1/ Le memorie di Adriano. Il tramonto dell’Occidente spiegato attraverso la decadenza romana. Viaggio in un’epoca lontana, guidati dalle lettere di un imperatore ormai vecchio che comincia a «scorgere il profilo della morte». La sua e quella del suo regno, di Laura Cioni 2/ La crisi della religione pagane e di quella misterica nel tardo impero (da Sergio Ribichini)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 09 /12 /2019 - 23:03 pm | Permalink | Homepage
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1/ Le memorie di Adriano. Il tramonto dell’Occidente spiegato attraverso la decadenza romana. Viaggio in un’epoca lontana, guidati dalle lettere di un imperatore ormai vecchio che comincia a «scorgere il profilo della morte». La sua e quella del suo regno, di Laura Cioni

Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Laura Cioni pubblicato il 10/3/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Storia e filosofia e Letteratura ed, in particolare, Storia greca e romana.

Il Centro culturale Gli scritti (9/12/2019)

I nostri maestri di storia ci hanno insegnato che l’Europa è nata dall’incontro di tre grandi culture: quella greco-romana, quella giudaico-cristiana e quella germanica. All’interno di vicende millenarie due cesure, la Riforma e la Rivoluzione francese. Oggi il progredire della ricerca sulla tarda antichità porta molte e autorevoli voci a paragonare il nostro tempo a quello dei secoli della decadenza romana.

Nel magistrale romanzo Le memorie di Adriano, Marguerite Yourcenar descrive dall’interno l’epoca del secondo secolo dopo Cristo, che negli splendori della sua raffinatezza già ospita il presentimento dell’ombra. Se il lettore si lascia accompagnare dalla mano della scrittrice, può sorprendere in un affresco di civiltà così lontano punti di convergenza con il nostro modo di vivere. Si potrà obiettare che non può che essere così: la Yourcenar ha letto Adriano e il suo tempo con gli occhi del Novecento, proiettando sulla figura dell’imperatore le problematiche che vedeva attorno a sé. Sia pure, in parte però.

Il romanzo, pubblicato nel 1951, è frutto di una passione precoce, oltre che di una ricerca condotta con acribia dagli anni Venti, da quando cioè l’autrice aveva letto in una pagina di Flaubert una frase per lei indimenticabile: «Quando gli dei non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo».

Da allora la coltissima scrittrice avrebbe cercato di definire e di descrivere quest’uomo solo, eppure in relazione con tutto. Distrutta la prima stesura del suo saggio, poi anche la seconda del 1934, dopo accurate indagini riprende e sospende più volte il progetto fino al 1948, quando, ormai residente negli Stati Uniti, ritrova alcuni vecchi appunti in una valigia che le è stata mandata dall’Europa. Da allora si dedica al suo romanzo, convinta di essere ormai matura per quella che definisce «la presa di possesso d’un mondo interiore».

Le lettere a Marco Aurelio
Le memorie di Adriano sono consegnate a una serie di lettere inviate dall’imperatore, giunto al declino della sua salute e della sua vita, al giovane Marco Aurelio, destinato a succedergli dopo Antonino. La sua consapevolezza è resa acuta dalla conoscenza degli uomini e di se stesso che la sua posizione gli ha consentito nel corso di una vita coronata da successi militari e politici.

Ma già il memento mori incalzato dal venir meno delle forze si riverbera sulla sottile analisi alla quale egli sottopone i suoi giorni: «Come il viaggiatore che naviga tra le isole dell’Arcipelago vede levarsi a sera i vapori luminosi, e scopre a poco a poco la linea della costa, così io comincio a scorgere il profilo della mia morte». È l’unica frase rimasta dalle prime stesure giovanili ed è anche un punto di vista con cui leggere l’intero romanzo.

La rinuncia ai piaceri della caccia, del nuoto, della corsa, la diminuzione del gusto del cibo, del vino, dell’eros non sono così dolorose per lui quanto la privazione del sonno, quella sospensione dell’attività in cui l’uomo si affida più o meno consapevolmente al flusso delle cose. Queste prime riflessioni di Adriano hanno singolari punti di contatto con taluni tratti diffusi della qualità della vita di oggi nelle nostre terre: la comodità, la cura del corpo, non tanto l’abbondanza quanto la raffinatezza dei piaceri, l’ansia che impedisce il riposo e infine il senso della fine, incombente anche se tenuto a debita distanza.

