Note

[Nota 1] Il latino aggiunge “Senatrice di Roma”.

[Nota 2] Questa formula (della quale l'equivalente latino è “Iube domne benedicere”) indica che il manoscritto era un “lezionario”: prima di una lettura liturgica si chiede la benedizione di colui il quale presiede l'ufficio.

[Nota 3] Senza dubbio un vescovo (la versione latina ha: “Sacerdos Dei sanctissime”).

[Nota 4] A partire dalla permanenza di Melania a Gerusalemme.

[Nota 5] Cfr. Es 4, 10.

[Nota 6] Questo prato o giardino (lat: paradisus) evoca una delle immagini favorite dagli scrittori spirituali o compilatori della tradizione monastica. Lo si ritrova in titoli come: Il prato spirituale, Paradiso dei Padri, Paradiso di Eraclide.

[Nota 7] Questo genere di captatio benevolentiae è rigorosamente prescritto dalla retorica antica. Vedi ancora, infra, l'inizio dei capitoli 42 e 60.

[Nota 8] O “esitazione” (citazione di Allatio). E' una correzione apportata al nostro testo oppure una lezione a noi sconosciuta?

[Nota 9] Cfr. Mt 6, 1-18.

[Nota 10] Lc 12, 3.

[Nota 11] Pr 9, 9.

[Nota 12] Bisogna qui ricordare che il nostro testo è un panegirico e non prendere la cosa in senso letterale. San Girolamo cade nella stessa esagerazione quando, apostrofando Eustochio, dice: “la quale era la più nobile delle vergini di Roma” (Ep. XXII, 15)..

[Nota 13] A Roma l'età richiesta per il matrimonio coincideva praticamente con la pubertà, cioè con la possibilità di generare per l'uomo (pubes) e con l'attitudine a concepire per la donna (nubilis, viri patiens, viri potens). L'età media del matrimonio era così, per la donna, dai 13 ai 16-17 anni. Era a 17 anni d'altra parte che, nel diritto primitivo aveva luogo la constatazione della pubertà (piena pubertas). Sotto l'impero la presa della toga virile variava fra i 14 ed i 16 anni. Le età fornite dal nostro testo non hanno quindi niente di inverosimile (vedi su questo punto Ch. Lecrivain, articolo Matrimonium, nel Dict. des Ant. Gr. et rom. di Daremberg).

[Nota 14] Sfuggire puramente e semplicemente sarebbe stato contrario all'ordine formale dato da San Paolo (I Cor. 7, 5). Melania preferisce reclamare per sé l'eccezione: “Non astenetevi se non di comune accordo per dedicarvi alla preghiera”, che l'Apostolo fa seguire al comando, ma utilizza quest'eccezione piegandola al suo punto di vista.

[Nota 15] Sul “santo proposito” (la “vocazione religiosa” diremmo noi) cfr. L.T.Lorie, Spiritual terminology in the latin Translations of the Vita Antonii (1955), p.80 s., 86 s., ecc. Cfr. infra c.49 e l'espressione simile “desiderio celeste” (c. 5 e 12). S.Girolamo conclude l'Epitaphium Paulae con le parole: “vixit in sancto proposito Romae annis quinque…” (Ep. CVIII, 34).

[Nota 16] Melania, preoccupata di conservare la sua verginità, si adegua alle regole di condotta formulate da San Girolamo verso la giovane Paola, cugina di Melania, invitando a: “Non lasciar andare costei ai bagni se non dopo che abbia raggiunta la sua maturità, e solo se la necessità lo richiede: usque ad annos robustae aetatis, si necessitas postulaverit, balnea adeat…” (Ep. CVII, 8). Sulla pratica ascetica relativa ai bagni nel monachesimo primitivo vedi H.Dumaine, DACL, art. Bains, II, 72-117. Già la Didascalia e le Costituzioni apostoliche raccomandano alle donne, per prendere i bagni, la decima ora, cioè il momento in cui è cessato generalmente l'afflusso mondano, tolleranza che sembra comunque eccessiva a Clemente Alessandrino nel suo Pedagogo, III, cap. V (PG 6, 322-324) e a S.Cipriano nel suo De habitu virg., XIX (PL 4, 458-459).. Ciò che è sicuro è che la questione del bagno è nel IV secolo per le persone consacrate a Dio, una pietra di inciampo. Cfr. S.Girolamo, Ep. XLV, 4.

[Nota 17] Fedeltà, sembra, a una promessa richiesta dai suoi genitori. La parola crea comunque difficoltà: è la ragione per la quale il latino non l'ha tradotta (propter ostensionem), o, al contrario, ha conservato, rispetto al testo greco interpolato, il senso autentico: Melania fa finta di lavarsi “per salvare le apparenze”?

[Nota 18] Tali abbandoni non sono rari negli annali dell'ascetismo. Il fatto che Melania abbia potuto considerarlo mostra bene fino a qual punto teneva a cuore la castità perfetta.

[Nota 19] I Cor. 7, 16.

[Nota 20] L'abito di seta è considerato non confacente con il proposito monastico. Il monachesimo ha le sue divise che non sono quelle del mondo. Si tratta dell'abito che, se “non fa il monaco”, come si usa dire, contribuisce ciononostante a distinguerlo all'esterno e a mantenerlo nella sua propria atmosfera. “Quanto a noi, per il fatto che non usiamo abiti di seta, ci si scambia per monaci” nota S.Girolamo (Ep. XXXVIII, 5). Questa mistica del vestire monacale si riallaccia alla mistica del battesimo, come sembra in particolare nell'uso di una frase nel Cantico dei Cantici (infra, cap. 11). Ma aspettando che il lutto di Melania le permetta di manifestare esteriormente questa rottura col mondo (cap. 6), aspettando che le sia possibile il cilicio propriamente detto (cap. 31), questi vestiti nascosti più rudi sono già per lei occasione di una mortificazione corporale molto efficace (cfr. infra, cap. 31). Sulle differenti qualità di stoffe vedi anche il cap. 8.

[Nota 21] Tale era il concorso di popolo alle Vigilie celebrate nelle basiliche, che San Girolamo non voleva che la piccola Paola si allontanasse “della distanza di un'unghia” da sua madre e che senza dubbio, se necessario, le avrebbe consigliato piuttosto, per dei motivi di decenza non meno che di prudenza, di “pernottare”, secondo una devozione cara a questo secolo, nella propria casa; così come domanda che si abitui ogni giovane ad alzarsi la notte per pregare e cantare i Salmi (Ep. CVII, ad Laetam, 9). Queste abitudini spiegano il motivo dell'esistenza di oratori privati nelle dimore delle famiglie cristiane importanti, e si pensa giustamente di aver ritrovato quella dei genitori di S.Melania, nell'abitazione del Celio (vedi Gatti, La casa celimontana dei Valerii…, p. 17), simile ad altre scoperte a Roma (vedi De Rossi, Bull. Arch crist., 1876, p.46-53; forse anche nella casa di Bisantio, vicino dei Valerii, cfr. DACL, II 2850-3, affreschi religiosi di Tablino, col. 2867, “confessio” forse anteriore alla trasformazione della abitazione in chiesa.

[Nota 22] Dell'oratio cum lacrimis si tratta spesso nell'antica spiritualità vedendo in essa come la quintessenza e il fiore della preghiera cristiana. I testi dove è menzionata ne formano tutto un florilegio. Della spiritualità patristica relativa alla questione, come su altri punti, San Benedetto può essere considerato, nella sua Regola, come un'eco. Se c'è una preghiera che, secondo lui, ha possibilità di essere esaudita, è quella che ha luogo “in puritate cordis e in compunctione lacrimarum” (Reg. cap. XX; Butler, p. 52), “non in clamore voce, sed in lacrimis”. Non c'è per il monaco miglior preghiera, per passare degnamente la Quaresima: “Quod tunc digne fit si… orationi cum fletbus operam damus” (cap. XLIX, p. 87).. L'orazione del Messale romano “pro petitione lacrymarum” prova d'altronde la sua importanza tanto storica che ascetica. “Il grado supremo della preghiera”, dice un testo romano appena posteriore a Melania, “è quando, una volta in preghiera, tu spargi le tue suppliche e le tue lacrime” (Arnobio il giovane, Comment. In Ps CXVIII, n. III, PL 53, 520). - Per ciò che riguarda il monachesimo all'epoca che ci interessa, André Jean Phytraki (Atene, 1946) ha studiato, fra gli atteggiamenti dell'animo che caratterizzano la vita del monaco nel IV secolo, la verifica dell'“l'apoftegma”: “vita monastica, fonte di lacrime incessanti”.

[Nota 23] “Angelorum vitae: la vita degli angeli” scrive San Girolamo a Eustochio a proposito della verginità (Ep. XXII, 20) e, a Laeta, a proposito dell'educazione di sua figlia: “Che ella ignori il secolo, che ella viva in modo angelico, che ella sia nella carne come se fosse senza carne” (Ep. CVII, 13). Si può anche comparare l'esortazione finale di un trattato indirizzato ad una donna sposata dell'aristocrazia romana, della prima metà del V secolo (Arnobio il giovane, ad Gregoriam, XXV, ed. Dom G.Morin,in Etudes, Textes, Découvertes, I, 1913, p.439): “Associata alla compagnia del Cristo e degli angeli, tu disprezzi d'un colpo il mondo intero, vicinissima a perire con quelli che lo amano”.

[Nota 24] Era facile ritorcere contro Melania e Piniano argomenti legali. Costoro, in effetti, quando cominciarono a mettere in vendita i loro beni, erano ancora minorenni, avendo Melania 21 anni e Piniano 24. Melania, sposata, restava per questo fatto giuridicamente incapace e sotto tutela perpetua di suo marito. Lui, benché legalmente paterfamilias, aveva la sua età contro di lui; per la legge, egli poteva proteggersi contro una presunzione di inesperienza, attraverso la facoltà, se lo giudicava opportuno, di farsi nominare un curatore, per assisterlo nelle transazioni importanti (Capitolino, Antonino, Philos., 10).. Poteva pure ottenere dall'imperatore una dispensa per l'età - venia aetatis – (Cod. Theod., II, XVII, 1; ed. Haenel, col. 239-242; Cod. Justin., II XLV, 1-2) e acquisire con questo una piena capacità. Ciononostante, anche allora, i membri della sua famiglia erano in diritto di imporgli un curatore scelto fra i suoi parenti, se dava segno di squilibrio mentale, o di prodigalità (Gaio, Dig., XXVII, X, 13; Ulpiano, Fragm., XII, 2; Giustiniano, Instit., I, XXIII, 3), arma legale che era loro più che facile usare all'occorrenza contro Piniano.

[Nota 25] Cfr. Mt 11, 29.

[Nota 26] Termine consacrato per la fuga dal mondo, il “ritiro” che fa propriamente il monaco (per opposizione all'asceta anteriore a Sant'Antonio, che conduce la vita perfetta in mezzo al mondo). Cfr. infra, c.19, la cui portata è stata ben vista da Diekamp (col. 244).

[Nota 27] Si può ravvicinare questo prodigio a quello del tutto simile che è accordato in circostanze analoghe ad Orsesia, secondo successore di San Pacomio (La vita copta di S.Pacomio..., trad. Lefort, p. 404). Si troverà più avanti un racconto simile, ma incerto.

[Nota 28] Questo consenso di Publicola sul suo letto di morte, di qualunque peso fosse, rimase ciononostante senza valore giuridico. C'era da temere ciò che infatti si verificò, che il resto della famiglia gli dette il cambio, per motivi d'interesse, nella sua opposizione e si lamentò portando avanti l'argomento sostenuto da uno scrittore del secolo di Augusto, che si rammaricava che un patrimonio che doveva servire alla gloria della gens fosse vergognosamente disperso: pecuniam, quae gentis splendori servire debeat, flagitiis disjici (Valerio Massimo, III, V, 2, ed. Has, Parigi 1822, I, p.228)..

[Nota 29] A giudicare da quello che dice Palladio ciò dovette avvenire nell'immensa e sontuosa villa della quale si sono ritrovate le rovine al V miglio della Via Appia e che, confiscata da Commodo ai due fratelli Valerii Quintilii, senza dubbio uccisi perché cristiani, sarebbe stata resa da Costantino ai loro parenti più prossimi i Valerii Massimi, secondo l'ipotesi di De Rossi (Bull. Arch. Crist., 1873, p. 85-94). Vedi anche Duchesne (Histoire ancienne de l'Eglise, III, Parigi, 1910, p.191).

[Nota 30] Sal 44, 11.

[Nota 31] Lat.: “era vicina ai 21 anni”.

[Nota 32] Lat.: “del valore di cinque tavole”. Du Cange non menziona alcun uso di “tabula”, che sembra andar bene nel contesto. Senza dubbio bisognerebbe correggere la parola o, meno probabilmente, “valente quinque” dando a “tabula” il senso di pezzo di stoffa preziosa cucita al bordo di una veste, come segmentum o ricamo: ma non si immagina affatto il rapporto possibile con la vilis tunica di Melania. Questo segna un passo in più nella via delle rinunce, dopo i vestiti di lutto del Cap. 6; di questi argomenti si parla spesso nei testi di quest'epoca. Così San Girolamo scrive al monaco Rustico: “Che la sporcizia degli abiti denoti la purezza dell'anima, che una vile tunica provi il disprezzo del secolo” (Ep. CXXV, 7).

[Nota 33] Questo testo non finisce di sorprendere: normalmente il nome di Antiochia evoca piuttosto stoffe di lusso e quello di Cilicia tessuto di crine, dal quale si fanno i cilici (vedi infra, c. 31). Ma la traduzione latina lo conferma. Si può vedere, su questo, le spiegazioni tentate da Rampolla, n. XIV, p. 161-166.

[Nota 34] “L'esperienza mi ha insegnato che l'asino stanco prende facilmente la tangente” (Ep. CVII,10) nota San Girolamo per sconsigliare Laeta di sottomettere sua figlia in giovane età a dei digiuni eccessivi che potrebbero scoraggiarla.

[Nota 35] Noi troviamo in questo paragrafo enumerate in sintesi le differenti opere di carità: visita ai malati, cure date agli stranieri di passaggio, assistenza ai poveri, visita ai prigionieri, agli esiliati, ai condannati nelle miniere, particolarmente care al cristianesimo primitivo, conformemente all'insegnamento di San Paolo e alle raccomandazioni del Cristo (Mt 25, 31-46) che riprende d'altronde tutta una tradizione biblica. D'Alès giudica che la menzione dei “luoghi d'esilio e delle miniere”, estranea al latino, sarebbe un'aggiunta maldestra, non sembrando a quella data che Melania e Piniano si siano allontanati da Roma. Bisogna tuttavia notare che fecero almeno un viaggio ignorato da Geronzio, quello a Nola.

