Radici dell’Europa: modello latino e ispirazione cristiana alle origini della laicità e della sensatezza del vivere.
Il pensiero di Rémi Brague, professore di Filosofia araba alla Sorbona di Parigi (tpfs*)

Per R.Brague il tratto culturale essenziale dell’Europa è dato dalla capacità, ereditata dalla civiltà romana, di far proprio il portato positivo delle culture precedenti. "Significa sapere che ciò che si trasmette non proviene da se stessi, e che lo si possiede solo a stento, in modo fragile e provvisorio", scrive Brague, aggiungendo "Dire che noi siamo romani... significa riconoscere che in fondo non si è inventato niente, ma che si è saputo trasmettere, senza interromperla, ma ricollocandosi al suo interno, una corrente venuta da più in alto".
Così afferma nel volume del 1992, Europe, la voie romaine, successivamente tradotto in Italia da Rusconi, con il titolo Il futuro dell'Occidente. Nel modello romano la salvezza dell'Europa. Creatore di linguaggio, amante dell’invenzione di nuovi termini, Brague chiama questo atteggiamento “spirito di secondarietà”. In Italia Marta Sordi, docente di Storia greca alla Cattolica di Milano, ha ipotizzato un’analoga interpretazione del genio della cultura latina. Il contributo della civiltà greca e romana alla costituzione della cultura europea
In questa “identità eccentrica” Brague individua l’antidoto contro una assolutizzazione della cultura europea.

Il cristianesimo, e particolarmente il cattolicesimo, non solo non ha alterato questa impostazione di fondo, ma l’ha rafforzata, per la sua origine storicamente orientale che si è venuta ad inserire in Occidente, e per la propria apertura universale missionaria, che lo ha posto costantemente in tensione feconda con le culture di tutti i popoli.
Per Brague è proprio questa prospettiva che ha reso possibile, ben prima dell’illuminismo, la separazione fra politica e religione, poiché la fede cristiana non si è mai identificata con una delle differenti forme storiche che ne sono scaturite.
Come Brague ama ripetere, "la civiltà dell'Europa cristiana è stata costruita da gente il cui scopo non era affatto quello di costruire una "civiltà cristiana", ma di spingere al massimo le conseguenze della loro fede in Cristo".
Ci tornano in mente le parole di un saggio giovanile dell’attuale card.J.Ratzinger che, paragonando la visione politica di Agostino e di Origene, affermava: “Per Agostino gli Stati e le patrie della terra passano a un rango secondario perché ha trovato la città, lo Stato di Dio e in esso la patria unica di tutti gli uomini. Qui non è consentito abbandonarsi ad alcuna illusione: tutti gli Stati di questa terra sono “Stati terreni” anche quando sono retti da imperatori cristiani e abitati più o meno completamente da cittadini cristiani. Sono Stati su questa terra e quindi “terreni” e nemmeno possono divenire di fatto qualcosa d’altro. In quanto tali, sono forme di ordinamento necessarie di quest’epoca del mondo ed è giusto preoccuparsi del loro bene; Agostino stesso ha amato lo stato romano come sua patria e si è preoccupato amorevolmente del suo perdurare. Ma giacché tutte queste formazioni non sono infine e non rimangono che stati terreni, rappresentano un valore relativo e non meritano una sollecitudine d’ordine supremo. Essa spetta soltanto alla patria eterna di tutti gli uomini, alla civitas caelestis... convinto che con questo nome, civitas caelestis, può essere chiamata non solo la celeste Gerusalemme avvenire, ma già anche il popolo di Dio nel pellegrinaggio attraverso il deserto del tempo terreno: la Chiesa” (J.Ratzinger, L’unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa, Morcelliana, Brescia, 1973, pagg. 95-97).
Presentiamo allora on-line due interviste a R.Brague che introducono ai temi essenziali della sua riflessione. Il primo testo è Cristiani e “cristianisti”. Intervista con Rémi Brague di Gianni Valente, apparso sulla rivista 30giorni, ottobre 2004.
Il secondo è tratto da La Repubblica del 23 dicembre 2004, pagg.46-47, e porta il titolo Come uscire dal nihilismo. A colloquio con il filosofo Rémi Brague di Antonio Gnoli.
Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la messa a disposizione on-line non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

