“Il codice Da Vinci” (tpfs*)
di Filippo Morlacchi

Ripresentiamo on-line il testo di Filippo Morlacchi, apparso sul sito www.vicariatusurbis.org/scuola della Diocesi di Roma. Lo ringraziamo per averci autorizzato a renderlo disponibile sul nostro sito www.gliscritti.it

L’Areopago


Occorre cercare di capire, per poter giudicare. Come mai il romanzo Il codice Da Vinci ha trasformato in breve tempo Dan Brown – uno sconosciuto docente di letteratura inglese con il pallino per la storia dell’arte e per il simbolismo esoterico – in un acclamato e ricchissimo autore di best seller? La risposta non è facile. La trama del thriller risulta complessivamente avvincente, ma non tale da giustificare gli oltre diciassette milioni di copie vendute in tutto il mondo. Si potrebbe anzi rilevare un certo calo di tensione verso la fine del racconto, quando il succedersi dei colpi di scena diventa così ripetitivo da risultare prevedibile o perfino esasperante. C’è un elemento però che caratterizza il romanzo dall’inizio alla fine: il voluto, inestricabile intreccio di elementi evidentemente fantastici con altri più credibili, in modo tale che il piano della fiction e quello della realtà non siano ben distinguibili. Questo, probabilmente, è stato lo stratagemma vincente. La versione originale[1] del romanzo, dopo una pagina di ringraziamenti riporta il seguente testo: «Fatto: Il Priorato di Sion – una società segreta europea fondata nel 1099 – è un’organizzazione reale. Nel 1975 la Biblioteca Nazionale di Parigi scoprì alcune pergamene conosciute come I dossiers segreti, che identificano numerosi membri del Priorato di Sion, inclusi sir Isaac Newton, Botticelli, Victor Hugo e Leonardo da Vinci. La prelatura vaticana conosciuta come Opus Dei è una setta cattolica profondamente religiosa che è stata l’argomento di una recente controversia dovuta ad accuse di lavaggio del cervello, coercizione e una pericolosa pratica nota come mortificazione corporale. L’Opus Dei ha appena completato la costruzione di un Quartier Generale Nazionale da 47 milioni di dollari al 243 di Lexington Avenue a New York City. Tutte le descrizioni di manufatti, architetture, documenti e rituali segreti in questo romanzo sono accurate»[2]. Come si vede, l’autore avanza esplicitamente la pretesa di dire cose “accuratamente vere”, almeno rispetto ad alcuni elementi del romanzo. L’editore italiano (Mondadori) ha riportato la traduzione di questa pagina fino alla sesta ristampa; poi si è invece cautelato, mettendo in guardia il lettore con il classico avviso: «Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi o persone, vive o defunte, è assolutamente casuale» (p. 4 della traduzione italiana)[3]. Tuttavia è evidente che le numerose affermazioni formulate dai personaggi del romanzo in relazione a numerosi argomenti di storia, religione, simbologia, crittografia, ecc., vogliono rivendicare validità scientifica. Il lettore viene così costantemente e deliberatamente indotto in errore, dal momento che svarioni grossolani e imperdonabili, imprecisioni veniali e comprensibili, deformazioni storiografiche fantasiosamente capziose ed affermazioni scientificamente accettabili si susseguono senza distinzione, presentate tutte su uno stesso livello. Il valore scientifico della maggior parte delle presunte verità affermate dai protagonisti del romanzo però non ha maggior consistenza storica della loro fantasiosa vicenda. Quanto afferma uno dei personaggi, la crittologa Sophe Neveu, a proposito della sua Smart rossa fiammante («Cento chilometri con un litro[4]», p.164) ha lo stesso valore di quanto afferma – ad esempio – il ricco sir Leigh Teabing a proposito del Concilio di Nicea (p. 272ss). Con la differenza che per scoprire la falsità della prima affermazione basta chiedere ad un possessore di Smart quanto fa con un pieno, mentre l’accertamento di complesse verità storiche relative ad un concilio svoltosi nel 325 d.C. richiede una verifica decisamente più laboriosa, che ben pochi hanno voglia di attuare, finendo così con l’accettare per buone le presunte rivelazioni del romanzo. Rivelazioni che però – come giustamente osservava l’editore italiano – sono pura «opera di fantasia».
Si può dunque sostenere che il romanzo, pur essendo nella sua confezione esterna un thriller, è un vero e proprio “romanzo di idee”. La vicenda intende offrire al lettore suggestioni e spunti per riflettere, e non il puro divertimento di un racconto giallo. Dan Brown ha scritto il romanzo come strumento per diffondere alcune sue convinzioni, basate – a suo dire – su certi fatti. Peccato però che molti di questi presunti fatti non siano tali. Quali sono queste idee e questi fatti, e perché possiamo dire che si tratta di una bufala? Dobbiamo andare per gradi.
La tesi di fondo del romanzo si può riassumere così: la Chiesa cattolica, la cui gerarchia è composta da soli uomini, ha funzionalmente costruito una cultura misogina nascondendo una terribile e scomoda verità: Gesù Cristo amava Maria Maddalena, desiderava affidare a lei la guida della sua comunità e generò con lei una discendenza “di sangue reale”, che attraverso i Merovingi, è giunta fino a noi. A causa degli interessi della gerarchia ecclesiastica e con la complicità dell’imperatore Costantino, tutta la cultura ebraico-cristiana si è invece fondata sul pregiudizio maschilista e sul nascondimento di ogni testimonianza a favore del “sacro femminino”. Ma una setta denominata Priorato di Sion, da sempre custode di questo terribile segreto, sarebbe oggi pronta a rivelare questo segreto al mondo intero. Questa teoria sarebbe suffragata, secondo l’autore, da alcuni presunti fatti, relativi in particolare al Priorato di Sion e all’Opus Dei. Ora, l’intera costruzione dimostra la sua fragilità, se si considera che tutto ciò che viene affermato a proposito del Priorato di Sion è invece assolutamente falso.
Non voglio fornire un resoconto dettagliato della trama (è l’unica cosa che merita la lettura del libro, e non vorrei togliere ai possibili lettori il gusto di scoprire come va a finire l’intreccio), né di tanti elementi storiografici inseriti nel romanzo, relativi alle leggende del Santo Graal, al Priorato di Sion, all’ordine dei Templari, ecc.[5] Mi limiterò a esaminare, riportando alcune citazioni, le tesi “ideologiche” più avventate e, a mio giudizio, più pericolose del volume.

