Perché vale la pena andare a messa? Come vivere la domenica? Perché abbiamo bisogno di riti? Traccia per il III incontro con i genitori dell’Iniziazione cristiana, di Andrea Lonardo per l’Ufficio catechistico della diocesi di Roma

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 30 /03 /2016 - 15:38 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito una traccia per il III incontro dell’itinerario formativo per i genitori dell’Iniziazione cristiana proposto dall’Ufficio catechistico della diocesi di Roma ad experimentum. I differenti temi saranno via via proposti nel corso dell’anno. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Iniziazione cristiana nella sezione Catechesi, famiglia e scuola. La traccia del I e del II incontro sono on-line ai link Perché avete fatto bene ad accompagnare i vostri figli in parrocchia? Traccia per un I incontro con i genitori dell’Iniziazione cristiana e Bisogna lasciare liberi i nostri figli? Oppure la libertà nasce dalle proposte alte e da regole sagge che noi dobbiamo curare? Traccia per il II incontro con i genitori dell’Iniziazione cristiana.

Il Centro culturale Gli scritti (30/3/2016)

1/ Il tema: Quali sono le obiezioni che i genitori hanno quando si propone loro di partecipare alla Messa? E conseguentemente perché vale la pena andare a messa?

I genitori hanno due grandi obiezioni riguardo alla messa domenicale che non dobbiamo dimenticare: le dobbiamo prendere in seria considerazione. Possiamo cominciare chiedendo direttamente loro – ma con tanta leggerezza  e nel sorriso - quali sono le obiezioni che hanno nell’essere fedeli alla messa. Oppure possiamo chiedere loro quali obiezioni solleverebbero i loro amici genitori, di modo che non si sentano subito messi in mezzo. Oppure possiamo dirle noi per primi, poiché, se conosciamo bene la vita delle famiglie, le abbiamo sentite ripetere tante volte.

1.1/ Siamo stanchi della fatica della settimana

I genitori diranno innanzitutto che la domenica sono molto stanchi. Che tutti i giorni della settimana corrono come dei pazzi nell’inferno del traffico, per accompagnare i figli a scuola, per andare al lavoro, per tornare in orario a fare i compiti con i figli o per portarli ai diversi sport, oppure solo per preparare la cena.

Dietro queste parole c’è una stanchezza reale. Oggi la vita è difficilissima. I genitori hanno bisogno veramente di tempo per riposare, di tregua dal ritmo soffocante della società moderna.

Noi dobbiamo capire questa loro stanchezza. Li comprendiamo e ci fanno tenerezza nella loro stanchezza. Dobbiamo mostrare che comprendiamo questa stanchezza – altrimenti come potremmo voler loro bene -, mostrare come siamo lontanissimi da uno sciocco moralismo che pretenderebbe di dire che la messa è importante e che quindi anche se sono stanchi a noi non importa niente purché vengano a messa.

Io anzi rincarerei la dose perché si rendano ben conto di quanto sono stanchi e di come la stanchezza sia un problema che condiziona la loro vita e la intristisce. Gli direi, ad esempio, che una delle condizioni nuove e più difficili del nostro tempo è che Internet sta diminuendo le nostre ore di sonno: è provato che da quando Internet ha iniziato ad affermarsi fino ad oggi, con l’invasione degli attuali iPhone, noi dormiamo tutti, compresi i preti, un’ora in meno a notte! Dieci anni fa, ognuno di noi dormiva un’ora di più ogni giorno. Oggi torni a casa e stai almeno un’ora nella notte in più sveglio per lavorare o navigare sul web. Qualcuno va a dormire tutte le sere all’1 di notte o ancora più tardi. Guardate che non è una cosa da poco. Poi ci si domanda come mai siamo nervosi e come mai litighiamo in famiglia! Come mai non abbiamo la lucidità per evitare di arrabbiarci, come mai ci manca la serenità se qualcuno ci dice qualcosa di spiacevole. Noi siamo stanchi, molto stanchi.

Non si deve dimenticare poi la stanchezza ingenerata dal traffico. In una città come Roma ogni 10 metri c’è una macchina in doppia fila. Ogni 10 metri c’è uno che va troppo lento. Ogni 10 metri c’è uno che ti taglia la strada. Noi tutti arriviamo al luogo di lavoro con una grande tensione addosso, perché sappiamo che guidare in queste condizioni è pericoloso. Ed abbiamo sempre paura di arrivare tardi. La sera poi ci distruggono nuovamente le file: non vediamo l’ora di tornare a casa dai bambini e dalla moglie o dal marito e stiamo ore in fila, a volte per uno stupido incidente, a volte perché non c’è altra via che quella trafficatissima per la quale passano tutti.

Dobbiamo dire loro che hanno ragione ad essere stanchi. Ma allora, se hanno ragione ad essere stanchi hanno anche ragione a dirci: “Don, mi lasci riposare almeno la domenica!”, “Don, almeno la domenica mi faccia dormire”? (vedremo fra breve cosa rispondiamo come cristiani, ma vi suggerisco di lasciare in sospeso con loro la questione per qualche minuto, mostrando che hanno ragione a dire che sono stanchi).

1.2/ La domenica mi lasci stare in famiglia, non sto mai con loro

Prima di rispondere,  vale la pena sollevare la seconda obiezione: ognuno di loro sente che la domenica desidera stare in famiglia e uscire la mattina gli appare come un ulteriore impedimento allo stare con le persone che ama e che vede pochissimo, talvolta solo a sera tardi, durante la settimana. I genitori lo dicono sempre: “Vorrei stare di più in famiglia”. E lo dicono a noi preti e ai catechisti: “Don, mi lasci stare in famiglia almeno la domenica”, “Don, non parlo mai con i miei figli, non parlo mai con mia moglie, almeno la domenica mi lasci stare in famiglia!”.

