo senso di superiorità presente tende rapidamente a scomparire.
La cattiva notizia invece, è che chi è incompetente non sente alcun bisogno di apprendere di più. Sarà propenso ad accomodarsi in cima al proprio elevatissimo picco di erronea fiducia in sé stesso e a rimanere nei confini della propria malcelata ignoranza continuando ad osservare le altre persone con fastidiosa superiorità.
[…]
3/ La lenta, incessante ritirata dei moderati, di Gigio Rancilio
Riprendiamo sul nostro sito da Avvenire un articolo di Gigio Rancilio pubblicato il 15/10/2021. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2024)
Ci sono due fenomeni che il mondo digitale non riesce a misurare come meriterebbero.
Il primo è l'attività della cosiddetta «maggioranza silente». Cioè, quel gran numero di persone che non lascia nessuna traccia della propria presenza social. Gente che non mette mai un «mi piace» o una faccina, non lascia commenti e non condivide post. Apparentemente non fa nulla. Di più: apparentemente non esiste. Poi, ogni tanto, incontri un conoscente che ti dice: «Ti leggo sempre». Non sta barando per piaggeria, fa davvero così: legge e basta. In questo modo sfugge a qualunque analisi.
Il secondo fenomeno è ancora più importante. E riguarda quella che potremmo definire la lenta ma inevitabile ritirata dei moderati. Non esistono dati certi, ma credo sia iniziata durante la seconda fase della pandemia. Quando dopo mesi di «andrà tutto bene», di incontri in video, di abbracci e baci virtuali, di applausi al personale sanitario, le persone hanno iniziato a tirare fuori tutta la rabbia, la paura e la frustrazione che avevano accumulato.
Così, piano piano, le nostre bacheche si sono riempite di post sempre più aggressivi. Tutti (o quasi) all’improvviso sapevano tutto di tutto. Di virologia come di diritto.
E siccome i social premiano gli estremi, alcuni hanno avuto e hanno anche un discreto successo. Il che li ha spinti e li spinge a urlare di più.
E pazienza se alcuni di stanno semplicemente confermando di essere affetti da quella distorsione cognitiva denominata «effetto Dunning-Kruger», a causa della quale «individui poco esperti e competenti in un campo tendono a sopravvalutare le proprie abilità autovalutandosi a torto esperti in materia». Ognuno di noi ne ha incontrati a decine. Anche nella versione indicata dal corollario di questa distorsione cognitiva: «Gli incompetenti si dimostrano estremamente supponenti».
Insomma, ad un certo punto non solo è diventato estremamente difficile portare a termine quella che il filosofo Bruno Mastroianni chiama «la disputa felice» ma anche soltanto non essere attaccati con violenza anche solo per avere postato articoli tratti da giornali seri.
Faremmo un grave errore, però, se limitassimo tutto questo alle discussioni sui vaccini. Perché questa ondata, questa brutta moda, questo pessimo modo di relazionarsi online con gli altri ormai riguarda tutto. Che si tratti dello sport come della politica, della Chiesa come di un fatto di attualità sembra diventato difficilissimo se non impossibile un confronto civile.
Si salvano in parte solo coloro che hanno un discreto numero di fan, pronti a difenderli dagli attacchi. Ma gli altri, tanti altri, hanno via via smesso di partecipare. Per evitare di spendere energie a rispondere a persone che non hanno alcuna intenzione di dialogare, hanno smesso di rispondere e poi di esprimersi. Spesso non commentano nemmeno più i post degli amici, limitandosi al massimo a dei generici «mi piace».
È la lenta incessante ritirata social delle persone moderate. Di chi ama il confronto ma non sopporta lo scontro. E così si «astiene». Chi resiste spesso sceglie altre strade e condivide storie e momenti personali: la laurea di un figlio o di un nipote, l’anniversario di matrimonio, il ricordo di una gita, un momento di svago o il dolore di un lutto. Ogni post di questo tipo raccoglie giustamente l’affetto degli amici.
E i social sembrano sempre di più tanti diari personali. Anche così, però, la circolazione delle idee e il pensiero moderato rischiano di sparire.
4/ Si può essere stupidi basta ammetterlo, di Umberto Folena
Riprendiamo sul nostro sito da Avvenire un articolo di Umberto Folena pubblicato il 19/4/2020. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2024)
Che fare con gli stupidi? Come comportarci quando ne incontriamo uno, cosa che accade assai di frequente? Stupido – parolaccia quando è liscia, parolina quando declina in stupidello, stupidetto, stupidino, stupidone o stupidaccio, dal tono perfino affettuoso – è un termine con cui è difficile rapportarci anche perché può capitare a tutti noi di comportarci da stupidi.
L’importante è accorgercene e riconoscerlo. In questo caso esiste la possibilità che in fondo noi siamo persone sagge, vittime di uno scivolone passeggero. Il vero stupido non ammetterà mai di aver avuto un comportamento stupido, neanche se messo di fronte all’evidenza.
Questo è il vero, tragico problema. Lo stupido non si accorge di esserlo e anzi si ritiene una cima, e chi lo contraddice è un ingenuo. Non tollera che la sua superiorità non venga riconosciuta. E se incappa in una persona intelligente che riconosce di aver sbagliato un giudizio o una valutazione, la considera debole, insicura e – lei sì – stupida, perché incapace di promuovere se stessa con spavalderia.
La tragedia è quando uno stupido diventa capo. Come ciò possa succedere richiederebbe lunghe dissertazioni. In estrema sintesi, accade per cooptazione. Uno stupido tende a circondarsi di altri stupidi, i cosiddetti yesman, che poi sono degli stupidi furbi: hanno capito il segreto per fare carriera e aspirare, un giorno, alla poltrona di capo. Hanno capito che, con un capo del genere, a essere premiate non sono le buone idee. Viene premiato chi riconosce l’indubbia superiorità del capo dandogli sempre ragione, qualunque cosa egli dica.
Una struttura così governata, potremmo pensare, è destinata al dissolvimento... Non necessariamente. Alcuni Stati sono condotti da anni da politici stupidi e si salvano perché nelle retrovie ci sono persone sagge e intelligenti che correggono gli errori degli stolti senza che questi se ne accorgano, accettando di restare umili servitori nell'ombra.