Ecco perciò una raccolta antologica delle affermazioni che il lettore ingenuo potrebbe accogliere come verità finalmente svelate, se dimenticasse che non solo luoghi e persone – come l’autore dichiara – ma anche le tesi proposte dai protagonisti del romanzo non vanno prese per oro colato, ma sono frutto di pura invenzione.

1) La lunga presentazione di Costantino imperatore come pagano impenitente che si sarebbe servito del cristianesimo per vantaggio politico («un ottimo uomo d’affari [che] vedendo che il cristianesimo era in ascesa si è limitato a puntare sul cavallo favorito», p. 272), redattore della Bibbia tramite la distruzione dei vangeli da lui ritenuti pericolosi («commissionò e finanziò una nuova Bibbia, che escludeva i vangeli in cui si parlava dei tratti umani di Gesù», p. 275), primo assertore della divinità di Cristo al Concilio di Nicea («fino a quel momento storico, Gesù era visto dai suoi seguaci come un profeta mortale: un uomo grande e potente, ma pur sempre un uomo», p. 273) è infarcita di errori. Nella discussione si leggono alcuni ridicoli anacronismi; ad esempio, l’affermazione che «stabilire la divinità di Cristo fu un passo cruciale per l’ulteriore unificazione tra l’Impero Romano e il nuovo potere con sede nel Vaticano» (p. 274): l’errore sarebbe imperdonabile anche per un alunno di scuola media, considerando che la sede del papato non fu il Vaticano, ma il colle Laterano, e questo fin dopo la cattività Avignonese, mille anni dopo Costantino. Oppure l’affermazione che «quando Costantino aveva innalzato la condizione di Gesù [da umana a divina], erano passati quasi quattro secoli dalla morte di Gesù stesso» (p. 275): tra la morte di Cristo (avvenuta circa nell’anno 30 dell’Era Volgare) e il concilio niceno (tenutosi nel 325) passano meno di trecento anni, e non quasi quattro secoli (e bisogna aggiungere che affermazioni della filiazione divina di Gesù di Nazareth erano formulate in maniera chiara già nella tradizione cristiana del primo secolo!). Vi sono poi numerose affermazioni non documentate (e non documentabili); ad esempio, che «più di ottanta vangeli sono stati presi in considerazione per il Nuovo Testamento» (p. 272: il numero è di pura fantasia, assolutamente non ricostruibile); che «naturalmente, il Vaticano, per non smentire la sua tradizione di disinformazione, ha cercato di impedire la diffusione di questi testi [cioè i papiri di Qumran e di Nag Hammadi]» (p. 275: tra gli studiosi più qualificati di questi testi ci sono numerosi cattolici); la tesi che la Chiesa costantiniana abbia voluto cancellare i tratti umani di Gesù facendone un essere divino («la Chiesa delle origini doveva convincere il mondo che il profeta mortale Gesù era un essere divino», p. 286: chiunque abbia sfogliato un manuale di storia dei dogmi, o anche solo il catechismo, sa bene che la dottrina cristiana insiste sulla duplice natura, umana e divina, nell’unica persona di Gesù: nessuna cancellazione, dunque, della natura umana); e tante altre presuntuose sciocchezze, reperibili alle pp. 271-77[6]. È sufficiente leggere un’aggiornata introduzione al testo biblico o un testo documentato di storia della chiesa antica per smentire una ad una simili pretestuose affermazioni.