[Nota 36] Cfr. Gb 21, 32.

[Nota 37] Da raffrontarsi con il quadro edificante che ci fa San Girolamo a proposito del suo amico, il senatore Pammachio, entrato a fondo con sua moglie nelle vie dell'ascetismo, della sua splendida dimora, divenuta ormai per volontà del suo proprietario, quella dei poveri: “Queste porte che vomitavano folle di visitatori adesso sono assediate dai miserabili.” (Ep. LXVI, 5). Questa predilezione per le opere caritative porterà alla fondazione, alle bocche del Tevere, a Porto Romano, di un vero e proprio palazzo per l'ospitalità senza precedenti all'epoca.

[Nota 38] Mt 19, 21.

[Nota 39] Questo fatto invita a credere che una gran parte del patrimonio dei due sposi venisse da Piniano.

[Nota 40] Lo schiavo, essendo nulla più di una “cosa” posseduta, si vendeva insieme con la terra, della quale condivideva la destinazione. Ora, la sorte degli schiavi di Melania era incontestabilmente invidiabile. Palladio (H.L. LXI, 52, p. 156) non riporta forse che ella “affrancò gli 8000 che lo vollero (la vita latina al cap. 34 rinuncia a contarli), gli altri non avendo voluto, avendo scelto di servire suo fratello?” La parola “fratello” si può intendere o di Piniano, divenuto suo fratello spirituale (è l'opinione di Rosweyde PL 73, 1237, n.189 che sembra dunque dimenticare che Piniano, lungi dall'approfittare delle liberazioni della “sorella”, la seguiva nella via delle rinunce; egli aggiunge d'altro canto la riserva: “nisi et verum fratrem habuerit”, testo che non c'è nell'originale), o meglio di suo cognato, fratello di Piniano. Ciò che è riportato nel nostro testo sembra a favore di questa interpretazione. Su Melania e la schiavitù vedi Rampolla, n. XXIX, p. 219-222. Sant'Agostino (De civitate Dei, XIX, cap. XVI, PL 12, 644-645) testimonia d'altra parte, che gli schiavi, nelle famiglie cristiane, erano sempre stati trattati con estrema dolcezza, “come dei figli”. Paolino di Nola (Carm. XXI, 251-263) parla con molta tenerezza del comportamento di Piniano, che si era mostrato con loro di un'estrema bontà: come un avo della famiglia “console di Roma”, aveva liberato il popolo romano dalla tirannia, così aveva fatto lui, console di Cristo, liberando dalla servitù numerosi subalterni. Si comprende da qui che il pensiero di passare in altre mani e di sperimentare forse la durezza dei pagani non li abbia per nulla incantati (cfr. P.Allard, Esclaves. Chrétiens, p.19). Questa situazione aiuta a comprendere come, secondo il cap. 22 (lat.), i due sposi abbiano potuto fondare e popolare due monasteri in Africa, con i loro schiavi dei due sessi.

[Nota 41] Sal 76, 11.

[Nota 42] Vedere anche Palladio H.L. LXI. Da paragonare a quello che riporta Ammieno Marcellino che scrive, a proposito di Petronio Probo, un cugino di Melania: “Possedeva dei domini su quasi tutti i territori del mondo romano” (Hist., XXVII, XI, 1, ed. Gardthausen, t. II, p. 119).

[Nota 43] Ct 5, 3.

[Nota 44] I Cor 11, 5.

[Nota 45] Mt 5, 18.

[Nota 46] Mc 8, 36.

[Nota 47] Is 61, 10.

[Nota 48] Melania, rompendo il protocollo, pretese di obbedire strettamente su questo punto al consiglio dell'Apostolo che vuole che la donna, mentre prega, copra col velo la sua testa “a causa degli angeli” e “in segno di soggezione” in rapporto all'uomo, avendole dato la natura stessa la capigliatura a guisa di velo.

[Nota 49] Lat.: cubicularii, “ciambellani”.

[Nota 50] Lat. “quattro mesi”. Questo periodo è completamente insufficiente per i numerosi avvenimenti sopravvenuti nella vita della santa: gravidanza, parto doloroso, senza dubbio convalescenza abbastanza lunga, lotte faticose con suo padre, nuovo lutto in occasione della morte di sua figlia, morte di Publicola con ritiro in campagna, richieste dell'imperatrice per attirarla alla corte e rifiuti reiterati, difficoltà create nella liquidazione dei beni(vedi, per il dettaglio della discussione, D'Alès, p.408-409).

[Nota 51] Il complimento di Serena sembra molto più naturale in greco che in latino: ella si felicita con Melania di essere, dal loro ultimo incontro, molto “maturata nella saggezza celeste”, non di essere semplicemente “invecchiata”: “ghegherakuian” è la parola giusta; senescentem, un tentativo malriuscito di traduzione. Nessuno in ogni caso lo intenderebbe in senso proprio. Melania aveva allora 21 anni (D'Alès, loc. cit.)..

[Nota 52] Cfr. 1 Cor 15, 31; e 2 Cor 4, 11.

[Nota 53] 1Pt 1, 24.

[Nota 54] Da cui bisognerebbe supporre che Melania avrebbe avuto dei fratelli o delle sorelle. Ora sembrava che ella fosse figlia unica (Rampolla, n. 11, p. 109 s.). Non è fatta alcuna allusione altrove, sia nel testo greco che nel testo latino, a questi “altri figli” di Publicola. D'altronde, dato che quest'ultimo pensava di diseredare puramente e semplicemente Melania e Piniano, i loro eventuali coeredi non sarebbero stati per nulla frustrati. La parola vuole forse designare sia gli eventuali figli adottivi, sia anche gli eredi che Publicola sperava ancora di veder nascere da Piniano e Melania. Che ci sia errore o inadeguatezza che sia imputabile all'autore o all'interpolatore, questa espressione, che non si trova che nel testo greco (ma non basta a provare che dipende dal latino) è da rapportare a quella del Palladio (H.L. LXI), dove parla del “fratello” di Melania, senza dubbio a proposito di suo cognato.

[Nota 55] Cfr. Mt 5, 39-41.

[Nota 56] Cfr. Rm 12, 17.

[Nota 57] Il latino traduce “sposo” (ma al cap. 13 impiega la parola esatta).

[Nota 58] In diritto l'autorizzazione dei magistrati era necessaria per l'alienazione dei beni dei minori, che avevano ottenuto la venia aetatis (cfr. Cod. Theod., II, XVII, 1; ed. Haenel, col. 239 e seguenti). Ma Onorio accorda qui un favore facendo fare ai magistrati stessi gli agenti diretti della vendita e i raccoglitori del denaro, e scoraggiando ogni opposizione attraverso la manifestazione della sua volontà. Inoltre non era abituale che questi mandati fossero espletati con tale rapidità, poiché le bolle del principe seguivano normalmente una trafila piuttosto lunga e ingombra di passaggi, a causa delle cancellerie.

[Nota 59] La parola eulogia, “benedizione”, si applica prima esclusivamente sia al pane eucaristico santificato dalle parole della consacrazione, sia al pane benedetto che si scambiavano i primi cristiani in segno di unione. All'epoca che ci interessa si estende ai doni di ogni tipo destinati a trasferire all'esterno, presso le persone consacrate a Dio, il “santo amore” che li animava. Noi vediamo anche S.Agostino scambiare dei doni con Paolino di Nola, Alipio; così S.Girolamo con i suoi interlocutori.

[Nota 60] Cfr. Lc 21, 2.

[Nota 61] Cfr. Pr 25, 21 e Rm 12, 20.

[Nota 62] Mt 25, 21.

[Nota 63] Cfr. Mt 12, 30 e Sal 111, 9.

[Nota 64] Cfr. Mt 6, 19-20.

[Nota 65] Questa casa era sul Celio, lì dove si costruì più tardi il Convento di Sant'Erasmo, vicino a Santo Stefano Rotondo. Essa confinava con altre dimore aristocratiche, quella degli Anicii, quella di Bisanzio e di Pammachio (Chiesa dei SS. Giovanni e Paolo). Alcune iscrizioni scoperte in scavi fatti in questo luogo dal XVII secolo ai primi anni del XX secolo non lasciano alcun dubbio sulla famiglia che vi risiedette. I Valerii costruirono, pensiamo, la casa del Celio dopo che l'incendio di Nerone ebbe distrutto quella che possedevano sulla Velia, e che aveva, a sua volta, rimpiazzato la casa costruita al di sopra del Foro dal grande avo Valerio Publicola (vedi Rampolla, n. XV, p. 166-175). Uno degli oggetti più notevoli - e più misteriosi anche - uscito da questi scavi è la lampada ex-voto in bronzo del Museo di Firenze che porta l'iscrizione: “Dominus legem dat Valerio Severo”.

[Nota 66] Non abbiamo la lista dei marmi in questione, ma sappiamo che le case dei nobili romani anche meno ricchi di Melania e Piniano, erano spesso dei veri musei. Tale era ugualmente a Costantinopoli quella di Lauso, rimasta celebre presso i cronisti bizantini. Fra gli altri capolavori essa ospitava il Giove Crisoelefantino, che Fidia aveva scolpito per Olimpia, e l'Afrodite di Cnido, dovuta a Prassitele. Tutti questi tesori sono periti al momento dell'incendio di Costantinopoli sopravvenuto sotto gli imperatori Leone e Basilisco (Cedreno, Historiar. Compend.., PG 131, 614). Molte di queste statue provenivano da templi ormai chiusi. Dei doni imperiali o degli acquisti li avevano fatti entrare nelle ricche dimore dove si conservavano senza scrupoli, non vedendo che dei capolavori dell'arte, “artificum magnorum opera”, così come scrive Prudenzio (Contra Symmachum, I, 503, ed Lavarenne, III, p.153)..

[Nota 67] Al momento dell'incendio di Roma da parte di Alarico il 24 agosto 410. Un po' più tardi si trova menzione di un ospizio chiamato “xenodochium Valerii”, fondato in un angolo di questa costruzione in rovina. Poi il Monastero di Sant'Erasmo vi si installò fino all'incendio del 1084. In seguito lo occuparono delle religiose e verso il XV secolo ogni cenno di questa Chiesa scompare (Gatti, Bollettino della commissione di archeologia comunale di Roma, 1902, p. 145-163).

[Nota 68] Lat.: “della beata”.

[Nota 69] Il reddito di Piniano (o di Melania secondo il testo latino) e le somme spese in diverse riprese dai due sposi sono valutate in oro (cfr. c.15 e 17). Secondo d'Alès (pag. 212) non sembra esserci dubbio che si tratta qui di monete d'oro “nomismata”, “solidos” e non di libbre pesanti d'oro. Egli ne dà le seguenti ragioni: “I) Valutato in monete d'oro o solidi d'oro il patrimonio dei due sposi sembrerà già colossale. La cifra del reddito di uno dei due dà circa 1.620.000 franchi-oro” (Rampolla pag. 183). Ma non era che il reddito personale di uno dei due e, secondo tutte le apparenze, del meno ricco; da dove si può concludere che il reddito globale dei due sposi arrivava a parecchi milioni… Se al posto dei solidi in oro si ammettono delle libbre d'oro, bisognerà assegnare al meno ricco dei due sposi un reddito annuale di 116.640.000 franchi, dunque a tutti e due insieme un reddito globale di numerose centinaia di milioni: ciò che, tenuto conto del deprezzamento della moneta nel corso dei secoli, rappresenterebbe oggi una cifra rispettabile di miliardi, reddito che esce evidentemente dai limiti del possibile. II) “Noi troviamo presso Palladio… le cifre dell'elemosina di Piniano e Melania; noi le riconosciamo fino alla cifra caratteristica di 40.000, che rappresenta la più forte somma data in una volta sola. Ora Palladio parla molto precisamente di monete d'oro... (nomismata).

[Nota 70] Espressione corrente per designare la sposa di un Romano (cfr. c. 52). Lat.: “del suo sposo”.

[Nota 71] Il caso di Melania e Piniano è da raffrontare su questo punto a quello di Paolino di Nola, il “poverello” dei tempi patristici, e di sua moglie Terasia, che avevano messo in vendita, al momento della loro conversione, attraverso l'intermediazione del venditore dei beni, i loro numerosi possessi. Ausone, suo antico precettore e suo successore nel consolato, non gemette egli nel vedere “il focolare di Paolino disperso, e le terre sulle quali regnava, divise fra cento padroni?” (Ep. XXV, 115; ed Schenkl, p. 193).

[Nota 72] Cfr. Mt 11, 30.

[Nota 73] Cfr. Fil. 3, 8.

[Nota 74] Cfr. Ef. 6, 12.

[Nota 75] Cfr. Gn 4, 8.

[Nota 76] Questa somma ci è stata presentata come ancora lì pronta per essere inviata, mentre, secondo il testo latino, essa è già partita. Il primo dato sembra più verosimile, nel senso che “favorisce meglio, come fa rimarcare d'Alès (p. 413-414), questa fascinazione dell'oro che assale Melania”. Inoltre, secondo il testo greco, ella entra sola poiché ella sola è l'oggetto di questa tentazione, nel triclinio dove è deposto l'oro, forse per mettersi a tavola (poiché sul momento decide di digiunare) e non nella camera da letto (testo latino). D'Alès sembra vedere in questa tentazione un semplice sogno e prende alla lettera la parola latina “expergefacta, “svegliata”, mentre “nepsasa” significa il ritorno ad uno stato di lucidità e di possesso di sé spirituale.

[Nota 77] 1 Cor. 2, 9.

[Nota 78] Secondo Rampolla (n. XVII, p. 179.180), questo luogo di delizie deve essere sulla costa della Sicilia, di fronte alla Calabria. Sarebbe lì che Rufino avrebbe scritto le sue ultime opere (cfr. la Prefazione della Traduzione delle Omelie sui Numeri di Origene, PG, 12, 583-586).

