Basilica di S. Lorenzo fuori le mura in Roma: il diacono Lorenzo ed il vescovo Cipriano di Cartagine, al tempo delle persecuzioni di Decio e Valeriano, di Andrea Lonardo e Marco Valenti

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 10 /10 /2009 - 15:03 pm | Permalink | Homepage
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Basilica di S. Lorenzo fuori le mura in Roma: il diacono Lorenzo ed il vescovo Cipriano di Cartagine, al tempo delle persecuzioni di Decio e Valeriano.
III incontro del II anno del corso sulla storia della chiesa di Roma,
di Andrea Lonardo e Marco Valenti


Mettiamo a disposizione la trascrizione dell’ incontro, dedicato a san Lorenzo ed a san Cipriano, del corso di formazione per catechisti sulla storia della chiesa proposto dall’Ufficio catechistico di Roma, tenutosi il sabato 13/12/2008, presso la basilica di San Lorenzo fuori le mura. Il calendario dei successivi incontri del corso è on-line sul sito dell’Ufficio catechistico della diocesi di Roma www.ucroma.it. Il testo è stato sbobinato dalla viva voce dell’autore e conserva uno stile informale. Alla relazione sono stati aggiunti alcuni passaggi chiarificatori.
Le trascrizioni degli altri incontri, dedicati il I anno al Nuovo Testamento (chiese di S. Prisca, di S. Maria in Aracoeli, di S. Marco, di S. Pietro in Vincoli, di S. Clemente, di S. Lorenzo de’ Speziali in Miranda, di S. Prassede, villa dei Quintili e, rispettivamente, Atti degli Apostoli, Lettera di Paolo ai Romani, vangelo di Marco, lettere di Pietro, padri apostolici Clemente ed Ignazio, Lettera agli Ebrei, Apocalisse e Lettere pastorali) ed il II ai padri da Giustino ad Agostino (basiliche di S. Pudenziana, S. Pietro in Montorio, S. Agostino, Battistero di S. Giovanni in Laterano, Musei Vaticani e scavi di Ostia antica e, rispettivamente, a S. Giustino, S. Ireneo, S. Agostino, Costantino e l’iconografia paleocristiana) sono on-line nelle sezioni Nuovi testi del sito www.gliscritti.it e nella sezione Roma e le sue basiliche. Le foto che illustrano l’itinerario descritto in questo testo sono on-line nella Gallery S. Lorenzo fuori le mura.

Il Centro culturale Gli scritti (10/10/2009)

Indice


1/ Introduzione alla storia della basilica di S. Lorenzo fuori le mura, di Marco Valenti

Siamo nella Basilica di S. Lorenzo fuori le Mura, a Roma più conosciuta sicuramente come S. Lorenzo al Verano. Il Verano è il cimitero voluto dall’amministrazione francese a Roma dopo il 1804 e monumentalizzato sotto Gregorio XVI e, soprattutto, Pio IX, ad opera di Virginio Vespignani (che progettò la chiesa interna al cimitero, il quadriportico e la sistemazione del cosiddetto “Pincetto”).

Per tornare alle origini di questa basilica, proviamo a cancellare con la fantasia tutto ciò che ora vediamo, per immaginarci lo stato del luogo ai tempi della sepoltura di S. Lorenzo appena martirizzato.

Nell’anno 2008 è, infatti, caduto il millesettecentocinquantesimo anniversario del martirio di S. Lorenzo e la situazione della zona, da allora, è ovviamente molto cambiata. Nell’anno 258 d.C. avvenne il martirio di questo diacono – siamo nell'anno del martirio di papa Sisto II – ucciso per ordine dell’imperatore Valeriano.

S. Lorenzo, come diacono, era responsabile dei beni della comunità cristiana di Roma. L’imperatore, probabilmente, per aggravare la persecuzione contro i cristiani mise l’occhio su questo patrimonio e decise la sua morte, chiedendo ovviamente la consegna dei soldi che Lorenzo amministrava.

Sulla statua di S. Lorenzo che è alla sinistra del presbiterio, calco della statua in bronzo che è posta sulla colonna all’esterno della basilica, è iscritta nel libro retto dal santo una frase biblica tratta dal Salmo 111,9 che recita secondo la Vulgata: «dispersit dedit pauperibus», cioè «diede largamente ai poveri»: è un’espressione che vuole sintetizzare tutta la vicenda di Lorenzo. Si vedono anche i simboli iconografici, anch’essi riassuntivi: il tesoro, di cui era responsabile a servizio i poveri, e la graticola, lo strumento tradizionale del martirio.

La tradizione romana vuole che Lorenzo sia stato tenuto prigioniero presso l’odierna chiesa di S. Lorenzo in Fonte, in via Urbana, sia stato martirizzato dove sorge ora la chiesa di S. Lorenzo in Panisperna, vicino via Nazionale (anche se questi due luoghi ovviamente sono tutt’altro che certi), e che una nobile donna, di nome Ciriaca, che aveva nella zona del Verano una tomba di famiglia, l’abbia messa a disposizione per la sua sepoltura.

Questo terzo luogo è quello più solidamente attestato: entro una tomba di questo cimitero, che è ora sotto l’altare della basilica, venne sepolto Lorenzo. Insieme a lui vennero sepolti, secondo la tradizione, Ippolito, il centurione che era stato convertito e battezzato da Lorenzo durante la prigionia, ed il prete Giustino che si era preoccupato di seppellirlo dopo il martirio. Il campo di sepoltura era noto come campo di Lucius Verus, da cui deriva l’attuale nome di Verano.

Da qui iniziò il pellegrinaggio ininterrotto al luogo di sepoltura di Lorenzo. Giunto il tempo di Costantino e della sua famosa pace, l’imperatore fece costruire una prima basilica, dedicata al martire, vicino al suo sepolcro. La tomba era già localizzata dove è ora, ma venne, probabilmente, solamente solennizzata da Costantino. Infatti, a differenza del colle Vaticano, l’imperatore non fece costruire una basilica sulla tomba, ma la eresse a lato di essa, alla destra della facciata dell’attuale basilica, più o meno dove è ora la recinzione del cimitero del Verano. Gli scavi archeologici hanno rivelato i resti di questa basilica che era circiforme.

Deve aver pesato il fatto che al tempo di S. Lorenzo la zona cimiteriale era composta anche da catacombe. Qui al cosiddetto “Pincetto” sono attestati cinque piani, cinque livelli di sepoltura. Ma anche la basilica costantiniana si trovò soggetta a problemi di statica.

Fu papa Pelagio II (579-590), predecessore di Gregorio Magno, a far costruire una basilica proprio sopra la tomba di S. Lorenzo. Questa basilica è detta “basilica minore” o “pelagiana”. Il presbiterio dell’attuale basilica riutilizza l’antica basilica pelagiana che aveva un orientamento opposto all’attuale. Si entrava in essa dove è ora la sepoltura di Pio IX, che poi vedremo. Dove inizia oggi il presbiterio c’era invece l’abside che è chiaramente visibile al suolo, ai due lati delle scale che danno accesso allo stesso presbiterio.

Il livello della basilica pelagiana era più in basso dell’attuale; lo si vede chiaramente dalle colonne del presbiterio che scendono più in basso del pavimento della navata. L’arco trionfale della basilica pelagiana è ancora perfettamente conservato e, per vederlo, basta salire sul presbiterio e volgersi indietro. Papa Pelagio aprì, all’altezza dell’abside, delle finestrelle perché fosse possibile vedere la tomba del martire.

La basilica di Pelagio e quella di Costantino furono utilizzate contemporaneamente per alcuni secoli. Al tempo di Carlo Magno, come leggiamo nel Liber pontificalis, erano ancora entrambe in uso. Papa Pelagio aveva fatto traslare nella basilica alcune reliquie di un altro diacono famosissimo, S. Stefano, il primo martire, perché i due diaconi fossero venerati insieme.

Poi la basilica costantiniana scomparve ed allora il papa Onorio III (1216-1227) decise di ampliare quella pelagiana. Per non toccare e manomettere la tomba del santo, invertì l’orientamento della costruzione, fece abbattere l’abside della vecchia basilica ed eresse al suo posto la nuova basilica, mentre la precedente fu trasformata in presbiterio.

Giungiamo al XIX secolo quando Pio IX, che era molto devoto di questa basilica, chiese di essere sepolto qui. Fu per questo risistemata tutta la zona che è in fondo all’attuale presbiterio.

Nel XX secolo la zona di S. Lorenzo vide due successivi bombardamenti alleati. In quello del 19 luglio del 1943 caddero alcune bombe sulla basilica che distrussero il portico e parte della navata. Sulle colonne si vedono ancora i segni lasciati dalle schegge delle bombe.

2/ Le persecuzioni di Decio e Valeriano, di Andrea Lonardo

Veniamo ora al contesto storico nel quale è vissuto S. Lorenzo, per giungere poi alla sua vicenda personale.

Sappiamo dallo storico Eusebio di Cesarea che, verso la fine dell’anno 248, scoppiò una persecuzione contro i cristiani. Nacque non per decisione imperiale, ma da moti spontanei della popolazione locale. Nel 248 era imperatore Filippo l’Arabo, che forse fu il primo imperatore cristiano. La cosa è discussa: Eusebio non si sbilancia, ma dalle sue espressioni alcuni studiosi hanno ipotizzato che Filippo sia stato, ben prima di Costantino, il primo imperatore cristiano. Quello che è certo è che, comunque, ebbe una politica benevola verso il cristianesimo.

Nel giro di un anno, però, le cose si rovesciarono. Decio salì al potere nel 249, dopo Filippo, e subito, nell’autunno, cominciò a perseguitare i cristiani. È certo che fece uccidere subito Fabiano, il papa di allora.

Nella primavera dell’anno successivo, il 250, l’imperatore emise un editto che chiedeva a tutti i cittadini dell’impero di recarsi nei templi delle differenti città – pensiamo in particolare ai diversi capitolia, i templi nei quali si venerava la cosiddetta triade capitolina, cioè Giove, Giunone e Minerva, dèi protettori di Roma – per sacrificare alle divinità. Ogni persona doveva munirsi di un documento rilasciato da funzionari addetti ai templi che certificasse che aveva ottemperato al sacrificio. Questi documenti, fra poco ne leggeremo alcuni, vengono chiamati i libelli di Decio.

La norma non riguardava solo i cristiani. Tutti dovevano recarsi ai templi; l’editto doveva essere applicato in tutto l’impero. La norma era, però, direttamente anti-cristiana, poiché aveva lo scopo di far venire alla luce i cristiani: essi erano, infatti, gli unici che si sarebbero rifiutati di sacrificare agli dèi pagani.

È noto che, dai tempi di Cesare, gli ebrei erano esentati dai pubblici sacrifici, perché l’ebraismo era stato dichiarato religio licita (così sanciva il diritto di allora). Il cristianesimo invece, non possedeva questo status e, per questo, i credenti che avessero voluto conservare la loro fedeltà al vangelo, non recandosi ai sacrifici, si sarebbero trovati sprovvisti dei libelli richiesti da Decio.

Abbiamo già visto negli incontri precedenti che, pur essendo il cristianesimo illegale dai tempi del rescritto di Traiano, le persecuzioni non erano però continue: talvolta ad una violenta persecuzione seguiva poi un periodo di tranquillità.

I diversi imperatori adottarono, infatti, politiche diverse verso i cristiani che progressivamente crescevano di numero e di importanza ed anche le modalità delle persecuzioni furono differenti fra di loro. Prima dell’editto di Decio, come abbiamo appena detto, ci fu una persecuzione popolare, senza l’intervento dello stato. Le persecuzioni precedenti prevedevano, invece, che si potesse condurre al martirio un cristiano se qualcuno lo denunciava alle autorità in forma non anonima. Con Decio, invece, la persecuzione diviene globale. Tutti indistintamente sono obbligati a sacrificare agli dèi e coloro che si rifiutano, cioè i cristiani, sono perseguitati.

Nel 251 Decio, però, morì in battaglia e la sua persecuzione si arrestò. Salì al trono, dopo una serie di traversie, Valeriano. In una prima fase del regno (253-257), come ai tempi di Filippo l’Arabo, sembrò che la pace fosse tornata per i cristiani. Poi improvvisamente, nella primavera o nell’estate del 257, Valeriano iniziò una persecuzione ancora più violenta di quella di Decio.

Questa volta non si richiese di ottenere dei libelli, ma si colpì direttamente la chiesa in quanto tale, con la chiusura delle chiese, la confisca dei cimiteri e dei luoghi di riunione, l’invio in esilio dei vescovi, presbiteri e diaconi.

Si noti bene: questo vuol dire che la comunità cristiana aveva già delle chiese, aveva la proprietà di cimiteri, possedeva dei beni, aveva vescovi e sacerdoti che erano pubblicamente conosciuti. Questo fa capire, come vedremo meglio nel prossimo incontro dedicato a Costantino, come sia falso il mito secondo il quale la chiesa sarebbe divenuta una entità pubblica solo per il favore dell’impero dopo l’editto del 313. La chiesa tende invece, per sua natura, ad essere pubblica ed a strutturarsi pubblicamente e proprio per questo Valeriano poté colpirla.

Nell’anno successivo, il 258, Valeriano emanò nuovi decreti che comportavano l’uccisione immediata di vescovi, presbiteri e diaconi, insieme ai senatori e cavalieri che fossero cristiani, con l’esilio delle matrone e la condanna alle miniere o al lavoro forzato dei cesariani trovati fedeli del vangelo.

L’intento era chiaro: dopo la confisca dei beni avvenuta con il primo editto, qui Valeriano aveva come scopo l’eliminazione della gerarchia ecclesiale e di tutti quei laici di alto rango che erano favorevoli alla chiesa.

A motivo di questo secondo decreto di Valeriano, avvenne così prima il martirio di papa Sisto II (257-258) insieme a 4 diaconi, il 6 agosto del 258, e poi il martirio di san Lorenzo, quattro giorno dopo, il 10 agosto. Il 14 settembre dello stesso anno avverrà anche il martirio di san Cipriano, vescovo di Cartagine. Ovviamente, questi sono solo i nomi più illustri di una persecuzione che fu terribile.

Nel 260, però, l’imperatore Valeriano fu fatto prigioniero in guerra e la persecuzione si arrestò. Si giunse così al suo successore Gallieno che cambiò nuovamente politica religiosa. È attestato, infatti, un suo editto (testimoniato in Egitto nel 262, ma probabilmente precedente) che è noto come “editto di restituzione”.