Anche qui è sciocco obiettare che la messa è più importante: l’obiezione non li aiuterebbe nel loro dramma. Anzi credo che dobbiamo anche qui approfondire il dramma di cui parlano, perché è reale. Ci sono padri – e anche madri – che non hanno più tempo per stare con i loro figli. Ci sono donne che non sono state “liberate”, come voleva il femminismo, dal fatto di lavorare fuori casa, bensì sono ancora più schiave. Lavorano come matte fuori di casa e poi, tornate a casa, debbono fare lo stesso tutto quello che facevano un tempo le donne che lavoravano come casalinghe. Insomma tante lavorano il doppio di prima. Sono meno libere di un tempo. Spesso sono solo i nonni o le tate che stanno con i figli al pomeriggio. Moltissimi genitori, soprattutto i papà, vedono i figli solo alla sera. Non fanno  mai i compiti con loro. Parlano pochissimo con loro. E quando li vedono alla sera, stanno con loro con il peso della stanchezza della giornata, hanno poche energie per stare con i figli in maniera gioiosa e attenta.

Non parliamo poi del rapporto tra uomo e donna, marito e moglie. Le lunghe chiacchierate dei tempi del fidanzamento sono talvolta un lontano ricordo. Ma spessissimo non per cattiveria. Le donne desidererebbero parlare con i mariti ed anche i mariti, sebbene più taciturni, in fondo lo desidererebbero. E la domenica appare come l’ultimo rifugio per parlarsi negli occhi marito e moglie, per scambiarsi confidenze e coccole.

Anche questa obiezione è tutt’altro che stupida, anzi è verissima: “Don, almeno la domenica mi faccia stare con la mia famiglia!”.

1.3/ Ma allora perché venire a messa se siamo stanchi ed abbiamo bisogno di stare in famiglia?

Ebbene – eccoci al dunque – perché noi proponiamo loro di venire a messa? Perché Gesù Cristo ha inventato la messa, proprio lui che sa tutto della stanchezza dei genitori e del loro desiderio di riscoprire la vita familiare?

L’ha “inventata” esattamente perché senza la messa non ci riposeremmo mai veramente e non staremmo mai veramente in famiglia! Gesù Cristo ha voluto la messa domenicale perché essa ci riposa e ci rasserena. E perché essa ci permette di stare insieme, marito, moglie e bambini!

Nella riunione con loro, possiamo passare così dal riflettere insieme sulle obiezioni, allo scoprire che la messa non solo regge alle obiezioni, ma anzi è il vero antidoto ed è il vero dono che rasserena e sostiene la famiglia: proprio ciò che le famiglie cercano.

Ecco l’angolatura dalla quale vi propongo di parlare dell’eucarestia domenicale: la messa è il vero riposo e la messa è il vero dono di grazia che ci permette di crescere nella comunione.

Se aiutiamo loro a capire come di fatto vivono la domenica, fallendo negli obiettivi che si propongono, si accorgeranno che è proprio così. La domenica è un giorno stressantissimo per tante famiglie. Non solo di domenica molti si recano nei centri commerciali, stancandosi tantissimo. Su questo dobbiamo insegnare loro a fare obiezione di coscienza: la domenica non si va nei centri commerciali. Andare in un centro commerciale nel giorno del Signore vuol dire stancarsi anche di domenica e rendere schiavi coloro che vi lavorano. Noi contribuiamo così a rovinare le famiglie di chi lavora in quei luoghi nei giorni festivi.

Ma soprattutto dobbiamo mostrare ai genitori che il vero riposo non è dato dal distrarsi. Tanti hanno scambiato il riposo con la “distrazione”. Andare allo stadio, vedere le partite in TV, giocare con la playstation, stare al computer, ecc. ecc. No, questo non riposa, ma stanca ancora di più. Se si passa così la domenica si torna  casa – o vi si resta – per ritrovarsi poi vuoti. Quando i loro figli saranno adolescenti la società tenterà di insegnare loro che il sabato sera e la domenica sono fatti per bere, per fumare spinelli, per fare qualche mattata, per distrarsi insomma. Cioè per dimenticare che la vita è brutta.

Ecco la bestemmia. Se il riposo viene identificato con il “divertimento” – divertimento , dal latino divertere, cioè allontanarsi – è perché se la vita è brutta, se le cose non vanno bene, se il lavoro e le persone incontrate durante la settimana sono un peso, ecco che mi serve qualcosa per dimenticarmi della vita, per dimenticarmi della bruttezza e del non senso della vita.

La festa, invece, a differenza del divertimento, è il tempo nel quale riscoprire che andare al lavoro ha un senso, che costruire la propria famiglia ha un senso, che lavorare per guadagnare il denaro che serve ai miei cari e per la carità ha un senso, che nel lavoro si può fare del bene, che avere una famiglia, amare la propria moglie, amare i propri bambini e farli crescere è una vocazione santa e straordinaria.

La messa serve innanzitutto a questo. Noi entriamo in chiesa stanchi e ne usciamo riposati. È l’esperienza che facciamo tutti. Non vorremmo alzarci per andare in chiesa, ma quando usciamo dalla messa sentiamo che la presenza del Signore ci ha rasserenati. Avviene così anche nella Confessione. Noi non vorremmo mai confessarci. Ma quando ci siamo confessati, usciamo dal confessionale con una grande pace.

Nella messa noi entriamo portando con noi tutto il peso della settimana, le cose che sono andate bene così come i fallimenti e nella Parola del Signore, nei canti, nei gesti, soprattutto nell’Eucarestia noi riscopriamo che il Signore ci da forza. Abbiamo bisogno del pane del cammino, proprio perché siamo tanto stanchi.

La liturgia non ci fa dimenticare la vita, come fa invece il divertimento stupido. Non ci distrae semplicemente. Anzi ci ri-crea, ci crea nuovamente e ci fa riscoprire il valore della fatica che facciamo ogni giorno. Ci fa riscoprire che esistono la bellezza e l’amore anche se nella settimana non sempre riusciamo a vederli.

Un genitore a messa riscopre che è proprio Dio a chiedergli di amare ancora la sua famiglia, i suoi figli, il suo lavoro, la sua città. Dio è con noi. Non è sprecato allora il tempo del lavoro – ci annunzia la festa. Dio ci da forza perché possiamo cominciare una nuova settimana. Dio ci fa riscoprire che la verità, l’amore e la bellezza esistono.

Ma la messa è stata voluta dal Signore per aiutarci a realizzare anche l’altro nostro grande desiderio, quello di stare in famiglia. Se non andiamo a messa, spesso stiamo a casa, nella stessa casa, ma non stiamo “in famiglia”. Infatti avviene che il figlio gioca con la sua playstation, il papà guarda la sua partita, la moglie o il marito vorrebbero essere ascoltati, ma ci sono da fare gli acquisti al centro commerciale e ci sono tante cose da sistemare in casa.