[Nota 79] Palladio (c. LXI) su questo punto fa eco a Geronzio: “Ella inviò per mare in Egitto e nella Tebaide - scrive lui di Melania - diecimila pezzi di moneta, ad Antiochia ed alla sua regione diecimila pezzi, in Palestina quindicimila pezzi, alle chiese delle isole e ai condannati all'esilio diecimila ed ella riforniva allo stesso modo, da lei stessa, le chiese dell'Occidente. Tutto questo, e il suo quadruplo, ella strappò, per così dire, davanti a Dio, dalla bocca di Alarico…”.

[Nota 80] In latino “Tigridius”. Profondamente attaccato a Giovanni Crisostomo, essendo come procuratore presso il clero per far loro accettare le sue misure disciplinari, Tigrios era conosciuto per le sue virtù ospitali e per le sue liberalità riguardo ai poveri. Citato davanti al Concilio delle Catene con Crisostomo e Serapione fu, dopo l'esilio del suo vescovo, condannato alla tortura e poi esiliato in Mesopotamia (vedi Palladio, Dial., PG 47, 71; Sozomeno, Hist. Eccl. VIII, 17,24, PG 47, 1561, 1580).

[Nota 81] Il latino aggiunge “laternas”: lampade, forse grandi lampadari, frequentemente menzionati nei tesori delle chiese, dopo Costantino.

[Nota 82] Enumerazione da completare con quella del Cap. 20 e da confrontare con quella del Cap. 11. Il latino omette qui la Spagna, ciò che è preferibile secondo il Cap. 37. Vedere a questo proposito De Rossi “Roma sotterranea” t. II, p. 17: “Xenodochio di Pammachio in porto” in Bullettino di arch. Cris., IV année, 1866, p.50, 99 s.; p. 100-103.

[Nota 83] Dopo che Stilicone fu ucciso sotto pretesto di tradimento (agosto 408) Alarico mise per la prima volta l'assedio davanti a Roma. La città dovette riscattarsi dall'assedio e dal saccheggio al prezzo di un tributo schiacciante, al quale contribuirono le fortune dei senatori (Zosimo, Hist. V, 39-41). Fu in queste circostanze che lo sgomento generale, i sospetti senza fondamento, forse il ricordo dello zelo dimostrato da Serena per il cristianesimo e quello del suo intervento in favore di Melania, fecero decidere al Senato l'esecuzione della vedova di Stilicone. L'isolamento della città, della quale i capi naturali erano ancora in gran parte pagani, la morte dei principali sostenitori del cristianesimo, favorirono un tentativo di restaurazione pagana. Non conoscendo l'ordine esatto degli avvenimenti noi non possiamo determinare in quale misura i primi sintomi di questa crisi, così come la minaccia barbara, abbiano potuto far decidere Melania a partire per l'Italia del Sud.

[Nota 84] Gabinio Barbaro Pompeiano (CIL, VIII, 969; X, 1199). Zosimo ci parla del decreto steso dal Senato, su sua iniziativa, per ristabilire i sacrifici aboliti. Ci sono stati in effetti dei pagani molto tardi nell'aristocrazia romana e fra i funzionari: Simmaco, o Volusiano, zio di Melania e più tardi prefetto di Roma, infra c. 50, ne sono esempi tipici. Non sembra che la loro religione abbia nuociuto per nulla alla loro carriera.

[Nota 85] Così voleva la legge. All'epoca del basso impero, in effetti, il diritto di “uti et abuti” nel quale i vecchi giuristi facevano consistere l'essenza della proprietà romana, aveva cessato di esistere. Il patrimonio delle persone di rango senatoriale - era il caso di Melania - non poteva uscire dalla loro famiglia, quanto meno dalla classe sociale cui queste appartenevano. Iscritto nei registri pubblici, esso si trovava in qualche modo “immobilizzato” (Cod. Theod., VI, II, 8, ed. Haenel, col. 505). “La fortuna di un senatore - si è scritto - era pegno del Senato, come quella di un curiale della Curia” (Lecrivain, Le sénat romain depuis Dioclétien, 1888, p. 86). Bisogna pensare che la fortuna di Melania e Piniano oltrepassasse tutto poiché altri personaggi, come le senatrici romane Paola e Fabiola, Lea, Blessilla, il Senatore Pammachio, lui stesso, erano riusciti a fare voto di povertà, - quest'ultimo è vero non completamente, poiché lo si vede conservare il suo seggio al Senato e unire il suo abito monastica alla porpora dei suoi colleghi - senza che si applicasse il “summum jus” e senza provocare altra cosa che trivialità e scherzi. (Girolamo, Ep. XXII, XXXVIII, LXVI, LXXVII, CVIII). Paolino di Nola lui stesso e sua moglie Terasia ne furono liberati con qualche intrigo. Se l'opinione pubblica e alcuni amici intimi si pronunciarono pubblicamente contro di loro (Ambrogio, Ep. LVIII; PL. 16, 1178) non sembra che lo Stato si sia adombrato e sia intervenuto. Per contro in Egitto Sant'Antonio, cittadino agiato, non poté vendere tutti i suoi beni a vantaggio dei poveri e, dopo aver venduto i suoi beni mobili, dovette abbandonare alla sua gens la sua proprietà fondiaria.

[Nota 86] Questa carestia, causata dall'assedio di Alarico, è attestata da Zosimo e la storia di questa epoca è piena di queste sommosse, dove più di un alto funzionario dovette perdere la vita.

[Nota 87] E' così che P. Courcelle, “Paulin de Nole et Saint Jérome”, Rev. Des Et. Lat., XXV (1948), p. 277, n. 6, interpreta questo testo del quale il parallelo si trova in latino al Cap. 34, “malgrado le divergenze dei due testi dei quali almeno uno deve essere corrotto”. Che il testo corrotto sia il latino non c'è qui alcun dubbio: ma l'assenza di alcun ordine cronologico può testimoniare uno stato primitivo della biografia, rimaneggiata su questo punto dall'autore del testo greco.

[Nota 88] Sui rischi della navigazione in quel tempo vedi D.Gorce, “I viaggi, l'ospitalità e il trasporto delle lettere nel mondo cristiano del IV e V secolo”, Parigi, Picard, 1926, pag. 111 s.

[Nota 89] Senza dubbio una delle isole Lipari, nonostante noi non vi conosciamo un vescovado in quel periodo.

[Nota 90] Cfr. Mt 17, 14.

[Nota 91] Sal 111, 9.

[Nota 92] Non avendo potuto lasciare Ippona per andare ad accogliere i viaggiatori a Cartagine, Sant'Agostino si scusò con loro con l'Ep. CXXIV.

[Nota 93] Alipio, originario come Agostino, di Tagaste in Numidia, dopo qualche dissenso con il suo compatriota e amico, a causa della sua passione per i giochi del circo, finì per convertirsi. Riavvicinandosi ad Agostino divenne il suo confidente e ricevette il battesimo insieme a lui il 24 aprile 387. Elevato al sacerdozio qualche mese prima della consacrazione episcopale di Agostino, fu fatto vescovo della sua città natale (Agostino, Ep. XXVIII, 1, PL, 33, 111; Girolamo, Ep. CIII, 2). Le sue relazioni con Girolamo a cui rese visita a Betlemme, dovettero aumentare in lui il gusto delle Scritture. Ma la sua curiosità si estendeva ad altri campi poiché noi vediamo San Paolino (Ep. III, pag. 13 s.) procurargli la storia ecclesiastica di Eusebio.

[Nota 94] C'è accordo nel ritenere che l'elevazione di Aurelio all'episcopato ebbe luogo nel 391 o nel 392, poco tempo dopo l'ordinazione sacerdotale di Agostino. La sua città episcopale era la metropoli dell'Africa intera, “cunctarum ecclesiarum, dignatione Dei…, sollicitudinem sustinere - dichiarò al Concilio del 397. La vita monastica introdotta in Africa da Agostino, fioriva anche a Cartagine, che possedeva numerosi monasteri. E' per regolamentare e ripristinare la regola del lavoro, troppo dimenticata, che Agostino scrisse il “De opera monachorum”.

[Nota 95] Ella realizzò completamente a questo proposito il voto spesso espresso da San Girolamo ai suoi discepoli spirituali dell'uno e dell'altro sesso. Vedere, su questo punto, D.Gorce, “La “Lectio divina”, I. San Girolamo e la Lettura sacra nel mondo ascetico romano”, Parigi, 1926. Cfr. infra, c. 23 e 26.

[Nota 96] Così aveva fatto, secondo Palladio (H.L. LXI, p. 156), che sottolinea lui stesso il raffronto, Olimpiade, la patrizia di Costantinopoli, figlia spirituale del Crisostomo: i suoi bellissimi tessuti di seta avevano emigrato nelle sacrestie per essere consacrati all'ornamento degli altari. Quanto ai “preziosi veli delle porte” si tratta di tendaggi semplici o doppi che ornavano l'entrata delle basiliche primitive. San Girolamo vi fa allusione nel suo elogio del prete Nepotiano, che “si preoccupa di sapere se c'erano sempre dei veli alle porte” (Ep. LX, 12). Noi sappiamo da Paolino di Nola che i veli di diversi colori erano spesso molto ricchi ed abbelliti con figure a colori:

“3Cedo alii pretiosa ferant donaria, meque

officii sumptu superent, qui pulchra tegendis

vela ferant foribus, seu puro splendida lino

sive coloratis textum fucata figuris” (Carm. XVIII, 29-32, p. 98).

[Nota 97] Questa gelosia ci aiuta a comprendere l'incidente di Ippona, che Melania e Piniano non hanno forse trovato il bisogno di raccontare a Geronzio e che costui, in tutti i casi, come rimarca Rampolla (pag. 205), poteva giudicare estraneo al suo disegno, che era la vita di Melania e non di Piniano. E' istruttivo paragonare su questo caso la casistica edificante del Cardinale (pag. 205-210) con la perspicace malignità di Dom Leclerq (Art. “Hippona”, XXIV; DACL VI, 2512-2516).

[Nota 98] Nel latino: “Dei loro propri schiavi e serve”.

[Nota 99] Cfr. Lc 10, 42.

[Nota 100] “Conditum”, termine latino semplicemente trascritto nel testo greco, indica normalmente un vino liquoroso e aromatizzato. Si tratta qui di una bevanda che sarebbe come una sorta di “liquore per le donne”, in opposizione al vino proibito a Melania? Può essere piuttosto una bevanda meno ricercata, ma un po' più nutriente, come una pappa di farina, “sorbitio modica de farina” , che, secondo Eteria (28, 4; Pétré pag. 214-6) costituiva a Gerusalemme, eliminati il pane, l'olio e la frutta, il regime dei digiunatori durante la Quaresima. Ma, bevanda dolce o zuppa, questo preparato cade in tutti i modi sotto la condanna di Sant'Agostino e San Girolamo che rimproverano ai falsi digiunatori di sostituire bevande naturali e comuni con altre più ricercate; al posto del vino, dice Sant'Agostino (sermone CCVII, III per la Quaresima, 2), essi cercano ristoro straordinario nel succo ristretto di altri frutti, oltre l'uva, occasione di piaceri inconsueti.

[Nota 101] Questa proibizione rigorosa non ci è attestata altrimenti. San Girolamo nel programma e nel regime pur tuttavia severo che traccia per la piccola Paola, l'autorizza, “almeno nella sua infanzia”, a bere un po' di vino per il suo stomaco (Ep. CVII, 8). Che questa tolleranza sia ispirata da San Paolo (I Tim. 10, 23) non impedisce che essa suggerisca una pratica esattamente opposta a quella che suppone Geronzio. San Girolamo era tuttavia ben informato sulle abitudini della società dell'Aventino e del Celio. Geronzio non avrebbe forse fatto confusione, per aver udito parlare del vecchio “tabù”, da molto tempo caduto in disuso, che a Roma proibiva il vino a tutte le donne?

[Nota 102] Cfr. I Cor. 9, 27.

[Nota 103] Da notare i due avverbi greci che attestano l'eleganza e la correttezza dei manoscritti copiati da Melania. Del tutto conforme alle tradizioni monastiche più autentiche, sembrava questo il modo di impiegare il tempo in cella: “Quando voi siete seduti nella vostra cella, consigliava Sant'Antonio, (Regula ad monachos 20; PG 40, 1072) che tre cose vi occupino costantemente: il lavoro manuale, la meditazione dei Salmi e l'orazione”. Aveva detto al numero 36: “Costringetevi ad un lavoro manuale e il timor di Dio abiterà in voi”. Questo lavoro manuale era di sicuro dei più vari, ma la trascrizione dei libri profani o sacri era una delle forme preferite. I cenobiti pacomiani l'avevano in grande stima e anche i monaci di Rufino, sul Monte degli Ulivi: qui e là gli specialisti facevano vivere il monastero col loro lavoro. (Palladio H.L. XXXII, pag. 96: “allos ergazetai kalligrafeion”; Rufino, Apologia II, 8, PL 21, 591).

[Nota 104] Da notare questo titolo, che attesta, a partire da questa data, l'esistenza e la diffusione in Occidente (se questo dettaglio non è anticipato) di racconti, cioè delle raccolte agiografiche, dei Padri del Deserto.

[Nota 105] Cfr. Mt 26, 41.

[Nota 106] Cfr. Mt 24, 42.

[Nota 107] Cfr. Mt 12, 36.

[Nota 108] Questa vigilanza sui pensieri è propriamente la “nepsis” (Cfr. infra Cap. 42).

[Nota 109] L'allusione deve riguardare la fine del Cap. 22, che non racchiude tuttavia (almeno secondo il doppio testo, che noi possediamo) questa precisazione.

[Nota 110] Paola non andava così lontano poiché, secondo quanto ci rapporta San Girolamo (Ep. CVIII, 17), “prendeva appena un po' d'olio, eccettuati i giorni di festa, nel suo nutrimento”.

[Nota 111] Si considerava come una tradizione apostolica (Tertulliano, De oblat. Pro def. III, 9; De corona, 3) l'interruzione di qualsiasi penitenza (compresa la preghiera in ginocchio) il giorno di Pasqua e, per estensione, tutte le domeniche da una parte e dall'altra durante le “settimane di Pasqua”, la santa Cinquantina del Tempo Pasquale, fino a Pentecoste. Almeno fuori dal deserto, gli asceti che vollero estendere in questi giorni festivi le loro pratiche abituali, furono sempre sospettati di eterodossia o almeno di spirito settario, e perciò condannati, come gli Eustaziani al Concilio di Gangres. Più tardi San Benedetto, che nel suo fervore di eremita novizio, dimenticò Pasqua, ricevette la visita di un prete che, avvertito dall'angelo, gli portò un pasto di festa. (San Gregorio, Dialoghi II, 1; PL 66, 130). In queste condizioni, Melania non poteva resistere ai consigli di sua madre, forse sostenuta dai vescovi o dai monaci.