L’editto stabilisce cioè che le proprietà dei cristiani sottratte da Valeriano ritornino alla chiesa. Il cimitero di Callisto, ad esempio, che era proprietà della chiesa di Roma e che era stato sottratto dall’imperatore quando vi furono trovati Sisto con i quattro diaconi recatisi lì probabilmente per celebrare a favore dei defunti, doveva essere restituito ai cristiani. Lo stesso avvenne per gli altri luoghi – cimiteri, catacombe, chiese, ecc. - che appartenevano ai cristiani al tempo di Valeriano e che egli aveva loro sottratti.

L’editto di Gallieno è di fatto il primo riconoscimento ufficiale della Chiesa nello stato romano. Infatti, se formalmente è solo un ritorno allo statu quo precedente, in realtà rappresenta un profondissimo cambiamento giuridico: se lo stato, infatti, restituiva alla chiesa queste proprietà, questo voleva dire implicitamente che riconosceva il diritto della chiesa di avere luoghi di culto e proprietà. L’esistenza dei cristiani e la loro vita comunitaria e pubblica vennero, in qualche modo, riconosciute così per la prima volta da Gallieno.

3/ La persecuzione di Decio ed i libelli

Vediamo ora i testi che testimoniano degli eventi di quegli anni, poiché sono di grande interesse.

Abbiamo detto che, dopo il tempo relativamente pacifico di Filippo l’Arabo, Decio impose una persecuzione sistematica, imponendo a tutti i cittadini dell’impero di munirsi di libelli che comprovassero l’osservanza dei sacrifici agli dèi. Si sono conservati una quarantina di questi libelli (libellus vuol dire piccolo libro), di questi certificati che attestavano che non si era cristiani, ma “pagani”.

I libelli ritrovati sono scritti su papiro; le copie superstiti provengono non da Roma, ma dall’Egitto, dove il clima secco ha permesso la conservazione di questi documenti che sarebbero altrimenti facilmente scomparsi. Sono testi, quindi, che presentano la situazione geograficamente lontana dell’Egitto imperiale, ma che fanno capire come erano redatti gli analoghi documenti anche a Roma.

Così dice il libellus di Aurelio Sakis e dei suoi due figli (Papiro Michigan, inv. 262):

«Agli ufficiali incaricati dei sacrifici, da Aurelio Sakis, del villaggio di Theoxenis, con i suoi figli Aion ed Heras, residenti temporaneamente in Theadelphia. Siamo sempre stati fedeli nel sacrificare agli dei ed anche ora, alla vostra presenza, in accordo con le disposizioni, abbiamo sacrificato ed offerto libagioni e partecipato al banchetto sacro, e vi preghiamo di certificare questo per noi soprascritti. Possiate voi stare bene.

Noi, Aurelio Serenus ed Aurelio Hermas, vi abbiamo visto sacrificare.

Nel primo anno dell’imperatore Cesare Gaio Messio Quinto Traiano Decio Pio Felice Augusto, Pauni 23
(N.d.R. 17 giugno)»

Così recita, invece, il libellus di Aurelia Bellis e di sua figlia (Papiro Michigan, inv. 263):

«Agli ufficiali incaricati dei sacrifici nel villaggio di Theadelphia, da Aurelia Bellis, figlia di Peteres, e sua figlia Kapinis.
Siamo sempre stati fedeli nel sacrificare agli dei ed anche ora, alla vostra presenza, in accordo con le disposizioni, abbiamo sacrificato ed offerto libagioni e partecipato al banchetto sacro, e vi preghiamo di certificare questo per noi soprascritte. Possiate voi stare bene.

Noi, Aurelio Serenus ed Aurelio Hermas, vi abbiamo visto sacrificare.

Io, Hermas, lo certifico.

Nel primo anno dell’imperatore Cesare Gaio Messio Quinto Traiano Decio Pio Felice Augusto Pauni 27
(N.d.R. cioè 21 giugno)».

Ovviamente chi non era in possesso di questi libelli rischiava la confisca dei beni e l’esilio.

4/ L’epistolario di Cipriano di Cartagine

La persecuzione di Decio colse la chiesa impreparata: alcuni confessarono con coraggio la fede, rifiutando di recarsi nei templi, ma una gran parte, per evitare la persecuzione, preferì sacrificare agli dèi ed ottenere i libelli che garantivano l’incolumità. Questo evidenzia che il cristianesimo era già diventato una religione popolare, molto diffusa, con gradi diversi di convinzione: molti amavano sì il Signore Gesù, ma non con una forza sufficiente da essere disposti a rinunciare ai propri beni ed a partire in esilio.

Possiamo fare un paragone con la fede delle nostre parrocchie odierne: c’è gente convintissima che forse oggi accetterebbe il martirio, ma ci sono altri che, pur battezzati e sposati in chiesa, pur non sentendosi atei, non avrebbero una fede forte, capace di resistere ad una eventuale persecuzione violenta. E, probabilmente, anche qualcuno molto convinto, dinanzi ad una persecuzione, potrebbe non avere lo stesso la forza di resistere.

Sappiamo di questa reazione non dovunque salda di fronte alla persecuzione di Decio dall’epistolario di Cipriano, vescovo di Cartagine, contemporaneo del diacono Lorenzo e degli altri martiri. Fra l’altro, l’epistolario di Cipriano è il primo epistolario cristiano che si sia completamente conservato, dopo quello neotestamentario di Paolo. Sono superstiti circa ottanta lettere fra quelle scritte da Cipriano e quelle da lui ricevute.

Di queste lettere alcune hanno un’origine o una destinazione romana. Ci permettono così di sapere cosa succedeva a Roma e le situazioni che si generarono via via nel corso delle persecuzioni di Decio e Valeriano.

L’importanza dello scambio di lettere nel cristianesimo è già evidente con S. Paolo. Si potrebbe anzi sostenere a ragione che è stato l’apostolo ad inventare il nuovo genere letterario dell’epistola come testo comunitario e non solo come lettera personale, proprio perché le diverse comunità si inviavano messaggi non strettamente personali, bensì che dovevano essere letti da un ampio numero di persone (cfr. su questo Introduzione all’epistolario paolino, di Giancarlo Biguzzi).

Le lettere di Cipriano, al di là del loro contenuto, mostrano anche che il latino aveva ormai preso piede nella comunità cristiana. Prima di Cipriano la maggioranza degli scritti cristiani, compresi quelli provenienti dall’ambiente romano, erano ancora in greco, perché quella era la lingua maggiormente utilizzata nell’impero non solo negli scambi culturali - era anche la lingua del NT e dei primi teologi cristiani – ma anche nella vita quotidiana. Le lettere di Cipriano sono, invece, tutte in latino; egli scrive dall’Africa e scrive in latino.

L’epistolario mostra l’aggravarsi delle persecuzioni, a cominciare da Decio e proseguendo con Valeriano. Vediamo innanzitutto la lettera ottava che è inviata dal clero di Roma alla chiesa di Cartagine.

La lettera evidenzia la differente reazione delle due chiese alla persecuzione ed, indirettamente, critica Cipriano. Il vescovo di Cartagine, infatti, avendo saputo della persecuzione, si era nascosto per guidare la chiesa da un luogo più sicuro. Si tenga presente che, secondo il NT, Gesù aveva affermato di “fuggire nelle campagne” al sopraggiungere della persecuzione, cioè di non cercare il martirio a tutti costi, ma solamente di saperlo accettare. Ciò che il vangelo assolutamente chiedeva era di non rinnegare mai la fede, anche a costo della vita; non chiedeva, però, di buttarsi per primi nelle braccia dei persecutori.

Cipriano si era rifugiato nelle campagne, in una villa privata. La lettera romana scrive allora: «Siamo stati informati dal suddiacono Cremenzio, che ci avete inviato con incarico preciso, che il venerato vescovo Cipriano si è rifugiato in un luogo segreto: voi ne approvate il comportamento, giustificandolo con il fatto che si tratta di persona di rilievo».

La lettera continua: «Ma badate di non dimenticare che infuria la lotta, che Dio permette nel mondo, […] noi siamo i capi della comunità e con la funzione di pastori dobbiamo difendere quel gregge».

La comunità di Roma non condanna Cipriano, ma rende noto che Fabiano, i presbiteri ed i diaconi (e probabilmente anche Lorenzo) non si sono allontanati dalle chiese. Fabiano, il pontefice in carica, era stato anzi catturato ed ucciso, testimoniando con il martirio la fede.

La lettera evidenzia, insomma, una diversità di scelte pastorali dinanzi alla persecuzioni che i romani vogliono porre in evidenza. Si legge così, sempre nella lettera ottava, la citazione del vangelo di Giovanni: «Il mercenario che non è pastore e al quale le pecore non appartengono vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde». Per questo «non abbandoniamo la comunità dei fratelli». È un invito indiretto a Cipriano a non nascondersi, a ritornare a Cartagine, anche a costo di subire il martirio.

5/ I martiri, i confessori ed i lapsi

La lettera ottava racconta, al contempo, ciò che avveniva a Roma: «Alcuni già stavano salendo al Campidoglio per compiere il sacrificio a cui erano forzati: siamo riusciti a trattenerli». Possiamo immaginare la scena dai Fori, sotto il Campidoglio: alcuni cristiani, forse famiglie, padri o madri, forse catechisti o preti, per paura si stavano recando a sacrificare ed altri cercavano di dissuaderli ed invitarli ad avere forza.

Continua la lettera inviata da Roma: «Alcuni sono crollati perché o si trattava di persona in vista o erano stati colti da umano timore». I più ricchi, i senatori o quelli che erano più in alto nelle cariche, non se l’erano sentita di perdere il loro posto ed avevano sacrificato agli dèi pagani. Leggiamo ancora: «È evidente che si sono separati da noi; tuttavia non li abbiamo abbandonati: anzi abbiamo rivolto esortazioni, e tuttora le rivolgiamo, perché facciano penitenza, se mai sono in grado di ricevere il perdono da chi può accordarlo. Vogliamo evitare che diventino peggiori, qualora si vedano da noi trascurati». Il clero si rendeva conto della difficoltà della situazione ed aveva comunque deciso di non abbandonare a se stessi gli apostati, cioè coloro che avevano rinnegato la fede.

Cipriano risponde alla lettera ottava, con l’epistola nona, che è scritta ai presbiteri ed ai diaconi perché il nuovo papa evidentemente non era ancora stato eletto: «È vostra cura darmi esauriente ragguaglio del suo [di Fabiano] transito glorioso» dove per transito glorioso è da intendersi il passaggio al cielo, glorioso a motivo del martirio. E continua: «Ho intensamente gioito al pensiero che una morte parimenti degna di ogni lode ne ha suggellato la perfetta conduzione della vita». Cipriano dichiara qui di essere stato colpito dalla fedeltà della testimonianza di Fabiano, fedele alla sua missione fino alla fine.

Cosa doveva succedere allora in quei giorni, come ci è testimoniato da questo scambio epistolare? A motivo della persecuzione di Decio alcuni cristiani venivano uccisi: questi erano propriamente i martiri.

Altri si rifiutavano di sacrificare agli idoli, ma venivano lo stesso risparmiati dai romani: questi erano i confessores, cioè coloro che avevano “confessato” la fede, anche a rischio della vita, a volte perdendo i loro beni o subendo l’esilio, altre volte invece rilasciati incolumi o, al contrario, dopo essere stati torturati.

C’erano, infine, i lapsi, letteralmente “coloro che erano caduti, cioè quelli che avevano rinnegato la fede ed avevano sacrificato agli idoli. I lapsi erano ulteriormente suddivisi in libellatici (se avevano ottenuto solo il libello, senza compiere atti di culto pagani), sacrificati (se avevano anche compiuto sacrifici agli idoli), turificati (se avevano offerto incenso), traditores (se avevano consegnato le Sacre Scritture).

I forti nella fede erano così i martiri ed i confessori. Nella lettera di Luciano a Celerino, conservatasi sempre nell’epistolario di Cipriano, il primo scrive al secondo – erano entrambi vescovi – esprimendo l’ammirazione per la testimonianza ricevuta: «Hai potuto persino intimorire il gran serpente, precursore dell’anticristo, con quelle espressioni che Dio ti ha ispirato e che io ben conosco. Tu l’hai vinto, come uno che porta amore alla fede e nutre geloso affetto alla disciplina del Cristo». Celerino è così, evidentemente un confessore.

È evidente che Decio cercava ancora di evitare la strage, limitandosi a voler ottenere che i cristiani rinnegassero la fede. In molti casi i magistrati, anche dinanzi a coloro che non rinnegavano il vangelo, erano quindi tolleranti. È noto anche il caso di Origene, che fu imprigionato e torturato nel 250, perché probabilmente, data la sua fama, si sperava di ottenere la sua apostasia per scandalizzare molti. Egli, però, si mantenne fedele, non venne ucciso e fu infine liberato; morì, probabilmente nel 254, in seguito alle ferite riportate nella tortura.

6/ La questione dei lapsi

Quando la persecuzione di Decio terminò, con la morte dell’imperatore, subito emerse il problema dei lapsi che chiesero di essere riammessi nella chiesa.

È ancora Cipriano nel suo scritto De lapsis a farci capire cosa accadeva a Cartagine e, quindi, anche a Roma. Egli scrive: «La pace è stata finalmente restituita alla Chiesa, e con l'aiuto e la protezione di Dio abbiamo riacquistato la nostra tranquillità» (De lapsis, I). Evidentemente Decio era morto e Valeriano non aveva ancora iniziato la sua persecuzione che si sarebbe rivelata ancora più terribile; anzi niente doveva lasciarla presagire. I cristiani vivevano di nuovo apparentemente in pace, senza pericoli imminenti.

Cipriano continua affermando che la persecuzione di Decio non aveva avuto il potere di togliere ai cristiani la libertà di amare l’unico Dio, poiché anche nella prigione i martiri ed i confessori avevano continuato a professare la fede nel Signore Gesù, senza mai rinnegare la fede: «La vostra voce di credenti ha confessato il Cristo, nel quale ha confessato di aver creduto una volta per tutte; le vostre mani sante, che non hanno toccato nulla, se non le opere di Dio, hanno resistito ai sacrifici sacrileghi; la vostra bocca, santificata dai cibi divini, ha rifiutato il contatto degli dèi profani e delle parti lasciate agli idoli, dopo la comunione con il corpo e il sangue del Signore; il vostro capo è rimasto libero da quel velo empio e scellerato con il quale là si coprivano le teste prigioniere dei pagani che sacrificavano; la vostra fronte, pura per il sigillo di Dio, non poté tollerare la corona del diavolo, ma si conservò immacolata per la corona del Signore. Con quale gioia vi accoglie felice nel suo seno la madre Chiesa, di ritorno dal combattimento!» (De lapsis, 2).

