La conversione di Costantino il grande. Fu conversione vera o dettata da opportunismo?, di Marta Sordi (in appendice alcuni passaggi da Costantino e la chiesa, di Manlio Simonetti)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 12 /12 /2009 - 00:15 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal web un articolo di Marta Sordi, apparso su Il Timone n. 20, luglio/agosto 2002 con il titolo originario “Anno 312: l'imperatore Costantino, in lotta contro il rivale Massenzio, si converte al Cristianesimo dopo la visione di una croce e della scritta ‘Con questo segno vinci’. Fu conversione sincera o dettata da opportunismo?”. L’articolo è stato poi pubblicato con alcune varianti su Archeo 21 (2005), n. 4, pp. 90-93 e nuovamente sul sito www.meetingrimini.it in occasione della mostra Costantino il grande. La civiltà antica al bivio tra Occidente e Oriente. Il catalogo della mostra, edito da SilvanaEditoriale, Cinisello Balsamo, 2005, fornisce uno status quaestionis del dibattito su Costantino. Al suo interno si segnalano uno studio di Augusto Fraschetti, l’autore cui la Sordi fa riferimento nel testo, dal titolo Costantino e la sua famiglia, che sintetizza gli studi sulla religiosità di Costantino nelle fonti dell’epoca, ed uno studio di Manlio Simonetti, dal titolo Costantino e la chiesa, che presenta l’evoluzione delle posizione costantiniane dal concilio di Nicea alla morte. All’articolo di Marta Sordi alleghiamo alcuni passaggi dello studio del prof. Simonetti.
Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questi testi non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Foto dell'Arco di Costantino al Colosseo con l'iscrizione che contiene la famosa espressione INSTINCTU DIVINITATIS al link Arco di Costantino al Colosseo.
Su Costantino il grande,vedi su questo stesso sito La conversione di Costantino imperatore e la teologia politica di Eusebio di Cesarea, di Marilena Amerise.

Il Centro culturale Gli scritti (11/12/2009)

Negli anni '30 del secolo scorso e, poi, per molti decenni ancora, la "questione costantiniana", sollevata dal Gregoire e dalla sua scuola, attirò l'attenzione degli studiosi e divenne addirittura uno dei temi fondamentali, per il settore antico, del Congresso Internazionale di Storia del 1955: si sostenne, infatti, da parte di alcuni, che la svolta del 312/3 non fu opera di Costantino, ma, semmai, di Massenzio e di Licinio; che Costantino non si convertì allora al Cristianesimo e che la sua presunta conversione a Ponte Milvio fu un'invenzione degli scrittori cristiani della sua corte, Lattanzio ed Eusebio, accettata per opportunismo dall'imperatore negli anni dello scontro definitivo con Licinio; che il segno da lui adottato in quella occasione era un simbolo solare e non cristiano e che egli rimase un adoratore del Sole per molti anni ancora.

Oggi questa impostazione è in gran parte superata e uno studio recente sottolinea anzi l'importanza del rifiuto da parte di Costantino, implicito nel silenzio di tutte le fonti, dell'ascesa in Campidoglio nelle celebrazioni del 29 ottobre del 312 e della sostituzione, inaugurata da Costantino, dell'adventus al trionfo: il nuovo cerimoniale, ripreso poi dagli imperatori cristiani, con l'assunzione dei caratteri del trionfo, ma senza il tradizionale rendimento di grazie a Giove Ottimo Massimo e con la valorizzazione degli incontri col senato e col popolo e della publica laetitia, è la conferma, a mio avviso importante, del rapporto che già prima di Costantino i Cristiani avevano assunto nei riguardi di Roma, di accettazione piena della sua tradizione politica e militare e di rifiuto totale della sua tradizione religiosa.