Per tutti vale l’effetto Dunning-Kruger, teoria tanto intelligente che perfino gli stupidi annuiscono senza capire che si sta parlando di loro. Gli psicologi David Dunning e Justin Kruger della Cornell University pubblicano il loro studio nel 1999. Parla di una distorsione cognitiva, o auto-inganno. Può accadere, e accade di continuo, che individui inesperti in un campo […] tendano a sopravvalutare le proprie abilità. Così si esprimono con il tono, la forza e spesso la supponenza del vero esperto infallibile.
Le persone sagge, per contro, tendono a sottovalutare le proprie conoscenze, ben sapendo di non sapere mai abbastanza, e si esprimono con cautela, avanzano dubbi o tacciono del tutto, scomparendo dalla scena, lasciata (quasi) per intero agli incompetenti.
Un tempo accadeva negli uffici, nei bar, nei crocchi in piazza. Lo stupido "so-tutto-io" spopolava, ma molti astanti sorridevano di lui. Nell’epoca dei social network, il semplice fatto di poter fare comunicazione di massa e di apparire in video conferisce a ogni affermazione perentoria un’aura di solenne autorevolezza. E la frittata è cucinata.
Vano è svelare l'effetto, come vano risulterà questo articolo. Vano, ad esempio, è ricordare un famoso studio del Dipartimento del Tesoro Usa: intervistati 25mila americani sulla loro competenza finanziaria, gli 800 incappati in fallimenti economici si ritenevano assai più esperti degli altri. Vale per la finanza come per il calcio, l’ingegneria, la medicina, la politica estera e, va da sé, il giornalismo. L’effetto Dunning-Kruger è un virus per il quale, finora, non esiste vaccino. C’è solo una rara cura palliativa: l’umorismo.
5/ Con l’incompetenza su social e tv. La democrazia diventa tifocrazia, di Glauco Giostra
Riprendiamo sul nostro sito da Avvenire un articolo di Glauco Giostra pubblicato il 21/7/2023. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2024)
Forse non molti ne conoscono la denominazione che ha assunto allo spirare del secolo scorso, ma tutti noi siamo incorsi almeno una volta in quel fallo cognitivo che, facendoci sopravvalutare le nostre conoscenze relativamente ad un determinato tema, ci induce a pronunciarci su di esso, supponendo di averne pienamente titolo.
Dalla fine del secolo scorso questa distorsione autopercettiva ha preso il nome di Effetto Dunning Kruger (EDK), eponomi due psicologi statunitensi che nel 1999 pubblicarono un articolo con il quale portarono all’attenzione degli studiosi di settore il frequente fenomeno per cui soggetti inesperti o incompetenti in un determinato ambito ritengono comunque di avere cognizioni adeguate a esprimere fondate e interessanti considerazioni al riguardo.
Nonostante qualche mistificante vulgata dell’EDK, questa inconsapevolezza che ci induce a pronunciarci, anche con una certa perentorietà, in materie delle quali non abbiamo un’adeguata conoscenza, non ha a che fare con il livello intellettivo o culturale. Fattori ambientali, sociali, relazionali ci sospingono letteralmente, nonostante lo scarso governo di una determinata materia, ad esprimere il nostro parere, che presumiamo significativo e condivisibile.
Ovviamente, la diffusione pervasiva dei social media costituisce una “tentazione” ulteriore ad interloquire su quasi tutto, con l’aggravante che i ritmi di questa comunicazione sollecitano quello che Daniel Kahneman chiama Sistema 1; quello, cioè, che presiede alle nostre risposte istintive e poco ponderate, non essendo compatibili con il Sistema 2, quello deputato alla riflessione e all’approfondimento critico. Se le cose stanno così, si spiegano senza difficoltà le banalizzazioni che problemi anche delicati subiscono nel network sociale creato dalla comunicazione via smartphone.
Meno agevole è comprendere le ragioni che inducono i talkshow di approfondimento dei principali problemi di attualità ad invitare soggetti incompetenti rispetto al tema trattato. Certo, talvolta ospitando il personaggio famoso si punta scopertamente ad aumentare l’audience; altre volte si vuole offrire l’occasione all’interlocutore, di cui quell’emittente in passato si è avvalsa per approfondire argomenti sui quali lo stesso era competente, di presentare il suo ultimo libro o il suo ultimo spettacolo o la sua ultima iniziativa.
Forse, però, non si è lontano dal vero se si ritiene che il coinvolgimento nel confronto dialettico di soggetti incompetenti, ancorché non conosciutissimi, risponde anch’esso a strategie di marketing, sebbene meno immediatamente evidenti. L’incompetente quasi sempre semplifica sino alla banalizzazione, non coglie implicazioni e sfumature, ha un approccio di intransigente contrapposizione: si dimostra incapace, insomma, di un dialogo articolato e costruttivo. Si esprime spesso sbattendo perentoriamente il suo pugno verbale sul tavolo del dialogo.
Propizia lo scontro. Fatalmente, agli argomenti si sostituiscono le affermazioni perentorie, l’enfasi retorica, gli slogan, i punti esclamativi. La competizione ha sostituito la competenza, come ha scritto Valerio Magrelli. E nella competizione mediatica vince chi alza di più la tensione emotiva, chi aumenta i decibel, chi ingrandisce caratteri e titoli di stampa.
Persino le agenzie delle previsioni meteorologiche per guadagnare, sgomitando, il proscenio dell’attenzione popolare fanno ricorso a titoloni allarmistici. Quando riguarda la cosa pubblica, il fenomeno in questione assume forse espressioni meno accentuate, ma di certo più deprimenti, tenuto conto dell’importanza del bene su cui si controverte.
Anche a voler tralasciare, per non cedere allo sconforto, la preoccupante capacità di mobilitazione che l’influencer di turno (modella, calciatore, attore, cantante) - in possesso di una popolarità inversamente proporzionale alla competenza - riesce ad ottenere su temi di particolare rilevanza sociale, assistiamo quotidianamente a patetiche comparsate mediatiche con le quali personaggi politici spesso del tutto ignari della materia su cui disquisiscono, recitano secondo copione la frasetta di circostanza con cui andrebbe risolto il problema del momento: uno stucchevole psittacismo da manuale. Non esistono precisazioni, condizionali, incertezze, concessioni al dissenso, oneste prospettazioni di controindicazioni, ammissioni di migliorabilità della soluzione proposta o di aspetti apprezzabili in quella avversata.