Il vescovo continua, però, affermando che c’è un grande dispiacere, quello dei lapsi, c’è «una sola tristezza che rattrista queste celesti corone dei martiri[...]: il nemico violento ha strappato una parte delle nostre viscere, l'ha distrutta e l'ha gettata a terra» (De lapsis, 4). Notate la bellissima espressione: il vescovo chiama i lapsi “le nostre viscere”: esse “ci sono state strappate”. È un’immagine straordinaria dell’unità del corpo di Cristo, della Chiesa. Cipriano utilizza la metafora paolina del corpo, pensata inizialmente per dire l’unità dei diversi carismi, per parlare qui dei peccatori.

«Sono necessarie le lacrime più delle parole, per esprimere il dolore che sta straziando e affliggendo il nostro corpo, per elencare i molteplici lutti che tormentano il nostro popolo, un tempo numeroso» (De lapsis, 4). Afferma cioè che ora si deve piangere perché si era in tanti e molti hanno rinnegato.

«Perché un pastore è maggiormente colpito dalla ferita inferta al suo gregge. Li stringo al mio petto uno per uno, partecipo al peso del loro lutto, del loro dolore» (De lapsis, 4). Cipriano cerca di darsi una motivazione per questa defezione che individua in un rilassamento che, a suo dire, la chiesa aveva vissuto: «Ciascuno si preoccupava di aumentare il patrimonio, nei sacerdoti non c'era più una pietà sincera […] gli uomini ostentavano una barba ben curata, le donne una bellezza artificiosa – cioè il popolo cristiano si lasciava irretire dalla bellezza - il vincolo matrimoniale univa credenti e gentili - cioè chi era cristiano si sposava con chi non lo era e cessava di vivere la propria fede e si adeguava alla vita comune - si spergiurava; con spavalda arroganza si disprezzavano i capi della Chiesa – con linguaggio odierno, potremmo dire che la gente parlava male dei laici, dei preti, dei cardinali, e così via - ci si calunniava reciprocamente con accuse piene di veleno, si era sempre in disaccordo e perfino ci si odiava profondamente» (De lapsis, 6).

Cipriano, insomma, afferma che i lapsi erano caduti perché già prima la loro fede si era impoverita e descrive impietosamente lo stato della chiesa prima della persecuzione affermando che c’era in essa “chi si odiava”!

Si noti che siamo ancora cinquant’anni prima di Costantino. Si intravede – lo ripetiamo - quanto sia falsa quella visione di una chiesa che si corrompe a causa della pace costantiniana. Il fatto è ben più complesso, poiché l’uomo è sempre peccatore: Cipriano descrive una ben povera chiesa già ai tempi della persecuzione di Decio, ma, insieme, ricorda in essa lo splendore dei confessori e dei martiri.

Cipriano continua: «Quale vergogna! Certuni hanno rimosso ogni cosa e hanno dimenticato tutto. Non aspettarono neppure di essere catturati per salire al sacrificio, né attesero di essere interrogati per negare […] correvano spontaneamente al foro» (De lapsis, 8). Cipriano ricorda qui che alcuni, a Cartagine, ma come si è visto lo stesso successe anche a Roma, non aspettarono neppure che l’ufficiale incaricato chiedesse loro di sacrificare, ma addirittura, per paura delle conseguenze, corsero a sacrificare senza ancora essere ricercati.

«Anche i bambini furono presi o trascinati dalle mani dei genitori e persero già da fanciulli ciò che avevano ottenuto subito alla prima origine, alla prima nascita» (De lapsis, 9). È chiaro che il battesimo dei bambini è già un fatto ovvio – in realtà, lo è dalle origini, dal NT stesso. I bambini delle famiglie cristiane venivano battezzati subito; nel corso della persecuzione di Decio gli stessi genitori avevano preso i loro bambini piccoli, già battezzati, e li avevano condotti a sacrificare mettendo loro in bocca del cibo o delle bevande consacrate agli idoli. Abbiamo visto come questo sia attestato dai libelli superstiti, dove si dice i genitori portavano anche i loro piccoli ai templi, per ottenere anche per loro il libellum prescritto.

Ecco allora che nella chiesa una parte aveva affrontato con coraggio la persecuzione ed un’altra parte era “caduta”. Davanti a questa situazione nacquero due posizioni estreme che, come vedremo, saranno entrambe condannate dalla chiesa: da un lato quella di coloro che affermavano che l’apostasia era facilmente perdonabile e volevano dare il perdono e riammettere nella chiesa senza chiedere una seria penitenza, e, dall’altra, quella dei rigoristi, di coloro cioè che pensavano che i lapsi non appartenevano più alla chiesa, a motivo del loro peccato.

Fra i lassisti c’erano anche alcuni confessori che scrivevano dei “contro-libelli” con cui, in base alla loro autorità di confessores, pur essendo laici, ritenevano di poter autorizzare i lapsi a ricevere nuovamente la comunione, riammettendoli nella chiesa.

Cipriano stesso lo racconta in una lettera inviata a Roma e letta sicuramente anche dal diacono Lorenzo: «Il nostro fratello Luciano, appartenente anch’egli al numero dei confessori… si è fatto da tempo promotore della distribuzione di un gran numero di biglietti, scritti da lui stesso in nome di Paolo [N.d.R. Paolo è un altro dei confessori]» (Lettera 27 di Cipriano ai presbiteri e diaconi di Roma). Cipriano è chiaramente contrario a questo modo di procedere, in primo luogo perché i lapsi debbono prima compiere un itinerario penitenziale e poi perché solo il vescovo ed i presbiteri possono conferire l’assoluzione.

Nel De lapsis scrive che «il medico deve incidere la ferita», che bisogna cioè aiutare i lapsi a comprendere la gravità di ciò che hanno commesso; essi debbono confessare il peccato e fare penitenza perché questo li aiuti ad essere migliori: infatti, «è incapace quel medico che esita a toccare con mano la parte interna delle ferite gonfie e preda dell'infezione; inoltre mentre la conserva, accresce l'infezione celata nelle parti più nascoste del corpo» (De lapsis, 14).

L’amore con cui Cipriano ritiene debbano essere circondati i lapsi non significa quindi che si debba evitare di far loro richieste anche impegnative e, quindi, tali da “provocare dolore”. Bisogna toccare i punti doloranti, anche se questo fa sul momento male, bisogna toccare la ferità, altrimenti non la si guarisce. «Codesta faciloneria non dona la pace, la toglie; non concede la comunione, ma impedisce di giungere alla salvezza» (De lapsis, 16).

La proposta impegnativa della fede ai lapsi deve essere fatta «finché il rimorso e la remissione del peccato, compiuta dai sacerdoti, è gradita a Dio» (De lapsis, 29). Coloro che hanno rinnegato devono cioè camminare nella penitenza finché si arriva al perdono. I confessores non erano allora autorizzati – afferma Cipriano - a riammettere nessuno nella comunione. Alcuni di loro si credevano “migliori” per aver affrontato vittoriosamente la persecuzione, ma non erano assolutamente autorizzati ad ergersi per questo a guide dei lapsi, i quali dovevano, invece, seguire il cammino ordinario della chiesa, pur potendo guardare ai martiri ed ai confessori come veri testimoni di Cristo.

Si badi bene che, nella teologia della chiesa, la penitenza che accompagna il perdono sacramentale dei peccati non è assolutamente una punizione, bensì un aiuto offerto per riprendere la via del bene. Anche oggi dobbiamo saper annunziare che la penitenza proposta dal confessore è un gesto, meglio un itinerario, che aiuta a trasformare in bene le cadute precedenti. La penitenza, insomma, serve a sostenere il cammino di chi deve ricominciare a seguire la vita cristiana dopo aver peccato.

Ma esisteva, come si è detto, anche un secondo gruppo che viene sconfessato da Cipriano. Questo secondo “schieramento” di cristiani affermava che i lapsi erano perduti per sempre, che erano ormai irreparabilmente fuori dalla comunione della chiesa: chi era caduto nel peccato grave, rinnegando la fede, chi si era allontanato dalla Chiesa per la sua fede troppo debole che non aveva resistito alla persecuzione, non era più un vero cristiano e non era più ammesso alla comunione. Così alcuni confessores affermavano che solo chi aveva affrontato la persecuzione era un vero cristiano, mentre gli altri non lo erano più o, forse, non lo erano mai stati.

Dalle fonti sappiamo che il punto di riferimento di questa corrente si chiamava Novaziano; egli era un prete di Roma che aveva poi raggiunto Cartagine, la diocesi di Cipriano. Novaziano aveva cercato di diventare papa, senza riuscirvi perché gli era stato preferito Cornelio.

Novaziano era un rigorista ed affermava che soli cristiani sono le persone veramente convinte e forti nella fede, mentre i “deboli nella professione del nome di Gesù” non dovevano essere considerati cristiani. Dice Eusebio di lui, o meglio scrive di lui citando Dionigi, vescovo di Alessandria: «Come se non avessero più speranza di salvezza neppure compiendo ogni cosa in vista di una conversione sincera e di una confessione pura, si mise a capo di una setta particolare i cui adepti, nell’arroganza della loro mente, si dichiarano Catari» (Storia ecclesiastica, VI, 43,1-12). Cataro in greco vuol dire letteralmente puro. Questa era la posizione di Novaziano: solo i puri possono accedere alla comunione della chiesa, gli altri se ne debbono tornare alla propria casa.

Eusebio continua, sempre citando Dionigi, e trasmettendoci la dura condanna del vescovo alessandrino contro Novaziano: «Novato nella sua dottrina antifraterna e disumanissima volle che fossero considerati estranei alla Chiesa, mentre i fratelli che erano caduti nella disgrazia bisognava curarli e guarirli con le medicine della penitenza». Novaziano è definito “disumanassimo e antifraterno”: la sua fede, apparentemente pura, gli ha fatto perdere la sua umanità.

Nel prosieguo della notizia, Eusebio conserva un documento preziosissimo della disputa contro Novaziano nel quale si parla della chiesa di Roma. Si tratta di una lettera di papa Cornelio a Fabio vescovo di Antiochia, epistola che risale all’anno 251-253, nella quale si dice: «Qual vendicatore del vangelo (N.d.R. cioè difensore del vangelo) non sapeva che deve esserci un solo vescovo in una Chiesa? Eppure non ignorava (come avrebbe potuto?) che in essa vi sono quarantasei presbiteri, sette diaconi, sette suddiaconi, quarantadue accoliti, cinquantadue esorcisti, lettori e sacrestani, più di millecinquecento vedove e poveri».

Nel riferire che Novaziano aspirava all’episcopato di Roma, quando a Roma già c’era un vescovo (e non ce ne potevano essere due!), ci offre, di passaggio, uno straordinario spaccato che ci informa sulla composizione della comunità di Roma alla metà del III secolo, nel passaggio di tempo fra Decio e Valeriano. C’erano in quell’anno a Roma un vescovo della città – cioè un solo papa - quarantasei preti – oggi a Roma siamo circa novecento preti - sette diaconi, dei quali cinque saranno uccisi nella successiva persecuzione di Valeriano tra i quali Lorenzo, sette suddiaconi, quarantadue accoliti che portavano la comunione ai malati che non potevano venire all’eucarestia, cinquantadue fra esorcisti incaricati della preghiera di esorcismo per la liberazione dal maligno, lettori e sacrestani ed, infine, millecinquecento fra vedove e poveri che venivano assistiti dalla carità della chiesa. I sette diaconi e suddiaconi erano incaricati, in particolare, del loro servizio.

Torniamo ai rigoristi ed alla loro guida, Novaziano. Nella lettera 55, scritta al vescovo Antoniano, Cipriano spiega che la misericordia della chiesa non deve mai mancare nemmeno verso gli apostati, perché essi sono come dei feriti che debbono essere strappati alla morte: «È ai feriti, invece, che abbiamo la responsabilità di prestare il nostro soccorso e le nostre cure. Per questo è da evitare l’equivoco di considerare come morti quelli che ci appaiono a terra feriti a fondo dalla funesta persecuzione; dobbiamo, all’opposto, vederli ancora tra la morte e la vita. Se fossero realmente morti, non sarebbe possibile tra di essi il levarsi di confessori e di martiri. È certo comunque che in costoro sussiste qualcosa che, in vista della penitenza cui sono disposti, può riprendere forza per lo sviluppo nella fede; dalla penitenza poi la crescita vigorosa s’arma per la virtù. Ma il rafforzamento non può prodursi in uno che si lascia cogliere dalla disperazione» (Lettera 55) che può sopraggiungere se la chiesa lo tratta “con estraneità” o “inflessibilmente”.

Cipriano prosegue presentando la lotta che si compie intorno a colui che ha peccato: «Ecco, giace qui riverso ai nostri piedi un fratello ferito, colpito sul campo dall’avversario: da un lato il diavolo si sforza d’uccidere l’uomo che ha già ferito; dall’altro il Cristo ci ammonisce a non voler lasciar morire chi lui stesso ha già soccorso con la sua redenzione. Tra i due, a chi vogliamo porci accanto; dalla parte di chi vogliamo stare?» (Lettera 55).

Ecco allora la scelta equilibrata e cristiana portata avanti dal vescovo di Cartagine: «il fatto che la Chiesa si presentasse chiusa per loro, avrebbe potuto alienarli al mondo e costringerli a vivere da pagani. Dall’altra parte, la rigidezza dell’evangelo non ne risultava svigorita al punto di riammettere nella comunione con leggerezza. Come effetto, si sarebbero destate invece penitenza prolungata e doloranti invocazioni alla clemenza del Padre. [...] Se noi respingiamo la disponibilità alla penitenza di quelli che in qualche modo nutrono fiducia che la loro colpa possa essere perdonata, tosto saranno trascinati all’eresia o nello scisma dalle lusinghe del diavolo, insieme a moglie e figli, che finora sono riusciti a preservare da danni. In tal caso, il giorno del giudizio, ci sarebbe addebitato il rifiuto di curare una pecorella ferita e di averne lasciato perdere molte sane, a motivo delle piaghe d’una sola» (Lettera 55).

Questa è la decisione che ne consegue: «Per scongiurare il pericolo, fratello carissimo, abbiamo così stabilito: in modo tuttavia non conclusivo, si riammettano alla Chiesa i “libellatici”, previo esame della situazione di ciascuno; nell’imminenza della morte, si provveda a soccorrere spiritualmente anche chi abbia fatto l’offerta di un sacrificio», per non correre il rischio di perdere «coloro che neppure la feroce persecuzione è riuscita a disperdere: e questo a causa della durezza e dell’insensibilità che è in noi» (Lettera 55).