2) La Chiesa è trattata da Brown in modo contraddittorio: da un lato è considerata attrice perversa di una consapevole mistificazione (vuol nascondere al mondo la verità su Cristo), dall’altro sembra invece ingenuamente succube dei propri errori («la Chiesa moderna … è convinta della tradizionale visione di Cristo. Nel Vaticano ci sono molti uomini di profonda fede religiosa, certi che questi documenti (cioè i vangeli gnostici) siano testimonianze false»: pag. 275).
L’aspetto più insidioso e subdolo dell’insieme è dato però dal fatto che, sparse qua e là, si trovano anche alcune affermazioni corrette, che confondono le acque al lettore inesperto, rendendogli difficile tracciare il confine tra verità e menzogna, fantasia e ricostruzione storica.
Ad esempio, è innegabile che «la Bibbia non ci è arrivata per fax dal cielo» (p. 271), come invece sostengono le teorie fondamentaliste, o che «le sopravvivenze della religione pagana nella simbologia cristiana sono innegabili» (p. 272). Allo stesso modo, stili di vita e di pensiero che a buon diritto possono essere attribuiti all’Opus Dei – una delle lobbies che giocano un ruolo determinante nel racconto – si intrecciano con mistificazioni ed esagerazioni infamanti.
Solo una lettura attenta del romanzo, da parte di persone competenti e avvedute, consente di separare la verità dall’errore, così intimamente intrecciati a bella posta nel racconto.

3) Le spiegazioni sulle opere di Leonardo, in particolare La vergine delle Rocce e L’ultima cena mescolano interpretazioni assolutamente stravaganti e insostenibili (a titolo di esempio segnalo la teoria che identifica il discepolo che sta alla destra di Gesù ne L’ultima cena con Maria Maddalena) ed elementi veritieri (come ad esempio il riferimento ai pessimi restauri del diciottesimo secolo, p. 286). Sull’argomento, rimando alla letteratura specifica di critica d’arte.

4) La leggenda sul rapporto tra Gesù e Maria Maddalena, ampiamente diffusa nelle tradizioni gnostiche fin dall’antichità e poi in ambienti catari, percorre il romanzo come un fil rouge.
«Come ho detto, il matrimonio di Gesù e Maria Maddalena è storicamente documentato… Non l’annoierò con gli infiniti riferimenti all’unione tra Gesù e Maria Maddalena. È stata esplorata fino alla nausea dagli storici moderni» (p. 287-8; 290). Ebbene, perché questa documentazione non viene mai prodotta, e neppure indicata? L’argomento che «se Gesù non fosse stato sposato, almeno uno dei vangeli della Bibbia avrebbe accennato alla cosa e avrebbe fornito una spiegazione di quella innaturale condizione di celibato» (p. 288) può essere facilmente rivoltato: non solo i vangeli canonici, ma neppure i vangeli apocrifi a noi conosciuti parlano mai di un matrimonio di Gesù con Maria Maddalena, come giustamente la bella Sophie obietta al Maestro. Non sarà che tale matrimonio è solo un parto della fantasia? Il testo del Vangelo di Filippo che viene citato nel romanzo[7] poi non è scritto in aramaico, come sembra potersi evincere dalle parole del dotto (o presuntuoso) Teabing (p. 288), ma in copto, e probabilmente l’originale perduto era in greco.