L’Areopago


Indice:


Cristiani e “cristianisti”
Intervista con Rémi Brague
di Gianni Valente (da 30giorni, ottobre 2004)

A Rémi Brague, professore di Filosofia araba alla Sorbona e anche all’Università Ludwig-Maximilian di Monaco, è sempre piaciuto usare le parole con fantasia. Ma forse non pensava che uno dei suoi geniali neologismi, nascosto nelle pagine di un libro scritto già dodici anni fa, potesse fotografare con disarmante efficacia i termini del rapporto tra fede cristiana e civiltà occidentale oggi tanto dibattuti anche all’interno della Chiesa.
Il volume Europe. La voie romaine – tradotto in quindici lingue, ormai è quasi un classico – Brague lo scrisse nel ’92 per documentare con un’angolazione originale e moderna il contributo di Roma e della “romanità” alla fioritura della civiltà europea. Ma in quelle pagine, quasi en passant , il professore introdusse anche la distinzione che corre tra cristiani e “cristianisti”…

Professore, partiamo da qui. Lei definisce i cristiani come coloro che credono in Cristo. I “cristianisti”, invece, sono quelli che esaltano e difendono il cristianesimo, la civiltà cristiana…
RÉMI BRAGUE: La parola “cristianista” forse non è molto carina. Ma non mi dispiace averla proposta. Prima di tutto perché è divertente. E poi perché spinge le persone a riflettere su ciò che vogliono veramente. Quelli che difendono il valore del cristianesimo e il suo ruolo positivo nella storia mi sono di certo più simpatici di quelli che lo negano. Io non intendo certo scoraggiarli. Mi piacerebbe persino che in Francia fossero più numerosi. E questo non perché costoro siano degli “alleati oggettivi”. Ma soltanto perché quello che dicono è vero. Dunque, grazie ai “cristianisti”. Soltanto, io vorrei ricordare loro che il cristianesimo non si interessa a sé stesso. S’interessa a Cristo. E anche Cristo stesso non s’interessa del proprio io: Lui s’interessa a Dio, che chiama in un modo unico, «Padre». E all’uomo, a cui propone un nuovo accesso a Dio.

In una certa valorizzazione del cristianesimo in chiave ideologico-culturale non si riaffaccia l’approccio già manifestatosi ai tempi dell’Action française?
BRAGUE: L’Action française, dopo la Prima guerra mondiale, aveva potuto attirare dei cristiani autentici e intelligenti: Bernanos, per esempio. Ma l’ispirazione ultima del movimento era meramente nazionalista. La Francia era stata plasmata dalla Chiesa. Per questo loro si dicevano cattolici, perché si volevano francesi al cento per cento. Il loro principale pensatore, Charles Maurras, era un discepolo di Auguste Comte; ammirava la chiarezza greca e l’ordine romano. Si dichiarava ateo, ma cattolico. La Chiesa era per lui una garanzia contro «il veleno giudeo del Vangelo». Al fondo, era un’idolatria, nel suo aspetto peggiore: mettere Dio al servizio del culto di sé stessi. Che si tratti dell’individuo o della nazione, la sostanza non cambia. E agli idoli bisogna sempre sacrificare qualcosa di vivo, come la gioventù europea, massacrata a Verdun o altrove.

Alcuni rimproverano alla Chiesa una debolezza nel sostenere certi contenuti di verità. Qual è l’immagine di Chiesa che piace a loro?
BRAGUE: Per questa gente, la Chiesa deve “difendere certi valori”, e non transigere sulle regole morali. Ma loro stessi le seguono? Non sempre… Loro vogliono un’organizzazione con una linea ferma, con un “numero uno” ben stabilito. Alla fine, mi chiedo se non sognino una Chiesa fatta con lo stampo del Partito comunista dell’Unione Sovietica.