Un passaggio molto bello di Cipriano mostra che bisogna sempre offrire la possibilità della salvezza al peccatore, altrimenti egli cessa di camminare nel bene: «[Se dicessimo solamente:]“Potrai compiere tutto quanto ha riferimento alla pace, ma non avrai mai la riconciliazione che vai cercando”! Chi tosto non ne morrebbe; chi addirittura non verrebbe meno di disperazione; chi non svierebbe l’impegno dal proposito della penitenza? Pensi che un contadino avrebbe l’animo di lavorare, se tu gli dicessi: “Coltiva la campagna con tutta la perizia di cui sei capace sui campi, attendi con diligenza alle varie colture: mai però metterai la falce alla messe, mai pigerai i grappoli della vendemmia, non olive trarrai dal tuo oliveto, né alcun frutto coglierai dagli alberi”? Oppure pensi tu che seguirebbe il tuo consiglio, se dicessi a uno che cerchi di persuadere a comperare delle navi, perché ne faccia uso per la mercatura: “Compra, fratello, legname delle foreste più pregiate, connetti la carena con assi tratte da querce scelte e robuste; provvedi a che la nave ti sia ultimata ed armata di tutto punto, con timone sartie vele; ma, una volta che l’allestimento sarà compiuto, non potrai arraffare i proventi dei noli e delle sue corse sui mari”? È tagliare la strada alla contrizione, è sbarrare la via al pentimento: mentre nelle Scritture il Signore Iddio accarezza chi a lui fa ritorno nel pentimento, noi, nella nostra insensibile asprezza, con l’impedirne il frutto soffochiamo quel pentimento» (Lettera 55).

La chiesa del tempo riuscì a mostrare che Novaziano, con il suo rigorismo, in fondo ergeva se stesso a regola della comunità, come testimonia un testo di papa Cornelio (pontefice dal marzo 251, succeduto a Fabiano, morto martire), riportato nella Storia ecclesiastica di Eusebio, che così denuncia “la peggiore delle assurdità di Novato” [N.d.R. qui Eusebio confonde Novato con Novaziano]: «Dopo le oblazioni, distribuendo a ciascuno la sua parte, nell’atto di consegnargliela costringe quegli infelici a giurare, invece di rendere grazie. Prende nelle sue mani quelle di colui che riceve il sacramento e non le lascia prima che questi abbia giurato dicendo (userò le sue parole): “Giurami per il sangue e il corpo del Signore nostro Gesù Cristo che non mi abbandonerai mai per seguire Cornelio”. E il poveretto non si può comunicare se prima non pronuncia l’imprecazione contro se stesso, e mentre riceve il pane, invece di dire amen, ripete: “Non tornerò a Cornelio”» (Storia ecclesiastica, VI, 43,18-22).

Cipriano, invece, da parte sua, rassicurò i credenti spiegando che gli scismi sembrano dotati di una forza enorme, che però si indebolisce nel tempo: «[Novaziano] non ha imparato che all’inizio sempre gli scismatici sono fervidi d’attività, ma che in seguito non è loro possibile né mantenere costante né accrescere la promozione delle loro illecite iniziative: anzi tosto falliscono insieme all’astio di competizione che li aizza» (Lettera 55).

7/ L’unità della chiesa

Proprio queste tensioni all’interno della chiesa spinsero Cipriano a scrivere in favore dell’unità della chiesa un importante trattato dal titolo De catholicae ecclesiae unitate.

Il vescovo di Cartagine presenta l’unità della chiesa con varie immagini: «Uno solo è l’episcopato, che ciascuno possiede tutto intero, partecipandone di una piccola parte. Una sola è la Chiesa, che si estende ampiamente fra le genti, con incredibile fecondità: come molti sono i raggi del sole, ma la luce è unica, molti sono i rami dell’albero, ma uno solo è il tronco piantato con solide radici; così, quando da una sola sorgente sgorgano parecchi ruscelli, anche se sembra diffondersi per l’abbondanza e la generosità delle sue acque, tuttavia nella sua origine si mantiene l’unità. Stacca un raggio di solo dal suo corpo luminoso; l’unità della luce non potrà dare germogli. Interrompi un ruscello dalla sua sorgente; il ruscello interrotto inaridisce. Così anche la Chiesa, ricoperta dalla luce del Signore, estende i suoi raggi per tutto il mondo, tuttavia è una sola luce, che si diffonde ovunque e non si spezza l’unità del corpo» (De catholicae ecclesiae unitate, 4).

Cipriano si sofferma, in particolare, a descrivere la chiesa come la madre dei credenti: «una sola l’origine, una sola la madre feconda e ricca di figli: nasciamo dal suo grembo, ci nutriamo del suo latte, siamo vivificati dal suo spirito» (De catholicae ecclesiae unitate, 4). Ed ancora: «Non può più avere Dio come Padre chi non ha la Chiesa come madre. Se si fosse potuto salvare chiunque fosse fuori dall’arca di Noè, si potrebbe ugualmente salvare chi fosse stato fuori dalla Chiesa» (De catholicae ecclesiae unitate, 6).

Cipriano spiega anche che la preghiera accetta a Gesù è la preghiera concorde, cioè quella che nasce dalla comunione con i fratelli: Cristo che «attribuisce moltissimo non alla quantità, ma all’unanimità di quelli che pregano, afferma “Se due di voi si accorderanno sulla terra”. Infatti ha posto prima l’unanimità, ha premesso la concordia nella pace, ci ha insegnato con fermezza e lealtà ad andare d’accordo tra noi. Ma come può andare d’accordo con qualcuno, quello che non è d’accordo con il corpo stesso della Chiesa e con tutti i fratelli? Come possono riunirsi nel nome di Cristo due o tre che noi sappiamo essere separati da Cristo e dal suo Vangelo? Infatti non noi da loro, ma loro da noi si sono allontanati e poiché le eresie e gli scismi sono nati dopo, hanno abbandonato la guida e l’origine stessa della verità, mentre formano differenti piccole comunità loro proprie [...] possono ottenere molto di più pochi con una preghiera concorde, che molti con una preghiera discorde» (De catholicae ecclesiae unitate, 12).

Ed anche il martirio, per Cipriano, non può essere definito cristiano se non è accompagnato dall’amore che sempre ha cura dell’unità: «Non può presentarsi come martire chi non ha conservato la carità fraterna [...] Chi non possiede amore, non possiede Dio; l’affermazione del beato apostolo Giovanni è: “Dio è amore e chi rimane in Dio resta nell’amore e Dio rimane in lui”. Non possono rimanere in Dio quelli che non hanno voluto essere concordi nella Chiesa di Dio. Ardano pure tra le fiamme oppure perdano le loro vite, consegnati al fuoco o gettati in pasto alle bestie feroci; per loro non ci sarà la corona della fede, ma il castigo per l’infedeltà, non la fine gloriosa dei virtuosi sostenitori della fede, ma la morte dei disperato. Si può uccidere una persona di tal genere, non la si può coronare per la sua vittoria» (De catholicae ecclesiae unitate, 14).

8/ La questione del battesimo

Cipriano è noto anche per aver rifiutato, contro il parere del vescovo di Roma, il battesimo di coloro che non erano in piena comunione con la chiesa; papa Stefano gli risponderà affermando che il battesimo resta vero anche se è conferito da un cristiano non cattolico.

Nel contesto di questa diatriba ci fornisce un’ulteriore testimonianza dell’antichissima pratica di battezzare i bambini: «Se il Signore assicura nell’evangelo: “Il Figlio dell’uomo non è venuto a perdere le anime degli uomini, ma a salvarle” (Lc 9,56), per quanto sta in noi dobbiamo agire in modo che possibilmente nessuna anima si perda. Inoltre, che cosa potrà mai mancare a uno che è stato plasmato nel seno materno dalle mani di Dio? È vero che ai nostri sensi e soprattutto alla vista i neonati crescono manifestamente, con il crescere dei giorni; ma tutto ciò che è opera divina è già subito perfetto, in forza della potenza e dell’atto creativo di Dio» (Lettera 64).

Ed ancora: «Si tratta di conformità di fronte a Dio, nell’ambito spirituale: gli uomini sono infatti senza distinzione, di una sola grossezza e di una sola età, perché tutti creature di Dio. Solo il trascorrere del tempo può determinare un diverso accrescimento del corpo: differenza allora può esserci, sì, secondo un criterio temporale, ma non secondo Dio. A meno che non si voglia sostenere che anche la grazia, nell’atto di essere comunicata ai battezzati, possa venire elargita in maggiore e minore quantità, a seconda dell’età di chi la riceve. Al contrario: lo Spirito Santo è egualmente dato in dono a tutti, non secondo lo sviluppo di ciascuno, ma in forza della bontà e dell’amorevolezza del Padre. Non si verifica di fronte a Dio discriminazione di persone, e neppure d’età: a tutti si mostra padre, a tutti distribuendo con equilibrata suddivisione la sua grazia. [...] A nessuno si nega la grazia del battesimo: a maggior ragione non deve esserne privato un bambino, che, nato com’è da poco, non può aver commesso colpa alcuna; ha soltanto contratto, già al primo istante di vita, come discendente di Abramo, l’antico mortale contagio; può ottenere allora tanto più agevolmente il perdono, in quanto non di peccati suoi si tratta, ma di peccati d’altri. È questa la ragione, fratello carissimo, per la quale nel sinodo abbiamo deliberato che noi non si debba tener lontano alcuno dal battesimo e dalla grazia di Dio, che per tutti è misericordioso benevolo e amorevole. È stretto obbligo rispettare e praticare queste norme nei confronti di tutti; soprattutto è nei riguardi dei bambini – sì, anche dei neonati – che riteniamo si debbano osservare: essi sopra ogni altro meritano il nostro soccorso e la divina misericordia, perché, fin dal momento della nascita, attraverso vagiti e pianti altro non fanno che pregare» (Lettera 64).

Vale la pena citare un testo di qualche decennio prima, dello stesso ambiente cartaginese, scritto da Tertulliano. Tertulliano era cristiano, ma anche lui rigorista; egli riteneva che non si dovessero battezzare i bambini (il fatto che si occupi di questa questione è segno che ai suoi tempi il battesimo dei bambini era molto diffuso). Poiché egli riservava il battesimo alle persone dotate di una fede matura, si trovava poi nella necessità di definire quali fossero le caratteristiche di una tale persona: un tratto che non può mancare a chi è maturo, secondo Tertulliano, è la definitività delle scelte affettive, cioè del matrimonio o della verginità. Tertulliano affermava così che chi non si era ancora sposato o consacrato, doveva rimandare il battesimo!

Così Tertulliano, su questo: «Certo il Signore dice: “Lasciate che i bambini vengano a me”. Ma vengano quando sono più grandi, quando sono in grado di apprendere, quando viene mostrato Colui verso il quale vanno. Che diventino cristiani quando saranno in grado di conoscere Cristo! Perché questa età innocente si affretta a ricevere la remissione dei peccati? Agiremo con più cautela nelle questioni terrene che in quelle spirituali e a chi non vengono affidati i bene terreni affideremo quelli divini? Siano almeno in grado di chiedere la salvezza, perché sia chiaro che l’hai concessa a uno che l’ha chiesta! Per una ragione non meno importante devono essere rinviate anche le donne non sposate, perché per loro la tentazione è in agguato, per le vergini a causa della loro età matura, per le vedove a causa della loro instabilità, finché non si siano sposate o non siano divenute più forti nella pratica della continenza. Se comprendono il peso del battesimo, avranno più timore di riceverlo che di differirlo: la fede integra è sicura della salvezza!» (De baptismo, 18, 5-6, in Tertulliano, Opere catechetiche, Città nuova, Roma, 2008, pp. 191-193; il testo è di poco anteriore all’anno 213).

La posizione favorevole al battesimo dei bambini, sostenuta da Cipriano, ci mostra come la chiesa di allora si fosse orientata, rigettando posizioni come quelle di Tertulliano, che pure era stato teologo stimato ed ascoltato.

9/ La persecuzione di Valeriano e la morte di S. Lorenzo

Ci siamo soffermati su questi documenti, perché ci descrivono il contesto nel quale è cresciuto ed è vissuto il diacono Lorenzo. Poiché di lui e della sua vita non si sono conservati scritti o notizie particolari, tranne quelle della sua testimonianza di carità e del suo martirio. I fatti che abbiamo descritto ci aiutano almeno a comprendere la situazione storica nella quale egli ha vissuto.

È lo stesso Cipriano a fornirci notizie precise sulla persecuzione di Valeriano, che porterà al martirio San Lorenzo. In una prima fase della sua persecuzione, come si è detto, Valeriano cominciò a colpire direttamente la chiesa, ma lo fece attraverso la chiusura e la confisca degli edifici di culto e la condanna all’esilio ed alle miniere.

Cipriano testimonia questa prima fase, nella lettera 76, scritta ai fratelli condannati ai lavori forzati nelle miniere: «Non ci meraviglia per niente che voi, quali vasi d’oro e d’argento, abbiate avuto la ventura d’essere assegnati alle miniere, dove cioè l’oro e l’argento sono presenti naturalmente; semmai il meraviglioso sta nel fatto che ora è mutata la caratteristica delle miniere: i luoghi, che da natura avevano prima il compito di provvedere oro e argento, hanno ora iniziato a riceverne. Ai vostri piedi anche i ceppi hanno posto; membra fortunate, fatte tempio di Dio, sono state legate con obbrobriose catene, nell’illusione che con il corpo si potesse inceppare anche lo spirito, o che l’oro che voi siete potesse corrompersi al contatto del ferro» (Lettera 76).

Cipriano ci informa poi, nel prosieguo dell’epistolario, della seconda fase della persecuzione di Valeriano che prevede la pena di morte per i cristiani. Cipriano aveva inviato una missiva a Roma per conoscere le nuove disposizioni imperiali e, avendone ricevuto notizia, ne informa il vescovo Successo: «Vi do notizia che sono tornati gli informatori che vi ho inviato a Roma perché indagassero la verità circa il rescritto che ci riguarda [...] La realtà è questa: Valeriano, nel rescritto inviato al Senato, stabilisce che i vescovi, i presbiteri e i diaconi siano giustiziati immediatamente; i senatori, i personaggi di rilievo e i cavalieri romani siano degradati della loro dignità e spogliati dei beni: se restano ostinati nel dichiararsi cristiani, siano decapitati; le matrone, oltre la perdita dei beni, siano cacciate in esilio; i cesariani infine – senza alcuna distinzione se abbiano, cioè emessa anteriormente la confessione o la emettano ora – subiscano la confisca dei beni e, ammanettati e marchiati, siano inviati in possedimenti demaniali» (Lettera 80).