Si prospetta una realtà manichea impermeabile al dubbio. Eppure, per quanto ci si possa impegnare, nessuno riuscirà mai a dire o fare tutte le cose in modo giusto o tutte le cose in modo sbagliato. Quanto sarebbe più credibile un filogovernativo che ammettesse «la decisione presa dalla maggioranza necessita in effetti, come suggerisce la minoranza, di un ripensamento in punto di…» o un oppositore che ravvisasse nella tale iniziativa del governo alcuni aspetti senz’altro positivi. Sarebbero entrambi più creduti quando si trovassero a ostentare propri meriti o a denunciare altrui deficienze.
In questo confronto da stadio, invece, il dibattito pubblico scade a contesa, in cui prevale la prontezza nella battuta, la telegenìa, la rissosità verbale, l’incompetenza banalizzante spesso in sintonia con quella del telespettatore e del lettore, che quasi sempre ha in uggia la complessità e il dubbio. Problemi difficili hanno così risposte semplici e sbagliate. Qualcuno, parafrasando, penserà: “è la democrazia, bellezza!”. No, non è la democrazia, ma la sua degenerazione caricaturale: la “tifocrazia”. Ci si divide seguendo non la luce di una idea o di un ideale, ma la schiena di uno dei pifferai del momento.
[1] Lo studio è del 1999, Justin Kruger - David Dunning, Unskilled and Unaware of It: How Difficulties in Recognizing One's Own Incompetence Lead to Inflated Self-Assessments, in “Journal of Personality and Social Psychology”, vol. 77, n. 6, 1999, pp. 1121-1134.Redazione de GliscrittiDe la bellezza le dovute lodi. Un balletto di Claudio Monteverdi. Un commento di Andrea Lonardo2024-03-25T00:16:00+01:002024-01-08T22:56:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6514Riprendiamo sul nostro sito una recensione di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Musica classica. Cfr. in particolare Il compositore Claudio Monteverdi fece voto di andare in pellegrinaggio a Loreto e divenne prete nel 1632 (dal Dizionario biografico degli italiani).
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2024)
De la bellezza le dovute lodi è magnifico. Forse del 1599, forse del fratello di Claudio Monteverdi, appartiene comunque agli Scherzi musicali, no. 18 del catalogo di Monteverdi, che vennero pubblicati nel 1607.
Si sa che nel 1599 Monteverdi era in servizio alla corte di Mantova ed il balletto è dedicato a Don Francesco Gonzaga, principe di Mantova e di Monferrato.
La bellezza che genera l’amore è indicata come “raggio de la celeste luce”: essa è cioè segno di Dio stesso, rimanda a Lui, che partecipa alle cose e alle persone la sua propria bellezza.
Dell’amore – e della sua bellezza – sa Alcide/Ercole che dovette morire ucciso da Deianira, gelosa, perché aveva portato come trofeo Iole che amava e dovette perciò varcare le porte del Tartaro – canta il balletto.
Ma lo sa anche il Dio della guerra, Marte, che si arresta quando incontra Venere, la Dea d’amore, che gli impone di disarmarsi.
Il passaggio più bello del balletto è proprio quando la composizione cambia totalmente ritmo, perché Marte, appunto, è stato reso “mansueto et humile” da Venere, anche se tali mansuetudine e umiltà sono rese da un ritmo vorticoso.
Insomma un inno all’Amor vincit omnia, è tratto dalla mitologia pagana e dall’esperienza, ma canta indirettamente anche della carità divina, dell’“amore che tutto e tutti vince”, cantato da san Paolo nella prima Lettera ai Corinzi.
https://www.youtube.com/watch?v=t_a2EidfbkI
De la bellezza le dovute lodi celebriam con lieto canto e tu Ciprign’intanto [Ciprigna è Venere] de tuoi prieghi altera godi. Godi pur ch’alta vittoria si prepara a meriti tuoi onde chiara oggi fra noi splenderai per nuova gloria. (2xx)
È la bellezza un raggio de la celeste luce che quasi un Sol di Maggio temprat’ardor n’adduce. Quinci nel nostro core nascono i fior d’amore.
Chi di tal lume non splend’ornato dirsi beato in van presume (2xx) che’ vil tesoro son gemm’et oro e valor cade contro beltade. (2xx)
(2xx)
Ben sallo Alcide il forte [Alcide/Ercole che venne ucciso per gelosia, poiché aveva portato come trofeo Iole che amava] da duo begl’occhi vinto quantunque avvinto traesse il cor da le tartaree porte e sallo il Dio de l’arme de l’ira e del furore quando la Dea d’Amore gl’impon che si disarme.
Ond’ei cangiato stile mansueto et humile mirando il suo bel volto la spada oblia fra belle braccio accolto.(2xx)
Dunque a lei che di beltate ottenne il pregio e’I vanto quest’altere alme ben nate concordi al nostro canto guidano in queste valli per far l’honor quest’amorosi balli.Redazione de GliscrittiTolkien: la vita, l’eredità e le celebrazioni a 50 anni dalla morte. L’autore del Signore degli Anelli, morto il 2 settembre 1973, è stato fedele a un ideale estetico che lo ha portato a individuare nel mito la via privilegiata per osservare la realtà. Senza ideologia, di Francesco Marzella2024-01-08T22:55:00+01:002024-01-08T22:53:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6520Riprendiamo da Avvenire un articolo di Francesco Marzella pubblicato l’1/9/2023. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Letteratura; cfr. in particolare la sezione J.R.R. Tolkien e lo studio J.R.R. Tolkien ed il cattolicesimo, a partire dal suo epistolario. Il cristianesimo come chiave interpretativa de Il Signore degli Anelli, di Andrea Lonardo.
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2024)
Cinquant’anni fa, il 2 settembre 1973, moriva nella città costiera di Bournemouth, nel Dorset, John Ronald Reuel Tolkien. Tanto si è detto e scritto sull'autore del Signore degli Anelli, il geniale creatore dell’universo di Arda, ma oggi si può forse ricordare Tolkien semplicemente e prima di tutto come un uomo profondamente fedele a un ideale estetico che lo ha portato a individuare nel mito la via poetica privilegiata per osservare la realtà in maniera più autentica e piena.
La sub-creazione di mondi fantastici come istinto innato dell’uomo, che Tolkien ha assecondato rimanendo perfettamente refrattario alle mode culturali e indifferente alle critiche mosse alle sue opere quando era ancora in vita. L’accusa di escapismo non fu rispedita al mittente: piuttosto, fu trasformata in una medaglia al valore, con la celeberrima immagine della fuga dalle prigioni di un’esistenza vissuta tutta in superficie.