Questo atteggiamento si ritrova in Ambrogio e caratterizzerà l'impero romano-cristiano. La spiegazione che le fonti cristiane contemporanee, Lattanzio nel De mortibus persecutorum ed Eusebio nella Storia Ecclesiastica e nella Vita di Costantino (di cui molti, ma sembra a torto, hanno contestato l'autenticità), danno dell'improvvisa trasformazione dell'atteggiamento di Costantino nella campagna del 312, resta certamente l'unica possibile: anche se nelle vicende di quei giorni avessimo soltanto il racconto dell'anonimo panegirista pagano del 313, dovremmo ammettere che, nel corso della campagna contro Massenzio, qualcosa di eccezionale era avvenuto nella religiosità di Costantino e che egli aveva abbandonato il paganesimo tradizionale, mostrando anzi un fastidio così aperto verso gli dèi, che il retore evita di nominarli in sua presenza, ed era passato ad un misterioso Dio supremo, creatore e provvidente, nel quale si poteva in qualche modo riconoscere il summus deus dei filosofi e della religione solare, ma che non poteva essere identificato semplicemente con quello.

La stessa reticenza imbarazzata si trova nella iscrizione dell'arco elevato in onore dell'imperatore dal senato e dal popolo romano nel 315 (instinctu divinitatis) e nel linguaggio del cosiddetto editto di Milano del febbraio 313, impostato nella ricerca di un linguaggio comune, che potesse essere accolto da una religione monoteistica e da un paganesimo "monoteizzante", di natura filosofica e solare e potesse essere sottoscritto dal pagano Licinio e dal cristiano Costantino: quidquid est divinitatis in sede celesti, “qualunque sia la divinità nei cieli” (Lattanzio, De mort. 48).

Nell'incontro di Milano, che doveva risolvere i massimi problemi politici dell'impero, le decisioni da prendere per prime sono quelle che riguardano la divinitatis reverentia, affinché "qualsiasi divinità ci sia nella sede del cielo, possa essere placata e propizia a noi e a tutti coloro che sono posti sotto il nostro comando": alla base di questa impostazione c'è evidentemente la tradizione romana della pax deorum, l'alleanza con la divinità.

Caratteristica di Costantino è invece la condizione posta al collega pagano per un accordo, la concessione della libertà religiosa, secondo cui il diritto della divinità di essere adorata come vuole fonda nei singoli la "libera potestà di seguire la religione che ciascuno avesse voluto"; essa capovolge la concezione dell'editto di Serdica, che Licinio aveva suggerito al morente Galerio, presentando la tolleranza come un perdono concesso dalla clemenza imperiale ad un errore, e rovescia addirittura, a favore del Cristianesimo, i tradizionali rapporti fra religioni, affermando che, proprio per assicurarsi l'alleanza della divinità, gli imperatori concedono "ai Cristiani e a tutti" la libertà di seguire la religione che vogliono.

Nominando per primi i Cristiani e isolandoli rispetto agli altri, il cosiddetto editto di Milano toglie in un certo senso al paganesimo il suo carattere di religione di Stato e prepara la strada alla proclamazione del Cristianesimo a nuova religione dell'impero romano: ciò che avverrà in modo esplicito solo con Teodosio, e dopo la rinuncia da parte di Graziano alla carica di Pontefice Massimo.

Per comprendere la svolta costantiniana credo sia necessario liberarsi del pregiudizio moderno della pura strumentalizzazione politica della religione e tenere conto invece dell'importanza che la scelta della divinità, dell'alleanza col Dio più forte a cui affidare l'impero, aveva assunto, sulla linea dell'antica concezione della pax deorum, nella mentalità romana dal III secolo in poi. Se tenessimo conto esclusivamente dell'interesse politico contingente, la scelta di un simbolo cristiano (croce, monogramma di Cristo o croce monogrammatica) e la proclamazione dell'alleanza col Dio dei Cristiani apparirebbero incomprensibili e controproducenti: l'esercito delle Gallie, che Costantino guidava contro il "tiranno" Massenzio, era in gran parte pagano e pagani erano senato e il popolo di Roma, che Costantino intendeva "liberare". La scelta, imprevedibile, fu dunque religiosa: o, meglio, fu politica, ma nel senso di "politica verso la divinità".