Uscire tutti insieme per andare a messa è il grande aiuto che Dio ci da per crescere insieme come famiglia. Ci si reca insieme marito e moglie, genitori e figli. Si sta insieme, tutti. Non solo, ma la messa ci aiuta a parlare delle cose grandi. Di solito un papà vorrebbe parlare di cose serie con suo figlio, ma non ne ha il coraggio. Vorrebbe parlare con lui della fede e dell’amore, ma si vergogna. La messa lo aiuta. Uscendo dalla messa è più facile che qualcuno - a volte è il figlio a farlo - chieda spiegazioni sulla messa, oppure che le parole del vangelo o di un canto aiutino ad aprire un discorso.

Io ricordo i mei genitori che un giorno avevano litigato per una cosa stupidissima: il condimento dell’insalata. Mio padre sosteneva che l’olio e l’aceto dovevano essere messi all’ultimo momento, altrimenti l’insalata appassiva. Mia madre, invece, che doveva preoccuparsi in casa di tante cose, a volte metteva l’olio e l’aceto prima in maniera da essere sicura di non doversi poi alzare. Un giorno mio padre si arrabbiò più di altre volte e pose la zuppiera con l’insalata su di un tavolino al centro della sala da pranzo pretendendo che restasse lì per mostrare l’appassimento dell’insalata. Né mio padre, né mia madre avevano il coraggio di fare un passo – l’orgoglio di noi umani è strano a volte – per chiedere perdono  o per riderci sopra, tanto era stupida la cosa. Fu una settimana di inferno per noi figli, mentre i genitori non si parlavano. Finalmente venne la domenica, il prete disse nella messa: “Scambiatevi il segno della pace”, i miei si abbracciarono, si commossero, sorrisero e tutto finì. La messa ci aiuta a stare in famiglia, ci fornisce la grazia divina ed i gesti concreti per stare insieme e non ognuno alla propria postazione tecnologica di computer o iPhone che sia!

Ecco perché proponiamo loro la messa. Perché sappiamo che sono stanchi e perché desiderano stare in famiglia. Perché sappiamo che senza la messa il loro desiderio di riposarsi e di ritrovare il gusto della vita, il loro desiderio di comunicare e volersi bene come famiglia sarà più difficile da realizzare.

Vedete bene che così affrontiamo il tema della partecipazione alla messa da un punto di vista diverso da quello che loro si aspettano. Dobbiamo spiazzare i genitori e non dire loro ciò che si aspettano, perché se diciamo ciò che già si aspettano, vuol dire che il nostro discorso è inutile, è già risaputo!

I genitori si aspettano che noi diciamo loro che debbono andare a messa. Si aspettano che diciamo loro che debbono andare a messa con i loro figli perché altrimenti saranno incoerenti e non daranno loro testimonianza. Si aspettano anche che noi diciamo loro che ogni bambino che vede il proprio padre chiedergli l’impegno in qualcosa – in questo caso prepararsi alla comunione – ma poi come adulto disinteressarsene, offrirà un messaggio diseducativo.

Invece noi diciamo loro che la messa è ciò che Dio ci dona per il nostro riposo e per aiutarci ad amarci in famiglia. Si può usare anche un escamotage che ho utilizzato qualche volta per iniziare la riunione con i genitori sul tema della messa. Ho detto loro così: “Vedete, cari genitori, voi vi aspettate che io vi dica come prima cosa che la riunione non basta e che la messa domenicale è più importante della riunione. Vi aspettate che io vi dica che non ha senso preparare alla Comunione i vostri figli e non venire a messa, perché senza la domenica stiamo già dicendo ai bambini che ciò che gli proponiamo non è qualcosa di decisivo per la vita. Vi aspettate, probabilmente, soprattutto che io vi dica che se lasciate i bambini a messa e non venite voi siete incoerenti e mancherà ai figli la vostra testimonianza. Ebbene io non vi dirò queste cose, perché già le sapete bene! Se insistessi su queste cose giuste ed ovvie vi tratterei come dei cretini” – ed intanto gliele avevo dette!

Proseguivo allora, con ciò che vi ho proposto sopra: “No, non vi ho chiamati per dirvi ciò che è ovvio e già sapete bene, che dovete venire a messa con i vostri figli. Questo è scontato. No, vi ho chiamato per parlarvi di qualcosa su cui forse non avete mai pensato, cioè delle due grandi e vere obiezioni che avete dinanzi alla messa: la vostra stanchezza reale ed il desiderio di stare di più in famiglia”. E da lì si apre il discorso più importante che vi ho proposto.

Se volete ripassare ciò che vi ho detto sul “discorso antico” (l’oratoria) nel primo incontro vi accorgerete facilmente che affrontando il tema della loro stanchezza e del loro desiderio di stare in famiglia abbiamo anche fatto una captatio benevolentiae, che per i latini era sempre il primo passo: mai la critica come primo passo, bensì il mostrare che si vuole loro bene e si capisce la loro vita. Sciogliendo poi i due nodi, anzi trasformandoli in riflessioni che danno motivi grandi per partecipare alla messa, abbiamo fatto anche quella che i latini chiamavano la  refutatio, cioè lo smontare gli argomenti contro la proposta che si intende fare. Mostrando il bene che la messa ci dona abbiamo infine fatto anche la cosiddetta narratio, cioè l’evidenziare, il narrare le questioni che spingono verso una soluzione positiva.

1.4/ Materiali

Prima di proseguire con la traccia della riunione, voglio consigliarvi anche questa volta alcuni materiali utili. Non è detto che debbano essere utilizzati nel corso dell’incontro, anzi possono essere forse meglio valorizzati o nella preparazione, inviandoli per posta elettronica o sui social network, o proponendoli come materiali su cui confrontarsi in  famiglia o a gruppi nelle settimane successive.

Potete utilizzare innanzitutto una catechesi di papa Francesco, nella quale afferma: «La festa è un’invenzione di Dio… non dobbiamo mai essere schiavi del lavoro, ma “signori”».