Si discute molto delle radici cristiane dell’Europa e più in generale della civiltà occidentale. Come giudica la loro lettura di questo rapporto?
BRAGUE: Il cristianesimo non ha niente d’occidentale. È venuto da Oriente. I nostri avi sono diventati cristiani. Hanno aderito a una religione che all’inizio era per loro straniera. Le radici? Che immagine strana... Perché considerarsi come una pianta? In gergo francese, “piantarsi” vuol dire sbagliarsi, o fare un errore… Se si vogliono a ogni costo delle radici, allora diciamo con Platone: noi siamo degli alberi piantati al contrario, le nostre radici non sono sulla terra, ma in cielo. Noi siamo radicati in ciò che, come il cielo, non si può afferrare, sfugge a ogni possesso. Non si possono piantare bandiere su una nuvola. E noi siamo anche animali mobili. Il cristianesimo non è riservato agli europei. È missionario. Crede che ogni uomo abbia il diritto di conoscere il messaggio cristiano, che ogni uomo meriti di diventare cristiano.

Lei, attraverso i suoi studi e i suoi libri, ha descritto il rapporto innegabile tra il cristianesimo e la civiltà europea. Come andò veramente?
BRAGUE: La civiltà dell’Europa cristiana è stata costruita da gente il cui scopo non era affatto quello di costruire una “civiltà cristiana”. La dobbiamo a persone che credevano in Cristo, non a persone che credevano nel cristianesimo. Pensate a papa Gregorio Magno. Ciò che lui ha creato – ad esempio il canto gregoriano – ha sfidato i secoli. Ora, lui immaginava che la fine del mondo fosse imminente. E dunque, non ci sarebbe stata alcuna “civilizzazione cristiana”, per mancanza di tempo. Lui voleva soltanto mettere un po’ d’ordine nel mondo, prima di lasciarlo. Come si rassetta la casa prima di partire per le vacanze. Cristo non è venuto per costruire una civiltà, ma per salvare gli uomini di tutte le civiltà. Quella che si chiama “civiltà cristiana” non è nient’altro che l’insieme degli effetti collaterali che la fede in Cristo ha prodotto sulle civiltà che si trovavano sul suo cammino. Quando si crede alla Sua resurrezione, e alla possibilità della resurrezione di ogni uomo in Lui, si vede tutto in maniera diversa e si agisce di conseguenza, in tutti i campi. Ma serve molto tempo per rendersene conto e per realizzare questo nei fatti. Per questo, forse, noi siamo solo all’inizio del cristianesimo.

Lei per descrivere il cammino della civiltà europea ha usato una formula originale, quella della “secondarietà”. Cosa intendeva suggerire con tale espressione?
BRAGUE: L’espressione è forse maldestra, ma non ne ho trovata una migliore. Nel mio libro Europe . La voie romaine io la integro con altre formule, come quella della “cultura d’inserzione”, in opposizione alle “culture di digestione”. Intendo dire soltanto che il Nuovo Testamento viene dopo l’Antico Testamento, e i Romani dopo i Greci. Non solo riguardo al tempo, ma anche nel senso che quelli che venivano dopo percepivano la propria dipendenza rispetto a ciò che li precedeva, e che costituiva un modello. I Romani hanno fatto del bene e del male, come è capitato a tutte le civiltà. Ma occorre dar loro atto che si sono riconosciuti culturalmente inferiori in rapporto ai Greci, e hanno compreso che il loro compito storico era anche di diffondere una cultura che non era la loro. Essere “secondari” significa sapere che ciò che si trasmette non proviene da sé stessi, e che lo si possiede solo in modo fragile e provvisorio. Questo implica tra l’altro che nessuna costruzione storica ha niente di definitivo. Deve essere sempre rivista, corretta, riformata.