La lettera prosegue, raccontando del martirio del papa Sisto II e di quattro dei suoi diaconi: «Vi informo che Sisto fu martirizzato in un cimitero il 6 agosto, insieme a quattro diaconi. Non basta: ogni giorno più, i prefetti di Roma rendono più crudele questa persecuzione: mandano a morte quanti sono loro denunciati, e i loro beni vengono confiscati a vantaggio dell’erario. Vi chiedo che vi interessiate di trasmettere queste informazioni agli altri nostri colleghi, affinché con esortazioni possano fortificare i fratelli in ogni luogo e prepararli alle lotte spirituali» (Lettera 80).

Il cimitero dove Sisto II fu catturato – e dove avvenne probabilmente anche la cattura di Lorenzo – è quello detto oggi di S. Callisto. La chiesa ne aveva la proprietà ed i diaconi erano incaricati delle sepolture, con particolare attenzione a quelle dei poveri, aiutati dai fossores che le eseguivano concretamente.

Lorenzo non era fra i primi quattro diaconi martirizzati con il papa e, saputa la notizia, dovette comprendere che anche il suo momento era giunto. Fu, infatti, martirizzato solo quattro giorni dopo, il 10 di agosto.

La leggenda si è impadronita degli ultimi giorni di vita di Lorenzo, ma, dietro le immagini che la tradizione ci riporta, sono chiaramente intuibili gli eventi stessi.

Innanzitutto, la ripetuta affermazione che Lorenzo presentò all’imperatore i poveri come la vera ricchezza che egli era tenuto a custodire. Così recita il racconto medioevale della Legenda aurea di Jacopo da Varagine, nell’ampia notizia dedicata al santo:

«Giunsero al tribunale, e lì riprese l’interrogatorio sul tesoro; Lorenzo chiese una sospensione di tre giorni, e Valeriano gliela concesse, ponendolo sotto la custodia di Ippolito. Lorenzo approfittò dei tre giorni per raccogliere poveri, zoppi e ciechi e li presentò all’imperatore al palazzo sallustiano e disse: “Ecco questi sono i nostri tesori: sono tesori eterni, non vengono mai meno, anzi crescono. Sono distribuiti a ciascuno, e tutti li hanno: sono le loro mani a portare al cielo i tesori”».

Lorenzo come diacono – la tradizione gli conferisce il titolo di “arcidiacono” – era sì il responsabile della cassa della comunità di Roma, ma lo era non per altro scopo che per quello del bene di tutti i fratelli ed, in particolare, dei più poveri. Il vero tesoro era, insomma, costituito non dai beni in sé, ma da coloro ai quali erano destinati. Si manifesta qui una caratterizzazione peculiare del diaconato che è quella dell’animazione della carità, come si evidenzia già negli Atti degli Apostoli: i diaconi sono sì ministri dell’annunzio della Parola e della liturgia, ma loro peculiare è il servizio dei poveri ed il conseguente coinvolgimento nelle questioni economiche ed amministrative dei beni della chiesa [1].

Un secondo particolare che contraddistingue la tradizione della morte di Lorenzo è quella del modo del suo martirio: egli sarebbe stato arso vivo dopo essere stato disteso su di una graticola, che è il suo attributo iconografico più famoso. Sappiamo che questo tipo di tortura e di morte era conosciuto a quel tempo, poiché lo ritroviamo un secolo prima, nel martirio dei cristiani di Lione, al tempo di Ireneo. La lettera consegnata da Ireneo alla comunità romana per dare notizia degli eventi di Lione afferma che fra i vari supplizi patiti prima di morire dai santi Blandina, Attalo, Maturo e Santo, c’era proprio quello del fuoco: «Alla fine subirono il supplizio della sedia di ferro rovente, friggendo sulla quale i loro copri esalavano odore di grasso» (Lettera dei martiri di Lione, 1,37).

10/ Il martirio di S. Cipriano

Proprio Cipriano può aiutarci ancora una volta ad intuire quali dovettero essere i sentimenti di Lorenzo all’avvicinarsi del martirio. Cipriano, infatti, fu martirizzato un mese dopo Lorenzo e, come il diacono romano, comprese dall’aggravarsi della persecuzione che stava per giungere l’ora della prova. Decise, questa volta, di non rifugiarsi nelle campagne, ma di attendere i carnefici.

Nella lettera 81 Cipriano dichiara di essere ormai pronto: «Di qui, da questo luogo ritirato e nascosto, aspetto che il proconsole torni a Cartagine: sono pronto ad ascoltare le prescrizioni imperiali circa i cristiani, siano laici o vescovi; preparato a dire le parole che in quel momento il Signore vorrà che io dica» (Lettera 81).

Si sono conservati gli Atti del martirio di Cipriano; essi sono autentici come quelli di Giustino che abbiamo visto nel precedente incontro (cfr. San Giustino filosofo e martire), come si può evincere dalla loro essenzialità che rifugge dal leggendario. Lorenzo dovette subire un analogo processo e sostenere domande simili, poiché le prescrizioni imperiali prevedevano lo stesso genere di procedimento.

«Il proconsole Galerio Massimo disse al vescovo Cipriano: “Tu sei Tascio Cipriano?”.
Il vescovo Cipriano rispose: “Sì, sono io”.
Il proconsole Galerio Massimo disse: “Sei tu che ti sei presentato come capo di una setta sacrilega?”.
Il vescovo Cipriano rispose: “Sono io”.
Galerio Massimo disse: “I santissimi imperatori ti ordinano di sacrificare”.
Il vescovo Cipriano disse: “Non lo faccio”.
Il proconsole Galerio Massimo disse: “Rifletti bene”.
Il vescovo Cipriano disse: “Fà ciò che ti é stato ordinato. In una cosa così giusta non c’é da riflettere”.
Galerio Massimo, dopo aver conferito con il collegio dei magistrati, a stento e a malincuore pronunziò questa sentenza: “Tu sei vissuto a lungo sacrilegamente e ti sei aggregato moltissimi della tua setta criminale, e ti sei costituito nemico degli déi romani e dei loro sacri riti. I pii e santissimi imperatori Valeriano e Gallieno Augusti e Valeriano nobilissimo Cesare non riuscirono a ricondurti all’osservanza delle loro cerimonie religiose. E perciò, poiché sei risultato autore e istigatore dei peggiori reati, sarai tu stesso di esempio a coloro che hai associato alle tue scellerate azioni. Col tuo sangue sarà sancito il rispetto delle leggi”.
E dette queste parole, lesse ad alta voce da una tavoletta il decreto: “Ordino che Tascio Cipriano sia punito con la decapitazione”.
Il vescovo Cipriano disse: “Rendiamo grazie a Dio”
» (Atti, 3-6; CSEL 3, 112-114).

Il testo continua con il racconto del martirio, avvenuto nelle campagne intorno Cartagine, e la successiva sepoltura ad opera della comunità cristiana, così come dovette avvenire per Lorenzo, il cui corpo fu portato qui, dove ora sorge la sua basilica:

«Cipriano fu condotto nella campagna di Sesti e qui si spogliò del mantello e del cappuccio, si inginocchiò a terra e si prostrò in orazione al Signore. Si tolse poi la dalmatica e la consegnò ai diaconi, restando con la sola veste di lino, e così rimase in attesa del carnefice. Quando poi questo giunse, il vescovo diede ordine ai suoi di dargli venticinque monete d’oro. Frattanto i fratelli stendevano davanti a lui pannolini e fazzoletti. Quindi il grande Cipriano con le sue stesse mani si bendò gli occhi, ma siccome non riusciva a legarsi le cocche del fazzoletto, intervennero ad aiutarlo il presbitero Giuliano e il suddiacono Giuliano.
Così il vescovo Cipriano subì il martirio e il suo corpo, a causa della curiosità dei pagani, fu deposto in un luogo vicino dove potesse essere sottratto allo sguardo indiscreto dei pagani. Di là, durante la notte, fu portato via con fiaccole e torce accese e accompagnato fino al cimitero del procuratore Macrobio Candidiano che é nella via delle Capanne presso le piscine. Dopo pochi giorni il proconsole Galerio Massimo morì. Il santo vescovo Cipriano subì il martirio il 14 settembre sotto gli imperatori Valeriano e Gallieno, regnando però il nostro Signore Gesù Cristo a cui é onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen
» (Atti, 3-6; CSEL 3, 112-114).

Si noti la straordinaria finale che menziona il regno di Valeriano, ma, soprattutto, quello di Cristo Signore: «Il santo vescovo Cipriano subì il martirio il 14 settembre sotto gli imperatori Valeriano e Gallieno, regnando però il nostro Signore Gesù Cristo a cui é onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen».

11/ La facciata ed il portico della basilica di S. Lorenzo, di Marco Valenti

Iniziamo la visita della basilica dall’esterno. Siamo subito a ridosso della via Tiburtina, una delle strade consolari lungo le quali i romani costruivano le proprie sepolture, poiché queste dovevano essere fuori dalle mura.

All’epoca le sepolture erano di due tipi: a catacomba (sotto terra) o ad apogeo (sopra la terra). Come ben sapete non c’è niente di vero in quelle ricostruzioni che vogliono che i cristiani si nascondessero nelle catacombe per sfuggire alle persecuzioni, come si vede per esempio nel film Ben Hur; l’imperatore, infatti, sapeva benissimo dove erano le catacombe ed in esse venivano sepolti insieme sia pagani che cristiani (come peraltro anche ebrei).

Le catacombe, quindi, erano solo un luogo di sepoltura in cui i cristiani entravano solo per pregare sulle tombe dei martiri o su quelle dei propri cari; non erano affatto un luogo in cui sarebbe stato possibile vivere.

Molti cristiani venivano sepolti sotto terra, nei cunicoli delle catacombe, perché era più economico, altri invece venivano sepolti sopra la terra, all’interno di sarcofagi. La chiesa curò sin dall’inizio che anche i poveri potessero avere una degna sepoltura: infatti i papi, i presbiteri ed i diaconi erano responsabili non solo delle basiliche, della pastorale, della catechesi e della carità, ma anche delle sepolture.

Abbiamo dinanzi a noi la basilica di S. Lorenzo: la zona, come abbiamo detto, ai tempi della sepoltura del nostro martire doveva presentarsi come un campo con tombe in superficie e con catacombe sotterranee per ulteriori sepolture.

A fianco di questo terreno Costantino fece costruire una basilica circiforme, cioè una grande basilica nella quale le colonne non terminavano con un transetto, ma continuavano a girare intorno all’abside, proprio come in un antico circo.

Le fonti ricordano che Costantino fece costruire in Roma più basiliche, alcune vicino o sopra la tomba dei martiri, altre con funzioni diverse: S. Pietro e S. Paolo proprio sopra le due tombe, S. Giovanni con funzione liturgica, S. Croce in Gerusalemme come cappella palatina della propria famiglia, anche se la recente scoperta di un battistero fa pensare che il complesso avesse anche funzione pubblica. Ma Costantino fece costruire anche S. Sebastiano, Sant’Agnese ed i Santi Marcellino e Pietro sulla via Casilina che si presentavano come chiese che inglobavano in sé grandi cimiteri cristiani coperti.

Qui a S. Lorenzo, secondo la tradizione, esisteva la tomba di famiglia di Ciriaca, una matrona romana convertita al cristianesimo, che si prese l’onere di seppellire nella propria tomba S. Lorenzo il cui corpo venne portato qui dopo il martirio avvenuto, sempre secondo la tradizione, dove sorge ora S. Lorenzo in Panisperna.

Costantino isolò questa sepoltura e fece costruire probabilmente una copertura per essa. Alcuni pontefici furono sepolti, per loro espresso desiderio, vicino alla tomba di S. Lorenzo; sappiamo che ciò avvenne per Zosimo, Sisto III ed Ilaro.

Nel piazzale è possibile vedere la colonna con la statua del santo diacono in bronzo, il cui calco abbiamo già visto alla sinistra del presbiterio della basilica. La colonna era stata eretta, ai tempi di Pio IX, dal cardinale Pietro Ottoboni che era l’abate commendatario di questa basilica, che fu assegnata prima ai benedettini, poi ai canonici lateranensi, ed, infine, con Pio IX alla metà dell’ottocento, ai cappuccini che vi sono rimasti fino ad oggi.

Il portico cosmatesco (XIII secolo, ca, 1220), restaurato dopo il bombardamento del 1943, è dei Vassalletto con i capitelli delle colonne che ritroverete identici a quelli della navata della basilica di Onorio III. In alto vedete la decorazione tipica dei cosmateschi che utilizzavano materiali di recupero di epoca romana.

Dopo il bombardamento, si è recuperato solo l’agnello che è all’interno del clipeo sopra l’ingresso principale e la scena nel quale il papa Onorio III presenta Pietro di Courtenay, il nuovo imperatore latino di Costantinopoli da lui appena consacrato, a S. Lorenzo. Siamo nel 1217, al tempo delle crociate; sono gli anni del IV Concilio Lateranense, celebratosi nel 1215.

Onorio incoronò nel 1217 Pietro di Courtenay come nuovo sovrano del regno di Costantinopoli, divenuta per breve tempo latina dopo la IV crociata del 1204. Pietro non raggiunse mai la capitale, perché fu catturato dal despota greco di Epiro; l’evento appartiene a quegli anni terribili nei quali i latini lottarono contro i bizantini, aprendo di fatto la via ai turchi con la loro lotta interna.

Sopra il fregio a mosaico si vede l’ulteriore decorazione con bocche di leoni - sono le grondaie di allora. La facciata vera e propria con le tre finestre è stata ricostruita dopo il bombardamento. Quella originale doveva avere raffigurazioni rappresentanti personaggi legati alla basilica, alcune delle quali sono state trasportate nell’attuale arco trionfale: i profeti Isaia e Daniele, la Madonna e i santi Lorenzo e Giustino, Stefano e Ciriaca.

Il luogo è sempre stato meta di pellegrinaggi e quindi sorsero monasteri maschili e femminili per l’assistenza dei pellegrini. Nell’alto medioevo, similmente a ciò che avvenne per la basilica di S. Pietro e di S. Paolo, il complesso di S. Lorenzo venne fortificato. Segno ancora leggibile di questa antica fortificazione è la torre eretta posteriormente alla basilica, in asse con il campanile. La fortezza venne chiamata Laurenziopoli.

12/ Gli affreschi del portico, di Marco Valenti

Il portico è abbellito dagli affreschi – pochi in ottimo stato, la maggioranza molto deteriorati – che presentano le storie di S. Lorenzo e di S. Stefano. Il programma iconografico comprende storie di S. Lorenzo e S. Stefano. Il doppio riferimento è dettato dal fatto che la tradizione vuole che le reliquie di santo Stefano siano state traslate in Roma e deposte a fianco di quelle di san Lorenzo. I due corpi dei santi diaconi riposerebbero così l’uno a fianco dell’altro.