Il nostro Ufficio catechistico ha preparato una lettera da inviare ai genitori sulla domenica (il testo esiste anche in word per poterlo modificare a piacimento inserendo ulteriori considerazioni o immagini)

Nel giorno del Signore. Vivere la domenica in famiglia http://www.gliscritti.it/blog/images/2012-12/schede_vicariato_27.pdf

Potete suggerire anche il video di una bellissima canzone di Angelo Branduardi: Branduardi, Domenica lunedì

Oppure potete suggerire il video di un intervento di Giacomo Poretti, nel quale tiene un breve discorso in onore del nuovo arcivescovo di Milano, accennando, come sempre con ironia e poesia, al ruolo della comunità cristiana e degli oratori nella metropoli lombarda: La confessione di un innamorato, di Giacomo Poretti

Per una riflessione più ampia ed una formazione personale, si possono invece suggerire i due video del nostro Ufficio catechistico:

COMUNIONI 9 - Entrare nella celebrazione eucaristica (parte I)

COMUNIONI 10 - Entrare nella celebrazione eucaristica (parte II)

Per la formazione dei catechisti suggeriamo infine due contributi:

a/ INIZIARE A CELEBRARE: LA MESSA DELL’INIZIAZIONE CRISTIANA. Sussidio per la formazione ed il coinvolgimento dei genitori a cura dell’Ufficio catechistico diocesano e dell’Ufficio liturgico diocesano per vivere insieme il Convegno pastorale 2015 “Noi genitori testimoni della bellezza della vita. Vi trasmettiamo quello che abbiamo ricevuto (cfr. 1 Cor 15,3)”

b/ Il file audio di una lezione tenuta presso la chiesa di Sant'Angelo in Pescheria: Il sabato e la domenica, giorno del Signore, di Andrea Lonardo.

2/ Il giorno del Signore: la gratitudine è la misura di ogni felicità

In realtà quanto abbiamo fin qui detto sarebbe già sufficiente, almeno a livello esistenziale. Ma è bene fare qualche passo in più - si possono prevedere anche più riunioni sul tema se il tempo non bastasse.

Ritengo importante che si dia ai genitori anche qualche notazione storica, prima di trarne le conseguenze esistenziali, perché i genitori capiscano la serietà di ciò di cui stiamo parlando. Sono adulti e debbono conoscere la loro fede, non solo ricevere fervorini.

Per quell’analfabetismo religioso che caratterizza l’Italia probabilmente molti di loro non sanno nemmeno che prima del popolo ebraico non esisteva il giorno di riposo settimanale. Come ha detto papa Francesco nel brano sopra riportato: «La festa è un’invenzione di Dio».

Si può ricordare loro che i popoli pagani avevano sì delle feste, ma non una volta a settimana. Ancora oggi i negozi cinesi sono aperti tutti il giorno non perché i cinesi siano particolarmente stakanovisti, ma molto più semplicemente perché la cultura cinese, essendo pre-cristiana, non conosce il riposo settimanale – sono perciò abituati a chiudere i negozi solo nei giorni del capodanno cinese!

Prima dell’ebraismo e del cristianesimo (e di conseguenza nelle culture che non hanno conosciuto l’ebraismo e il cristianesimo) non è esistito il giorno di riposo settimanale. Ebrei  e cristiani hanno regalato al mondo intero un giorno di riposo ogni sette. Qui si vedono le radici culturali dell’Europa! Anche gli atei debbono ringraziare l’ebraismo e il cristianesimo se la domenica non vanno a lavorare! L’Islam ha preso il venerdì come giorno settimanale, anche se esso non ha alcun significato specifico per i musulmani, non commemora niente di particolare. Il venerdì venne scelto solo per poter riprendere ciò che vivevano ebrei e cristiani ma, al tempo stesso, differenziarsi da loro, consapevoli comunque della grande “invenzione”. Quando i rivoluzionari francesi cercarono di cancellare le tracce del cristianesimo, durante l’illuminismo, divisero il tempo in decadi, in periodi di dieci giorni, concedendo un giorno di riposo ogni dieci. Anche dai diversi modi di combattere l’invenzione ebraico-cristiana se ne vede la genialità.

I nomi dei giorni della nostra settimana – vale la pena farglielo notare, perché molti di loro non lo hanno mai sentito spiegare – ci ricordano le origini della nostra cultura. Le origini pagane: lunedì-Luna, martedì-Marte, mercoledì-Mercurio. giovedì-Giove, venerdì-Venere, con 5 divinità pagane. Le origini ebraiche: sabato-Shabbat. Le origini cristiane: domenica-Dies Domini, perché il Signore è risorto il primo giorno dopo il sabato. Insomma 5 nomi di origine pagana, uno di origine ebraica, uno di origine cristiana.

Vale la pena soffermarsi con i genitori sul senso profondo di Genesi 1 facendo notare che tale racconto è un testo ebraico. Anche qui non dimenticate che tutti trattano stupidamente i testi di Genesi sulla creazione come se fossero dei testi cristiani, mentre essi sono ebraici: è l’amore di Dio verso il popolo di Israele che ci rende certi che la pretesa degli ebrei di aver ricevuto la rivelazione di Dio è vera. Proprio dinanzi al tema della festa è importante non dimenticare che Genesi 1 è un testo ebraico.

Gli ebrei, che non sono stupidi, non hanno mai pensato che il mondo sia stato creato esattamente in 7 giorni e con quella sequenza di opere, tanto è vero che in Genesi 2 gli stessi ebrei hanno fornito una sequenza diversa: in Genesi 2, infatti, Dio non crea l’uomo per ultimo, bensì per primo. Nel secondo capitolo Dio crea prima l’uomo, poi le piante, poi gli animali, poi la donna. Se si fosse trattato di un trattato sulla storia evolutiva dell’universo gli ebrei avrebbero cancellato uno dei due capitoli! Meriterebbe tutta una trattazione la spiegazione di Genesi ai genitori, ma non è il caso di farlo ora. Potete rimandarli ad un mio commento sul testo: Presentare Genesi 1 e 2: Adamo, Eva e la creazione del mondo nell’annuncio della fede e nella catechesi, di Andrea Lonardo (http://www.gliscritti.it/blog/entry/2720).