Lo rivela il racconto che Costantino stesso dette ad Eusebio della sua conversione e che leggiamo nella Vita Costantini (1, 27): secondo questa versione l'imperatore, all'inizio della campagna contro Massenzio, era preoccupato per le arti magiche a cui quest'ultimo faceva ricorso ed era convinto che fosse impossibile vincerlo senza l'aiuto divino. Egli cercava dunque un dio che lo aiutasse, nella consapevolezza che gli dei della Tetrarchia, Giove ed Ercole, non erano stati capaci di aiutare Galerio e Severo, e che solo suo padre, Costanzo Cloro, che aveva onorato per tutta la sua vita il dio sommo, lo aveva avuto alleato sempre. Egli invocò perciò il dio di suo padre, chiedendo di rivelargli chi fosse e di stendergli la sua destra: fu allora che egli vide nel cielo, al di sopra del sole, un trofeo della croce fatto di luce, con la scritta: "Con questo vinci".

Ciò che colpisce nella versione di Costantino, e che un cristiano non aveva interesse a inventare, è che egli ammette di essere stato fino al 312 un adoratore del Sole, come suo padre, e di avere sentito la sua conversione al Cristianesimo come il superamento di una religiosità incompleta, non come il rinnegamento di una religione falsa. Nella visione il "dio dai molti nomi" aveva assunto il nome e il simbolo di Cristo: questo spiega perché, fino al 320, i simboli solari non scompaiano dalie monete di Costantino.

Glossario

  • Costanzo Cloro (250-306). Padre di Costantino, adottato (293) da Massimiano e nominato Cesare, gli fu assegnata la Gallia. Divenne Augusto nel 305.
  • Massenzio (ca 280-312). Imperatore romano. Figlio di Massimiano, fu eletto imperatore dai pretoriani nel 306 in opposizione a Costantino. Sconfitto da quest'ultimo a Verona e poi a Roma (312), presso Ponte Milvio, annegò nel Tevere mentre tentava di fuggire.
  • Licinio (250-325). Imperatore romano. Nominato Augusto (308), per ottenere il dominio su tutto l'Oriente si alleò con Costantino e insieme a lui promulgò a Milano l'editto di tolleranza verso i cristiani (313). Venuto in lotta con Costantino, fu ripetutamente sconfitto, confinato e poi ucciso.
  • Galerio (ca 250-311). Imperatore romano. Nel 293 viene nominato cesare per l'Oriente, con Costanze, da Diocleziano. Divenuto augusto nel 305, dovette lottare con Massenzio, Costantino e Massimino, che pretendevano la dignità imperiale. Autore di un editto di tolleranza verso i cristiani (311), muore nello stesso anno.

Bibliografia

M. Sordi, Il Cristianesimo e Roma, Bologna 1965, pp. 377 ss.
M. Sordi, I Cristiani e l'impero romano, Milano 1995, p. 134 ss.
A. Fraschetti, La conversione da Roma pagana a Roma cristiana, Bari 1999

© Il Timone n. 20, luglio/agosto 2002

Appendice da M. Simonetti, Costantino e la chiesa

I testi di questa appendice sono tratti da M. Simonetti, Costantino e la chiesa, in Costantino il grande. La civiltà antica al bivio tra Occidente e Oriente, A. Donati – G. Gentili (a cura di), SilvanaEditoriale, Milano, 2005, pp. 56-63.

«Agli inizi del IV secolo i cristiani costituivano ancora una minoranza, già rilevante in Oriente ma molto meno in Occidente: soprattutto erano quasi completamente pagani gli strumenti essenziali del potere, esercito e burocrazia, nonché la grande maggioranza della classe politicamente e socialmente egemone. Sentimenti anticristiani erano ampiamente diffusi tra gli intellettuali e, più in generale, tra i molti ai quali non sfuggiva l'estraneità, non soltanto religiosa ma anche più latamente culturale, della comunità dei cristiani agli ideali dell'ellenismo e della romanità. Insomma, con la sua svolta Costantino non si limitò affatto a prendere atto di una situazione già definita a favore dei cristiani e a darvi sanzione ufficiale, ma giocò una carta incerta e pericolosa a vantaggio di chi era ancora il più debole: il fatto che essa sia risultata vincente non deve indurre a sottovalutare il rischio insito in quella mossa e perciò l'audace iniziativa di chi ne fu l'artefice» (pp. 57-58)