5) Ben più complesso si fa il discorso a proposito dell’“oblio del femminile” all’interno della Chiesa e della dottrina ecclesiale. Qui, senza cadere in unilateralità femministe, la Chiesa può e deve fare ammenda delle proprie colpe; in parte è già stato fatto in opportuna sede nel corso dell’ultimo anno giubilare. Ma una valutazione onesta deve tener conto anche della dottrina cristiana sulla Vergine Maria, della riflessione biblico-patristica sulla Sapienza (Sophia), di quella biblico-rabbinica sulla Shekinah (ricordata, ma totalmente fraintesa a p. 364) fino alla recente sofiologia dei teologi russi del secolo scorso (V. Soloviev, ecc.). Evidentemente l’autore, in «un romanzo così pesantemente basato sul sacro femminino» («a novel drawing so heavily on the sacred feminine»: Ringraziamenti della v. o.), è interessato più a descrivere le idee gnosticheggianti da lui scoperte con stupore di rivelazione, che a discutere onestamente la dottrina cattolica e la sua tradizione.

6) A pag. 316 il riferimento alle dottrine New Age e all’avvento dell’era astrologica dell’acquario si fa esplicito. Ciò che fa sorridere è il collegamento tra l’era dei Pesci, conclusa con il cambio di millennio, e caratterizzata dal fatto che «l’uomo debba ricevere ordini dai poteri superiori perché è incapace di pensare da solo» (p. 314), con la persona di Cristo, indicato con il simbolo del pesce. L’antichissima identificazione di Gesù con il pesce, come neppure uno studentello può permettersi di ignorare, si deve al fatto che la parola greca ichtýs (pesce) è acronimo di Iesous Christos Theou Yios Sotèr (Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore), e non a considerazioni astrologico-zodiacali. La libertà interiore insegnata da Gesù sembrerebbe poi adattarsi meglio alla spiritualità dell’Acquario, «il cui ideale afferma che l’uomo è capace di apprendere la verità e di pensare per sé» (p. 314); e, soprattutto, il simbolo del pesce rivela l’antichità della fede in Gesù Figlio di Dio, contro quanto affermato nelle pagine precedenti.

7) Il pentametro giambico e la sua simbolica. Ancora una volta, si mescolano un insieme di mezze verità e di seducenti affinità simboliche. È vero che il giambo è un piede formato da «due sillabe con enfasi opposte. Lunga e breve» (p. 356; in realtà il giambo è composto da una breve e una lunga; ma evitiamo la pedanteria…); però da qui a dire che si tratti di «Yin e yang. Una coppia equilibrata. In fila di cinque. Cinque come il pentacolo di Venere e del femminino sacro» (ivi) mi pare che ne corra. Si tratta del vezzo (che sembra risuscitato di sana pianta dal gusto medioevale) di cercare una selva di simboli nascosti in tutto. Non escludo che si possano trovare elementi simbolici in ogni cosa; mi pare però onesto chiedersi se ciò sia frutto della realtà stessa o non piuttosto della lente con cui la realtà viene letta.