Qui basta sottolineare che Genesi 1 con il settimo giorno vuole affermare una potentissima e poetica verità (Genesi non è un testo mitologico, bensì un testo teologico-poetico): Dio è Dio non solo perché crea, non solo perché è onnipotente al punto da essere il creatore di tutto ciò che esiste, ma ancor più Dio è Dio perché egli si “riposa”, cioè perché gode di ciò che ha creato. Il compimento della sua creazione non è una qualche opera da lui fatta, bensì ancor più l’astensione dalle opere, il godimento, la gioia, la festa per ciò che ha creato.

Il termine shabbat/sabato viene, infatti, dal verbo ebraico shabat che vuol dire “riposare”, “fermarsi”, “arrestarsi” e, quindi, godere di ciò che si è fatto. L’essere Signore non consiste solo nel fare, nel creare: l’essere Signore consiste nella capacità di essere felice, beato. Dio è la suprema felicità, Dio è capace di “riposo”.

Se Dio ha saputo fermarsi e contemplare la meraviglia del suo operare, a maggior ragione, dice Genesi, l’uomo è uomo non solo perché lavora, ma soprattutto perché sa gioire del lavoro compiuto, perché sa fermarsi, riposare e ringraziare, perché sa fare festa. L’uomo è stato creato ad immagine di Dio non solo perché con il suo lavoro può fare tante cose, può creare tante opportunità, può progettare e lavorare: è ad immagine di Dio perché è fatto per la gioia, per il “riposo”, per la beatitudine.

Un rabbino moderno, Isidor Grunfeld, ha scritto in proposito:

«L'attività creativa di Dio fu seguita dallo Shabbath, allorché deliberatamente Egli cessò la Sua opera creatrice. Questo fatto, più di ogni altra cosa, ci presenta Dio come libero creatore. Non è quindi il lavoro, ma la cessazione del lavoro che Dio scelse come segno della Sua libera creazione del mondo. L'ebreo, cessando il suo lavoro ogni Shabbath rende testimonianza della potenza creatrice di Dio. E, inoltre, rende manifesta la vera grandezza dell'uomo. Le stelle e i pianeti, una volta iniziato il loro moto rotatorio che durerà in eterno, continuano a girare ciecamente, senza interruzione, mossi dalla legge naturale di causa ed effetto. L'uomo invece può, con un atto di fede, porre un limite al suo lavoro, affinché non degeneri in una fatica senza senso. Osservando lo Shabbath, l'ebreo diviene, come dissero i nostri Saggi, simile a Dio stesso. Similmente a Dio, egli è padrone del suo lavoro, non schiavo di esso».

Per spiegare questa grandezza dell’uomo che può arrestarsi dal lavorare, faccio sempre l’esempio di mia madre, che era una di quelle donne che non stavano mai ferme. Aveva quattro figli, ogni giorno doveva fare dieci telefonate per augurare buon compleanno o anniversario a parenti ed amici, poi altre per chiedere notizie di persone che erano malate o in difficoltà, preparava i dolci per l’oratorio, faceva la catechista, ci seguiva nei compiti, si preoccupava di riparare gli oggetti che si rompevano perché ricomprarli significava sprecare dei soldi. Alla fine della giornata iniziava a recriminare con noi che continuavamo a giocare: “Ecco, voi state sempre lì a giocare, mentre io ho fatto tante cose!”, e noi puntualmente rispondevamo: “Mamma, ma chi te lo ha chiesto?”. Non è vero che non avrebbe potuto fermarsi un’ora o leggere un libro o pregare o riposarsi. Il problema è che spesso è più facile continuare a fare sempre nuove cose piuttosto  che sapersi riposare, che saper godere, che sapersi fermare per gioire del lavoro fatto.

Vale la pena ricordare loro anche che, data l’importanza del sabato per la mentalità ebraica, dovette avvenire una rivoluzione perché il giorno di festa venisse traslato all domenica, il “primo giorno dopo il sabato”. Ci fu qualcosa come uno sconvolgimento nella mente degli apostoli, tutti di origine ebraica. Essi non avrebbero mai iniziato a celebrare la festa nel giorno di domenica se non fosse successo qualcosa di decisivo in quel giorno. Potremmo dire che l’esistenza della domenica è una prova della resurrezione di Gesù: questo evento è stato così decisivo che la Chiesa primitiva ha sentito il bisogno di inventare un nuovo giorno di riposo, anche se modellato sull’antico sabato, un nuovo giorno che ne portasse a compimento il significato. Il termine giorno del Signore, Dies Domini, domenica, è antichissimo, lo si ritrova già nell’Apocalisse, perché è nel “giorno del Signore” che Giovanni riceve le rivelazioni che scriverà nel suo libro (Ap 1,10): insomma è già nel Nuovo Testamento che inizia la celebrazione della domenica.

Possiamo ora mostrare il significato spirituale e l’attualità di questa riflessione storica. Ci aiuterà a completare quanto abbiamo già detto e a capire meglio come mai ci capita di entrare a messa stanchi e di uscirne riposati e incoraggiati a vivere bene la nostra vita.

Il testo di Genesi 1 ci insegna che l’uomo è stato creato per diventare amico di Dio. Tutto ciò che esiste nel mondo non basta all’uomo se egli non trova Dio. E trovare Dio per l’uomo non è in antitesi con il godere delle cose e delle persone. Anzi l’uomo capisce il vero valore delle cose e delle persone proprio quando si accorge che esse sono anche dei segni, sono realtà che rimandano al Dio che le ha create e salvate. Io amo mia moglie, io amo mio figlio, ma riesco ad amarlo veramente e con libertà quando comprendo quanto è grande Dio che me li ha donati e quanto essi sono preziosi agli occhi di Dio che ne ha voluto l’esistenza e che è morto per la loro salvezza.

Con la domenica la Chiesa non afferma una cosa qualsiasi. Essa dichiara, invece, lo scopo di tutto l’universo! Il fine di tutta la creazione non è semplicemente l’esistenza dell’uomo, ma che l’uomo diventi amico di Dio. Che l’uomo scopra la vicinanza di Dio e la bellezza della vita stessa da Lui voluta. Perché l’uomo, se non scopre di essere lui stesso un dono, non riesce a capire la propria vita. Cristo, venendo a visitarci nella celebrazione, ci conferma nella bontà della nostra vita, nell’importanza del nostro esserci e della nostra vocazione.