E questa tensione estetizzante, ben ancorata, però, alla complessità del reale, fa di Tolkien un sublime conoscitore dei pensieri che scuotono l’animo umano e un cantore della bellezza di cui l’uomo è capace e da cui è circondato, come emerge nei suoi romanzi e forse ancor di più dalle pagine del suo legendarium, a partire dal Silmarillion che ne è il frutto più maturo. In fondo alle lunghe liste di nomi, fra le righe delle cronache scandite dal ritmo regolare tipico degli annali – scritte in uno stile asciutto, solenne, quasi ieratico –, nelle storie intrise di epos e tragedia di eroi straordinari e contradditori – su tutti, l’elfo Fingolfin – ritroviamo certamente l’uomo, con le sue ombre e la sua nostalgica ricerca della luce. Ed è proprio la centralità delle cose che sono “più permanenti e fondamentali” che permette all’opera di Tolkien di resistere brillantemente alla prova del tempo.
E del resto di tempo ne è passato a sufficienza per non aver dubbi, come pure ci ricorda questo importante anniversario, che non mancherà di essere celebrato con iniziative di prestigio. Sul fronte editoriale, c’è grande attesa per una nuova edizione delle lettere del Professore, che sarà pubblicata, come di consueto, dalla casa editrice HarperCollins in autunno. Non una semplice riedizione, visto che la raccolta, pubblicata per la prima volta nel 1981 da Christopher Tolkien, figlio ed esecutore letterario dello scrittore, e dal biografo Humphrey Carpenter, è stata rivista e ampliata con ben 150 lettere inedite, inizialmente scartate perché ritenute troppo lunghe, e promette di gettare nuova luce sul pensiero e l’opera del Professore.
Oggi e domani, invece, si terrà a Oxford – dove Tolkien insegnò Inglese Antico al Pembroke College e poi Letteratura Inglese al Merton College – il convegno intitolato Tolkien’s Words and Worlds, un consueto gioco paronomastico che ben riassume due concetti fondamentali della riflessione tolkieniana: la potenza evocativa della parola e la chiamata dell’uomo a farsi creatore di mondi e di storie che li raccontino. Un connubio inscindibile che il Professore propose tanto nella prassi didattica e nei contributi critici – in cui la linguistica andava di pari passo con la letteratura, e l’analisi storica non sostituiva affatto quella stilistica – quanto, ovviamente, nelle sue creazioni letterarie.
Si tratta, sorprendentemente dopo così tanti anni, del primo evento oxoniense su Tolkien di natura puramente accademica, che si pone, attraverso gli interventi di alcuni fra i più apprezzati esperti della materia, anche l’obiettivo di riflettere sulle diverse prospettive metodologiche e sugli approcci critici con cui ci si è accostati all’opera tolkieniana. Fra gli organizzatori anche l’italiano Giuseppe Pezzini, Fellow del Corpus Christi College ed editore del Journal of Inklings Studies.
Gode pure degli auspici oxoniensi la mostra "Tolkien. Uomo, professore, autore" ospitata dalla Galleria Nazionale di Arte Moderna a Roma dal novembre 2023 al gennaio 2024. È stata curata da Oronzo Cilli, apprezzato biografo di Tolkien, e Alessandro Nicosia, e intende illustrare, fra le altre cose, anche l’interesse del Professore per l’Italia e per la lingua e la cultura italiana. Non sarà una celebrazione politica, anche se non è un mistero che sia stata fortemente voluta dal ministero della Cultura e presentata in occasione di un convegno di giovani di FdI.
Cosa che potrebbe riportare al paradosso tutto italiano (o quasi) per cui la Terra di Mezzo è divenuta il campo di battaglia di uno scontro ideologico. Di qui la destra di matrice missina, sempre in affannosa ricerca di riferimenti ed “eroi” culturali, che si è infatuata del Professore già a partire dagli anni '70. Un Tolkien tagliato su misura, s’intende: il conservatore, il tradizionalista, l’antimoderno. Dal versante opposto si è levata la schiera dei difensori della Terra di Mezzo, ben determinati a non lasciare in pasto proprio a quella destra l’anticapitalista, il pacifista e il proto-ecologista (e, a proposito di “difensori”, in questi giorni Bompiani pubblica una nuova edizione di Difendere la Terra di Mezzo di Wu Ming 4, una risposta all’approccio “simbolista” e “tradizionalista” a Tolkien). Letture parziali, che a colpi di etichette finiscono per ridurre Tolkien a un vessillo, facendone una figura divisiva.
In un fortunato saggio sul poema anglo-sassone Beowulf, il Professore mise in guardia sui rischi che comporta una certa insistenza analitica, invitando a gustare in primo luogo i racconti per quello che sono, lasciandosi “commuovere” dalla potenza del mito, che resta “qualcosa di vivo nel suo insieme e in tutte le sue parti, e che muore prima di poter essere dissezionato”. Non c’è miglior successo auspicabile per queste iniziative, allora, che quello di riuscire ad accantonare una volta per tutte pregiudizi e forzature interpretative per riportarci ancora all’ombra ristoratrice dell’“Albero dei Racconti”: ai miti, dunque, e al loro miglior fabbro.Redazione de GliscrittiLe domande della poesia [per Capodanno]. Perchè esiste qualcosa anziché il nulla?, di Andrea Monda2024-01-08T22:55:00+01:002024-01-08T22:50:00+01:00tag:diario,2024:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6515Riprendiamo da L’Osservatore Romano un articolo di Andrea Monda pubblicato il 30/12/2023. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Letteratura, in particolare G.K. Chesterton.
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2024)
Ecco, si chiude un altro giorno nel quale ho avuto occhi, orecchie, mani e il gran mondo attorno a me; e domani ne inizia un altro. Perché me ne sono concessi due?
G.K. Chesterton, spesso lo si dimentica, fu innanzitutto poeta.
E tutta la sua poesia è imperniata sul senso della gratitudine, come in questi rapidi versi interrogativi che scritti alla chiusura di un giorno, vogliamo pubblicare oggi alla chiusura di un anno, con lo stesso senso di meraviglia contemplativa e grata.Redazione de GliscrittiI nostri meravigliosi ragazzi dei Licei/ISS romani Albertelli, Carducci, Cavour, Einaudi, Keplero, Lucrezio Caro, Mamiani, Morgagni, Righi, Visconti eseguono Viva la vida dei Coldplay: ciò che offriamo loro a scuola o nelle riunioni in parrocchia è al loro livello o li stiamo tradendo con baggianate?, Breve nota di Andrea Lonardo2023-12-31T23:04:00+01:002023-12-25T21:30:00+01:00tag:diario,2023:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6510Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Educazione e scuola e Giovani.