La vita militare lo aveva salvato dalla corruzione di Roma e della corte imperiale. La sua carriera era stata carica di successi, in guerra e in pace. La sua vita familiare era invece stata infelice: non amava sua moglie e passava da una breve relazione all’altra, dapprima con le belle donne che incrociava nelle città in cui risiedeva, poi con giovani dalle efebiche sembianze, che gli donavano nuove sensazioni.

Un amore, quello per Antinoo, è il fulcro, quasi l’emblema della fervida attività di Adriano in tutte le province dell’impero cui sovrintendeva dopo la morte di Traiano. Ma il ragazzo muore e non sono utili a sanare il lutto né gli interessi estetici, né i misteri eleusini.

La singolare apertura di Adriano nel cogliere la dote che ogni popolo conquistato portava a Roma, che lo spinge a restaurare le antiche istituzioni perdute, non gli serve nel fugace incontro con il vescovo di Atene, Quadrato, che gli parla di Gesù. Si stanca presto di quella dottrina che esalta la fraternità, ma che a suo avviso nasconde il pericolo dell’intransigenza. Torna agli spettacoli e ai loro dèi.

Ecco un nuovo punto in comune: una grande cultura, capace di integrare i costumi e le forme politiche, le costruzioni artistiche, le lingue e gli dèi di altri popoli unificati in un territorio ampio sotto un’unica legge, sfiora appena la novità del cristianesimo. Una enorme ricchezza di oppressione, certo, ma anche di unificazione non è in grado di intravvedere sotto le umili spoglie di una testimonianza la potenza del Dio ignoto.

L’Europa non è molto lontana da questo fraintendimento; essa non ha avuto solo un fugace incontro con l’annuncio di Cristo, espresso nella lingua rudimentale dei Vangeli. Essa è stata costruita in gran parte dall’opera di persone che avevano fondato sull’annuncio ogni loro operosità. Noi siamo nani sulle spalle di giganti. Ma vediamo più lontano di loro? Si può dire che poggiamo sulle stesse radici e che la loro linfa ci nutre? Non sono esse sepolte nelle biblioteche o nelle suggestive cattedrali che hanno coperto il suolo europeo con il loro bianco mantello, per usare l’espressione di Rodolfo il Glabro?

L’arte cristiana, il pensiero che ha guidato la mano di teologi, di mistici, di poeti trova consenso e informa di sé la cultura europea? Non sono essi più che combattuti, accantonati come cose di cui non c’è bisogno, accostati al massimo con blanda curiosità e poi messi da parte? Le radici sembrano ricoperte da cumuli di detriti, in cui brilla l’oro di tutto ciò che sotto l’influsso del cristianesimo si è costruito in Europa, dalla resa dei campi agli ospedali alle università. Ma l’oro è pur sempre inerte, non genera nuova vita; tanto meno la sabbia in cui si sono trasformate le pietre miliari di un modo di vivere la famiglia e la solidarietà.

La conquista della Giudea costò all’imperatore Adriano quattro anni di guerra logorante contro un popolo che non voleva rassegnarsi a far entrare il suo Dio nell’Olimpo delle innumerevoli divinità dell’impero. La sua fiducia nell’epoca d’oro che aveva saputo costruire s’incrina: «L’incivilimento dei costumi, il progresso delle idee durante l’ultimo secolo è opera d’una minoranza esigua di spiriti illuminati; la massa resta ignara, feroce quando può, sempre egoista e gretta, e si può scommettere che tale resterà sempre».

Prepararsi alla fine
Si prepara a morire. Dopo aver inferto un’altra sanguinosa ferita al già vacillante Senato, sceglie Antonino come proprio successore. Combatte la tentazione del suicidio con l’obbedienza alla legge romana che lo prevedeva solo per un capo militare vinto. Il vuoto della morte di Antinoo non è colmato né da altri amori, né dal culto promosso in suo onore: «La nostra epoca è avida di dèi; preferisce i più ardenti, i più tristi, quelli che mescolano al vino della vita un miele amaro d’oltretomba».