Ciò di cui ha bisogno ogni uomo non è semplicemente di lavorare, di mangiare, di avere una famiglia, ma di capire che tutto questo è abbracciato dalla provvidenza di Dio per vivere pieno di gratitudine la vita. L’uomo ha bisogno di contemplare la bellezza della vita, di affidarla a Dio, di ringraziarlo e di trovare in Lui il nutrimento necessario per ripartire per la propria missione. Questo è ciò che avviene nel giorno del Signore, questo è ciò che avviene nell’Eucarestia.

L’uomo è uomo quando si rivolge a Dio e scopre il misterioso legame fra tutto ciò che esiste ed il Creatore, come San Francesco nel Cantico delle creature.

G.K. Chesterton, uno scrittore inglese convertitosi al cattolicesimo, ha detto con un’espressione enorme: «La misura di ogni felicità è la riconoscenza».

Invitate i genitori ad impararla a memoria. «La misura di ogni felicità è la riconoscenza». La felicità non è qualcosa che semplicemente esiste, che c’è o non c’è. La felicità esiste di più o di meno ed ha una misura: la gratitudine. Esiste in proporzione a quanto io mi accorgo che tutto è un dono.  Esiste in proporzione a quanto dico “grazie”. Ci sono persone che hanno tutto, ma non sono felici perché non comprendono che ciò che hanno è un dono. Ci sono persone che hanno pochissimo, ma poiché si accorgono che è un dono, sanno godere di quella cosa.

Il giorno di festa, con la liturgia che ne è il centro, non ci fa dimenticare il lavoro, la fatica, il bisogno del cibo e tutte le altre cose. Ce le fa riscoprire come un dono. Dio ce le ha donate durante la settimana e Dio, con la sua provvidenza, ci guiderà ancora nella settimana che inizia. Per questo la festa ci rasserena: perché ci fa riscoprire che la fatica che stiamo vivendo è secondo la volontà di Dio. Per questo la festa ci da gioia: perché ci fa riscoprire che tutto è un dono. Perché ci fa riscoprire che viviamo in presenza di Dio e sotto il suo sguardo provvidente che tutto dona.

I rabbini ebrei ricordano che il sabato è talmente importante che senza di esso Israele non solo non sarebbe felice, ma avrebbe cessato di esistere già da tempo, sarebbe scomparso come popolo divenendo uguale ai popoli che non conoscono Dio. Così ha scritto un rabbino:   

 «Non è tanto Israele che ha custodito il sabato, ma è il sabato che ha custodito Israele» (Achad Ha-am (=”uno del popolo”, pseudonimo di Asher Hirsch Ginsberg, 1856-1927).

E un altro maestro ha detto: «Senza il sabato – che è la quintessenza di tutta la Torah – non possono esistere né l’ebraismo né gli ebrei; la storia ebraica non conosce alcun esempio che mostri che gli ebrei abbiano potuto sopravvivere senza il sabato» (Y. Vainstein).

La festa sembra una cosa meno importante del lavoro, mentre solo la festa e la ritrovata comunione con Dio danno senso e forza al lavoro.

Un cristiano, Jean Vanier, fondatore dell’Arca e di Fede e Luce - due realtà che desiderano creare comunità nelle quali le persone disabili possano trovare una casa -, ha scritto, approfondendo ancora:

«Le società diventate ricche hanno perso il senso della festa perdendo il senso della tradizione. La festa si ricollega ad una tradizione familiare e religiosa. Non appena la festa si allontana dalla tradizione tende a divenire artificiale e occorrono, per attivarla, degli stimolanti come l’alcool. Non è più festa. La nostra epoca ha il senso del “party”, cioè dell’incontro in cui si beve e si mangia; si organizzano dei balli, ma è spesso una questione di coppia e a volte addirittura una faccenda molto individuale. La nostra epoca ama lo spettacolo, il teatro, il cinema, la televisione, ma ha perso il senso della festa. Molto spesso oggi abbiamo la gioia senza Dio o Dio senza la gioia. La festa, al contrario, è la gioia con Dio».

Solo dove c’è la presenza di Dio che ci conferma tutti nel fatto che vivere sia una benedizione ritroviamo il gusto profondo delle cose.

3/ Perché i sacramenti? L’annuncio che Dio è vicino e che noi abbiamo bisogno di segni

Ma qual è la novità del ringraziamento cristiano? Perché è proprio il sacramento dell’eucarestia domenicale che ci fa vivere l’amicizia con Dio e ci sostiene nel nostro cammino?

La risposta è semplice e bella. Perché l’eucarestia prolunga l’incarnazione. Questa è la novità cristiana. Nell’incarnazione Dio non ci ha mandato un libro da leggere. Dio ha voluto esserci vicino, facendosi uomo. E questa è la novità della liturgia cristiana: Dio non ci ha semplicemente consegnato un rito, bensì è lui che viene in mezzo a noi nell’eucarestia perché lo possiamo incontrare. Nella messa ci da il suo corpo e il suo sangue come lo dette nell’ultima cena ai dodici.

Ricordo un’omelia di un vescovo che celebrava il 25° di sacerdozio di un mio amico. Nell’omelia disse qualcosa che all’inizio non capivo: “Essere cristiani non vuol dire annunciare che Gesù è morto e risorto”. E proseguì: “Immaginate un ragazzo che sia pazzamente innamorato di una ragazza e lei è viva, ma vive negli USA. Lei è viva, ma non c’è modo di fare la trasvolata e mai lui la potrà accarezzare o baciare o abbracciare. Ebbene quel ragazzo non può essere felice”. Cominciai a capire. “Essere cristiani non vuol dire solo annunziare che Gesù è vivo, ma annunziare che Gesù è vicino, che Gesù non è in un cielo irraggiungibile, ma che può venire vicino a voi. Gesù viene in mezzo a noi nel sacramento dell’eucarestia. Per questo è così importante celebrare i 25 anni di un prete”.

La messa annunzia che Gesù è vicino e che chi mangia il suo corpo si siede alla sua stessa mensa. Non è il prete a darci il suo corpo, ma è Gesù stesso che, nella persona del prete, ci dona se stesso.