Gli affreschi dipingono, in parallelo, le storie dei due martiri: a sinistra del portale centrale quella di Stefano ed, a destra, quella di S. Lorenzo. L’iconografia attinge molti dei suoi dettagli dal racconto della Legenda Aurea.

Gli affreschi sono di poco precedenti Cimabue e Giotto e vengono datati alla seconda metà del XIII secolo. Un’antica iscrizione, oggi scomparsa, conteneva la firma dei due autori, maestro Paolo ed il figlio Filippo (Paulus has... et Philippus filius eius fecerunt hoc opus).

Nel descriverli, prima di riassumere poi la storia che essi raccontano, cominciamo con gli affreschi che sono a destra della porta principale e raffigurano le storie di S. Lorenzo, disposte in tre fasce successive che si leggono dall’alto in basso e da sinistra verso destra:

Prima fascia, da sinistra:

  • Lorenzo riceve da Sisto II, già arrestato dai soldati, il tesoro della chiesa con l’incarico di distribuirlo ai poveri
  • Lorenzo lava i piedi ai poveri
  • Lorenzo guarisce una donna che soffriva di mal di testa (oppure una donna cieca)
  • Lorenzo distribuisce i tesori della chiesa ai poveri
  • Sisto II, condotto al martirio, predice a Lorenzo il martirio
  • L’imperatore Valeriano ordina a Lorenzo di consegnargli i beni della chiesa.

Seconda fascia, quella centrale, sempre da sinistra:

  • Lorenzo guarisce un cieco (Lucilio?)
  • Lorenzo viene flagellato per ordine di Valeriano
  • Lorenzo battezza Romano, il soldato che lo custodiva
  • L’imperatore fa decapitare Romano
  • Valeriano ordina la morte di Lorenzo
  • Lorenzo è bruciato sulla graticola

Terza fascia, in basso, sempre da sinistra:

  • Ippolito recupera la salma di Lorenzo
  • Ippolito trasporta il corpo di Lorenzo per la sepoltura, insieme a Ciriaca ed al prete Giustino
  • Sepoltura di Lorenzo al Campo Verano
  • Ippolito riceve l’eucarestia

I particolari della storia di Lorenzo sono tratti dalla Legenda Aurea (dove il gerundivo legenda sta per libro che deve essere letto nelle feste dei santi), di Jacopo da Varagine o Varazze (domenicano, eletto vescovo di Genova nel 1292 e morto nel 1298). Jacopo è il grande sistematore medioevale delle storie dei santi. Non è, cioè, il creatore di ciò che racconta; piuttosto egli sistematizza ciò che l’uomo medioevale sapeva e credeva delle storie dei diversi santi. I singoli particolari delle storie da lui raccontate gli sono così di molto precedenti e risalgono a fonti diverse, alcune storiche, altre leggendarie. L’opera segue il calendario liturgico della chiesa.

La Legenda aurea racconta che, quando papa Sisto fu catturato, Lorenzo voleva subito morire con lui e gli diceva: «Dove te ne vai, padre, senza tuo figlio? Dove vai, santo sacerdote, senza il tuo levita, tu che mai celebravi senza che qualcuno ti servisse?». In risposta il pontefice affidò tutto il tesoro della chiesa al suo diacono e Lorenzo «andò notte e giorno in cerca di tutti i cristiani e dette loro secondo le loro necessità».

Lorenzo guarì una vedova dal mal di testa, lavò i piedi ai poveri – bellissimo richiamo alla lavanda dell’ultima cena – e guarì un cieco con un segno di croce. Venuto il giorno del supplizio del papa, Lorenzo gli ripeteva: «Non abbandonarmi, santo padre! Ho già speso tutti i soldi che mi hai affidato». Sentendo parlare dei tesori i soldati, allora catturarono anche lui. Guarì in prigione un pagano di nome Lucilio che era cieco e, subito, gli pose domande «su ciascun articolo della fede ed egli dichiarò di credere in ciascuno di essi». Allora Lorenzo lo battezzò.
Il prefetto Ippolito chiese a Lorenzo di mostrargli i tesori di cui aveva sentito parlare nel dialogo con Sisto. Lorenzo gli promise i tesori della vita eterna ed anche Ippolito ricevette il battesimo.

A Valeriano che voleva i tesori, Lorenzo chiese i tre giorni di tempo di cui abbiamo già parlato: «Giunsero al tribunale, e lì riprese l’interrogatorio sul tesoro; Lorenzo chiese una sospensione di tre giorni, e Valeriano gliela concesse, ponendolo sotto la custodia di Ippolito. Lorenzo approfittò dei tre giorni per raccogliere poveri, zoppi e ciechi e li presentò all’imperatore al palazzo sallustiano e disse: “Ecco questi sono i nostri tesori: sono tesori eterni, non vengono mai meno, anzi crescono. Sono distribuiti a ciascuno, e tutti li hanno: sono le loro mani a portare al cielo i tesori”».

Valeriano, allora, infuriato, gli ordinò di sacrificare agli dèi, ma Lorenzo rispose: «Chi mai dovrebbe essere adorato, chi fa o chi è stato fatto?». Condannato a morte, riuscì ancora a convertire ed a battezzare il soldato che lo custodiva, Romano, che fu subito decollato. Infine, anche Lorenzo fu ucciso con la tortura della graticola incandescente. Il giorno seguente Ippolito ed il sacerdote Giustino presero il corpo del martire e lo seppellirono all’Agro Verano.

Veniamo ora all’altro grande diacono venerato in S. Lorenzo, il protomartire Stefano. A destra della porta d’ingresso sono affrescate storie della sua vita.

Anche la vicenda del primo martire è presentata in tre fasce con lo stesso ordine di lettura.

Prima fascia in alto, a partire da sinistra:

  • Stefano predica al popolo
  • Stefano viene lapidato
  • Stefano viene sepolto
  • Ritrovamento del corpo di Stefano
  • Esumazione del corpo di Stefano
  • Il corpo di Stefano è portato alla presenza del vescovo, all’interno di Gerusalemme

Seconda fascia, quella centrale, sempre da sinistra:

  • Venerazione del corpo di Stefano
  • Trasporto del suo corpo a Costantinopoli
  • Arrivo a Costantinopoli
  • Guarigione di un’indemoniata
  • Un messo dell’imperatore chiede il trasporto del corpo di Stefano a Roma
  • Il trasporto a Roma

Terza fascia, in basso, da sinistra:

  • Trasporto del corpo fino a Roma
  • Arrivo alla basilica dove viene guarita la figlia dell’imperatore
  • Monaci greci cercano di traslare a loro volta il corpo di S. Lorenzo, ma cadono svenuti
  • Il Papa venera le reliquie di Stefano e di Lorenzo

È ancora la Legenda aurea a farci da guida nell’iconografia degli affreschi. Alla festa dell’Invenzione (cioè del ritrovamento del corpo) di Santo Stefano, racconta che nel V secolo apparve ad un prete di Gerusalemme l’anima di San Gamaliele, maestro di Paolo apostolo, evidentemente cristianizzato dalla leggenda, rivelandogli il luogo dove erano poveramente sepolti lui, Santo Stefano, Nicodemo ed un figlio di Gamaliele che portava il nome di Abibas. Gamaliele chiese al prete che i quattro ricevessero una sepoltura all’interno della Città Santa, dove avevano testimoniato il Signore Gesù.

Furono così rinvenuti i loro corpi ed un senatore di Costantinopoli costruì per loro un bellissimo oratorio. Morto costui, fu sepolto vicino alla nuova tomba di S. Stefano. Quando la moglie del senatore decise di tornare a Costantinopoli, si recò a prelevare il corpo del marito per condurlo con sé nella capitale imperiale, ma abbracciò le reliquie di S. Stefano, invece di quelle del marito. Nel trasporto, un meraviglioso profumo si sprigionò sulla nave e tutti compresero che, in realtà era stato prelevato il corpo di S. Stefano.

Stefano fu così solennemente sepolto a Costantinopoli. Ma – continua la Legenda – avvenne che Eudossia, figlia di Teodosio imperatore, fu posseduta da un demonio che le diceva che sarebbe uscito da lei solo se il corpo di S. Stefano fosse stato portato a Roma e lei, che lì viveva, lo avesse potuto toccare.

L’imperatore, allora, ottenne dal clero di Costantinopoli il trasferimento del corpo di Stefano a Roma, in cambio della promessa della traslazione del corpo di S. Lorenzo nella lontana capitale (la Legenda incrocia il nome di Teodosio II, imperatore dal 408 al 450, con i nomi di Pelagio I, papa dal 556 al 561 o di Pelagio II, papa dal 579 al 590).

Non appena il corpo di S. Stefano giunse nella basilica di S. Lorenzo, Eudossia guarì abbracciando le reliquie del martire. I monaci greci venuti a prelevare in cambio il corpo di Lorenzo caddero a terra come svenuti e successivamente morirono. Tutti compresero così che i due diaconi dovevano riposare assieme, l’uno accanto all’altro (ed, anzi, vuole la Legenda che Lorenzo si spostasse per fargli posto). La Legenda termina con una voce celeste che dice: «O Roma felice, che in un solo mausoleo raccogli i corpi di Lorenzo di Spagna e di Stefano di Gerusalemme, preziose gemme», esaltando così Roma come luogo che raccoglie l’eredità non solo apostolica, ma anche diaconale della primitiva chiesa.

Nelle due pareti laterali del portico sono, invece, descritti miracoli attribuiti a S. Lorenzo (ed a S. Stefano).

Nella parete di destra è affrescata la storia del miracolo di S. Lorenzo in favore dell’imperatore Enrico II, (ultimo degli Ottoni, imperatore dal 1002 al 1024).

Fascia superiore, da sinistra verso destra:

  • Enrico II parte in guerra contro gli slavi (polacchi)
  • Enrico II combatte contro gli slavi
  • Enrico II offre un calice d’oro per la celebrazione dell’eucarestia nella chiesa di S. Lorenzo di Eichstätt
  • Enrico II partecipa ad un banchetto

Fascia inferiore, da sinistra verso destra:

  • I demoni informano un eremita che si stanno recando alla morte di Enrico II per prendergli l’anima
  • La morte di Enrico II
  • Disputa fra angeli e demoni sull’anima di Enrico II; la bilancia pende dalla parte della condanna, dove è scritto mala opera quae fecit
  • S. Lorenzo, ponendo sul piatto della bilancia il calice donato dall’imperatore alla chiesa, salva l’anima di Enrico II

La Legenda Aurea di Jacopo da Varagine aiuta anche qui a comprendere i particolari rappresentati negli affreschi. I demoni, passando dinanzi alla cella di un eremita, lo informano che si stanno recando alla morte dell’imperatore per sottrarre a Dio la sua anima. Enrico II aveva, infatti, dubitato della fedeltà della moglie, Santa Cunegonda, con la quale aveva deciso di vivere un amore casto.

I demoni ritornano più tardi presso la cella dell’eremita e lo informano che non sono riusciti ad impadronirsi dell’anima di Enrico: infatti, le sue opere cattive che pesavano a suo sfavore, in particolare a motivo delle accuse infondate da lui rivolte contro la moglie, erano state controbilanciate nel giudizio da S. Lorenzo che aveva posto sul piatto della bilancia il calice d’oro da lui regalato alla chiesa di S. Lorenzo ad Eichstätt, di modo che la sua anima era stata salvata da Dio. I demoni, adirati, raccontarono anche di aver allora spezzato, per vendicarsi, un ansa dello stesso calice d’oro che era stato regalato alla chiesa dall’imperatore.

La storia vuole ovviamente magnificare la benevolenza con la quale Enrico II aveva protetto e promosso l’opera della chiesa: il dono del calice simbolizza il sostegno che aveva offerto alla chiesa. Al tempo degli affreschi Enrico II era stato da poco canonizzato e la sua memoria è tuttora ricordata, insieme a quella della moglie, nel calendario liturgico della chiesa cattolica.

La parete di sinistra del portico narra, invece, la storia dell’indulgenza della basilica di S. Lorenzo, al tempo di papa Alessandro II (1061-1073).

Fascia superiore, da sinistra verso destra:

  • S. Pietro, S. Lorenzo e S. Stefano appaiono nella basilica
  • I tre santi entrano nella basilica
  • I monaci informano l’abate
  • L’abate informa il papa

Fascia inferiore, da sinistra verso destra:

  • Il papa consulta i cardinali
  • Mentre il corteo pontificio si reca nella basilica, il cingolo di S. Lorenzo resuscita un morto
  • Durante la celebrazione della messa, le anime del Purgatorio salgono in Paradiso a motivo dei suffragi
  • Viene venerato il sepolcro di S. Lorenzo

La storia vuole affermare il valore della celebrazione della messa per i defunti: offrire l’eucarestia in loro suffragio consente loro di salire in Paradiso. I tre santi (Pietro, Lorenzo e Stefano) appaiono nella basilica proprio per invitare a celebrare messe per le anime del purgatorio ed il papa Alessandro II conferma le indulgenze della basilica. Anche le storie di S. Gregorio Magno presentano un episodio simile, volto a manifestare il valore della celebrazione eucaristica non solo per i vivi, ma anche per i defunti.

Nel portico sono anche disposti alcuni sarcofagi di età romana Quello a sinistra della porta presenta una scena di vendemmia con amorini che cavalcano oche, pantere e capre. È un sarcofago di tipo rarissimo perché è scolpito su tutti e quattro i lati, segno che era posto al centro di un ambiente di modo che le persone potessero girarvi intorno; il fatto denota che la persona sepolta doveva essere un benestante. Probabilmente il disegno ripete una tappezzeria od un arazzo, a cui lo scultore si è rifatto.

Un secondo sarcofago a destra è evidentemente cristiano a motivo delle scene della resurrezione di Lazzaro (con la sorella che prega Gesù per lui), la moltiplicazione dei pani, il paralitico che prende il suo lettuccio, ecc. I due sarcofagi, secondo la tradizione, sono stati utilizzati per le sepolture dei papi Zosimo e Sisto III.

13/ L’iscrizione dedicata a Pio XII ed il sepolcro di Alcide De Gasperi, di Andrea Lonardo

Nel portico è bene soffermarsi su due grandi figure della storia di Roma e dell’Italia del XX secolo che vi sono ricordate.

Innanzitutto vedete una lapide che ricorda Pio XII (e, nella piazza, avete visto il monumento a lui dedicato). Il papa venne in visita a S. Lorenzo il 19 luglio 1943, dopo il bombardamento alleato che aveva colpito il quartiere. Con la visita il pontefice volle dare un segno di vicinanza alla popolazione ed, insieme, mostrare al mondo la ferma opposizione della sede apostolica al bombardamento delle città italiane.