[Nota 112] Cfr. Mt 12, 33.

[Nota 113] Cfr. Sap 3, 15.

[Nota 114] Secondo il Rampolla (p. LXIII s.), il latino sarebbe, almeno per la prima frase, preferibile, nonostante sia mutilato, e sarebbe il testo metafrastico che ci conserverebbe la descrizione completa dei differenti lavori materiali di Melania (calligrafia, per vivere vendendo le sue copie, secondo l'esempio dei monaci della Tebaide o del Monte degli Ulivi; calzoleria e cucito per vestire i monaci). “Upodeigmata” (greco) sarebbe dunque la corruzione di “upodemata” (greco, da tradursi in latino con “calciamenta), divenuto quasi totalemnte incomprensibile in un testo troppo ellittico. Per D'Alès, al contrario, i “calzamenti” non hanno niente a che fare in questo contesto e vengono da un errore del manoscritto sul quale lavorava il traduttore. Ma, seguendo anche noi il testo greco, ci ispiriamo tanto alla traduzione che da Rampolla, che al latino (“scribens sufficienter”). D'Alès, che non osa adottare, per upodeigma, errore da un altro esemplare, il senso che è quello di “esemplare”, comprende che Melania, guadagnando attraverso la sua attività scrittoria “come sovvenire ai propri bisogni” (greco “to autarkes”), dava così lei stessa l'esempio del lavoro manuale. In questo contesto a noi sembra più naturale intendere “to autarkes” degli “upodeigmata”, assai numerosi per essere sia conservati per il suo uso personale, sia distribuiti ad altri, e tutti copiati da lei sul modello che lei stessa si era procurata in un modo o in un altro.

[Nota 115] Si può essere tentati di evocare a questo proposito la sottoscrizione che portano numerose manoscritti della traduzione delle Omelie di San Gregorio di Nazianzo fatta da Rufino, per esempio: “Usque huc contuli de codicae scae melaniae roma” (sic) (secondo il manoscritto di Oxford, Bodl. Laud. Miscell. 276, IX-X sec.). Come lo rimarca A.Engelbrecht (Tyranii Rufini Orationum Gregorii Nazianzeni novem interpretatio, CSEL XXXVI, I, 1910, Prolegomena, p. XXXII, n. 1) questi manoscritti (che danno d'altronde il testo più corrotto, loc. cit. p. LX s.) non sono le copie dirette di questo codex sanctae Melaniae, ma possono essere separati da molti intermediari dell'archetipo, del quale gli scribi si sono, secondo la loro abitudine, trasmessi meccanicamente le particolarità. Inoltre contro l'opinione di Rampolla (che non conosceva di questa famiglia che un manoscritto di Stavelot, senza dubbio quello di Berlino del XII secolo), Engelbrecht si allinea all'opinione di Dom A. Wilmart (Acta Acad. Litter. Vinbod. Classis philol.-histor., CLIX, 1, p. 24, n. 2) e, senza dimenticare che Rufino ha ugualmente conosciuto Melania la giovane, ricollega piuttosto alla sua nonna questo codex contenente solamente le prime sette Omelie della collezione di Rufino nell'edizione dei benedettini (=PG 35-36, n. II, XXXVIII, XXXIX, XLI, XXVI, XVII, VI).

[Nota 116] La conoscenza di questo vademecum monastico che è il salterio si imponeva in primo luogo a chiunque facesse professione di vita perfetta. “Discatur psalterium ad verbum” proclama San Gerolamo nella sua lettera a Rustico: “Bisogna insegnarti parola per parola il salterio” (Ep. CXXV, 11). Adhuc tenera lingua psalmis dulcibus imbuatur, consiglia d'altra parte a Laeta per la sua giovane figlia: “Che la sua lingua ancora tenera sia penetrata dalla dolcezza dei salmi” (Ep. CVII, 4). Noi sappiamo effettivamente che, nel circolo dell'Aventino, i salmi erano particolarmente stimati e oggetto di un vero e proprio culto. Più tardi a Betlemme Santa Paola che, per quello che la riguarda, “sapeva le Scritture a memoria” (Ep. CVIII, 20), “non ammetteva che alcuna delle suore ignorasse i salmi e non apprendesse ogni giorno qualche passaggio nelle sante Scritture”.

[Nota 117] San Girolamo dice la stessa cosa di Blessilla, figlia di Paola: “Se tu l'avessi sentita parlare greco, avresti giurato che non conosceva il latino; se ella si metteva ad articolare i suoni romani, non c'era la minima traccia della lingua straniera” (Ep. XXXIX, 1). Non si è forse obbligati a prendere ciò alla lettera ma si può ritenere che la vita di Melania si è svolta in un ambiente e per un pubblico senza dubbio bilingue.

[Nota 118] Espressione frequente presso i Padri per i quali la sola filosofia degna di questo nome, “l'amore” efficace della vera “saggezza”, è la vita cristiana integrale, la vita di ascesi (non meno che la contemplazione) del monaco. Vedere su questo punto G.Bardy “Philosophie et philosophe dans le vocabulaire chrétien des premiers siècles”, in Melanges Viller, aprile-dicembre 1949, pag. 97 s.

[Nota 119] La più bella testimonianza di questo zelo di Melania per l'ortodossia, al pari della sua carità, resta il passo che ella fece, da Gerusalemme nel 418, al riguardo di Pelagio, presso Sant'Agostino, che in risposta gli dedicò il doppio trattato “De gratia Christi et peccato originali” (PL 44, 359, 388). San Girolamo, il cui astio continuava a perseguitare, anche dopo la morte, Rufino d'Aquileia e Melania l'anziana, esprime tuttavia una simpatia inattesa in questa stessa occasione per i discendenti e i protettori dei suoi nemici (Ep. CXLIII di Sant'Agostino). Ma il ricordo di queste polemiche e il sospetto di origenismo, del quale restò intaccata la memoria di Antonia Melania, spiegano senza dubbio il silenzio assoluto che Geronzio mantiene a proposito di quest'ultima (silenzio che colpisce se si paragona il suo testo a quello di Palladio), come a proposito di San Girolamo (Goyau, Sainte Mélanie, p. 40, n. 1), che egli non nomina neppure a proposito della sua figlia spirituale Paola. Girolamo, da parte sua, al fine di dimostrare come Paola l'anziana “evitava i laghi melmosi degli eretici, mettendoli allo stesso rango dei pagani”, racconta di costei un tratto abbastanza verosimile (Ep. CVIII, 33). Lo stesso zelo e la stessa suscettibilità per la purezza della fede si manifestano già presso i fondatori del monachesimo: così Antonio che abbandona la sua solitudine per venire ad Alessandria a prendere le difese di Sant'Atanasio contro gli ariani (Vita 68-70; PG 26, 940-1, 968), o Pacomio che getta nell'acqua un libro di Origene. (vedi Th. Lefort, “Les vies coptes de S.Pachome”, pag. 353, n. 8). “La santa rusticità - proclamava San Girolamo (Ep. LII, 3) - non è buona che per se stessa, se essa può costruire la chiesa, non può difenderla”. Su questa suscettibilità dottrinale nei primi secoli cristiani vedere lo studio di D.Gorge, Susceptibilité romaine en matière de doctrine, in Pensée Catholique, n. 17, pag. 17 s.

[Nota 120] Questo impiego di “xeniteia”, disposizione dell'asceta che, secondo l'esempio di Abramo (Gen.21, 12 nel testo latino, supra, c. 15), si esilia per motivo di rinuncia, si ritrova nello Pseudo-Atanasio, De institutione, 3 (PG 28, 848). Si tratta quindi di una donna morta in pellegrinaggio, e “eis tous aghious topous” non è da rapportare alla messa di Geronzio come ha fatto Diekamp. Non ci si può dunque appoggiare su questo solo testo per riportare indietro fino al periodo di Gerusalemme tutti o parte i capitoli 22-33, ma restano altri indizi che in questo quadro d'insieme Geronzio ha fatto entrare degli elementi che si collocano più tardi nella vita di Melania ed è probabile che questo episodio ne sia uno.

[Nota 121] Anafora=offerta, termine che designa in Oriente la parte centrale della messa, corrispondente al Canone romano (vedi Dom Cabrol, art. “anaphore”, DACL, I, 1898-1918).

[Nota 122] I nomi dei fedeli viventi e morti, dei quali si faceva memoria nella messa a diversi titoli, erano scritti su delle tavolette dette “dittici”. Si sa d'altronde (e le spiegazioni imbarazzate del testo latino ne fanno fede), che la chiesa non prese che lentamente coscienza di una distinzione netta fra le diverse intenzioni per le quali il celebrante poteva nominare un defunto nel corso della messa: sia per sollecitare per lui un supplemento di gloria o la misericordia di Dio, sia per domandare per lui una intercessione presso Dio. Ma, in tutti i modi, questo onore, giustificato dalla fede nella “comunione dei santi” (o: delle cose sante) non poteva essere accordata che a colui che era morto nella pace e nella comunione della Chiesa.

[Nota 123] Sarebbe pericoloso con così fragili indizi voler identificare questa donna e la sua eresia. E' soprattutto da San Girolamo che noi conosciamo la cronaca religiosa della Palestina per quest'epoca, ma è un testimone molto parziale, e nulla prova che i suoi giudizi fossero sempre stati quelli di Melania. E' d'altronde possibile che questo episodio si situi dopo la sua morte.

[Nota 124] Il latino aggiunge: “Padre”.

[Nota 125] Cfr. 1 Cor 6, 19.

[Nota 126] Questo elogio della verginità (che il latino ripete al Cap. 42) è un tema frequente dell'epoca dove la fede nei privilegi di Maria e l'ascetismo si sono sviluppati insieme. Lo si trova in particolare presso Sant'Ambrogio e San Girolamo, ma era già il bene comune, per esempio, di Origene e del suo censore Metodio di Olimpia.

[Nota 127] La lavanda dei piedi, atto di ospitalità nell'Antico Testamento, era stato consacrato dall'esempio di Gesù nell'ultima cena. San Paolo, d'altra parte, mette nel numero delle qualità richieste alla “vedova” l'abitudine di “lavare i piedi dei santi” (1 Tim 5, 10). Vedi A.Malvy, art. Lavement des pieds, in DTC, IX, 16-36).

[Nota 128] At 13, 15; Eb 13, 22.

[Nota 129] Sulla regione dove situare questi samaritani, vedi il cap. 34.

[Nota 130] Letteralmente: “Sentimenti misericordiosi”, ciò che dà alla frase una sfumatura che si perde nella traduzione.

[Nota 131] Mt 5, 7.

[Nota 132] “Endemesai”: noi conserviamo qui la lezione dei manoscritti che ci sembra plausibile. Rampolla corregge con “ecdemesai”.

[Nota 133] Cfr. 2 Cor 5, 8.

[Nota 134] Cfr. Lc 12, 42.

[Nota 135] “Maforion” corr. Rampolla - maphorium, mavortium, maforte: queste sono le varianti date dall'Onomasticon, pag. 462. Cassiano (Inst., I, 6, CSEL 17, p. 13) descrive queste due piccole strisce di lana (mafortes) che scendono dall'alto delle spalle, si dividono in seguito e vengono a ricongiungersi sullo stomaco, serrando l'abito e pressandolo sul corpo al fine di rendere le braccia libere per ogni sorta di lavoro, e sopra, un piccolo mantello. San Girolamo (Ep. XXII,13), descrivendo le vergini infedeli, fa allusione a questo “maforte”, sciarpa violetta, che svolazza sulle loro spalle: “per umeros maforte volitans...”.

[Nota 136] Un cappuccio con una mantellina molto corta, in uso presso i solitari d'Egitto, ad imitazione di quella dei contadini e dei soldati dell'antichità. Scendeva dalla testa sulla parte alta delle spalle e, per testimonianza di Cassiano (Inst., I, c. III, CSEL, 17, p. 11), doveva essere portata giorno e notte. Palladio (H.L. XXXII, p. 90) precisa che Pacomio prescriveva ai suoi religiosi “un tipo di cocolla senza peli di lana”, allontanandosi dal tipo comune e fatto, precisamente, come quello che segnala il biografo di Melania, di peli di capra. Vedi Ph.Oppenheim, Das Monchskleid…, p. 142 s.; e Dom Leclercq, art. Capuchon, DACL II, 2127-34.

[Nota 137] Questo abito di crine portato sulla carne è propriamente il cilicio (come precisa il testo latino), così detto poiché la materia prima era fornita soprattutto dalla Cilicia e dalla Frigia, grazie ai numerosi greggi di capre a pelo lungo che passano nelle montagne di quei paesi (vedi l'art. Cilicium, nel Dict. Des Ant. Gr. Et lat. Di Daremberg). Questi abiti erano rudi e grossolani, ciò che li fece adottare molto presto dai monaci, come penitenza. L'autore della “Vita Antonii”, 91 (PG 26, 972) segnala altresì nel vestiario del padre del monachesimo “ton trixinon evduma”, un vestito di crine. Cassiano cercherà di fare il processo della “cilicina vestis” come di una cosa che poteva essere per il monaco un motivo d'orgoglio e disturbarlo nell'esecuzione dei lavori manuali (De Coenobiorum institutis, I, III; PL 49, 66), resterà ciononostante l'abito ordinario delle persone consacrate a Dio (vedi Du Cange alle parole “Cilicium” e “Kilikion”; Dom Leclercq, art. Cilice, DACL; Dom Gougaud, art. Cilice nel Dict. De Spirit., t. II, 899-902; Oppenheim, Das Monchskleid… alla parola Cilicium, I, 252-253). Bisogna notare un doppio senso nel cilicio: quello di uno strumento di penitenza a causa dell'irritazione che provoca, e quello di un simbolo di lutto e, in seguito, di penitenza interiore, per associazione con il “sacco” dell'antico Oriente e dell'Antico Testamento. A questo titolo “sacco” o “cilicio” servono da letto altrettanto che da vestito e sono associati alla cenere che l'asceta sparge sulla sua testa o sulla quale si stende.