Ecco cosa ci dona la liturgia. Ed è di questo che noi abbiamo bisogno. Non di sentir parlare di Dio, ma che lui venga veramente nella nostra vita, nella nostra storia familiare, nella fatica del nostro lavoro o del nostro studio.

E la seconda cosa che è importantissimo sottolineare è che Gesù viene in mezzo a noi tramite i segni della liturgia. I segni della liturgia non esistono perché così Dio sia accontentato. È lui piuttosto che si “umilia” ancora una volta, come nell’incarnazione, perché siamo noi ad avere bisogno dei segni. Noi siamo un popolo e siamo corporei e non potremmo avere esperienza di Dio se non tramite segni, canti, gesti, acqua, pane, vino e così via. Nella liturgia attraverso i segni noi comunichiamo con Dio. La liturgia è divina perché Gesù è presente in essa ed è insieme estremamente umana perché Gesù è presente nei segni.

È proprio dai segni che è nutrita la nostra vita. L’uomo non potrebbe fare a mano dei segni. Chi non vive e non capisce i segni si sta smarrendo come uomo. Ricordo una volta una donna che venne da me piangendo e mi disse: “Sono sicuro che mio marito mi tradisce perché si è comprato una camicia nuova”. Io cercai di tranquillizzarla dicendole che il suo ragionamento mi sembrava una costruzione mentale. Ed invece aveva ragione lei. Era una donna così capace di leggere i segni della vita che da un semplice gesto dell’uomo che lei amava aveva intuito il dramma.

Nella nostra vita la cura dei segni è decisiva. Dai segni capiamo come stanno la moglie o il figlio, intuiamo cosa c’è che non va e quando le cose sono a posto. Celebriamo l’amore con segni e nei segni ci scambiamo l’amore. Certo il cuore è più importante dei segni. Ma solo la follia del ’68 ha fatto credere per un certo lasso di tempo che qualcosa può essere vero anche senza segni.

È vero il contrario: senza i segni il cuore si inaridisce. Certo un bacio non è l’amore, ma senza baci l’amore diviene sterile. Certo l’amore non è semplicemente ricordarsi sempre dei gusti dell’altro, non è semplicemente ricordarsi gli anniversari, non è semplicemente fare attenzione agli sguardi e ai gesti, ma è tramite questi gesti che io riesco a crescere in un amore dove ci si aiuta e ci si sostiene.

Così il rito non è la fede, ma senza rito la fede si inaridisce, viene dimenticata e smette di prendermi il cuore. Sono i sacramenti, è la confessione, è la celebrazione liturgica che sostengono il mio amore per Dio e per i fratelli e lo nutrono continuamente, rinnovandolo.

Un liturgista disse una volta una frase bellissima: “La  liturgia si fa con i piedi”, intendendo che la liturgia non è un concetto, ma si vive con il corpo. Con il suono delle campane, con il camminare di una processione, con il profumo dell’incenso, con la freschezza dell’acqua del battesimo, con il gesto di sedersi per ascoltare la Parola o di inginocchiarsi per la consacrazione, noi ci incontriamo con Dio. Mentre trascurandoli ci allontaniamo da Lui che è la nostra festa.

Nella messa domenicale noi incontriamo Cristo e lo incontriamo veramente. Lo incontriamo tramite i segni che ce ne fanno fare esperienza.

4/ Dire almeno una parola sulle questioni che tutti discutono

Credo sia opportuno dire ai genitori qualche parola anche su alcune questioni concrete. Innanzitutto sui divorziati risposati. Nell’incontro comune mi limiterei a proporre con grande affetto una grande accoglienza ed una disponibilità di cuore, comunicando un grande senso di rispetto per tutti: papa Francesco ci deve essere maestro ed i suoi gesti, i suoi sorrisi, i suoi abbracci, debbono essere per tutti noi uno stimolo.

Inviterei invece ogni persona che ne avesse il desiderio o che volesse capire meglio il proprio percorso a venire in un altro momento a parlare personalmente con i sacerdoti. Anzi eviterei di proposito una riflessione sul caso singolo, presentato da qualche genitore che alzasse la mano. In primo luogo per rispetto della privacy, poi perché le cose serie hanno bisogno di tempo per essere dette e comprese, ad esempio se esiste un caso di nullità. Ed, infine, perché si rischierebbe di scatenare un putiferio su di una questione che riguarda una singola situazione, mentre nella riunione bisogna avere a cuore il bene di tutti. Direi subito a chi avesse presentato pubblicamente la propria situazione alzando la mano: “Grazie di averci raccontato qualcosa della sua vita, la ringrazio di questo coraggio e di questa franchezza. Venga in settimana, una sera che le sarà possibile, ed io sarò molto contento di ascoltarla per poterla aiutare”.

Ciò che direi a tutti è questo: ricorderei loro innanzitutto che i divorziati risposati e i conviventi non solo non sono scomunicati, ma anzi sono tenuti alla liturgia domenicale. Se non possono ricevere la Comunione, sono aiutati dalla liturgia nella loro fede, ma anche sono aiutati dalla liturgia a dare testimonianza ai figli. La liturgia, infatti, non si esaurisce solo nel “fare la Comunione”. Ricorderei ancora una volta che sono i migliori “genitori” che i figli possano avere, anche perché non ne hanno altri! I figli amano i loro genitori – e debbono amarli – perché sono i loro genitori, anche se eventuali gesti personali fossero stati inopportuni o addirittura sbagliati.

Ascoltare la Parola del Signore e sforzarsi di viverla, domandare perdono, pregare con la preghiera dei fedeli, professare la fede nel Credo insieme ai fratelli, inginocchiarsi alla Consacrazione, pregare con il Padre nostro, scambiare il segno della pace, cantare le lodi del Signore sono momenti di vera comunione con Dio e con la Chiesa tutta.

Mi vengono sempre in mente due incontri - ma ognuno può raccontare, con garbo, le sue esperienze. Il primo, quello di una persona divorziata risposata che mi diceva: “Padre, io so di non poter fare la comunione, ma guai se lei mi impedisce di partecipare a tutte le altre parti della liturgia. La messa è come una cena dove ci sono tantissime “portate” – così mi disse. Io non mangio l’eucarestia, ma “mangio” la Parola di Dio, l’omelia, la preghiera dei fedeli, il canto, ecc. Certo è un dolore non poter giungere fino a condividere l’eucarestia, ma guai se non condividessi tutte le altre “portate”.