Alcuni denunciano lo “stile di vita osceno” dell’Occidente, proponendo le verità cristiane come antidoto al nichilismo e al relativismo che lo ammalano. Come giudica questi ragionamenti?
BRAGUE: Contengono una parte di vero. Se fossero totalmente falsi, nessuno li prenderebbe in considerazione. È vero che siamo malati. E i sintomi più allarmanti li si può chiamare “relativismo” e “nichilismo”, che, certo, hanno qualcosa di buono: rendono impossibile l’intolleranza (non si può né morire né uccidere in nome di qualcosa a cui non si crede che relativamente, o non si crede affatto). La seccatura è che il nichilismo non fa neanche vivere. Rousseau già l’aveva visto bene: l’ateismo non uccide gli uomini, impedisce loro di nascere. Ma non c’è bisogno del cristianesimo per combattere il relativismo e il nichilismo. In fondo, non c’è proprio bisogno di combatterli: si annullano da soli, come una pianta parassita che finisce per soffocare l’albero di cui vive, seguendolo nella morte. Il cristianesimo sarebbe l’antidoto a questi veleni? Io porrei due questioni. Una di principio. L’altra puramente pragmatica.

Si spieghi, professore.
BRAGUE: Innanzitutto, si ha il diritto di fare della fede uno strumento? Io mi chiedo anche se sia sempre giusto parlare di cristian esimo . Il suffisso può essere percepito, a torto, come designante una teoria, al pari di altri “ismi”: liberalismo, marxismo, eccetera. Sant’Agostino dice da qualche parte: ciò che c’è di cristiano tra i cristiani è Cristo. Essere cristiani è essere in contatto con una persona . Ora, non si può trasformare una persona in uno strumento.
La mia seconda domanda è semplice: se utilizzare la fede come strumento è permesso , è per questo fattibile ? Funziona così? Io direi di sì. Ma non come certi fondamentalisti americani, che quantificano gli effetti positivi della religione sulla produttività dei manager! L’ho già scritto nel mio libro: la fede non produce effetti che là dove essa resta fede, e non calcolo.

Nel dibattito sulle radici cristiane dell’Europa cosa l’ha colpita?
BRAGUE: Nel dibattito sulla citazione nella Costituzione europea delle radici cristiane dell’Europa, avrei voglia di non dar ragione né ai “cristianisti” né ai loro avversari. Cominciamo dai loro avversari. Direi loro: se si vuole fare della storia, allora bisogna chiamare le cose col loro nome, e dire che le due religioni che hanno segnato l’Europa sono l’ebraismo e il cristianesimo, e nessun’altra. Perché limitarsi a parlare di eredità religiosa e umanista? Un professore di storia non si accontenterebbe di tale definizione e scriverebbe in rosso, sul margine: «Troppo vago, precisate!». Ciò che mi dà fastidio è lo stato d’animo che in questo si manifesta, e cioè l’impulso tipicamente ideologico di negare la realtà e riscrivere il passato. E negare la realtà porta necessariamente a distruggerla. Allo stesso tempo, ai “cristianisti” direi: non è perché il passato è stato quello che è stato che l’avvenire gli debba necessariamente rassomigliare. La domanda giusta da porsi è se la nostra civiltà ha ancora il desiderio di vivere e di agire. E se, piuttosto che circondarla di barriere di ogni sorta, non sarebbe meglio che gli fosse ridonato questo desiderio. Per questo occorre attingere alla sorgente stessa della vita, alla Vita eterna.