Fra i grandi meriti di Pio XII va annoverato certamente quello di aver salvato l’Italia da una massiccia distruzione, negli ultimi anni della II guerra mondiale. Il suo operato e la sua stessa presenza, insieme a quella dell’episcopato delle diverse città italiane, furono certamente decisivi nello scongiurare danni ben più gravi di quelli effettivamente conosciuti dal nostro paese prima della fine della guerra.

Infatti, mentre in Germania molte città furono completamente distrutte da bombardamenti e combattimenti cittadini, la diplomazia pontificia e la presenza dei diversi vescovi riuscirono in Italia a lavorare in maniera tale da ottenere che le grandi città fossero, in massima parte, risparmiate. Si pensi solo al caso più clamoroso che è proprio quello di Roma, nel quale si arrivò ad un accordo per il quale i tedeschi si ritirarono dalla città e gli alleati vi entrarono il giorno dopo, il 4 giugno 1944, senza che avvenisse alcun combattimento.

Gli studi moderni e contemporanei hanno sottolineato questo ruolo decisivo della chiesa ed, in particolare, di Pio XII, nella preservazione di Roma e delle altre città italiane dalle terribili devastazioni che si sarebbero prodotte sia se le città fossero state bombardate dagli alleati, sia se i nazisti avessero deciso di combattere casa per casa.

Già il grande storico Federico Chabod aveva analizzato questo ruolo della chiesa in un suo famoso volume dedicato alla storia d'Italia fino al secondo dopoguerra. Egli aveva così descritto la situazione della Roma del 1944: «Roma si trova, da un giorno all’altro, senza governo; la monarchia è fuggita, il governo pure, e la popolazione volge il suo sguardo a San Pietro. Viene meno un’autorità, ma a Roma – città unica sotto questo aspetto – ne esiste un’altra: e quale autorità! Ciò significa che, benché a Roma vi sia il comitato e l’organizzazione militare del CLN, per la popolazione è di gran lunga più importante e acquista un rilievo ogni giorno maggiore l’azione del papato» [2].

Più recentemente il Durand, storico dell’École française di Roma, ha analizzato il ruolo giocato dalla chiesa nelle città di Milano, Genova, Gerace, Pescia, Alessandria, Alba, Novara, Venezia, Pisa, Brescia, Anagni, Padova, Trieste: in tutte queste città è storicamente accertato che i vescovi svolsero un ruolo decisivo nel passaggio di poteri dall’occupazione nazista alle truppe alleate ed al CLN. Afferma il Durand: «I negoziati di Milano sono quelli che colpiscono di più, a motivo dell’importanza dei protagonisti: il cardinal Schuster, Mussolini, il maresciallo Graziani» [3]. Nel capoluogo lombardo, il passaggio di poteri dai nazifascisti al CLN fu concordato in una serie di incontri distanziati nel tempo che si svolsero presso lo stesso arcivescovado milanese.

A Roma fu invece lo stesso Pio XII a giocare un ruolo importantissimo nel preservare indenne la città nel passaggio di potere agli alleati. Il papa riuscì a mantenere una difficile neutralità – non si deve dimenticare che personaggi della levatura di Ivanoe Bonomi, presidente del CLN, e Pietro Nenni erano nascosti nel Seminario Romano Maggiore – cercando di evitare azioni della resistenza che avrebbero causato rappresaglie ed, insieme, lavorando per portare in salvo coloro che erano stati arrestati dai tedeschi (l’ultimo ad essere salvato scampando alla fucilazione, il 3 giugno 1944, fu il socialista Giuliano Vassalli, rilasciato grazie alla mediazione di inviati di Pio XII, poche ore prima della ritirata tedesca) [4].

Il 5 e, soprattutto, il 6 giugno 1944 tutta la città di Roma si riversò in piazza S. Pietro per rendere omaggio al pontefice, poiché tutti avvertivano che era grazie a lui che la guerra aveva superato Roma con danni e lutti limitatissimi, rispetto a quelli che avrebbero potuto verificarsi. C. Trabucco scrisse che, in piazza S. Pietro, dove il papa uscì tre volte alla finestra a salutare i romani, erano presenti «numerose bandiere rosse dei comunisti, numerosi i socialisti, senza meno gli aderenti alla democrazia cristiana, immensa la folla anonima» [5].

Al periodo della resistenza e del dopoguerra ci riporta anche il sepolcro del grande statista Alcide De Gasperi, posta nel lato sinistro del porticato di S. Lorenzo. L’opera che accoglie il suo corpo venne scolpito da Giacomo Manzù. Vi si legge l’iscrizione in latino: “A colui che predilesse la pace e la patria, rifulga la luce eterna”. Il vescovo rappresentato sopra la tomba è S. Vigilio di Marebbe, patrono di Trento – De Gasperi era originario della provincia trentina.

De Gasperi ebbe un ruolo decisivo nell’evoluzione repubblicana dell’Italia. Il prof. De Luca, storico delle dottrine politiche, ha recentemente evidenziato come l’approdo dell’Italia alla democrazia necessitasse di due precise condizioni [6]: da un lato l’esistenza di partiti di massa, dall’altro una cultura democratica degli stessi. Fin dall’unità, in Italia esistevano i liberali che avevano sì una cultura democratica, ma nessun radicamento popolare. Era presente dai primi del novecento il variegato movimento comunista e socialista che aveva sì un profondo radicamento popolare, ma non una cultura democratica. I cattolici erano gli unici ad avere insieme un forte radicamento popolare ed un background culturale pienamente compatibile con i processi democratici.

Fu proprio De Gasperi a prendere in mano le redini del movimento cattolico, orientando le masse cattoliche e la stessa gerarchia ecclesiastica a scommettere sulla democrazia, come ha evidenziato nei suoi studi il prof. Pietro Scoppola. La vittoria della repubblica nel referendum del 2 giugno fu ampiamente suo merito, così come l’aver mantenuto nell’alveo democratico i successivi passi del nostro paese.

Come si espresse splendidamente Paolo VI, «la politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri» (Octogesima adveniens, 46); proprio la testimonianza di Alcide De Gasperi ci ricorda questa vocazione dell’uomo politico a saper unire i grandi valori con la concretezza delle scelte pubbliche da compiere. E proprio in questa basilica è bene soffermarsi a meditare sulle diverse forme di carità espresse dalla chiesa nella storia, a partire da quella forma peculiare di carità che è espressa dal servizio diaconale di S. Lorenzo fino a giungere a quell’altrettanto necessaria modalità di carità che è l’azione politica, testimoniata dalla vocazione di Alcide De Gasperi.

14/ L’interno della basilica di S. Lorenzo, di Marco Valenti

Entriamo nella basilica onoriana del XIII secolo. L’impatto visivo è quello di una grande armonia data dalle colonne nella navata; con un po’ di attenzione ci si accorge, però, che il presbiterio è molto particolare, non essendo in asse con la basilica, ma spostato verso sinistra.

Appena entrati, sulla parete della controfacciata, è da ammirare il sarcofago pagano con una sovrastante struttura cosmatesca medievale. All’interno vi è sepolto il cardinal Guglielmo Fieschi, ma il sarcofago era originariamente la sepoltura di una coppia romana, come mostra l’iconografia pagana che merita di essere vista nel dettaglio.

Sulla fascia superiore è rappresentato il fluire del tempo, con il sole che sorge, a sinistra, sul carro condotto da Febo/Apollo, a rappresentare l’inizio della vita, e che tramonta a destra, con il carro che discende, immagine del concludersi della vita. Al centro sono rappresentati Giove fra Diana, dèa della caccia con il suo cane, e Cerere, dèa dei campi, con i frutti della terra. Al loro fianco, i gemelli Castore e Polluce.

Nella fascia inferiore, che è sicuramente la più bella, è rappresentato un matrimonio pagano con il suo corteo nuziale. Partendo da sinistra si vedono innanzitutto tre figure del corteo che portano il corno dell’abbondanza, l’epitalamio, la ghirlanda di alloro. Al centro è raffigurato un tempio con due figure che potrebbero rappresentare forse il contratto nuziale, mentre la fedeltà è simbolizzata da una colomba. Si vedono anche l’ariete, la frutta ed il pane che stanno per essere offerti in sacrificio ed un sacerdote pagano con il capo velato.

Infine è rappresentato il matrimonio vero e proprio: i testimoni a fianco dello sposo e della sposa che si stanno stringendo la mano (è il rito della dextrarum iunctio con cui si celebravano le nozze). Sotto le loro mani è raffigurato Cupido, garante dell’amore coniugale.

Sul fianco sinistro del sarcofago, altri tre partecipanti al corteo con i doni del sacrificio (uno è un vittimario che conduce la scrofa, segno di fecondità, al sacrificio). Sul fianco destro, invece, tre garzoni che portano un vaso di unguenti, i profumi ed uno specchio circolare, evidentemente parte del corredo della sposa.

Le acquasantiere, con lo stemma dei Farnese, vennero fatte realizzare dal cardinal Farnese, il futuro Paolo III. Il pavimento della basilica onoriana è di origine medioevale, opera dei cosmateschi. Questa famiglia di artisti riutilizzava materiali di epoca romana come il serpentino ed il porfido. Le parti circolari più grandi provengono da colonne di edifici di età romana tagliate, si potrebbe dire, a fette di salame poiché questo tipo di pietra era di difficile reperibilità sul mercato e veniva così prelevata da monumenti antichi.

Dopo il bombardamento i restauratori hanno lavorato molto per recuperare tutto ciò che era possibile, ma, evidentemente, ci sono molte integrazioni. Questo è evidente, in particolare, nel grande quadrato centrale a losanghe: i grifoni sono cosmateschi, mentre al centro una scritta latina moderna ricorda i lavori di restauro, sostituendo l’antica raffigurazione di due cavalieri, probabilmente degli Orsini (sappiamo da testimonianze precedenti il bombardamento che i due cavalieri avevano come insegne dei leoni rampanti, segno che gli Orsini erano stati i committenti del pavimento cosmatesco).

Le colonne sono evidentemente scheggiate dalle bombe. Sono diverse fra loro, segno che Onorio III utilizzò materiale di spoglio per erigere la basilica. I Vassalletto hanno fatto, invece, ex novo i capitelli che sono perciò tutti dello stesso stile.

Nelle volute del capitello di una colonna sono raffigurate una rana e una lucertola; come per molti particolari medioevali, le guide si sbizzarriscono ad inventare leggende per fornirne una spiegazione; sono, invece, semplicemente dei particolari che i Vassalletto amavano inserire, come si vede anche nei chiostri di S. Paolo e di S. Giovanni, per abbellire la loro opera.

Le pareti sostenute dalle colonne erano state affrescate al tempo di Pio IX, ma le raffigurazioni sono andate distrutte durante il bombardamento. Anche la controfacciata era affrescata con pitture medioevali. I pochi frammenti che si sono conservati sono esposti nella navata destra della basilica (si vedono il Redentore con i santi Ippolito, Lorenzo, Stefano ed Eustachio).

Procedendo nella navata, si vede che, ad un certo punto, il pavimento modifica il suo stile. Dove inizia questa variazione era posta probabilmente la schola cantorum come a S. Clemente o S. Sabina; questa zona peculiare era segnalata da una pavimentazione diversa.

I due amboni sono stupendi: quello di sinistra, più semplice, per la lettura dell’epistola, con marmo greco e marmo di Carrara, quello di destra, più ricercato, per la lettura del Vangelo con marmo serpentino e porfido. In quello di destra è più decorata anche la loggetta dalla quale il diacono proclamava il vangelo: vi è rappresentata un’aquila con una preda. L’aquila, nel bestiario medioevale era simbolo dell’evangelista Giovanni: si riteneva che l’aquila sapesse puntare gli occhi in alto, fissando la luce del sole senza rimanere accecata, così come l’evangelista Giovanni aveva contemplato il Logos di Dio, ed insieme sapesse scrutare in profondità, guardando dall’alto tutte le cose. Ma l’aquila simbolizzava anche la forza, come è ovvio ed un recente articolo di Franco Cardini è tornato a sottolineare. L’aquila con la preda simbolizzava allora la potenza di Dio e della sua Parola, la capacità divina di sconfiggere il male, come una preda. Si sottolinea così che la Parola di Dio è forte e giusta. La stessa forza divina è simbolizzata nella basilica anche dai due leoni che sono presso il portale: stringono una preda ed una figura umana.

Sull’ambone si vedono anche alcuni gradini: da quei gradini veniva cantato il salmo, che era detto, infatti, gradualis. Caratteristico è poi il candelabro sul quale veniva collocato il cero pasquale. È posto vicino all’ambone del vangelo, con colonna tortile e capitello corinzio che poggia su due leoni.

Gli affreschi dell’arco trionfale ripetono, probabilmente, i mosaici che si trovavano sulla facciata esterna: si vedono la Madonna, due angeli, S. Lorenzo, S. Stefano, Ciriaca e Ippolito e, sotto di loro, i due profeti Geremia e Isaia.

S. Ciriaca che, secondo la tradizione, offrì la tomba per la sepoltura è ricordata nell’altare del SS. Sacramento: la si vede dipinta mentre seppellisce i morti – si noti la posizione caravaggesca dei due addetti alla sepoltura. Ma il luogo in cui la santa è maggiormente venerata nella basilica è la Cappella di S. Ciriaca, dalla quale si accede anche alle catacombe sottostanti. L’insieme conserva molto dello stile barocco del seicento - si vedano in particolare le due tombe che sono a destra ed a sinistra dell’ingresso - ma molto è stato risistemato in epoche successive.

15/ La cripta con la tomba e le reliquie

Scendiamo adesso al luogo più venerato della basilica, la cripta sottostante l’altare. Qui è l’antica sepoltura di Lorenzo e qui ancora oggi sono le sue reliquie. È questo il centro della basilica, ideale punto di unione delle due chiese, quella onoriana e quella pelagiana. Nella cripta è eretto un altare dietro il quale è la tomba di S. Lorenzo. Le reliquie del prete Giustino che, secondo la tradizione, intervenne alla sua sepoltura e le reliquie di S. Stefano, traslate secondo la tradizione da Costantinopoli a Roma, sono anch’esse custodite in questo luogo.

Nella cripta è affissa una iscrizione che ricorda la città spagnola di Huesca poiché quella città rivendica i natali di S. Lorenzo.

L’antica lastra sulla quale sarebbe stato deposto il corpo di Lorenzo è visibile dietro la cripta, scendendo alla sepoltura di papa Pio IX; vi passeremo vicini al termine del nostro itinerario.