Ricordo anche una donna che accompagnava la figlia per la prima comunione e mi domandava come avrebbe potuto mostrare alla figlia quanto importante era per lei, mamma, la comunione della sua bambina. Io le risposi: “Prometta alla bambina che verrete insieme anche l’anno prossimo per la comunione e mentre la piccola farà la comunione lei farà la comunione di desiderio, dirà cioè a Gesù il suo desiderio di essere in comunione con lui. Questo educherà sua figlia più che se lei facesse la comunione il giorno della sua prima comunione e poi non venisse più a celebrare la messa”. Mi sorrise facendomi capire che sapeva bene che avevo ragione.

Ma, poi, si faccia in modo che i catechisti invitino i genitori che non faranno la comunione a compiere quei gesti che ne valorizzano la loro testimonianza di credenti e che non sono loro preclusi, come proporre preghiere dei fedeli o portare in processione i doni all’altare nell’offertorio: si faccia tutto ciò che è possibile, insomma, per far sentire loro quanto il Signore li ami e quanto la Chiesa riconosca la bellezza della loro partecipazione all’azione liturgica, pur nella consapevolezza del dolore di non potersi accostare a ricevere il pane eucaristico.

Importantissimo è che si invitino i genitori separati in lite a saper vivere, per amore dei figli, con quella delicatezza e quel rispetto che permettano ad entrambi di stare vicino ai bambini. Se anche ci fossero motivi molto gravi di disaccordo, è bene che si sappiano vivere momenti di “tregua” almeno la domenica, almeno nel giorno delle prima comunione, per testimoniare al bambino un amore che sa mettere da parte le giuste rivendicazioni al cospetto di un bene più grande come quello della cura filiale. La preghiera comune per il figlio potrà giovare anche a considerare da un punto di vista nuovo il dolore ricevuto dal coniuge.

5/ La messa è per tutti, anzi è soprattutto per i piccoli

Vi invito anche a ricordare che la celebrazione domenicale è un luogo importantissimo nel quale la chiesa accompagna le famiglie che hanno figli con disabilità. Quell’appuntamento domenicale fa incontrare tutti i genitori insieme - ognuno con la propria fatica e la bellezza della propria vocazione - e fa sì che essi si conoscano e che imparino a condividere la crescita dei figli.

La bellezza del rito, il canto, i gesti, aiutano tutti, anche i bambini con disabilità, a scoprire quanto la vita di ognuno sia preziosa non solo agli occhi di Dio, ma anche per i fratelli.

L’assemblea liturgica della Messa dell’Iniziazione cristiana non solo si abituerà a qualche parola o gesto talvolta imprevisti, ma ancor più ad apprezzare proprio quella presenza che ci chiede ancor più di essere comunità che cammina insieme.

Sono proprio i piccoli ad obbligarci ad uno sguardo nuovo: ci invitano a guardare la vita con gli occhi di Cristo, dove non conta l'efficienza, come nella nostra società nevrotica, dove conta invece camminare insieme. Dove ognuno è unico e portatore di un dono.

6/ L’eucarestia come cuore della vita cristiana

Prima di salutarli e dare l’appuntamento all’incontro successivo concluderei facendo una sintesi propositiva. Direi loro che per esser cristiani, di per sé, non è necessario far parte di un gruppo parrocchiale, non è necessario far parte del consiglio pastorale o di qualche comitato, anche se tutto ciò è bello e prezioso. Per essere cristiani bastano due cose: la messa domenicale, che è il nutrimento che Cristo ha pensato per ogni cristiano, e la vita cristiana in famiglia, nel lavoro e nella carità.

Perché la messa è talmente importante da bastare per vivere poi da cristiani? Con tutto ciò che si è detto in questa riunione la risposta è ormai chiara. La messa è così importante perché in essa è concentrata la presenza stessa di Cristo che si dona a noi come agli apostoli nell’ultima cena.

In fondo l’anno liturgico, con le sue feste, con le sue letture dell’Antico e del Nuovo Testamento, con i suoi segni, con i suoi canti, è forse il capolavoro più grande che la Chiesa abbia costruito e donato al mondo. Più grande delle opere di Michelangelo o di Caravaggio, più grande delle cattedrali medioevali o barocche, più grandi di Dante e di Manzoni, tutti grandissimi. La liturgia è stata fatta dalla Chiesa tutta intera perché ci permette di accogliere Cristo, perché permette a Lui di farci visita.

La liturgia è una cosa così grande che tutti i popoli e tutte le epoche hanno contribuito a renderla ciò che è nella sua bellezza. Alcune sue parole vengono dall’ebraico, altre dall’aramaico, altre dal greco, altre dal latino, altre dalle lingue moderne. Allo stesso modo le feste dell’anno liturgico vengono alcune dall’oriente, altre dall’occidente, altre da Roma, altre da santi particolari, altre da un papa o da un altro.

L’anno liturgico, quest’opera d’arte preparata per noi dalla Chiesa di ogni tempo e di ogni luogo, permette ad ogni uomo di incontrarsi con tutta la vita di Cristo. Nell’anno liturgico la mia vita, fatta di famiglia, lavori, problemi e gioie, si unisce con tutta la vita di Cristo e con tutta la storia della salvezza.

Concluderei con un esempio che faccio spesso. Una volta stavo parlando con due catechiste. La prima che credeva di proporre una riflessione molto intelligente, disse: “In realtà la catechesi non serve a niente. Lo so bene. Io non ricordo niente di quello che mi hanno insegnato i miei catechisti quando avevo l’età dei bambini di cui sono catechista oggi”. L’altra la guardò e con molta più intelligenza le rispose: “Non è vero. Ti sbagli. Tu nella catechesi hai scoperto la messa. Tu hai imparato l’anno liturgico da bambina.  E chi conosce l’anno liturgico e vi partecipa, in fondo conosce tutto di Cristo. Chi partecipa domenica per domenica all’anno liturgico non solo conosce Cristo, ma ha Cristo vicino a sé”. Aveva ragione.