Sant’Agostino, a chi gli chiedeva perché Gesù risorto non si era manifestato anche ai nemici, in modo da cancellare ogni dubbio sulla realtà della Sua resurrezione, rispondeva che per Gesù «era più importante insegnare l’umiltà ai suoi amici che sfidare con la verità i suoi nemici». Cosa suggerirebbe oggi Agostino a chi parla della testimonianza cristiana in termini di sfide?
BRAGUE: Non inganniamoci su quello che vuole il Dio di Gesù Cristo. Non è quello che noi, noi vogliamo. Ciò che vuole non è schiacciare i suoi nemici. Ma liberarli da ciò che li rende suoi nemici, cioè una falsa immagine di Lui, quella di un tiranno al quale bisogna sottomettersi. Lui, essendo libero, non si interessa che alla nostra libertà. Cerca di guarirla. Il suo problema è di montare un dispositivo che permetta di veder risanata la libertà ferita degli uomini, così da poter scegliere liberamente la vita, contro tutte le tentazioni di morte che si portano dentro. Questo dispositivo i teologi lo chiamano “economia della salvezza”. Ne fanno parte le Alleanze, la Chiesa, i sacramenti, e via dicendo. Il ruolo delle civilizzazioni è indispensabile, ma non è lo stesso. E anche i loro mezzi sono differenti. Esse devono esercitare una certa costrizione, fisica o sociale. La fede invece può solo esercitare un’attrattiva sulla libertà, per la maestà del suo oggetto. Forse si potrebbe tornare a ciò che i papi dicevano agli imperatori d’Occidente, intorno alla riforma gregoriana, nell’XI secolo: non compete a voi la salvezza delle anime, contentatevi di fare il meglio possibile il vostro mestiere. Fate regnare la pace.

Come uscire dal nihilismo.
A colloquio con il filosofo Rémi Brague
di Antonio Gnoli (da La Repubblica del 23 dicembre 2004, pagg.46-47)

Rémi Brague, professore di filosofia alla Sorbona di Parigi, esperto di cultura islamica, ebraica e cristiana, profondo conoscitore del mondo greco e romano, è quel che una volta si sarebbe detto un erudito. Ma oltre a insegnare, tenere conferenze in giro per il mondo, passare le giornate in biblioteca, oggi un erudito che fa? Di cose, anche mentalmente complicate, ce ne sono da fare. Prendiamo alcune parole oggi molto in voga nel dibattito cultural-politico: “cristianesimo”, “laicità”, “Occidente”, “Europa”, “Dio”, “Nichilismo”. Sono qui indicate in ordine sparso, ma a ben guardare una qualche connessione è possibile. L’originalità di Brague è di averle, per così dire, mescolate in modo insolito, offrendoci una lettura della nostra storia occidentale piuttosto acuta. Di lui vorremmo ricordare un libro che uscì alla fine degli anni Novanta per le edizioni Rusconi, con il titolo Il futuro dell’Occidente, quel libro aveva un titolo originale meno profetizzante: Europe, la voie romaine, che in Francia fu un caso e in Italia ebbe qualche recensione (su Repubblica se ne occupò Franco Volpi) e nulla più.

“Il libro uscì in Francia nel 1992, da voi nel 1999. Il titolo che fu scelto era stupido. Io in un risvolto dicevo di non sapere se l’Europa avrebbe avuto un futuro. Il titolo rovesciava in positivo, i miei dubbi. Ma poco importa”.

E continua a non immaginare quale sarà il futuro dell’Europa?
“Non ho niente di particolarmente competente da dire sugli attuali problemi connessi alla costruzione dell’Europa. Mi interessa in quanto cittadino europeo, ma non ho alcuna autorità scientifica per parlarne”.

Però lei un libro sull’Europa l’ha scritto.
“Mi chiedo se non avrei fatto meglio a imparare il sumero o l’egiziano antico. Che sono lingue morte. E in questo c’è una qualche parentela con la nostra Europa: uno zombie che non sa di essere morto e continua a respirare e camminare per abitudine”.

Non si può dire che sia un ottimista.
“Non sono particolarmente ottimista sul futuro dell’Europa, ecco perché ho cercato soprattutto di descrivere il suo passato”.

Non trova che l’idea di un’Europa agonizzante, sia oggi contrastata dai tentativi di rigenerarla attraverso il dibattito religioso, ossia attraverso una ideologia molto arcaica?
“Non condivido la definizione di religione come ideologia arcaica ”.