Il Centro culturale Gli scritti (25/12/2023)
https://www.youtube.com/watch?v=bQMDmZXnzm4
Meravigliosi. C’è solo da ascoltarli i liceali romani che cantano Viva la vida dei Coldplay e capire quanto siano grandi e come non sia giusto offrire loro banalità culturali.
Sono i ragazzi dei Licei/ISS romani Albertelli, Carducci, Cavour, Einaudi, Keplero, Lucrezio Caro, Mamiani, Morgagni, Righi, Visconti, insieme al Coro che non c’è di Roma.
Il maestro Dodo Versino e i diversi maestri dei singoli istituti hanno fatto loro scoprire cosa sia la musica ed essi li seguono ed eseguono per noi in maniera meravigliosa il brano dei Coldplay, prima separatamente, coro per coro, poi tutti insieme nel cortile del Liceo Visconti.
Ma perché l’intellighenzia - e a volte anche la Chiesa - li tratta da ignoranti e da stupidi, senza offrire loro quella musica, quella cultura, quell’ampiezza di prospettive di cui invece sono capaci?
Perché talvolta la scuola e gli stessi loro educatori li mortificano, quando sono capaci di questo?
Mettiamoci dinanzi a come viene loro talvolta presentato Dante o la scienza, la fede o la Bibbia, la filosofia o la storia, e facciamoci un esame di coscienza: questi sono i nostri straordinari giovani e non possiamo e non dobbiamo deluderli.Redazione de GliscrittiGalileo Galilei: «Infinitamente rendo grazie a Dio, che si sia compiaciuto di far me solo primo osservatore di cosa ammiranda et tenuta a tutti i secoli occulta». La lettera a Belisario Vinta del 1610, dopo aver visto per la prima volta i crateri della luna, le fasi di Venere, i satelliti di Giove e le stelle della via Lattea (con una breve nota de Gli scritti)2023-12-25T21:32:00+01:002023-12-25T21:22:00+01:00tag:diario,2023:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.6508Riprendiamo sul nostro sito una lettera di Galileo Galilei inviata nel 1610 a Belisario Vinta, dopo aver visto per la prima volta i crateri della luna, le fasi di Venere, i satelliti di Giove e le stelle della via Lattea. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Scienza e fede. Cfr. in particolare Galilei fu il fondatore degli studi biblici moderni, più che il padre dell’eliocentrismo. Una nuova prospettiva sull’astronomo pisano, di Andrea Lonardo.
Il Centro culturale Gli scritti (25/12/2023)
Nella meravigliosa lettera di Galilei a Belisario Vinta, del gennaio 1610, è evidente lo stupore e l’entusiasmo dell’astronomo per ciò che ha visto, “primo da sempre”.
Egli è consapevole di essere il primo, da quando esiste la storia umana, ad aver visto cose nuove nel cielo, che sono lì da tempi immemorabili eppure mai nessuno aveva potuto vedere.
Sono “cose ammirande” e “tenute nascoste per secoli”.
Per questo l’esclamazione diviene anche una “lode”, una “preghiera” a Dio che lo ha concesso proprio a lui e a lui per primo, con scelta dalle motivazioni imperscrutabili – quasi un’elezione.
Non c’è motivazione del perché proprio a lui sia toccata questa scoperta, questa prima osservazione. Solo allora era stato perfezionato, infatti – da Galilei stesso –, il cannocchiale che permetteva tale visione, impossibile prima di allora per mancanza di uno strumento adeguato.
Ecco la lettera.
A Belisario Vinta in Firenze, Galileo da Venezia il 30 gennaio 1610 Galileo, edizione nazionale delle opere, firenze, volume X, carteggio. Bibl. Naz. Fir. Mss. Gal., P. VI, T. V, car. 22. – Autografa.
GALILEO a BELISARIO VINTA [in Firenze].
Venezia, 30 gennaio 1610.
Ill.mo Sig.re et Pad.ne Col.mo Io rendo infinite grazie et resto perpetuamente obligato a V. S. Ill.ma dell’offizio incaminato a benefizio di Alessandro Piersanti, mio servitore, il quale humilmente gli fa reverenza et sta con grande speranza attendendo di ricuperar, per mezo del favore di V. S. Ill.ma, quello che può essere il sostegno della vita sua et di che egli era già fuori di speranza; et intanto non resta di pregare il Signore Dio per la buona sanità et lunga vita di V. S. Ill.ma
Io mi trovo al presente in Venezia per fare stampare alcune osservazioni [il riferimento è al Sidereus Nuncius allora in corso di stampa] le quali col mezo di uno mio occhiale ho fatte ne i corpi celesti; et sì come sono di infinito stupore, così infinitamente rendo grazie a Dio, che si sia compiaciuto di far me solo primo osservatore di cosa ammiranda et tenuta a tutti i secoli occulta.
Che la luna sia un corpo similissimo alla terra, già me n’ero accertato, et in parte fatto vedere al Ser.mo nostro Signore, ma però imperfettamente, non havendo ancora occhiale della eccellenza che ho adesso; il quale, oltre alla luna, mi ha fatto ritrovare una moltitudine di stelle fisse non mai più vedute, che sono più di dieci volte tante, quante quelle che naturalmente son visibili.
Di più, mi sono accertato di quello che sempre è stato controverso tra i filosofi, ciò è quello che sia la Via Lattea.
Ma quello che eccede tutte le meraviglie, ho ritrovati quattro pianeti di nuovo, et osservati li loro movimenti proprii et particolari, differenti fra di loro et da tutti li altri movimenti dell’altre stelle; et questi nuovi pianeti si muovono intorno ad un’altra stella molto grande, non altrimenti che si muovino Venere et Mercurio, et per avventura li altri pianeti conosciuti, intorno al sole.
Stampato che sia questo trattato, che in forma di avviso mando a tutti i filosofì et matematici, ne manderò una copia al Ser. mo G. D., insieme con un occhiale eccellente, da poter riscontrare tutte queste verità.
Intanto supplico V. S. Ill.ma che con oportuna occasione faccia in mio nome humilissima reverenza a tutte loro Altezze; et a lei con ogni devozione bacio le mani, et nella sua grazia mi raccomando.