8) La spiegazione dello hieros gamos (nozze sacre) fornita alle pagg. 362ss è un’accozzaglia confusa di elementi provenienti da religioni di epoche storiche e aree geografiche assolutamente eterogenee, frutto di letture storico-religiose affrettate e mal digerite. Impossibile negare il valore sacrale universalmente attribuito alla sfera della sessualità, presso ogni cultura; ma confondere culto della dea madre, prostituzione sacra, misteri dionisiaci, tantrismo e quant’altro in un unico calderone è segno di ignoranza, non di eclettismo. Che poi nel tempio di Gerusalemme si praticasse la prostituzione sacra è un’accusa infamante a cui i fratelli maggiori ebrei dovrebbero rispondere energicamente, se non ci fosse motivo di dubitare dell’utilità di ogni contenzioso, data l’ottusità della controparte. Infine sostenere che «il tetragramma ebraico YHWH – il nome sacro di Dio – derivava da Yahweh ovvero Geova, androgina unione fisica tra il maschile “Jah” e il nome preebraico di Eva, “Hawa” o “Havah”» (p. 364) è affermazione degna di nota solo perché non era facile dire tante sciocchezze in una frase sola. Per smentirle tutte dovrei scrivere troppo a lungo, e mi astengo dal farlo.
In conclusione, la tesi di fondo del libro, oltre al recupero del femminile divino (di cui ho già segnalato gli aspetti positivi, che pur ci sono), mi sembra la seguente: «tutte le religioni del mondo sono basate su falsificazioni. È la definizione di “fede”: accettare quello che riteniamo vero, ma che non siamo in grado di dimostrare. Ogni religione descrive Dio attraverso metafore, allegorie e deformazioni della verità, dagli antichi egizi fino agli attuali insegnamenti di catechismo. Le metafore sono un modo per aiutare la nostra mente a spiegare l’inspiegabile. I problemi sorgono quando cominciamo a credere alla lettera alle nostre metafore… Dovremmo proclamare che Gesù non è nato da un parto letteralmente verginale? Coloro che comprendono veramente la loro fede sanno che queste storie sono metafore» (p. 401-2; v. o. p. 369-370). Ebbene, questa è l’essenza del docetismo e dello gnosticismo, eresie contro cui già alla fine del primo secolo la Chiesa si è dovuta scontrare: «ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio» (1Gv 4,2).

Insomma, nulla di nuovo; a parte il fatto che l’ignoranza della fede è il miglior pascolo per alimentare la confusione. Come ha recentemente segnalato il già citato M. Introvigne[8], un libro che parla del divino ma sparla della Chiesa viene felicemente incontro ai desideri dell’uomo religioso di oggi. In un tempo in cui sembra diffondersi sempre più il fenomeno del believing without belonging («credere senza appartenere», ossia senza sentirsi parte di una chiesa, perché “appartenere” è più impegnativo), un romanzo del genere – che tratta di apertura religiosa all’invisibile, ma senza alcun vincolo dogmatico, complotti e società segrete, critica della Chiesa cattolica e rivelazioni di presunte verità nascoste – non poteva non incontrarsi con le “richieste del mercato”. Con buona pace dell’onestà intellettuale.


Note

[1] The Da Vinci Code. A novel, Doubleday, New York – London – Toronto – Sydney – Auckland 2003; d’ora in poi abbreviato con: v. o. Per facilità di consultazione, quando non indicato altrimenti, le pagine del testo citate nell’articolo si riferiscono invece alla traduzione italiana di R. Valla.

[2] «FACT: // The Priory of Sion––a European secret society founded in 1099––is a real organization. In 1975 Paris’s Bibliothèque Nationale discovered parchments known as Les Dossiers Secrets, identifying numerous members of the Priory of Sion, including Sir Isaac Newton, Botticelli, Victor Hugo, and Leonardo da Vinci. // The Vatican Prelature known as Opus Dei is a deeply devout Catholic sect that has been the topic of recent controversy due to reports of brainwashing, coercion, and a dangerous practice known as “corporal mortification.” Opus Dei has just completed construction of a $47 million National Headquarters at 243 Lexington Avenue in New York City. // All description of artwork, architecture, documents, and secret rituals in this novel are accurate» (pag. 1).

[3] Dopo che questo anomalo fatto è stato pubblicamente segnalato da M. Introvigne (insigne esperto italiano di nuovi movimenti religiosi, sette ed esoterismo) la pagina è “miracolosamente” ricomparsa nelle più recenti edizioni e ristampe. Chissà, forse dietro il libro c’è davvero qualche potere occulto e magico!…

[4] Si dice proprio “al litro” (“to the liter”: v. o. pag. 147) e non “per gallone”, come si poteva benevolmente supporre: non è dunque una svista del traduttore italiano, ma proprio uno sfondone dell’autore.