«Data la funzione politica che la religione tradizionale da sempre svolgeva nell'ambito dello stato romano, per cui l'imperatore, in quanto pontifex maximus, anche di essa era il capo e il sommo regolatore, una volta venuta meno l'ostilità dell'impero nei confronti della chiesa e stante l'intenzione di Costantino di integrarla nella struttura dello stato, nel modo più naturale egli si considerò, in quanto capo dell'impero, anche suprema autorità della religione cristiana così come lo era della religione pagana: è questo, nella sostanza e al di là di residue incertezze filologiche, il significato del titolo επισκοπος των εκτος [N.d.R. in Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino, IV, 24; cioè vescovo di quelli che sono fuori, cioè dei laici] che egli si attribuì, pur non essendo ancora battezzato, per sanzionare anche dal punto di vista ecclesiastico il suo controllo politico sulla struttura gerarchica della chiesa. In effetti, quella che a livello ideologico Eusebio aveva esaltato come vittoria della verità sull'errore, a livello più concretamente politico significava che la chiesa veniva inglobata nella più vasta compagine dell’impero venendone a costituire una delle varie strutture: come di lì a qualche anno avrebbe affermato il vescovo Ottato di Milevi (III,3), la chiesa era nell'impero, non l'impero nella chiesa» (p. 58).

«Se [...] Costantino, quando si autoelesse capo della chiesa, aveva pensato di assumersi un incarico privo di complicazioni, quale era la funzione di pontefice massimo, aveva fatto male i suoi calcoli, in quanto aveva sottovalutato una caratteristica forte, che specificava la chiesa cristiana nei confronti delle religioni pagane, vale a dire la grande litigiosità interna. A differenza di quelle religioni, quella cristiana aveva alle spalle una sua storia e continuava a viverla giorno per giorno, storia tormentata, a volte convulsa, perché fatta in gran parte di contrasti e polemiche, rivolte non solo all'esterno, nel confronto con pagani e giudei, ma anche, e addirittura soprattutto, all'interno, per motivazioni di carattere sia dottrinale sia anche disciplinare» (p. 58).

«Quanto a Costantino, e al figlio Costanzo che avrebbe seguito, in sostanza, la politica paterna, il fallimento sarebbe stato dovuto al rifiuto, da parte della maggior parte degli interessati, anche se non di tutti, di distinguere tra forma e sostanza, tra l'accettazione soltanto esteriore di una professione di fede e l'adesione intima a un'altra. Il patrimonio di dottrina, che specificava la religione cristiana di fronte a quella pagana, che ne era priva, e anche a quella giudaica, dove era di entità molto più ridotta e di significato molto meno vincolante, era sentito come componente essenziale del deposito di fede e perciò tale da imporre un'osservanza in cui sostanza e forma s'identificassero, perciò senza distinzione tra adesione esterna e interna. La rabies theologorum era perciò destinata ad avere la meglio sulla moderazione di una politica di compromesso. Tale stato di cose complicava di molto l'esercizio del potere dell'imperatore sulla chiesa, in quanto lo sollecitava o a forzare eccessivamente la mano nel tentativo di imporre la soluzione di compromesso ovvero di addentrarsi addirittura nell'aspetto tecnico del contenzioso in esame alla ricerca di una soluzione non soltanto formale, col rischio di concedere troppo, per ovvia necessità, ai teologi di professione e di trovarsi in difficoltà nell'arginare la loro invadenza. Nell'un caso e nell'altro l'inevitabile interferenza del potere politico in questioni di specifico interesse religioso non poteva non generare uno stato di disagio e provocare reazioni» (p. 63).