Di Venezia, li 30 di Gen.o 1610.
Di V. S. Ill.ma Ser.re Oblig.mo Galileo Galilei.
N.B. de Gli scritti: Belisario Vinta (n. 1542 - m. 1613) fu ministro di Ferdinando I de’ Medici e, in seguito, con Cristina di Lorena, guida di Cosimo II nei suoi primi anni di governo. Si adoperò per mantenere un equilibrio tra i regni di Francia e di Spagna. Conobbe Galilei certamente negli anni dell’insegnamento a Padova, intervenendo personalmente perché l’astronomo pisano ritornasse in Toscana, dopo aver avuto notizia delle sue nuove scoperte. Quando Galilei propose di chiamare i satelliti di Giove Pianeti Cosmici, giocando sul nome del Granduca Cosimo II (1590-1621), o anche Medicei – nella terminologia di Galilei erano considerati “pianeti” e non “satelliti” -, fu Vinta ad intervenire per suggerire di preferire la seconda nomenclatura che poi l’astronomo adottò, scrivendogli il 10 febbraio 1610: “Il pensiero di V. S. intorno al porre i nomi a i nuovi pianeti trovati da lei, con inscrivergli dal nome del Ser.mo Padrone, è generoso et heroico, et conforme agli altri parti singolari del suo mirabile ingegno: et poiché ella ha voluto farmi l’onore del domandarmi il mio parere circa al chiamar detti pianeti o Cosmici o Medicea Sydera, io le dirò liberamente che questa seconda inscrizzione tengo per fermo che piacerà più, perché, potendosi la voce greca Cosmici interpretare in diversi sensi, non sarebbe forse interamente attribuita da ogn’uno alla gloria del Ser.mo nome della Casa de’ Medici et della loro natione et città di Firenze, come necessariamente sarà la denominatione di Medicea Sydera; et però senz’altro a questa mi appiglierei”.Redazione de Gliscritti1/ “Buon Natale”, di Dino Buzzati. «Se accanto al fuoco/ al mattino si trovassero i doni/ la bambola il revolver il treno/ il micio l’orsacchiotto il leone/ che nessuno di voi ha comperati? Se la vostra bella sicurezza/ nella scienza e nella dea ragione/ andasse a carte quarantotto? Con imperdonabile leggerezza forse troppo ci siamo fidati. E se sul serio venisse?» 2/ [«E se invece venisse per davvero?» si chiede Dino Buzzati nei versi di Buon Natale]. Il Gesù che viene, atteso anche dai poeti, di Giovanni Fighera 3/ Il dopodopodomani di Buzzati. Il 28 gennaio di 50 anni fa moriva lo scrittore bellunese. Nelle sue opere la concretezza semplice si unisce a un acuto sentimento del mistero. E c’è uno spiraglio, anche nelle situazioni più buie. «Senza la grazia, io non faccio niente», di Andrea Fazioli2023-12-25T21:25:00+01:002023-12-25T21:20:00+01:00tag:diario,2023:blog-dei-redattori-de-gli-scritti.65111/ “Buon Natale”, di Dino Buzzati. «Se accanto al fuoco/ al mattino si trovassero i doni/ la bambola il revolver il treno/ il micio l’orsacchiotto il leone/ che nessuno di voi ha comperati? Se la vostra bella sicurezza/ nella scienza e nella dea ragione/ andasse a carte quarantotto? Con imperdonabile leggerezza forse troppo ci siamo fidati. E se sul serio venisse?»
Riprendiamo sul nostro sito una poesia di Dino Buzzati, dal titolo Buon Natale. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Letteratura. Cfr. in particolare Il deserto dei tartari di Dino Buzzati finisce con la speranza di vincere la morte, il vero nemico, con il pensiero che Dio saprà perdonare e con un sorriso!, da Dino Buzzati; «Senza Dio anche il cappone arrosto sembra sabbia tra i denti». Il Santo Natale raccontato da Dino Buzzati; "Dio che non esisti ti prego". Dino Buzzati dinanzi alla questione di Dio, di Nellina Matuonto Banzatti.
Il Centro culturale Gli scritti (24/12/2023)
E se invece venisse per davvero? Se la preghiera, la letterina, il desiderio espresso così, più che altro per gioco venisse preso sul serio?
Se il regno della fiaba e del mistero si avverasse? Se accanto al fuoco al mattino si trovassero i doni la bambola il revolver il treno il micio l’orsacchiotto il leone che nessuno di voi ha comperati?
Se la vostra bella sicurezza nella scienza e nella dea ragione andasse a carte quarantotto? Con imperdonabile leggerezza forse troppo ci siamo fidati.
E se sul serio venisse? Silenzio! O Gesù Bambino per favore cammina piano nell’attraversare il salotto.
Guai se tu svegli i ragazzi che disastro sarebbe per noi così colti così intelligenti brevettati miscredenti noi che ci crediamo chissà cosa coi nostri atomi coi nostri razzi. Fa’ piano, Bambino, se puoi.
2/ [«E se invece venisse per davvero?» si chiede Dino Buzzati nei versi di Buon Natale]. Il Gesù che viene, atteso anche dai poeti, di Giovanni Fighera
Riprendiamo sul nostro sito un articolo da La Nuova Bussola Quotidiana (https://lanuovabq.it/it/il-gesu-che-viene-atteso-anche-dai-poeti) pubblicato l’11/12/2023. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (24/12/2023)
«E se invece venisse per davvero?» si chiede Dino Buzzati nei versi di Buon Natale. «Se la preghiera, la letterina, il desiderio/ espresso così, più che altro per gioco/ venisse preso sul serio?».
In mezzo alle guerre, allo scandalo del giusto e dell’innocente che soffre, alle pandemie, alla violenza che occupa le pagine dei giornali e gli schermi dei televisori l’umanità è in attesa di una risposta, di una speranza, di un riscatto.
Dal 1940, anno di pubblicazione de Il deserto dei Tartari, la fortezza Bastiani è divenuta una delle immagini che descrivono meglio la condizione esistenziale dell’uomo di ogni tempo e, ancor più, di quello contemporaneo.
Non è «imponente la Fortezza Bastiani, con le sue basse mura, né in alcun modo bella, né pittoresca di torri e di bastioni, assolutamente nulla» che consoli «quella nudità», che ricordi «le dolci cose della vita». La fortezza si affaccia su un deserto da cui, si vocifera, arriveranno un giorno i Tartari. Il deserto è lo specchio di tante giornate che appaiono vuote, deprivate di un significato, senza un senso.