Uno dei punti dell’attuale dibattito è se sia legittimo ricongiungere ciò che la modernità aveva separato, cioè religione e politica .
“Anche qui dissentirei dall’idea che sia stata la modernità a separare religione e politica”.

Ci mostri il suo punto di vista.
“L’ideologia fa un uso perverso della scienza, voglio dire di una scienza fittizia, che detta un modo di agire. La religione, viceversa, in quanto poggia su una fede, vale a dire su una libera decisione, non ha nulla a che vedere con la sottomissione che esige”.

Si spieghi meglio
“Se io so una certa cosa, non sarò più libero rispetto a quella cosa. La mia unica libertà sarà di poter agire su di essa, per esempio attraverso la tecnica”.

Sta dicendo che la scienza, in un certo senso, rende meno liberi del mistero. E questo ha una sua scuola di pensiero. Ma io le chiedevo della religione e del fatto che essa è in qualche modo assimilabile all’ideologia.
“Ideologia e religione sono due esperienze differenti. Questo non vuol dire che non ci possa essere un uso ideologico della religione. Dal quale dissento profondamente”.

Ma lei come valuta il rapporto religione e politica?
“Lo porrei in una prospettiva diversa rispetto a chi pensa in chiave di secolarizzazione. Parlare di separazione fra religione e politica presuppone che il rapporto sia già risolto”.

In che senso?
“Nel senso che occorrerebbe presupporre che vi sia da un lato una istanza politica, riconducibile allo Stato e dall’altro una istanza che attiene alla religione che chiamiamo Chiesa. Ora se guardiamo al mondo greco e romano, al mondo medievale non cristiano, all’Islam o alle comunità ebraiche, vedremmo che esiste un impasto primitivo tra religione e politica”.

Ma c’è un momento in cui le due istanze si separano, o no?
“C’è, ma scocca molto prima della modernità. Arriva nell’era antica, quando il cristianesimo darà vita alla Chiesa. E’ a quel punto che ha origine la separazione. Molto spesso dietro la rappresentazione odierna dei fatti abbiamo una lettura della storia che è di un lampante anacronismo e che bisognerebbe cominciare a criticare”.

Lei anticipa di parecchi secoli la separazione fra religione e politica indietro, le chiedo che ne è delle teorizzazioni che il mondo laico ha svolto in proposito.
“Guardi che laico è un concetto cristiano. E’ una parola che i traduttori della Bibbia hanno esumato e recuperato dal linguaggio omerico, che come sa era presente in certi sistemi politici, ma non ad Atene. Nel tradurlo si è voluto connotare una parola che non richiamasse quel demos con cui è stata coniata la parola “democrazia””.

Demos è il popolo in quanto entità politica.
“Certo, e laós è il popolo che viene unificato dalla chiamata liberatrice di Dio. Laós, e dunque laico, è ogni uomo che sin dalla sua liberazione da un Egitto, geografico o spirituale poco importa, è stato messo in rapporto immediato con Dio”.

La distinzione tra demos e laós che conseguenze ha per noi?
“Diciamo che non sono senza rapporto con gli odierni problemi della democrazia. Giacché anche le nostre democrazie, quelle che si definiscono laiche, si fondano sull’idea secondo cui l’uomo, qualsiasi uomo, ha il diritto di essere un cittadino, con le stesse prerogative e dignità di tutti. Le nostre democrazie in definitiva si fondano sul detto: “Vox populi, vox dei”, ossia quello che dice il popolo, lo dice Dio”.

E’ una definizione impalpabile, un po’ come la “volontà generale” di cui parla Rousseau.
“Prima ancora che a Rousseau penserei a Carlo Magno. E’ con lui che troviamo per la prima volta questa dichiarazione. In fondo è questa idea che caratterizza l’interpretazione medievale del potere”.

Un’interpretazione nella quale Dio gioca un ruolo non secondario.
“Certo, ma sostenere che ogni potere proviene da Dio non vuol dire affatto che un determinato governo sia scelto direttamente per volontà divina”.