[5] Se ne può trovare un dettagliato resoconto critico nel documentato articolo di Massimo Introvigne “Il Codice Da Vinci”: ma la storia è un’altra cosa, disponibile on-line sul sito www.cesnur.it. Dello stesso autore è prevista la pubblicazione per settembre 2005 del volume Gli Illuminati e il Priorato di Sion. La verità dietro Angeli e Demoni e Il Codice da Vinci (ediz. Piemme): la competenza dell’autore è una garanzia di affidabilità rispetto alle decine di testi già usciti sul Codice. Per riassumere la questione, si può dire che un’associazione denominata “Priorato di Sion” esiste, ma non risale al 1099, e non vi hanno preso parte Botticelli, Leonardo, Newton o Hugo, come afferma Il codice Da Vinci. È stata infatti fondata il 7 maggio 1956 da Pierre Plantard (1920-2000), un ex collaboratore del governo filo-nazista di Vichy; i documenti detti dossiers segreti che narrerebbero la sua millenaria fondazione sono invece dei falsi, composti nel 1967, come ha ammesso alcuni anni dopo uno dei falsari che li ha prodotti su richiesta di Plantard, tal Philippe de Chérisey. Ma i manoscritti furono ritenuti autentici da Gérard de Sède, il quale li pubblicò nel suo volume L’Or de Rennes (1967); tre giornalisti anglosassoni – Henry Lincoln, Michael Baigent e Richard Leigh – credettero alla verità di questi falsi, e riscrissero la storia arricchendola di nuovi elementi e adattandola al pubblico inglese nel volume The Holy Blood and the Holy Graal (1982). Infine Dan Brown ha letto quest’ultimo volume, credendo alla verità di quanto vi era contenuto, e lo ha preso come spunto per il suo The Da Vinci Code (2003). Recentemente Baigent e Leigh hanno intentato causa a Brown, accusandolo di aver copiato il loro libro senza citarli esplicitamente; infatti l’unico riferimento al loro volume è il fatto che uno dei protagonisti del romanzo – e guarda caso proprio il “cattivo” – si chiama Leigh di nome e Teabing (anagramma di Baigent) di cognome. Cfr l’intervista di R. POLESE a R. Leigh: Dan Brown ci ha saccheggiati, Corriere della Sera, 9 maggio 2005, p. 23. Ma a noi interessa rilevare che la prima e fondamentale delle “fonti sicure” di Brown è un volume assolutamente inaffidabile, poiché basato su un falso storico.

[6] V. o., pp. 250-256 (cap. 55).

[7] «La consorte di Cristo è Maria Maddalena. Il Signore amava Maria più di tutti i discepoli e la baciava spesso sulla bocca. Gli altri discepoli allora gli dissero: – Perché ami lei più di tutti noi? – Il Salvatore rispose e disse loro: – Perché non amo voi tutti come lei?» (Vangelo di Filippo, 55, ad es. in: I Vangeli apocrifi, a cura di M. Craveri, Einaudi, Torino 1969, p. 521). Il testo va messo in parallelo con la dottrina gnostica della generazione spirituale per mezzo del bacio, perché dalla bocca scaturisce il Verbo, ossia la Parola: «il perfetto diventa fecondo per mezzo di un bacio, e genera» (ivi, 31, p. 516). La matrice gnosticheggiante del pensiero di Brown si manifesta con chiarezza nella scelta del nome di Sophie, “Sofia, Sapienza”, per la protagonista femminile del romanzo: la coppia “Gesù – Maddalena” nel pensiero gnostico è riflesso di quella “Salvatore – Sapienza”. E guarda caso, l’ultima discendente di Maria Maddalena si chiama proprio Sophie!... Come spiega il curatore della citata edizione dei vangeli apocrifi, facendo riferimento alla dottrina gnostica delle coppie di eoni o syzugìai, «l’unione perfetta dei due eoni Sotèr/Sophia è il motivo del maggior affetto dimostrato da Gesù a Maria Maddalena» (nota 3, p. 521). Difficile stabilire un confine tra l’ingenua ignoranza e la voluta malizia di Brown.

[8] “Il Codice da Vinci”: tutta la verità, in Vita pastorale, 5 (2005) 86-91.


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