L’attesa dell’evento diventa il motivo costitutivo dell’esistenza dell’ufficiale Giovanni Drogo, così come il fulcro del romanzo, possibilità di riscatto dal grigiore e dalla monotonia dell’esistenza, occasione per l’affermazione del proprio valore.
Convintasi di essersi affrancata dalla superstizione e da una vetusta tradizione che oggi non avrebbe più nulla da dire, lungi dal progredire, la cultura contemporanea è ritornata al politeismo, all’idolatria di dei che hanno soltanto modificato il nome, ma non la sostanza: al posto di Venere si adora il sesso, al posto che a Marte si sacrificano vittime alla guerra e al potere, invece che a Plutone si inneggia al denaro. O forse sarebbe meglio dire che il Dio unico è stato sostituito da un uomo che si è posto sul piedistallo, si fabbrica la propria religione di vita o si adegua a quella imposta dal sistema del potere nella convinzione di poter fare a meno del Mistero.
Eppure, quest’uomo sul piedistallo si sgretola ogni istante, come una statua d’argilla crepata che vede la propria forma divenire polvere e disperdersi nel vento. E se allora facessimo uscire dalle nostre labbra l’invocazione che sgorga dal profondo delle fibre della nostra carne? Salvami tu, dà tu forma alla mia polvere, non permettere che si disperda al vento. E se ascoltassimo la domanda appena bisbigliata da Buzzati, con voce bassa, per non disturbare troppo un mondo che non vuole essere disturbato e infastidito? «E se invece venisse per davvero?».
Se il regno della fiaba e del mistero si avverasse? Se accanto al fuoco al mattino si trovassero i doni la bambola il revolver il treno il micio l’orsacchiotto il leone che nessuno di voi ha comperati?
E se, continua Buzzati, la nostra sicurezza in cui viviamo, fasulla, costruita sulla scienza e sulla dea ragione, «andasse a carte quarantotto?».
Con imperdonabile leggerezza forse troppo ci siamo fidati. E se sul serio venisse? Silenzio! O Gesù Bambino per favore cammina piano nell’attraversare il salotto.
Buzzati invita Gesù a venire senza far troppo rumore perché potrebbe svegliare noi uomini contemporanei «così colti così intelligenti/ brevettati miscredenti/ noi che ci crediamo chissà cosa/ coi nostri atomi coi nostri razzi». La nostra società non vuole essere disturbata nella sua imperturbabilità e nella sua ipocrita sicurezza.
Già cinquant’anni fa, nell’articolo per Il Corriere della sera del 9 dicembre 1973, intitolato “Sfida ai dirigenti della televisione” (divenuto poi “Acculturazione e acculturazione” negli Scritti corsari) Pier Paolo Pasolini sosteneva che il centralismo del potere aveva avuto come obiettivo quello di soffocare l’umano e ogni forma di desiderio autentico.
Il sistema della società dei consumi e la civiltà dell’edonismo di massa avevano creato un’adesione totale e incondizionata ai modelli imposti dal centro, portando ad una distruzione di tutti gli altri modelli culturali (contadino, sottoproletario, operaio).
L’ideologia edonistica ha attuato un’«omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza». Il sistema non vuole più solo creare un «uomo che consuma», ma «pretende che non siano concepite altre ideologie che quella del consumo». La religione, afferma Pasolini, è l’unico fenomeno che può essere concorrente e opporsi all’«edonismo di massa».
Pasolini capisce che un credo forte (ovvero una fede vera e vissuta) è l’unica possibilità perché non si ceda alla società che insinua falsi bisogni e che riduce la grande domanda che alberga in noi, perché non ci si accontenti e non si giunga ad una borghesizzazione della vita, ad una riduzione dell’umano, ad un perbenismo benpensante in cui non ci si aspetta più nulla dalla vita.
C’è ancora speranza allora? Da dove ripartire? Lasciamo che nel silenzio dalle crepe della nostra umanità escano le nostre domande come grida che attendono una risposta, escano le nostre lacrime che desiderano essere asciugate. Usciamo dal nostro bunker costruito da anni di indifferenza e di anestesia. Lasciamo che le bombe rappresentate da tutto il male del mondo, dal male che è di altri ma che è anche il mio male (di facile odio, di invidia, di superbia), ci stanino. Inutile è costruire una tana sempre più in profondità.
Usciamo allo scoperto, guardiamo finalmente la realtà, coscienti che nulla ci può proteggere dalla morte, dall’anestesia, dal non senso. Gridiamo che abbiamo bisogno di un Salvatore, di Uno che non ci faccia affogare nel «gran mare dell’essere» (Dante). Non fuggiamo da questo mare per paura di farci male o di affogare.
Con i versi di Nella notte di Natale di Saba apriamo la porta del nostro desiderio:
Forse il bene invocato oggi m’aspetta. Una serenità quasi perfetta calma i battiti ardenti del mio cuore. Notte fredda e stellata di Natale, sai tu dirmi la fonte onde zampilla improvvisa la mia speranza buona?
È forse il sogno di Gesù che brilla nell’anima dolente ed immortale del giovane che ama, che perdona?
3/ Il dopodopodomani di Buzzati. Il 28 gennaio di 50 anni fa moriva lo scrittore bellunese. Nelle sue opere la concretezza semplice si unisce a un acuto sentimento del mistero. E c’è uno spiraglio, anche nelle situazioni più buie. «Senza la grazia, io non faccio niente», di Andrea Fazioli
Riprendiamo sul nostro sito da Comunione e Liberazione on-line (https://it.clonline.org/news/cultura/2022/01/28/anniversario-dino-buzzati) un articolo di Andrea Fazioli, pubblicato il 28/1/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (24/12/2023)
È la vigilia di Natale del 1920. Alla fine di una lunga lettera, il quattordicenne Dino Buzzati augura buon Natale al suo amico Arturo Brambilla. Poi aggiunge: «Non ti faccio gli auguri di Capo d’Anno perché ti scriverò domani, dopodomani, dopodopodomani, dopodopodopodomani, dopodopodopodopodomani ecc… ecc… e allora avrò il tempo di farteli».