[Nota 138] Piuttosto che del “quinto giorno” (come traduce Rampolla: si vuole forse parlare del quinto giorno dopo Pasqua? Sarebbe una data curiosa per abbandonare il cilicio, all'indomani del giorno quando, dopo il riposo dovuto alla festa, Melania riprende il suo digiuno abituale) si tratta della “quinta feria”: piuttosto che del nostro “giovedì di Pasqua”, cioè a dire dopo Pasqua, si penserà al Giovedì della “Grande settimana”, il nostro Giovedì santo; a Roma in effetti, nel 416, una tradizione già antica fissava in questo giorno la riconciliazione dei penitenti pubblici, al livello dei quali sembra che Melania si abbassasse per umiltà e mortificazione.

[Nota 139] Anche un pagano come Ammiano Marcellino si indigna dell'incredibile mollezza di questa epoca. Per giudicare a quale grado di raffinatezza ridicola e seducente poteva arrivare la moda femminile, si possono leggere i dettagli che dà San Girolamo sulla giovane Blessilla prima della sua conversione alla vita perfetta (Ep. XXXVIII, 4). Quanto a questo avvertimento di Arnobio il giovane ad un'altra patrizia desiderosa di vincersi: “Vecchia, te ne prego, non ti lasciar convincere dal più piccolo colpo, tu che, dalla tua infanzia la lana stessa o la tela, irritava” (ad Gregoriam, XVIII, ed. Morin, Etudes, Textes, Découvertes, t. I, 1913, p. 419), avrebbe potuto essere diretto a Melania.

[Nota 140] Mt 7, 7.

[Nota 141] Lc 24, 49.

[Nota 142] La reclusione sotto tutte le sue forme è una delle forme di ascesi più praticate nel monachesimo antico, soprattutto orientale, anche fra le donne. Così anche Melania l'anziana, avrà potuto vedere o piuttosto sentire Teodora, che viveva in Egitto in una tomba.

[Nota 143] Cfr. I Cor. 7, 5 e Mt 17, 21.

[Nota 144] Cfr. Lc 17, 10.

[Nota 145] Il pellegrinaggio ai Luoghi Santi fa parte integrante degli esercizi della vita perfetta concepita come “sequela Christi”. Malgrado le riserve che si trovano qua e là in San Gregorio di Nissa o in San Girolamo, è bene “per arruolarsi a Geerusalemme, Hierosolymam militaturus” quest'ultimo (Ep. XXII, 30) si mette in cammino all'indomani della sua conversione. Anche se Geronzio non ne ha parlato, è verosimile che Melania, dalla sua partenza da Roma, aveva intenzione di seguire l'esempio di sua nonna e che il soggiorno in Africa era, nel suo pensiero, una specie di noviziato, una dilazione forse imposta dalla volontà di liquidare prima di tutto le sue proprietà situate in Occidente. Su questo movimento generale di pellegrinaggio vedere B.Kotting “Peregrinatio religiosa”, Munster, 1950.

[Nota 146] Notare questo elogio di San Cirillo: si era già distinto, a fianco del suo zio e predecessore Teofilo d'Alessandria, nella lotta contro San Giovanni Crisostomo e i suoi partigiani, fra i quali Tigrio e Palladio. Melania e Piniano avevano dovuto essere messi in guardia da quest'ultimo, venuto a Roma in questa occasione (vedi cap. 39, 53, 54, 58). Non si possono dunque trarre da questo episodio, e neppure dagli elogi applicati a San Cirillo, delle conclusioni troppo precise sulle tendenze personali di Melania. Con Albina e Piniano ella faceva incontestabilmente parte di “quegli illustri che, di passaggio nella grande città di Alessandria, ricevevano nel suo palazzo una grande ospitalità, della quale un prete designato aveva l'incarico” (P.F.-M. Abel, “S.Cyrille d'Alexandrie dans ses rapports avec la Palestine”, in Kyrilliana, Il Cairo 1947, p. 206).

[Nota 147] Nel latino “Nestor” o “Nestorius”. Non si può identificare con sicurezza questo personaggio fra tutti quelli con lo stesso nome che conosce la letteratura monastica. E' difficile credere che nel 417 Melania abbia potuto incontrare lo stesso Nestorio che Cassiano visitò fra il 390 e il 400, presso Panefisi, e che lui qualificò, con Cheremone e Giuseppe, come “anachoretae antiquissimi” (Concl. XI, 3; PL 49, 850).

[Nota 148] Cfr. At 13, 15. Eb 13, 22.

[Nota 149] Rm 8, 18.

[Nota 150] Questi appartamenti sistemati nella cinta degli edifici del Santo Sepolcro servivano da ricovero e luogo d'asilo non solo ai proscritti sotto procedura giudiziaria, ma ai pellegrini poco fortunati che non potevano pagare le spese di alloggio nella Città Santa. Questi erano ammessi ad alloggiare nelle camere situate sui portici laterali o sopra le gallerie dell'atrio (vedi Vincent e Abel, Jerusalem, II, pag. 192). I locali in questione si rivelarono d'altronde molto presto insufficienti. Eudocia, constatando il fatto, in occasione del suo secondo viaggio a Gerusalemme nel 444, costruirà intorno all'Anastasi, insieme ad una residenza episcopale, una grande locanda per pellegrini. Era il modo di evitare l'ingombro causato dall'affluenza dei fedeli e dal soggiorno del vescovo di Gerusalemme negli alloggi superiori al Santo Sepolcro.

[Nota 151] Tutte le chiese avevano una tal “matricola” (secondo il termine romano: qui il testo latino porta “in ecclesiastico breve”) e dei chierici, generalmente sotto la direzione di un archidiacono, erano incaricati della cura delle differenti categorie di poveri iscritti e conosciuti. Questa organizzazione dell'assistenza risale d'altronde all'epoca apostolica (At. 4, 32 s.; 6, 1 s.; I Tim 5, 16; ecc.). Con tutti i pellegrini che attirava, e i poveri volontari che si stabilivano a Gerusalemme per partecipare alla liturgia, la basilica del Santo Sepolcro era particolarmente affollata e Giustiniano dovette prendere delle misure speciali per permettere di far fronte a una così grande necessità (F.-M.. Abel, “Histoire de la Palestine” II, p. 365-366).

[Nota 152] Cfr. II Cor 8, 9.

[Nota 153] Cfr. Fil. 2, 7.

[Nota 154] Questo modo di dormire fa parte dei riti della penitenza secondo l'Antico Testamento. Da notare qui e più avanti (cap. 40) che il testo greco non usa lo stesso termine per il cilicio che serve da vestito, e che ha designato questo con una sorta di perifrasi (cap. 31), riservando il nome di “ciliciana” ad una stoffa di lusso (cap. 8), mentre il latino usa le parole “cilicium” o “cilicinus” per il sacco o il cilicio, “cilicensis” per la stoffa di lusso.

[Nota 155] Cfr. I Cor 7, 5.

[Nota 156] O “per la parola, l'eloquenza”? O “per (la scienza de) la parola di Dio”? Ambiguità greca e cristiana di questa radice: cfr. l'elogio di Alipio “dialektikotatos ev tais aghiais grafais” (c. 21).

[Nota 157] Geronzio vuole solamente dire che Melania continuava la sua vita laboriosa e mortificata di Tagaste (per la calligrafia cfr. cap. 21, 26; per il digiuno cap. 22, 24)?

[Nota 158] Si può vedere nell'edizione Pétré di Eteria (fuori testo, di fronte alla pag. 64) uno schema degli edifici costantiniani del Golgota. La Basilica propriamente detta, che serviva da chiesa parrocchiale di Gerusalemme, era il “martyrium”, preceduto da un primo atrio che si apriva sulla strada e seguito da un secondo che lo separava dalla rotonda dell'Anastasi, al di sopra del Santo Sepolcro propriamente detto. In questo atrio interno si trovava la piccola cappella che copriva la sommità del Calvario. La notte l'Anastasi e senza dubbio anche il martyrium erano chiusi; Melania restava quindi a pregare nell'atrio interno che Eteria localizza “ante crucem” (greco “vicino alla croce”; latino “ante fores sanctae anastaseos; cfr. J.-M. Lagrange, Revue Biblique, 1906, p. 301) sia che fosse accessibile da fuori, sia che ella potesse entrarvi dall'ospizio adiacente.

[Nota 159] Il greco attribuisce a Melania un individualismo religioso solitario che sorprende: certamente qui bisogna completarlo con il latino e chiarirlo con gli insegnamenti di Eteria 24, 1-2; Pétré, pag. 188-190. Melania veglia sola, aspettando il momento “prima del canto del gallo”, quando si aprono le porte dell'Anastasi e quando “monazontes” e “parthenae” cominciano le loro vigilie, ufficio di devozione seguito dai laici dei due sessi che lo desiderano. Allo spuntare del giorno cominciano “gli inni mattinali” (le nostre lodi), funzione pubblica alla quale assistevano il vescovo e tutto il clero, ma anche il popolo: è in questo momento che, conformemente al suo gusto della solitudine e forse a delle abitudini di riservatezza contratte a Roma (cfr. supra c. 5), Melania si ritira per riposarsi.

[Nota 160] I Re, 10, 26.

[Nota 161] La Spagna era stata durante molti anni un campo di battaglia fra le nazioni barbare. E' solamente nel 419 che, avendovi stabilito i romani uno stato di ordine, Melania e Piniano poterono liquidare il resto delle loro proprietà.

[Nota 162] Cfr. Amos 3, 12.

[Nota 163] Questo viaggio dove Melania vuole scambiare il suo oro deperibile in cambio delle ricchezze incalcolabili che sono gli esempi, le parole e le preghiere dei santi, è paragonato ad una spedizione commerciale. Ci vuole della scaltrezza, "panourgia", per acquisire un tale beneficio spirituale (Cap. 38) che è una partecipazione ai meriti e alla benedizione, "euloghia", dei monaci (Cap. 39). Ma il calcolo è buono e Piniano fa bene a seguirlo: essi ritornarono colmi di beni, come una nave carica fino all'orlo ("plerè tov forton komizontes") di denari acquisiti in cambio della loro paccottiglia. (Cap. 40).

[Nota 164] Paragonare col racconto di Palladio (H.L. LVIII) sul "solitario" Doroteo: poichè Melania la giovane le aveva inviato un'elemosina, la toccò appena e la rimandò a Diocle per distribuirla ai più bisognosi. Ugualmente Melania l'anziana, avendo portato trecento libbre di argento a Pambone, aveva visto costui senza alcun segno di gioia chiamare il suo economo Origene affinché lo facesse distribuire ai fratelli della Libia e delle isole (H.L. X).

[Nota 165] Il convento fondato da San Pacomio aveva dato il suo nome a tutta la congregazione, e si può trattare qui semplicemente del superiore del convento pacomiano di Canopo, molto vicino ad Alessandria, fondato sotto Teofilo (morto nel 384) (Ladeuze, Etude sur le cénobitisme pakhomien…, 1898, pag; 202). Ogni convento era suddiviso in numerose case, ma il titolo di “igumeno” è riservato normalmente al superiore del convento (Les vies coptes de S.Pachome…, trad. Lefort, Introd., pag. LX): se dunque il plurale del latino è la lezione autentica, bisognerebbe pensare non ai capi della casa del Canopo, ma ai superiori degli altri conventi, situati nell'Alto e nel Medio Egitto, che qualche circostanza straordinaria (D'Alès sottolinea che "axiountai, sunetuchon" esprimono bene una circostanza inattesa) avrebbe condotto ad Alessandria. La storia di questi monasteri (e di tutto il monachesimo egiziano) è abbastanza travagliata in questo inizio del V secolo per aver fornito più di una occasione a molti spostamenti, ma troppo mal conosciuta per permetterci di tentare un confronto preciso. Pertanto nessuno dei personaggi nominati qui, salvo forse Vittorio, può essere identificato, ed è difficile in queste condizioni dire quale testo, quello greco o quello latino, meriti maggiore fiducia.

[Nota 166] Si può verosimilmente identificare il personaggio designato in modo così elogiativo, con un monaco pacomiano, che giocò un ruolo di primo piano, d'altra parte difficile da seguire esattamente, nelle lotte interne della sua congregazione, così come nelle controversie cristologiche, a fianco di S.Cirillo, che accompagnò ad Efeso. E' stato studiato soprattutto da Ed.Schwartz, Cyrill und der Monch Viktor, Sitzungber. der Akad. der Wissensch. in Wien, 208, 4 (1928), pagg. 3-51; lo si trova ugualmente citato nelle Oeuvres de Saint Pachome et de ses premiers disciples, trad. L.Th.Lefort (CSCO, 160, 1956), pagg. 104-106. Sarebbe imprudente appoggiarsi a questo incontro e a queste espressioni per tirare delle conclusioni sulle tendenze teologiche di Melania, d'altronde il nome non è raro nell'Egitto monastico e si è anche sostenuto che i diversi testi legati al personaggio, potevano in realtà essere applicati a numerosi omonimi. Niente ci obbliga dunque a farne un monaco originario della Zeugitania, e con il pretesto che il nome è molto usato in Africa, a concluderne che il testo latino è preferibile.

[Nota 167] “Hapax” di senso sconosciuto: potrebbe indicare dei monaci che vivevano due a due, oppure, (con una facile correzione, "i" per "e") della “Zeugitania”, piccola provincia romana d'Africa: i latini non erano rari nei monasteri d'Egitto (San Girolamo PL 23, 65 s), ed è naturale che Geronzio menzioni specialmente l'incontro dei monaci con i quali Melania avrebbe potuto parlare del paese dove ella aveva trascorso sette anni.- Il latino lega questa parola a Vittore, e tre manoscritti danno la variante "Vittore ed Eugite".

[Nota 168] Il Deserto delle Celle e la "Montagna di Nitria" (o più esattamente il Deserto di Nitria, poiché la parola copta ha i due sensi, ma si applica piuttosto qui ad una depressione, e il greco mostra bene questa equivalenza nella Vita Antonii, 11, PG 26, 860), sono, con il Deserto di Scete, i tre alti luoghi della vita semi-eremitica in Egitto nel IV e nel V secolo. Ma se Cassiano, Palladio, ecc. li distinguono nettamente come tre luoghi situati nella stessa direzione a Sud-Ovest di Alessandria, e separati da un tragitto abbastanza lungo, per contro gli autori copti e arabi sembrano più o meno confonderli e i geografi non sono d'accordo nel localizzarli.