Gli resta l’ultima dignità, quella di cercare di entrare nella morte a occhi aperti. E anche su questa fine ci sarebbe da riflettere. Perché la morte assedia i confini europei e si infiltra nel cuore delle sue città, non di rado provocata da uomini in guerra con le proprie origini. Il fascino del male sembra prevalere sulla gratitudine per tutto ciò che si è ricevuto. I fatti non scuotono dal torpore, se non per brevi istanti. Aleggia una paura generica che assomiglia a un lamento. L’illusione che certi episodi non si ripetano viene ripetuta in ogni discorso ufficiale. Ma tutti sanno già che non sarà così. Dovremmo aprire gli occhi, non per entrare nella morte, non ancora, ma per vivere la nostra giornata.

2/ La crisi della religione pagane e di quella misterica nel tardo impero (da Sergio Ribichini)

Da Sergio Ribichini, Il rito segreto. Antichi culti misterici (disponibile on-line al link https://www.academia.edu/4405647/Culti_misterici_nel_mondo_antico?auto=download, previa registrazione)

Un’iscrizione greca rinvenuta a Roma e risalente al III-IV sec. d.C. segnala il sepolcro di un fanciullo che i suoi genitori avevano già fatto “sacerdote” di tutti gli dèi:

«In loro onore – dice di sé il defunto nell’epigrafe – sempre ho celebrato solennemente i misteri. Ma ora ho lasciato l’augusta e dolce luce del sole; perciò voi, iniziati o compagni d’ogni sorta di vita, dimenticate i sacri misteri, uno dopo l’altro; poiché nessuno può spezzare la trama del destino. E io, l’augusto Antonio, vissi (soltanto) sette anni e dodici giorni».

Si legge in queste righe la delusione dei genitori, che consacrando il figlio a vari culti misterici, non s’aspettavano certo di perderlo così giovane.

Sul piano storico, come si è visto, si possono distinguere i culti misterici tradizionali, di Eleusi e di Samotracia, da quelli che in origine non erano misterici ma che lo divennero in particolari contesti, come le celebrazioni per Dioniso e i culti stranieri già presenti nella Grecia classica, in onore della frigia Cibele o degli egiziani Iside e Osiride. Un terzo tipo di misteri, infine, è rappresentato da quei culti che, soprattutto nell’impero romano, vennero propriamente recepiti con connotati misterici: è il caso, specialmente, del dio iranico Mitra.

[…]

EMPIO CHI PARLA!

I misteri, come dice per quelli di Eleusi l’Inno a Demetra, erano riti che non era «consentito profanare né indagare né rivelare, poiché la reverenza per gli dèi trattiene la voce». Il riserbo serviva anzitutto a rendere incomunicabile l’esperienza, cioè a renderla necessaria individualmente, non ripetibile altrove né in altri momenti dell’anno; fin quando poi Atene mantenne il controllo sui misteri eleusini, esso era parimenti giustificato dal valore “politico” di quei riti, quale meccanismo per rinsaldare l’unità dello Stato.

Per questo ad Atene chi infrangeva la legge si macchiava del reato di “empietà” ed era punibile con la pena capitale e la confisca dei beni. Dei vari processi celebrati in età classica per questa colpa, il più famoso vide condannato a morte in contumacia e maledetto ritualmente dai sacerdoti il generale Alcibiade, accusato nel 415 a.C. di aver ripetuto i misteri in casa propria, per burla e in stato di ebbrezza. Una condanna a morte colpì anche il poeta lirico Diagora di Melo (metà del V sec. a.C.), che aveva rivelato i misteri di Samotracia e irriso quelli di Eleusi.

Dall’accusa di empietà si difesero invece con successo l’oratore Andocide e il poeta tragico Eschilo. Il segreto veniva comunque generalmente rispettato e tale rimase anche in epoche successive, per i misteri di Eleusi e per tutti gli altri, benché lo fosse più per deferenza verso le divinità che per il timore della condanna. A violarlo polemicamente, con l’esplicita intenzione di riversare sul culto misterico l’idea di vergognosa empietà, furono gli scrittori cristiani, che oggi costituiscono il riscontro più importante per l’archeologia, su questi riti segreti.