È solo il saluto spiritoso di un adolescente, ma quella serie di “dopo” evoca in me una sensazione che non saprei come definire, se non con l’aggettivo buzzatiana. La tensione verso qualcosa che sta oltre, la fiducia nelle parole che verranno pronunciate (fiducia che persisterà anche nelle visioni più oscure), l’amicizia, l’attesa, la fedeltà… sono tutti temi fondamentali nell’opera dello scrittore nato a a Belluno nel 1906 e morto a Milano cinquant’anni fa, il 28 gennaio del 1972.
Buzzati e Brambilla si conoscono a scuola nel 1916, quando entrambi hanno dieci anni. Nei decenni successivi Buzzati indirizzerà più di trecento lettere all’amico: un corpus epistolare in cui piano piano si rivelano i tratti salienti della sua scrittura. È uno dei pochi autori italiani del XX secolo a cui si può attribuire un aggettivo: buzzatiano, appunto. Le sue narrazioni hanno un tocco inconfondibile, un’originalità che consiste nel miscuglio fra evocazione fantastica, senso dell’avventura e indagine esistenziale. Il tutto con uno stile insieme sobrio e poetico.
Per più di quarant’anni Buzzati lavorò al Corriere della Sera, prima come praticante redattore, poi come cronista, elzevirista, giornalista a tutto campo. Era anche poeta, drammaturgo, pittore e disegnatore. Nel 1969 il suo Poema a fumetti, che rivisita in chiave onirica il mito di Orfeo ed Euridice, anticipò di decenni l’evoluzione del fumetto contemporaneo (la cosiddetta graphic novel). Alcuni suoi racconti brevi (“Il colombre”, “I sette messaggeri”, “La goccia” e tanti altri) sono ormai dei classici, letti e riletti nelle scuole, così come i suoi romanzi: da Bàrnabo delle montagne (1933) fino a Un amore (1963), passando per Il deserto dei Tartari (1940), che è considerato il suo capolavoro.
Che cosa dire di Buzzati, in poche righe? La sua opera è ampia e magnifica come le cime delle Dolomiti, sulle quali amava arrampicarsi. «Ci vorrà naturalmente una guida che conduce ai posti da salutare». Così annotava l’autore sulla sua agenda, pochi mesi prima di morire per un tumore al pancreas. Poi aggiungeva: «Oppure, più semplice, le cose stesse si mettono a parlare». Questa è per me la caratteristica principale dei racconti di Buzzati: la concretezza, la semplicità delle cose di ogni giorno si unisce a un acuto sentimento del mistero. Come ebbe a dire lui stesso in un’intervista: «Senza un intervento estraneo, che non dipende da noi, senza la grazia, dico bene la grazia, non si fa niente. Io, particolarmente, non faccio niente».
Che valore attribuire alla parola «grazia» come la intende Buzzati? Non era credente, spesso anzi manifestava nei suoi racconti un certo pessimismo, uno sgomento di fronte alla morte. Ma anche nelle situazioni più buie, appare un «dopodopodopodomani», uno spiraglio di futuro. Il bellissimo finale de Il deserto dei tartari ne è un esempio: non voglio svelarlo, mi limito a dire che si tratta di un sorriso, un piccolo sorriso che appare quando tutto sembra inutile e perduto. «Non esiste una pagina di Buzzati che sotto sotto non rimandi ad un significato altro. C’è sempre sottinteso, ammiccante, a volte sornione, a volte surreale, a volte sarcastico, a volte commosso, non importa, ma c’è sempre il rimando a un significato misterioso che è diverso da quello che apparentemente vuole essere». Così diceva Lucia Bellaspiga, studiosa ed esperta di Buzzati, in un intervento di qualche anno fa al Centro Culturale di Milano.
Forse è stato proprio questo “oltre” ad affascinarmi, quando da ragazzo lessi per la prima volta Buzzati. In particolare mi capitò fra le mani il suo ultimo libro, I miracoli di Val Morel (1971). Si trattava di una vecchissima edizione, ma il volume è stato ristampato di recente da Mondadori. Buzzati dipinse una serie di quadri che s’ispiravano ai tradizionali ex-voto, nei quali le persone esprimono il loro ringraziamento per una grazia ricevuta. L’autore affronta il tema con ironia, in maniera surreale, dipingendo e narrando una serie di miracoli “impossibili” di santa Rita. In particolare mi colpì la «breve invasione di formiche mentali» avvenuta «a Longarone e in Valle di Zoldo, nell’anno 1871». L’autore immagina un certo tipo di pensiero ossessivo come una formica che s’installa nelle «circonvoluzioni mentali». Questi animaletti suscitano dubbi angosciosi del genere: «Lo sai che non esisti? O se esisti, esisti male?». La vertigine della domanda mi commosse da adolescente e mi commuove ancora. Ecco un autore che, a partire dal tema degli ex-voto, con la loro schiettezza, con il loro candore, va diritto al punto. Ma io esisto veramente? Che cosa significa essere al mondo?
Il piccolo volume, che Buzzati fece in tempo a vedere stampato poche settimane prima di morire, enumera una serie di mostri pittoreschi: i Gatti Vulcanici, i Vespilloni, il Serpenton dei Mari, il Gatto Mammone, il Diavolo Porcospino. Ma c’è anche il Colombre, protagonista del celebre racconto omonimo. Lo dobbiamo chiamare «mostro», spiega Buzzati, «perché meraviglioso, non già perché apportatore di sventure». Da quel momento, leggendo i racconti e gli articoli di Buzzati, capii che il «meraviglioso» ha in sé una forza positiva, insita nella sua capacità di suscitare domande, di smuovere il tran tran di una vita senza sorprese. Ecco dunque che il Colombre finalmente si rivela come una creatura benefica. Possibile? Non sembra vero, ma il mostruoso Colombre è una creatura buona.
Oltre alla concretezza, al mistero, al meraviglioso, anche l’amore e la bontà sono al centro dell’opera di Buzzati. Talvolta solo come nostalgia, talvolta invece come riconoscimento di una «grazia» inesplicabile, nascosta nella promessa di un «dopodomani» al quale l’autore si mantiene fedele. Così scrisse Buzzati il 6 giugno del 1963, in un articolo in memoria di papa Giovanni XXIII: «Anche i cuori apparentemente di pietra o di gesso a un certo momento possono capire, per lo meno intravedere, come la bontà sia, a questo mondo, la cosa che vale di più». Affiora qua e là nei racconti di Buzzati questa «bontà», questa parolina che ogni tanto ci sembra fin troppo semplice e ingenua, ma che in realtà è vasta quanto l’universo.Redazione de Gliscritti