[Nota 169] Cfr. l'espressione di Palladio (H.L. CXVII, pag. 134: “Ho creduto di dover fare anche menzione delle donne virili e distinte”, "gunaikon andreion kai euschemonon", a cui fa eco Socrate parlandone nel suo libro (Hist. Eccl., IV, 23). Sulla vecchia equivalenza fra l'uomo e la ragione, dunque la virtù, da una parte, e la donna e le passioni, dunque i vizi, dall'altra, vedere per esempio la fine del Commentario al salmo 83 di Arnobio il giovane, PL 53, 447..

[Nota 170] Sul paragone del ”bottino”, cfr. sopra cap. 37. Negli Atti e nelle Epistole “diaconia” designa abitualmente il ministero dell'elemosina, per il quale sono ordinati i "diaconi", concepito non solo come un sostentamento dei bisogni del corpo, ma come un servizio del Corpo mistico di Cristo, che significa e rafforza la sua unità attraverso le realizzazioni concrete della carità scambievole. Ugualmente qui, è realmente il Signore Gesù Cristo che Melania e Piniano hanno servito nei “loro signori e i santi servitori di Dio” (cap. 37, nel latino) e il legame spirituale creato così è tanto profondo da permettere agli asceti di chiamare Melania loro “madre”.

[Nota 171] Cfr. Gn 3, 6 ss.. Il colore biblico dell'espressione permette qui di tradurre come un complemento o di luogo (seduta "sul" sacco e la cenere) o di maniera ("con", cioè a dire praticamente "sotto" il sacco e la cenere): sia "l'abito", sia "il giaciglio" del penitente, d'altro canto, andavano di pari passo, e il termine “essere seduti” deve essere preso secondo il senso ebraico più generale: "restare". Vedi su questo impiego di "cilicio", precisato alla fine del capitolo, supra, cap. 35, e sulla reclusione il cap. 32.

[Nota 172] Si tratta qui della figlia di Laeta, consacrata molto presto al Signore da sua madre, alla quale San Girolamo scrisse, verso il 400, una lettera, vero e proprio trattato, relativo all'educazione da darle (Ep. CVII), domandandole insistentemente di non mancare di inviare nei Luoghi Santi, presso il Presepio, questa “serva e sposa del Cristo” e proponendosi di essere un po' il suo “padre nutritore”, aggiungendo con una tenerezza di nonno: “La porterò sulle mie spalle e nonostante la mia vecchiaia, l'aiuterò a formare le parole che ella balbetta” (Ep. CVII, 13). Ella venne, in effetti, dopo la presa di Roma, a raggiungere a Betlemme, il gruppo che San Girolamo vi aveva attirato ed entrò da allora molto naturalmente in relazione con Melania, sua cugina.

[Nota 173] Sal 118, 35.

[Nota 174] Per quanto grande abbia potuto essere il ruolo di Melania presso la sua giovane cugina, isolata in Palestina dopo la morte di San Girolamo, non è per una riserva o per una reticenza calcolata riguardo a quest'ultimo che Geronzio attribuisce alla nipote di Melania l'anziana la conversione di Paola alla vita perfetta?

[Nota 175] Sulla questione dell'igiene corporale, Melania non si mostrava meno intransigente di sua nonna. Palladio andando un giorno con quest'ultima da Gerusalemme in Egitto, intese le rimostranze che ella indirizzò al diacono Jovino che, facendo parte del convoglio, si era permesso, durante il viaggio, di prendere qualche cura elementare di pulizia: “Credi bene, gli disse, ho 60 anni e, a parte le estremità delle mani, né il mio piede ha toccato l'acqua, né il mio viso, né altro membro. Benché colpita da diverse infermità e costretta dai medici, non ho mai permesso di rendere alla carne quello che è d'uso; non mi sono riposata su un letto, non ho fatto viaggi in qualche luogo con una lettiera”. Vedi sulla sporcizia abituale degli asceti d'oriente i testi riuniti da A.J.Festugiere, “Antioche paienne et chrétienne”, 1959, pag. 292. Il portare continuamente il cilicio era d'altronde, su un corpo privato dei bagni, di natura portato a moltiplicare la vermificazione. San Girolamo ci dice di Sant'Ilario che non si prese mai la pena di lavare il suo “saccus” e presta al vecchio asceta questa riflessione, spesso citata: “Perché dunque cercare la pulizia nel cilicio?” (“Vita Hilarionis”, 10; PL 23, 32). Sull'abbondanza dei vermi nei cilici di certi santi, vedi L.Gougaud, art. Cilice, nel Dict. De spiritualité, t. II, c. 900-901). Tuttavia Melania, conviene aggiungerlo, rude come sempre con se stessa, si preoccupava di attenuare anche su questo punto per le sorelle, i rigori della sua ascesi (vedi infra, cap. 41).

[Nota 176] La morte di Albina deve essere situata nel 431. Vedi Rampolla, su questa data, n. 1, pag. 105.

[Nota 177] Piniano aveva abbracciato, da parte sua, la vita monastica. Palladio (H.L. LXI, p. 157) ce lo descrive "con trenta monaci" che leggono, s'occupano dell'orto e tengono serie conferenze.

[Nota 178] Ger 15, 19.

[Nota 179] Cfr. 1 Cor. 7, 5.

[Nota 180] Su questa precauzione oratoria cfr. supra, Prol. pag. 127, 2.

[Nota 181] Cfr. II Cor. 11, 2.

[Nota 182] Letteralmente: “con sobrietà”. Cfr. 1 Pt 5, 8-9, il cui pensiero e le cui parole sono soggiacenti a questo passaggio: tema e testo classico della tradizione spirituale, fino alla "lettura breve" di Compieta in Occidente, e alla “Filocalia dei santi padri neptici” in Oriente. Cfr. infra, in questo stesso capitolo: "meta nepseos".

[Nota 183] Cfr. II Cor. 7, 15; ecc.

[Nota 184] Si è qui ancora molto vicini al senso originale, “politico”, de “leitourghia”, prestazione pubblica, omaggio ufficiale. Quanto a questo ragionamento a fortiori a partire dall'esempio degli angeli, esso è particolarmente frequente in S.Giovanni Crisostomo: cfr. per esempio le sue "Omelie sull'incomprensibilità" (SC 28).

[Nota 185] Cfr. Lc 17, 10.

[Nota 186] Cfr. I Cor 13.

[Nota 187] Is 40, 6.

[Nota 188] Cfr. Eb 6, 1.

[Nota 189] Eb 12, 14.

[Nota 190] Melania fa eco su questo punto a San Girolamo, dichiarando che: “Il digiuno non è affatto una virtù perfetta, ma il fondamento delle altre virtù”, "ieiunium non perfecta virtus, sed ceterarum virtutum fundamentum est" (Ep. CXXX, 11). Dichiara di aver conosciuto in passato degli asceti dell'uno e dell'altro sesso che hanno perduto il loro equilibrio mentale per avere oltrepassato su questo punto la misura. Sul carattere subordinato del digiuno nel monachesimo primitivo, vedi L.Boyer, La spiritualité du Nouveau Testament et des Pères, 1960, pagg. 385-386.

[Nota 191] Mt 11, 12.

[Nota 192] Questo esempio sotto delle forme più o meno analoghe (che insistono maggiormente sull'obbedienza del monaco o sull'impassibilità della pietra), si legge a più riprese nella letteratura monastica. Si paragonerà in particolare la lezione data da Sant'Antonio ad Ammone (PL 74, 380), e soprattutto quella dell'abate Anub, fratello dell'abate Poemen (Apophtegmata Patrum, Anub 1, PG 65, 129; cfr PL 73, 804, 955-6, 1057-8). Se bisogna fidarsi del quadro storico di questo racconto (attribuito a l'abate Giovanni), bisogna situarlo poco dopo la prima distruzione di Scete da parte dei Maziqi, nel 407-408 (secondo H.G.E.White, The monasteries of the Wadi'n Natrun, II parte, 1932, p. 150 ss.); Melania l'avrebbe dunque potuto ascoltare nel suo viaggio del 419 e potrebbe averlo combinato con la storiella esattamente parallela (ma nella quale la tripla invettiva si indirizza a dei cadaveri), PG 34, 249-252 (Apoftegma di Macario).

[Nota 193] II Cor 9, 7.

[Nota 194] Cfr. Rom 2, 1.

[Nota 195] Cfr. Col 1, 11

[Nota 196] Cfr. Mt 7, 14.

[Nota 197] Cfr. Sir 51, 27.

[Nota 198] II Tim 4, 8.

[Nota 199] Sal 118, versetti 148 e 62.

[Nota 200] Sul senso di queste parole e il modo in cui si può rappresentare questo ufficio vedi l'Introduzione a Vie de Sainte Mélanie (SC 90), cap. VI (N.d.T. Non tradotta in questa nostra traduzione italiana). In ogni caso, questo senso mi sembra il più probabile, soprattutto a causa del cap. 64, che pare ben situare l'intervallo segnalato al cap. 46 fra le "avagnoseis" ed i "orthinoi umnoi", e dunque interdire di far rientrare questi nel "vukterinos kanon", identico per conseguenza alla "nukterine leitourghia" o al "sunethes kanon" del cap. 46. Comunque, grammaticalmente, un'altra traduzione è possibile, forse più naturale: è quella che si ispira all'espressione "ad Matutinos, ad Laudes" e che adotta Rampolla: "…tre letture, tre responsori e, all'officio del mattino, quindici antifone"; le "orthinoi" (o "orthina") erano una parte del vukterinos kanon", come attualmente le Lodi, con il Mattutino o Notturno, compongono l'insieme dell'Ufficio notturno. Il latino appoggia questo senso temporale donato a "pros", ma l'interpretazione della frase nel suo insieme resta ambigua.

[Nota 201] Cfr. At 2, 4 e 15.

[Nota 202] Cfr. Gen 18, 1 e 35.

[Nota 203] Cfr. At 3, 1.

[Nota 204] Cfr. Dan 6, 11.

[Nota 205] Cfr. Mt 20, 3. 5. 6.

[Nota 206] Cfr. Lc 24, 13-31.

[Nota 207] Cfr. Rom. 15, 27.

[Nota 208] Noi sappiamo attraverso la Vie de Pierrre l'Ibérien (ed Raabe, p. 31) che il prete incaricato del servizio dei monasteri celebrava tre volte la domenica: una volta sulla santa montagna - laddove bisogna intendere la chiesa dell'Ascensione - una seconda volta nel convento degli uomini e una terza in quello delle donne. Vedi Vincent e Abel, Jérusalem, II, p.387, n. 2.

[Nota 209] E' sotto Teodosio il Giovane (408-450) che, secondo un rapporto di Sozomene (Hist. Eccl., IX, 17; PG 67, 1628-29), il corpo del profeta sarebbe stato trovato in stato di buona conservazione, nelle vicinanze di Eleuteropoli a Kaphar Zacharia, da un funzionario locale al quale Zaccaria stesso avrebbe rivelato la sua presenza. Vedere H.Delehaye, Origines du culte des martyrs, p. 101. Secondo A.Grabar (Martyrium, 1946, II, pag. 201) il suo culto, a volte confuso con quello di Zaccaria, padre del Battista, “si è rapidamente sparso attraverso il mondo cristiano, con il concorso delle donne della casa regnante”; l'autore cita anche (ibid., n. 2) la fondazione di Melania.

[Nota 210] "La scoperta delle reliquie di S. Stefano (dicembre 415), in un'epoca di fede, ma anche di dubbi e di critiche, di competizioni accanite e di controversie interminabili, accettata da tutte le parti e tutte le chiese, ci pare uno dei fatti più certi della storia" (J.M.Lagrange, Saint Etienne et son sanctuaire à Jérusalem, 1894, pag. 56). Qualunque cosa se ne pensi, negli anni che seguirono, da un capo all'altro del mondo cristiano, si veneravano le reliquie del protomartire, leggendo la Lettera del prete Luciano, di Kaphar Gamala, che raccontava la scoperta: è il racconto che, secondo il testo latino, Melania faceva leggere alla vigilia della festa del santo (infra, cap. 64).

[Nota 211] Si tratta dei quaranta soldati della “legione fulminante” allora di guarnigione a Sebaste in Armenia, che, nel 320, sotto Licinio, per non aver voluto rinnegare la loro fede, furono esposti tutti nudi per ordine del Governatore Agricola, su uno stagno ghiacciato. Questi quaranta martiri di Cristo divennero in Oriente molto presto popolari. Ebbero ben presto la loro basilica a Cesarea, e i padri cappadoci divennero dei ferventi propagatori del loro culto (vedi Delehaye, Origines du culte des martyrs, pag. 205-208). Essendo le loro reliquie state disseminate in più posti, ci si spiega benissimo che Gerusalemme abbia potuto esserne provvista.

[Nota 212] Cfr. I Tim 4, 7-8.

[Nota 213] Questa morte si situa nel 432, pochissimo tempo dopo quella di Albina. Non abbiamo d'altronde su questo avvenimento alcun dettaglio, ciò che è conforme alla vita di annientamento quale fu sempre la sua. "Piniano - è stato scritto - assomigliava a quei personaggi degli affreschi che discretamente occupano lo sfondo e che, per rispetto ai punti luminosi, sembrano preoccupati solo di impallidire" (Goyau, p. 166).

[Nota 214] L'Apostoleion era una cappella eretta da Melania in onore degli apostoli, senza dubbio in ricordo dei differenti incontri che essi ebbero con il Cristo sul Monte degli Ulivi (“tradizione” del Pater, “apocalisse sinottica”, ultime parole prima dell'Ascensione). Nel IV-V secolo i cristiani cercavano in effetti di seppellire i loro morti nei luoghi consacrati e, se possibile, anche vicino alle tombe o alle reliquie dei martiri (cfr. Paolino di Nola, Carm. XXXI, v. 607-10; p. 329, S.Agostino, De cura pro mortuis gerenda, 4; PL 40, 596), considerando la cosa come normale e invidiabile, il contrario come un ripiego: "etsi aliqua necessitas… in sacris locis humari nulla data facultate permittat…"..

[Nota 215] II Cor 6, 5.

[Nota 216] Cosa che bisogna sicuramente intendere nel senso che la celebrazione dell'Ufficio divino (nel santuario costantiniano dell'Eleona, che riuniva i due ricordi evangelici: cfr. A.Vincent “L'Eléona, sanctuaire primitif de l'Ascension”, Revue Biblique, LXIV, 1957, pag. 48-71), lasciata fino a quel momento all'arbitrio dei custodi, divenne regolare e quotidiano.