Che rapporto c’è allora tra il motto “ogni potere proviene da Dio” e la democrazia?
“La democrazia può anche ignorare questo motto. Ma l’antropologia insita nell’idea stessa di democrazia si traduce nella pari dignità di ogni uomo in quanto liberato da Dio”.

Ma si può anche fare a meno di un Dio che libera, se è l’uomo a liberarsi.
“Ne ha fatto a meno la Russia del 1917, la Germania del 1933, in seguito la Cambogia e tanti altri paesi”.

Allude al totalitarismo.
“Lo chiami così, se vuole. Io preferisco vederlo come il rifiuto di pensare che l’uomo non sia altro che materia umana. L’espressione appartiene a un poeta sovietico”.

Trovo insolito l’uso non ideologico che lei fa della parola Dio.
“Non capisco in che senso lei usa la parola ideologia”.

Mi riferisco alla distinzione che lei ha posta tra “cristianista” e “cristiano”.
“E’ una distinzione che risale a quale tempo fa. Un cristiano si riconosce dal fatto che non si interessa di cristianesimo, ma di Cristo. Mentre un cristianista si interessa al cristianesimo per ragioni scientifiche. Lo studia come fenomeno della storia intellettuale dell’umanità, a volte lo esalta e lo difende, a volte lo denigra”.

E’ una visione rispettabile.
“Non ho nulla da eccepire nei riguardi di chi studia il cristianesimo, sia vedendolo come un fattore di progresso, sia individuando in esso la genealogia dei nostri mali e la decadenza dell’occidente, come fa Nietzsche”.

E su cosa eccepirebbe?
“Secondo me il problema non è sapere se il cristianesimo ha portato più bene o più male nella storia. In fin dei conti, anche un’illusione può fare del bene o del male. Il problema è la verità. E quando la si cerca, la prima preoccupazione è tentare di vederla com’è”.

Questa sua distinzione consente di collocare in una luce diversa la figura del cristiano.
“Il problema di un cristiano è di cercare di imitare al meglio il Cristo e non preoccuparsi di costruire o difendere una civiltà cristiana. Il cristianesimo è efficace solo se lo si prende come scopo e non come mezzo”.

Non ha l’impressione che il cristianista abbia preso il sopravvento sul cristiano.
“La mia impressione è che, storicamente parlando, tutti i tentativi di creare una civiltà cristianista siano falliti. In Francia chi ha provato a realizzarla, attraverso l’Action Française, fu Charles Maurras. Secondo lui la società moderna aveva smarrito il potere spirituale, e solo ispirandosi alla Chiesa medievale avrebbe potuto riconquistarlo. Finì col professarsi cattolico ma ateo. Una formula divertente”.

Forse anche paradossale.
“Per lui il cattolicesimo consisteva nell’organizzazione della Chiesa. E quella organizzazione era l’antidoto contro ciò che chiamava “il veleno ebraico” del Vangelo. Maurras è un eccellente esempio della tentazione spesso presente nella Chiesa del marcionismo”.

Marcione fu un eretico.
“Fu dichiarato eretico, nessun eretico si definirebbe così. Voleva farla finita con le radici ebraiche del Vecchio Testamento. A suo dire il Nuovo Testamento era più che sufficiente. Anzi, un Nuovo Testamento ridotto alla sua espressione più semplice: l’Epistola ai Galati, con qualche brano dei Vangeli, visto che tutto il resto, secondo lui, era stato falsificato. La sua idea di riportare la purezza del messaggio cristiano nella storia ha fallito, non ha funzionato”.

Però si è realizzata una secolarizzazione del messaggio cristiano.
“Secolarizzazione è una categoria estremamente difficile da trattare e mi limiterò a una semplice obiezione: perché ci sia secolarizzazione deve esistere un mondo da considerare nel suo aspetto profano, un mondo sul quale trasferire il sacro”.