Volgendo lo sguardo in alto, all’ingresso della cripta, si individua facilmente una lastra riutilizzata che reca un’antica iscrizione. È stata recentemente studiata e gli studiosi sostengono che essa contiene, forse, la più antica attestazione scritta sulla dottrina della transustanziazione, affermando che il vino, nella celebrazione eucaristica, muta la sua sostanza in quella del sangue di Cristo (l’iscrizione dovrebbe essere del V-VI secolo).

L’epigrafe eucaristica recita, secondo la ricostruzione degli studiosi (fra parentesi le parti mancanti ed integrate):

1 - (Adsp)ICE QUI TRANSIS QUAM SIT BREVIS AC(cipe vita)
2 - (Atqu)E TUAE NAVIS ITER AD LITUS PARAD(isi)
3 - (Der)EGE QUO VULTUM DOMINI FACIAS TIBI PO(rtum)
4 - (Dica)T IAM QUISQUIS HAEC SACRA PERH(auriat ore)
5 - (Glor)IA SUMMA DOMINUS LUMEN SAPIENTIA VIR(tus)
6 - (Cui)US [o: (Ver)US] IN ALTARI CRUOR EST VINUMQUE (videtur)
7 - (Qui)QUE TUI LATERIS PER OPUS MIRAE (pietatis)
8 - (Omni)POTENTER AQUAM TRIBUIS BAPTI(smate lotis)

Questa è la traduzione del testo:
«Guarda, tu che passi, intendi quanto sia breve la vita, e raddrizza il viaggio della tua nave all’approdo del Paradiso, là dove il tuo porto sarà vedere il Signore. Dica ormai chiunque beve queste specie consacrate: “Tu sei la somma gloria, il Signore, il lume, la sapienza, la virtù, il cui [o: vero] sangue è sull’altare e sembra vino; tu, che nella tua onnipotenza concedi con un’opera di mirabile misericordia l’acqua scaturita dal tuo fianco a coloro che sono stati purificati nel battesimo».

16/ La basilica pelagiana

Saliamo ora nel presbiterio, cioè entriamo nella basilica pelagiana della fine del VI secolo. L’edificio fu eretto, come si è già detto, da papa Pelagio II (579-590), il predecessore di Gregorio Magno. La basilica pelagiana terminava con l’abside, della quale abbiamo visto la curva proprio davanti al presbiterio, che aveva al centro la tomba di S. Lorenzo; non aveva, invece, il transetto. Una volta che fu eliminata la primitiva abside ed, al suo posto, fu eretta la basilica onoriana, l’antica basilica pelagiana fu riadattata come presbiterio della nuova.

La basilica pelagiana aveva l’ingresso dal lato dove è ora la cattedra. Il suo pavimento era più in basso: venne interrato fino al livello dell’attuale presbiterio al tempo di Onorio, ma, al tempo di Pio IX, si scavò nuovamente fino alla quota originaria. Individuando la base delle colonne che delimitano il presbiterio, ci si rende immediatamente conto del livello originario della basilica pelagiana.

La basilica del VI secolo ha riutilizzato materiale di spoglio: le colonne e le trabeazioni sono di età romana e non sono state ricomposte in maniera impeccabile. I capitelli corinzi sono di ottima fattura. In modo particolare le ultime due colonne di ogni lato della vecchia basilica, cioè le prime due del presbiterio attuale, provengono sicuramente da un antico edificio di rappresentanza perché hanno agli angoli le raffigurazioni di trofei di armi circondati da vittorie alate, simboli utilizzati nei cortei imperiali vittoriosi.

Il matroneo, con le colonnine più sottili, non completamente in asse con quelle sottostanti, è più ricercato, più rifinito ed armonico.

Dell’antica basilica pelagiana si è conservato il bellissimo mosaico dell’arco trionfale (anche se alcune parti sono state reintegrate). I mosaicisti dovevano appartenere alla scuola che realizzò i coevi mosaici di Ravenna. In particolare, ritroviamo il monogramma di Cristo, che è nel sottarco al centro del festone, nel mausoleo di Galla Placidia ed a S. Vitale.

Il mosaico rappresenta Cristo benedicente assiso sull’universo con a fianco S. Paolo, secondo la consueta iconografia che lo vuole un po’ stempiato e barbuto, e S. Pietro con i capelli bianchi. Seguono a sinistra S. Lorenzo con la citazione del Salmo 111,9 “Dispersit... dedit pauperibus” (“donò largamente ai poveri”) e, al suo fianco, papa Pelagio senza aureola e con le mani in segno di offerta che presenta il modellino della basilica di S. Lorenzo a Cristo.

Dall’altro lato vediamo S. Stefano, con la citazione del Salmo 63,9 “Adesit anima mea” (“A te si stringe l’anima mia”) e S. Ippolito che presenta la corona del proprio martirio. Si vedono chiaramente anche due finestre ora cieche che al tempo servivano per dare luce.

In basso sono rappresentate le due città di Betlemme e di Gerusalemme ad indicare, probabilmente, la città dell’incarnazione e quella della Pasqua del Signore Gesù. La scritta sottostante in latino, ricorda il martirio nel fuoco di S. Lorenzo e recita: «+Martyrium flammis olim levvita subisti, iure tuis templis lux veneranda dedit».

«+Tu subisti, o Levita, un tempo il martirio delle fiamme; ora giustamente doni la veneranda luce al tuo tempio».

Il pavimento, la cattedra ed i sedili per i sacerdoti sono cosmateschi e furono ovviamente aggiunti quando Onorio fece innalzare il livello della basilica precedente, trasformandola in presbiterio. La cattedra episcopale, di scuola cosmatesca, è in fondo al coro: essa fu realizzata nel 1254, come risulta dai seguenti versi incisi sullo scaglione marmoreo a sinistra: «Christi nascentis in seculo vere manentis. Annus millenus quinquagenus quartus et ducentenus».

17/ La sepoltura di Pio IX

È possibile scendere al livello del pavimento pelagiano, grazie ai lavori realizzati dall’architetto Vespignani nel XIX secolo. Le colonne laterali sono ancora quelle della basilica pelagiana, ma tutto il resto è di fine ottocento.

Qui venne sistemata la tomba di Pio IX, ora proclamato beato. Pio IX visse in un periodo difficilissimo della storia della chiesa, quello che seguì la rivoluzione francese; la sua lunga vita lo portò ad essere testimone della soppressione dello Stato Pontificio con la presa di Roma del 1870. Non possiamo soffermarci a parlare della sua vita, ma lo faremo quando giungeremo nel nostro corso di storia della chiesa all’ottocento.

I mosaici che sono stati realizzati vicino alla sua tomba non hanno valore artistico, ma servono a richiamare alcuni episodi della sua vita.

A sinistra l’omaggio dei cinque continenti al pontefice, in occasione del suo giubileo sacerdotale (interessante la raffigurazione della bandiera americana). Al centro la proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione, nel 1848. A destra, il Concilio Vaticano I, celebrato nel 1870 nella basilica Vaticana ed interrottosi per la presa di Roma. Il Concilio fece in tempo ad approvare due importantissimi documenti, la Dei Filius che difende la capacità della ragione di giungere alla conoscenza dell’esistenza di Dio, e la Pastor Aeternus, che dichiara l’infallibilità pontificia, quando il papa si pronuncia ex cathedra.

L’antico nartece della basilica pelagiana venne adibito a sepolcro di Pio IX, poiché egli volle essere sepolto qui per la devozione che portava a S. Lorenzo. Il corpo del pontefice venne traslato qui dal Vaticano e, durante il tragitto, si rischiò che alcuni anticlericali lo gettassero nel fiume.

Sono raffigurati intorno alla tomba, oltre ai tre pannelli che abbiamo visto, il Buon Pastore, i SS. Pietro e Paolo, i SS. Lorenzo e Stefano e le SS. Ciriaca ed Agnese. Inoltre i santi canonizzati o dichiarati patroni da Pio IX: S. Giuseppe, che venne dichiarato dal pontefice patrono universale della Chiesa, i Santi Francesco e Caterina da lui dichiarati patroni d’Italia, S. Alfonso de’ Liguori e S. Francesco di Sales dichiarati da Pio IX dottori della Chiesa. Alcune reliquie di questi santi sono collocate in un altare apposito della cappella, incastonate nei medaglioni.

18/ Il chiostro romanico

Merita una visita, infine, il chiostro romanico dell’antico monastero. Fu eretto nel XII secolo, al tempo in cui i monaci benedettini della riforma di Cluny erano i custodi della basilica, durante il pontificato di Clemente III (1187-1191). Il chiostro è a due livelli, con archetti sostenuti da colonnine e capitelli.

19/ Per un pellegrinaggio in Roma sui passi di S. Lorenzo

Se volessimo percorrere in Roma un itinerario di pellegrinaggio sui passi di S. Lorenzo, potremmo recarci anche alle Catacombe di San Callisto: Lorenzo esercitava il suo servizio, oltre che in altri luoghi, anche presso quelle catacombe e lì venne catturato.

La tradizione venera poi in San Lorenzo in Fonte, in via Urbana 50, il luogo della sua prigionia, dove si convertirono Ippolito e Lucilio, che venne lì battezzato.

Infine è legata alla memoria del martire anche la chiesa di San Lorenzo in Panisperna, in via Panisperna, dove la tradizione ricorda il luogo del suo martirio.


NOTE AL TESTO

[1] Nell’enciclica Deus caritas est il papa Benedetto XVI ha inserito un passaggio che tratta dell’impressione che doveva destare nel mondo pagano questa attenzione ecclesiale ai poveri come veri tesori: «Un accenno alla figura dell'imperatore Giuliano l'Apostata († 363) può mostrare [...] quanto essenziale fosse per la Chiesa dei primi secoli la carità organizzata e praticata. Bambino di sei anni, Giuliano aveva assistito all'assassinio di suo padre, di suo fratello e di altri familiari da parte delle guardie del palazzo imperiale; egli addebitò questa brutalità — a torto o a ragione — all'imperatore Costanzo, che si spacciava per un grande cristiano. Con ciò la fede cristiana risultò per lui screditata una volta per tutte. Divenuto imperatore, decise di restaurare il paganesimo, l'antica religione romana, ma al contempo di riformarlo, in modo che potesse diventare realmente la forza trainante dell'impero. In questa prospettiva si ispirò ampiamente al cristianesimo. Instaurò una gerarchia di metropoliti e sacerdoti. I sacerdoti dovevano curare l'amore per Dio e per il prossimo. In una delle sue lettere (Cfr Ep. 83: J. Bidez, L'Empereur Julien. Œuvres complètes, Parigi 1960, t. I, 2a, p. 145) aveva scritto che l'unico aspetto del cristianesimo che lo colpiva era l'attività caritativa della Chiesa. Fu quindi un punto determinante, per il suo nuovo paganesimo, affiancare al sistema di carità della Chiesa un'attività equivalente della sua religione. I « Galilei » — così egli diceva — avevano conquistato in questo modo la loro popolarità. Li si doveva emulare ed anche superare. L'imperatore in questo modo confermava dunque che la carità era una caratteristica decisiva della comunità cristiana, della Chiesa» (Deus caritas est, 24). Con Giuliano l’Apostata siamo un secolo dopo il martirio di Lorenzo, ma l’accostamento aiuta a comprendere perché Lorenzo fosse tanto amato e venerato.

[2] Questo, più ampiamente, il passaggio del suo volume che si riferisce al periodo dell’occupazione nazista di Roma: «A Roma [...] accanto all’attività del CLN e dei partigiani, c’è anche [...] l’organizzazione puramente militare dipendente dal governo Badoglio. Il governo del Sud non intende lasciarsi scavalcare dai CLN, e le opposizioni infatti non mancheranno; alla fine un rappresentante del governo Badoglio, il generale Bencivenga, avrà l’incarico del comando di Roma al momento della liberazione; e Bencivenga non vuol essere tutelato dal CLN.
Ma a Roma entra in giuoco soprattutto un’altra forza: la Santa Sede. All’indomani della liberazione di Roma, la popolazione della capitale si precipita in piazza San Pietro per acclamare il Santo Padre ed esprimergli la sua riconoscenza. Pio XII sarà chiamato «defensor urbis». I romani ringraziano il Santo Padre perché la città non ha subito danni nella lotta fra Alleati e Tedeschi. In effetti il clero romano e il Vaticano svolgono durante questi mesi un’azione importante: approvvigionamento, soccorsi alla popolazione, ecc. Numerosi uomini politici perseguitati dai Tedeschi vengono salvati e trovano rifugio nelle antiche chiese e abbazie. San Paolo fuori le Mura, San Giovanni in Laterano, monasteri, ecc., divengono l’ultimo rifugio dei ricercati dal nemico.
Sempre mi torna alla mente, quando penso a quei giorni a noi così vicini, ciò che accadde nel V secolo, allorché le orde germaniche si riversarono nell’impero romano. L’anno 410 dopo Cristo, per la prima volta dopo sette secoli, Roma veniva presa d’assalto e saccheggiata dai Visigoti. La regina del mondo era caduta; e Sant’Agostino dice: il barbaro invasore arrestò la sua furia davanti alle basiliche; non osarono, quei barbari, penetrare nei luoghi consacrati dal Cristo, e la popolazione fu salva. Fu quella, quindici secoli fa, l’origine del potere e della forza politica della Chiesa romana. Presentandosi come i difensori della popolazione abbandonata dall’autorità imperiale romana, i papi gettarono le basi, nel corso del V secolo, del potere e dell’influenza politica della Chiesa di Roma.
Anche durante il periodo dell’occupazione tedesca, la Chiesa splende su Roma, in modo non molto diverso da come era accaduto nel V secolo. Roma si trova, da un giorno all’altro, senza governo; la monarchia è fuggita, il governo pure, e la popolazione volge il suo sguardo a San Pietro. Viene meno un’autorità, ma a Roma – città unica sotto questo aspetto – ne esiste un’altra: e quale autorità! Ciò significa che, benché a Roma vi sia il comitato e l’organizzazione militare del CLN, per la popolazione è di gran lunga più importante e acquista un rilievo ogni giorno maggiore l’azione del papato
» (F. Chabod, L’Italia contemporanea (1918-1948), Torino, Einaudi, 1978, pp. 124-125).

[3] Durand J.-D., L’église catholique dans la crise de l’Italie (1943-1948), École Française de Rome, Rome, 1991, pp. 154-160.

[4] Cfr. su questo 4 giugno 1944, Roma è salva: il senso della neutralità di Pio XII, di A.L.

[5] Citato in A. Riccardi, L’inverno più lungo. 1943-1944: Pio XII, gli ebrei, e i nazisti a Roma, Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 343.

[6] L’articolo è disponibile on-line: Liberali, comunisti, cattolici... I partiti e la storia della democrazia in Italia dal 1919 al 2008, di Stefano De Luca.