[Nota 217] Cfr. Lc 14, 29.

[Nota 218] L'espressione non deve essere qui intesa solamente in senso spirituale, ma nel senso reale dell'imposizione dell'abito. Formale è su questo punto la testimonianza di Pietro l'Iberico che attribuisce questo ruolo a Melania. Per quanto sorprendente possa sembrare il fatto, questo ha per lui tutta la verosimiglianza. Noi sappiamo che nello stesso periodo il celebre Evagrio Pontico, venuto a cercare a Gerusalemme un rifugio contro le seduzioni di Costantinopoli e ospitato da Melania l'anziana “fu rivestito da lei stessa del santo abito”, "par'autes ekeines metemfiasthe" (Palladio H.L. XXXVIII, pag. 120).

[Nota 219] Rufio Antonio Agripnio Volusiano era stato, ancora "puer" (Rutilio Namaziano, De reditu suo, I, 173), proconsole in Africa. Verso il 411-412 intrattenne con Sant'Agostino una corrispondenza piena di confidenze su alcuni misteri cristiani (Ep. CXXXII, CXXXV, CXXXVI, CXXXVII, CXXXVIII di Sant'Agostino; Ep. XXXV di Volusiano a Sant'Agostino; CXXVI di Conte Marcellino a S.Agostino), ma, a giudizio di Marcellino, a dispetto di sua madre cristiana, l'influenza dei suoi amici pagani di Roma (fra i quali bisogna contare Rutilio Namaziano che gli dedicò il suo poema di propaganda anticristiana) lo manteneva nella non-credenza. Il silenzio della “Vita” autorizza forse a credere che Melania, durante tutto il tempo che ha vissuto a Tagaste, non lo abbia incontrato. Egli fu in seguito questore del Sacro Palazzo; nel 416, e poi nel 421, prefetto della città (“la grande Roma” in opposizione alla “nuova Roma”, Costantinopoli); nel 428-429, prefetto del Pretorio; infine nel 436, ambasciatore di Valentiniano III a Costantinopoli, dove egli morì il 6 gennaio 437.

[Nota 220] Notare la precisione del testo greco: Volusiano aveva in effetti appena concluso una unione da lungo tempo decisa: era nel 436 che Teodosio ed Eudossia avevano fidanzato la loro figlia a Valentiniano III. Quanto ai due imperatori, quello d'Oriente e quello d'Occidente, qui e nel cap. 56, il latino e il greco si accordano a chiamare costui “nostro imperatore” e il primo “l'imperatore”; Rampolla (p. LVIII) ne conclude per l'origine occidentale del testo, ma D'Alès giudica semplicemente che la stesura possa anche essere stata fatta in oriente, ma dopo la morte di Teodosio (450) e prima di quella di Valentiniano (455).

[Nota 221] Tb 12, 7.

[Nota 222] Melania e la sua scorta usano per andare a Costantinopoli la carrozza pubblica o Cursus publicus. Raro favore che non è accordato in generale che agli alti funzionari, con parsimonia ed in eccezionali circostanze. Il viaggiatore che è ammesso a servirsene è munito di un biglietto speciale ("sunthema"), evectio, tractoria, firmato dall'imperatore o, in suo nome, dal magister officiorum o prefetto del Pretorio, che porta il nome della persona a cui è concesso, la durata del viaggio, le stazioni da dove deve passare il viaggiatore e altre particolarità. Una formula di evectio in uso nel IV secolo, sotto l'imperatore Graziano ci è stata conservata da Marculfo (Formul., I, 2). Su qualche circostanza dove il cursus publicus fu autorizzato per uso nel mondo ecclesiastico e sulle reazioni dei pagani a questo proposito, vedere D.Gorge, “Les voyages, l'hospitalité et le port des lettres dans le monde chrétien des IV et V siècles”, Parigi 1926, pag. 41-63; sul Cursus publicus in generale vedi l'articolo del Dict. de Daremberg; più recentemente H.G.Pflaum, “Essai sur le Cursus publicus”, Parigi, 1940.

[Nota 223] Essendo la legislazione molto rigida per quello che concerneva l'uso del trasporto pubblico, Messala poteva aver avuto paura di essere denunciato in alto luogo al prefetto della provincia, allora di stanza a Tripoli. Ma c'era qui da parte sua un errore in questo senso, poiché il biglietto, essendo stato emesso direttamente dalla corte di Bisanzio, per l'insieme del trasporto, era molto più elastico. Se non poteva essere ceduto o venduto ad altri, dava almeno al suo beneficiario il diritto di condurre con se' uno o più compagni di viaggio “ad tutelam vitae vel laborem adeundum itineris” così come si esprime il Cod. Theod., lib. VIII, V, 1, 4, De cursu publico (ed. Haenel, col. 713; 715-716), e di requisire, se il caso, gli animali necessari.

[Nota 224] Il tratto è da ritenere per la biografia di Geronzio.

[Nota 225] Oppure “d'incoraggiamento, di augurio di buon viaggio”: congettura (o cattiva lettura? L'apparato non indica niente) di Delehaye, preferita da D'Alès che giudica questo "benvenuto" più naturale dopo "paraklesis". Ma, senza parlare del testo latino (continuo fit odor suavissimus et recreata est magna consolatione), la lezione del manoscritto si può raccomandare per il tratto analogo che si trova al cap. 6..

[Nota 226] Grande funzionario sotto Arcadio e Teodosio II, conosciuto soprattutto per la dedica e la conclusione del lavoro che Palladio intraprese a sua richiesta, e che porta il nome di “Historia Lausiaca”. L'autore, che aveva fatto la sua conoscenza nel 391, testimonia che nel 420 era ancora "praipositos tou eusebestatou koitonos", “praepositus sacri cubiculi”; secondo il Codice Teodosiano una delle quattro principali cariche dell'impero, sovraintendenza di tutta la Corte e del Palazzo. Palladio, che lo mette senz'altro in rapporto con Melania, ci parla dell'uso generoso e veramente cristiano che faceva delle sue ricchezze, e il testo latino l'ha già nominato come benefattore di Melania, nel cap. 41. E' anche conosciuto come uno dei sostenitori del partito opposto a Nestorio. La sua morte è anteriore alla stesura del testo latino (ad Lausum bonae memoriae), ma poiche' nessun'altra testimonianza ci dà la data del primo avvenimento, noi non ne possiamo concludere nulla riguardo al nostro testo. - E. Honigmann “Heraclides of Nyssa”, Patristicic Studies (Studi e testi, 173), 1953, pag. 118, rimarca i legami di Melania la giovane con il gruppo “giovannita”, detto “origenista”, al quale si ricollegano Melania l'anziana e Rufino, Palladio, Evagrio (si potrebbe aggiungere Tigrio), e avvicina l'opera di Geronzio con quella di Eraclide di Nissa, che sarebbe l'autore delle biografie copiate nella “Historia Lausiaca”.

[Nota 227] Cfr. Tit 3, 5.

[Nota 228] L'idea si ritrova più oltre, al cap. 55. E' difficile comprendere come Rampolla abbia potuto tradurre “da quando avrai rinunciato” ma, con la facile correzione “apelasas” (da "apelauno", in senso intransitivo), si ottiene in effetti questo senso, forse più naturale a dispetto dell'interpretazione che egli obbliga a dare di “osper”. Il latino non offre un passaggio parallelo.

[Nota 229] Patriarca di Costantinopoli dal 434 al 446, fu soprattutto celebre per il sermone che pronunciò il 23 dicembre del 428 in presenza del Patriarca Nestorio e contro le sue dottrine, così come per la corrispondenza che intrattenne con i vescovi d'Oriente (cfr. soprattutto il Tomo agli Armeni), contro gli errori "pre-nestoriani" rimproverati a Teodoro di Mopsuestia. Ma in questa polemica, come in quelle che sostenne contro gli eretici della capitale, egli si fece sempre notare per il suo spirito di pace e per il suo rifiuto di estendere inutilmente, a dei vescovi morti nella pace della chiesa, la condanna delle dottrine. Fu lui che riconciliò con la grande Chiesa gli ultimi partigiani di San Giovanni Crisostomo che ancora la osteggiavano, riportando in gran pompa il suo corpo a Costantinopoli nel 437. La sua opera letteraria è molto discussa e B.Marx (Procliana, Munster, 1940) non è stato affatto seguito nel suo tentativo di attribuirgli più di 80 Omelie edite sotto differenti nomi.

[Nota 230] Questa allusione non si ritrova nel testo latino. D'Alès vede qui una correzione apportata dopo Calcedonia al testo di Geronzio, che il suo antinestorianesimo aveva fatto confluire nel monofisismo.

[Nota 231] Cfr. supra cap. 15.

[Nota 232] Sullo zelo di Melania per l'ortodossia e il gusto delle discussioni teologiche presso gli asceti dell'epoca vedi supra, ap. 27. D'altronde le simpatie particolari di Melania per le dottrine antinestoriane sono conformi a quello che ci suggeriscono le sue relazioni: San Cirillo (cap. 34), Eudocia (cap. 56), Lauso (cap. 53; crf anche, infra, cap. 56).

[Nota 233] Questo travestimento (suggerito dal termine di San Paolo, II Cor 11, 14) si ritrova in una delle tentazioni di Sant'Antonio: “Un bambino nero gli apparve” (Vita 6; PG 26, 849).

[Nota 234] Piuttosto che una lacuna bisogna senza dubbio supporre qui una ellissi, come se ne trovano altre nel testo. Il diavolo, buon teologo, fa allusione ad uno dei grandi temi d'attualità teologica: le frasi dell'Esodo (7, 3, ecc.) dove Dio è detto “indurire il cuore del faraone”, del quale il senso era dibattuto nelle controversie intorno all'origenismo e al pelagianismo, dunque, senza dubbio, poco tempo prima a Costantinopoli.

[Nota 235] Il latino aggiunge: “e mi ordina di dire una preghiera”.

[Nota 236] Espressione classica dell'antichità per definire il battesimo (cfr. Tit 3, 5).

[Nota 237] Il latino e il greco ci offrono qui due racconti coerenti, ma inconciliabili. Rampolla vuol mostrare che il primo si accorda meglio con la topografia di Costantinopoli, ma D'Alès mostra la fragilità della sua ricostruzione, senza peraltro provare la superiorità del greco.

[Nota 238] Qui il testo greco è il solo ad attestare questo dettaglio: sarà il contrario per la morte di Melania (cap. 66, 67 e 68) dove il greco non menziona che due comunioni.

[Nota 239] Il mercoledì 6 gennaio 437.

[Nota 240] Attestazione preziosa per la storia della liturgia dei defunti. La cerimonia ha dovuto avere luogo il lunedì 15 febbraio.

[Nota 241] Certamente la moglie e la figlia di Teodosio, con le quali noi vediamo Melania in relazione, Eudocia ed Eudossia. Bisogna aggiungere che la sua sorella primogenita, Pulcheria, che aveva già, come reggente, esercitato tutta la regalità del potere e che la recupererà dopo la partenza definitiva di Eudoxia nel 445 (aspettando di regnare dopo la morte di suo fratello nel 450 come sposa di Marciano?). Ma in questo periodo all'apice dell'influenza di Eudossia corrisponde un certo oscuramento di Pulcheria e inoltre è possibile che colei che farà trionfare l'ortodossia di Calcedonia contro l'antinestorianesimo estremo, non abbia condiviso tutte le preferenze dottrinali e le simpatie di Melania.

[Nota 242] In esecuzione di un voto (cfr. infra, cap. 58).

[Nota 243] Gc 5, 16 (cfr. 17-18).

[Nota 244] Sal 144, 19.

[Nota 245] Sal 132, 7.

[Nota 246] Sua madre e suo marito (cfr. cap. 42 e 49).

[Nota 247] La tappa di Antiochia fu in effetti il grande avvenimento di questo viaggio.

[Nota 248] Cfr. Mt 11, 29.

[Nota 249] Secondo Van de Vorst (“Saint Phocas”, Anal. Boll. XXX, 1911, pag. 252-68), bisogna mantenere l'esistenza storica di un martire di questo nome e di uno solo, ma conosciuto solamente attraverso il panegirico di Asterio d'Amasea (PG 40, 300-13): giardiniere presso Sinope, avrebbe dato ospitalità ai soldati inviati alla sua ricerca, e avrebbe lui stesso scavato la sua tomba prima di rivelargli la sua identità. Il suo culto è stato abbastanza esteso, soprattutto fra i marinai, e si veneravano le sue reliquie in Siria, all'inizio del V secolo. Non è dunque strano che ci sia stato un martyrium a Sidone. Quanto a questa casa della Cananea essa non sembra aver goduto di una grande notorietà, e nessuno dei pellegrini antichi la segnala, né a proposito della città, né a proposito dell'episodio evangelico che Arnulfo si contenta di ricordare (secondo Adamnan d'Iona verso 670) a proposito di Tiro.

[Nota 250] Mt 15, 27.

[Nota 251] Al voto ufficiale, e attestato dalla storia, che ella aveva fatto di visitare i Luoghi Santi, come rendimento di grazie per la salute ed il matrimonio di sua figlia, Eudocia aggiunge amabilmente il voto del tutto privato che le ispira la sua amicizia e la sua venerazione per Melania: venerazione che ella spinge fino a mettersi, per così dire, al rango di una semplice religiosa ("madre": cfr. l'impiego della stessa parola nei cap. 37, 41, 62 come l'impiego di "teknon" al cap. 66, o di "filiolae" al cap. 65, nelle esortazioni e nelle ultime parole di Melania).

[Nota 252] Evagrio lo Scolastico parla di questa sollecitudine di Eudocia per vedere i monaci di Palestina e la storia delle fondazioni dell'imperatrice attesta abbastanza il suo zelo per le reliquie e per le dedicazioni dei santuari.

[Nota 253] Ancora due racconti difficili da conciliare: se si segue il greco si deve supporre che l'imperatrice è ritornata dal Martyrium all'Anastasi in carrozza o in lettiga, ciò che non ha nulla di verosimile; nulla precisa il tempo della guarigione ma, poiche' è poco probabile che Melania si sia seduta per pregare, la parola “kathezomene” è senza dubbio da prendere nel senso biblico più largo, che può suggerire un sostare prolungato. Al contrario, secondo il latino, sembra che l'incidente si sia verificato dopo la dedicazione, allorquando Eudocia entrò nel monastero vicino e che vi sia rimasta fino alla guarigione; ma è abbastanza sorprendente presentare questa come immediata, se Melania è dovuta restare tutta la notte in preghiera; infine il racconto dell'azione delle grazie di Eudocia sembra indicare che il redattore confondeva, o almeno avvicinava l'Anastasi e il Martyrium del Monte degli Ulivi!