Qualcosa di simile si è realizzato.
“Il punto è un altro. In primo luogo, perché esista un mondo profano è necessario che la secolarizzazione abbia già avuto luogo. E questo con ogni evidenza dà vita a un circolo un po’ sgradevole. In secondo luogo, l’obiezione che muoverei non contro l’uso concettuale, ma contro il significato che le si attribuisce, consiste semplicemente nel sapere se possiamo infischiarcene di ciò che si vuole secolarizzare”.

Non capisco la sottigliezza.
“Porto un esempio ricavato da una campagna pubblicitaria di qualche anno fa. In un manifesto si vedeva una bellissima ragazza in bikini. E il testo diceva: “lunedì prossimo mi toglierò il pezzo di sopra”. In effetti il lunedì successivo si vedeva la ragazza in topless, e in sovrimpressione appariva la nuova scritta: “lunedì prossimo via anche lo slip”. Molti maschi francesi hanno atteso quel giorno con ansia. E quando è giunto, lo slip effettivamente era sparito. Ma la ragazza appariva di schiena!”.

Diciamo che era una pubblicità sobria.
“Non c’è dubbio, ma non è questo l’aspetto interessante. Io l’accosterei scherzosamente a un brano di Nietzsche tratto da Il crepuscolo degli dei nel quale si legge che se abbiamo abolito il mondo superiore, avremmo abolito anche il mondo inferiore. Questa è la logica della modernità: si comincia togliendo l’alto e si conclude togliendo il basso. La modernità ci mostra il culo, e l’avvenire ci volta la schiena!”.

In fondo la sua è critica al nichilismo.
“D’accordo, ma quello che voglio ribadire è che una civiltà senza metafisica, una civiltà nella quale non vi è più differenza tra alto e basso, è condannata a distruggere se stessa”.

Perché Dopotutto si può vivere bene anche senza valori trascendenti.
“Il punto è proprio questo. Se non c’è nessuna istanza superiore che dica: hai ragione a continuare a vivere, allora non possiamo farlo da soli. Possiamo cercare di sopravvivere, ma non possiamo dirci che è bene vivere. La domanda che porrei alla modernità è: come si può rispondere a questo tipo di problema se non si fa intervenire una trascendenza?”.

Il rischio è che l’appello alla metafisica produca forme di intolleranza, di scontro cruento, di guerre di religione. Né più né meno delle cose che ci stanno accadendo.
“Lungi da me l’idea secondo cui potremmo crearci la trascendenza di cui abbiamo bisogno. Per definizione una trascendenza creata, o una trascendenza orizzontale, non è una trascendenza. Dunque, la prima delle realtà trascendenti da accettare è quella del bene e della sua rivendicazione da parte di ogni uomo. Se si prende sul serio questo discorso si capisce che l’intolleranza è inaccettabile. E poi, piuttosto che parlare di tolleranza parlerei di rispetto. La parola tolleranza vuol dire: ti accetto, ma penso che non dovresti esistere. La tolleranza è un ideale veramente infimo”.

Ma il rispetto non necessariamente deve nutrirsi di valori trascendenti. Una società che non è animata da valori troppo forti, troppo impositivi forse può vivere molto meglio.
“Quello a cui allude è una forma di convivenza che alcuni filosofi hanno definito di nichilismo gaio. Costoro sostengono che se lo si prende sul serio il nichilismo impedirebbe qualsiasi guerra di religione, meglio ancora: la renderebbe impossibile. In fondo, sostengono, non si può morire, e ancor meno uccidere, per qualcosa per cui si nutre una fede debole”.

Mi pare un buon argomento.
“Ma la questione, che già sollevò Rousseau in un passo del quarto libro dell’Emile sta nel sapere se questo genere di nichilismo che impedisce di uccidere sia anche capace di far vivere. Ciò di cui abbiamo bisogno non sono le ragioni per non uccidere, perché esse sono già presenti fin dal Decalogo, fin dal comandamento che dice: non uccidere. Al contrario, ciò di cui abbiamo bisogno sono le ragioni per vivere e lasciar vivere. E non sarà certo il nichilismo positivo a darcele”.


[Approfondimenti]