[Nota 254] Sembra che la guarigione non sia stata così completa come dice Geronzio e che essa non divenne totale che grazie ad un pellegrinaggio fatto sulla strada del ritorno, credendo ad un'iscrizione poi scomparsa della chiesa di Teodoropoli (Zapharambolou) in Paflagonia, che sarebbe un ex-voto (e senza dubbio una composizione) di Eudocia. Si compone di sei versi giambici: "Tu ti sei mostrato un salvatore, Stefano, nei dolori terribili del ginocchio sinistro e del piede della tua miserabile amica. Di questo tempio divino faccio dono alla gloriosa città di Teodoro, il guerriero lungamente rinomato. Il tuo piede, ricevuto in dono, io lo dono a lui perché resti, monumento di un ricordo imperituro". L'autenticità di questa iscrizione è messa in dubbio. Rampolla (pag. 240) è esitante. A dispetto di qualche divergenza ben spiegabile con il racconto di Geronzio, Dom Leclercq (art. Eukhaita, DACL, V, 704-5) l'accetta, salvo forse le abbreviazioni che compaiono alla fine della copia e che si interpretano secondo Rampolla: "offerto dall'imperatrice Eudocia il 15 thargelion (mese ateniese corrispondente a maggio-giugno). Fr. Halkin (Inscriptions grecques relatives à l'Hagiographie, in Anal. Boll. LXXI, 1953, p. 96) non solleva alcuna obiezione contro l'iscrizione e le abbreviazioni che seguono, ma rifiuta l'identificazione fra questa Theodoroupolis e Eukhaita che prese questo nome molti secoli più tardi. Segnala anche che si mostrava ancora il piede destro di Santo Stefano in questa chiesa nel 1856.

[Nota 255] Cfr., supra, Prologo, pag. 127, nota 2.

[Nota 256] Letteralmente: per il parlar franco che permette loro di rivolgersi a Dio in tutta confidenza e libertà.

[Nota 257] Cfr. I Cor. 4,4.

[Nota 258] Si tratta in questo passaggio di certi digiuni straordinari di quaranta giorni consecutivi, senza alcun nutrimento, a paragone dei quali Melania trovava insignificante il suo digiuno di cinque giorni.

[Nota 259] Mt 19, 21; 16, 24.

[Nota 260] Cfr. Is 40, 10.

[Nota 261] Cfr. Ef 4, 26-27.

[Nota 262] Cfr. I Cor 9, 24.

[Nota 263] Cfr. Fil 1, 23.

[Nota 264] Cfr. II Cor 5, 2.

[Nota 265] Lunedì, 25 dicembre 439. Questa menzione della "Vita" sarebbe la prima attestazione per la chiesa di Gerusalemme della celebrazione della nascita di Gesù il 25 dicembre: questa festa di origine romana non si sparse che progressivamente in Oriente, alla fine del IV e all'inizio del V secolo, e il racconto di Eteria, a dispetto di una lacuna che capita in quel momento, ci mostra il 6 gennaio celebrato a Betlemme, molto probabilmente come l'unica commemorazione della nascita di Cristo. San Girolamo (Homilia de Nativitate Domini, ed. Morion, Anecdota Maredsolana, III, 2, p. 396) ci mostra la festa occidentale celebrata a Betlemme, in presenza di un vescovo (quello di Gerusalemme?), ma contro l'uso della Palestina Rampolla (n. XLIV, p. 268-270) attribuisce al vescovo Giovenale, fra il 425 e il 439, l'introduzione della festa a Gerusalemme (inoltre è possibile che Melania sia andata a celebrare con Paola una festa ignorata dalla chiesa di Gerusalemme).

[Nota 266] Da confrontare con lo stesso epiteto in San Girolamo per designare la piccola città consacrata dalla nascita di Gesù (Ep.CVIII, 14; II, pag. 325).

[Nota 267] L'esistenza di questa veglia è attestata da Eteria per l'Epifania (25, 12; Pétré, pag. 206). La pellegrina segnala che "a Betlemme, durante tutta l'ottava, a partire dall'ora in cui tutti ritornavano a Gerusalemme con il vescovo, i monaci del posto, al completo, continuavano a vegliare fino al mattino nella chiesa degli inni e delle antifone". Si può supporre che questo ufficio notturno sia stato trasferito, con la festa stessa, al 25 dicembre. Melania, nel suo fervore per i salmi, non avrà certamente mancato di cantare la salmodia.

[Nota 268] Alla fatica delle vigilie, che non era certamente una parola vana, si aggiungeva la distanza da colmare fra Betlemme e Gerusalemme. Questa, secondo il pellegrino di Bordeaux, era di sei miglia; i monaci, precisa Eteria, facevano la strada a piedi. La fatica di Melania in questa circostanza non ha dunque niente di innaturale.

[Nota 269] La grotta degli insegnamenti di Cristo, santuario servito dal monastero degli uomini. (cfr., supra, cap. 49).

[Nota 270] Il giorno dopo il Natale è in effetti in tutti i calendari, dall'inizio del IV secolo, consacrato a Santo Stefano. Notare che i giorni sono contati da un tramonto all'altro; se il 25 dicembre comprendeva già la veglia notturna a Betlemme, il "giorno dopo" comincia dalla sera dello stesso giorno, secondo il nostro modo di contare, per cui Melania ha potuto prendere parte a questa riunione prima di tornare al monastero per la veglia notturna. Quanto alla questione molto intricata della localizzazione dei differenti ricordi e santuari di S.Stefano a Gerusalemme, vedi DACL, V, 648-53.

[Nota 271] Non si tratta, in questa cerimonia della sera, di una sinassi nel senso abituale, cioè a dire della celebrazione della messa, ma di quello che noi chiameremmo i primi Vespri di Santo Stefano (cfr. il testo latino).

[Nota 272] Cfr. Gv 12, 1.

[Nota 273] Cfr., supra, cap. 42.

[Nota 274] Ger 48, 10.

[Nota 275] Rom 14, 10; II Cor 5, 10.

[Nota 276] L'espressione sembra ben indicare che non si tratta dello stesso edificio dell'inizio del capitolo: il primo era il martyrium di Santo Stefano sufficientemente descritto da queste parole, quello dove si celebrava la festa per la città di Gerusalemme; il secondo è quello che Melania ha costruito sul Monte degli Ulivi, servito da un gruppo di "cappellani" (cap. 57) e chiamato anche “martirion”.

[Nota 277] Cfr. Dan 13, 42.

[Nota 278] Cfr. Sal 101, 6.

[Nota 279] Cfr. Sal 72, 23-24.

[Nota 280] Cfr., infra, cap. 70.

[Nota 281] Cfr. Mt 25, 34.

[Nota 282] Cfr. Dan 9, 9.

[Nota 283] Cfr. Sal 16, 7.

[Nota 284] Cfr., supra, cap. 60.

[Nota 285] Senza dubbio gli “orthrinoi umnoi” nominati un po' prima; la visita al monastero degli uomini si situerebbe dunque durante il riposo che Melania concesse alle sue sorelle fra "Mattutino" e "Lodi" (supra, cap. 23, "due ore", cap. 46), e sarebbe durante l'Officio stesso che le religiose, vedendo la stanchezza di Melania, si interruppero per pregarla di riposare (cfr. il testo latino).

[Nota 286] Cfr. Mt 25, 1-12.

[Nota 287] Cfr. Fil 4, 7.

[Nota 288] Cfr. Gal 6, 2.

[Nota 289] Se si conta, come gli antichi, la quinta giornata a partire dal martedì mattina, quando lei si è messa a letto, bisogna prendere semplicemente la durata di 24 ore senza tener conto del tramonto. Questo lasso di tempo va dunque da sabato mattina a domenica mattina e la precisione seguente indica un'ora abbastanza tarda perché, tramontato il sole, si fosse già civilmente e religiosamente all'inizio di quella domenica alla fine della quale Melania doveva morire. Il testo latino sembra qui più soddisfacente.

[Nota 290] Cfr. Fil 1, 23 e II Cor 5, 6.

[Nota 291] Cfr. Mt 28, 1; Lc 23, 54.

[Nota 292] “Appello, invocazione”: questo termine designa, da Sant'Ireneo (Adv. Haer. VI, XVIII, 5; PG 7, 128; secondo Harnack, Texte u. Untersuch., 1900, V, p.56), una preghiera che opera la consacrazione eucaristica. Poco a poco si è specializzata nel senso di un'invocazione (generalmente allo Spirito Santo, distinta dalle parole dell'istituzione, e ha dato luogo a delle lunghe controversie fra le chiese d'Oriente e d'Occidente. Nel V secolo le liturgie occidentali conoscevano, sembra, una preghiera analoga, e non si può affermare, secondo questo testo, che la messa che celebra qui Geronzio è, per esempio, quella che attesta S.Cirillo di Gerusalemme (il testimone più formale della tradizione orientale); ciononostante l'importanza particolare che sembra dare Melania all'epiclesi, suggerisce bene che si tratta di una preghiera speciale e considerata fondamentale nello svolgimento della messa. Vedere Dom Cabrol, art. “Epiclése”, DACL, V, 142 - 84.

[Nota 293] Sull'abitudine di rinnovare il viatico nella stessa giornata, cfr., supra, cap. 55. Il latino aggiunge inoltre una terza comunione, subito prima dell'ultimo respiro.

[Nota 294] I Cor 9, 19.

[Nota 295] Cfr. Gal 6, 2.

[Nota 296] Qui la costruzione greca "opos perissoteros… avadexasthai" sembra anormale. Fra tutte le spiegazioni che si potrebbero proporre, due sembrano più probabili, tra le quali noi non sappiamo scegliere: a) ci sarebbe contaminazione tra un complemento ad un modo personale con "opos" (indicativo futuro, congiuntivo) ed un infinito dipendente direttamente da "parakalo"; b) un verbo personale, come "thleseis", sarebbe caduto fra "opos" e "anadexasthai".

[Nota 297] Il latino aggiunge: “e prega per me”.

[Nota 298] Verso le tre del pomeriggio.

[Nota 299] Cfr. Gv 19, 30.

[Nota 300] Cfr. II Tim 4, 6.

[Nota 301] Cfr. Gb 1, 21.

[Nota 302] O, dividendo con Delehaye: “Essi la seppellirono in vesti funebri degne della sua santità...”.

[Nota 303] “Moforion” è la lezione dei manoscritti. Rampolla corregge in “maforion”. Cfr. cap. 31.

[Nota 304] “Leviton”: “genus est vestimenti sine manicis”, è un genere di vestimento senza maniche, spiega Gerolamo nella sua “Regula Pachomii, praef., 4 (PL 23, 63)” e Isidoro di Siviglia, “Etymologiae”, 19, 22, 22 (PL 82, 687): “Lebitonarium est colobium (tipo di tunica) sine manicis, quali monachi Aegyptii utuntur”. Vedi su questa parola Ph.Oppenheim, Das Moenchskleid…, p. 95 ss.; e sugli altri capi di abbigliamento monastici, supra, cap. 31.

[Nota 305] Molto caratteristico questo vestiario usato dalla santa. Attesta l'usanza di rivestirsi di preferenza, in particolare per il grande viaggio della morte, di abiti che siano appartenuti a dei santi personaggi. Come la “frangia del vestito” di Gesù si crede che ne emani una “virtù”, una “benedizione”: si può ricordare (supra, cap. 61) la guarigione operata attraverso il “lourion” della santa, cioè sicuramente la “zone” menzionata qui. L'usanza ha per lei degli illustri precedenti: Paolo di Tebe, per esempio, che domanda a Sant'Antonio di essere sepolto nel cappotto che questo ha ricevuto dal vescovo Atanasio e in cambio del quale Antonio conserva per le grandi feste la tunica di Paolo (Vita, 12, 16; PL 23, 26, 28); o ancora Antonio, lui stesso, che lascia in testamento al vescovo Atanasio una delle sue tuniche e il cappotto, che da lui aveva ricevuto nuovo e che gli rende usato, e che lascia al vescovo Serapione un'altra sua tunica, e ai monaci che vivevano con lui, il suo cilicio (Vita, 92, PG 26, 972). D'altronde gli asceti rifiutavano in generale che si mettessero loro abiti diversi da quelli che avevano portato nella loro esistenza. Poveri del Cristo, essi tenevano a portare la loro livrea fino nella tomba. La vita di San Efrem riporta le sue ultime raccomandazioni: “Se c'è, dice, chi per amore del padre ha preparato per seppellirlo un abito prezioso, che lo dia ai poveri”. Segue il racconto della punizione di uno che aveva contravvenuto (Vita S.Ephraemi, auctore Metaphraste, in Opera, ed. Assemani, I, XXVIII), cfr. "Le Testament de saint Ephrem, VII, ed. Rubens Duval, Journal Asiatique, 1901, p. 288-9.

[Nota 306] Queste reliquie sono come una protezione contro i pericoli che aspettano l'anima nella sua “traversata dopo la morte”, secondo le rappresentazioni escatologiche del cristianesimo antico (vedi, infra, cap. 70). Presso i cristiani più superstiziosi, questa tendenza arriverà a moltiplicare le precauzioni: non soltanto porteranno nella loro tomba l'eucaristia, ma delle reliquie di tutti i generi, dei testi biblici, liturgici; e così, nei testi apocalittici più o meno apocrifi, si arriva ai semplici amuleti: gli esempi sono numerosi, per esempio nella necropoli di Akhmin. Ma, secondo una visione più spirituale, queste vesti portate dai santi, e, per così dire, ancora pregne delle loro virtù, sono un segno e già una ricompensa delle virtù che rivestono, “come un mantello (cap. 70), l'anima santa che entra in cielo”. Noi costruiamo come Delehaye "imatia" (come ha fatto all'inizio del capitolo per "entafia"), come un complemento d'oggetto interno di "evetaphiasthe", senza supporre una lacuna.

[Nota 307] Notare qui, unico in tutto il nostro testo, l'impiego di questa parola chiave della spiritualità monastica dell'antichità.

[Nota 308] I Cor 2, 9.


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