IV incontro sul pensiero di papa Benedetto XVI (anche a partire da testi dell’allora cardinal J.Ratzinger): il cristiano e la politica, laicità e valori. (tpfs*)

N.B. I titoli ed i neretti sono redazionali e funzionali al commento sviluppato nella catechesi. Anche la disposizione dei testi non segue un ordine cronologico, ma è relativa alla successione dei temi così come è stata organizzata per la catechesi di S.Melania. Lo sviluppo delle singole parti non dipende dalla loro importanza, ma dal materiale a disposizione. Solo il testo finale, a firma della Congregazione della Dottrina della fede, è un testo sintetico dell’intera problematica. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questi brani non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

L’Areopago (20.03.2006)


Indice


Il rapporto fra giustizia, carità e politica

Nella seconda parte (dell’enciclica) si parla della carità, il servizio d’amore comunitario della Chiesa per tutti coloro che soffrono nel corpo o nell’anima e hanno bisogno del dono dell’amore.

Qui si presentano anzitutto due domande: la Chiesa non può lasciare questo servizio alle altre organizzazioni filantropiche che si formano in molti modi?

Ecco la risposta: no, la Chiesa non lo può fare. Essa deve praticare l’amore per il prossimo anche come comunità, altrimenti annuncia il Dio dell’amore in modo incompleto e insufficiente.

La seconda domanda: non bisognerebbe piuttosto tendere a un ordine della giustizia in cui non vi sono più i bisognosi e per questo la carità diventa superflua?

Ecco la risposta: indubbiamente il fine della politica è creare un giusto ordinamento della società, in cui a ciascuno viene riconosciuto il suo e nessuno soffre di miseria. In questo senso, la giustizia è il vero scopo della politica, così come lo è la pace che non può esistere senza giustizia. Di sua natura la Chiesa non fa politica in prima persona, bensì rispetta l’autonomia dello Stato e del suo ordinamento. La ricerca di questo ordinamento della giustizia spetta alla ragione comune, così come la politica è interesse di tutti i cittadini. Spesso, però, la ragione è accecata da interessi e dalla volontà di potere. La fede serve a purificare la ragione, perché possa vedere e decidere correttamente. È compito allora della Chiesa di guarire la ragione e di rafforzare la volontà di bene. In questo senso – senza fare essa stessa politica – la Chiesa partecipa appassionatamente alla battaglia per la giustizia. Ai cristiani impegnati nelle professioni pubbliche spetta nell’agire politico di aprire sempre nuove strade alla giustizia.

Questa, però, è solo la prima metà della risposta alla nostra domanda. La seconda metà, che a me sta particolarmente a cuore nell’enciclica, dice: la giustizia non può mai rendere superfluo l’amore. Al di là della giustizia, l’uomo avrà sempre bisogno di amore, che solo dà un’anima alla giustizia. In un mondo talmente ferito come lo sperimentiamo ai nostri giorni, non c’è davvero bisogno di dimostrare quanto detto. Il mondo si aspetta la testimonianza dell’amore cristiano che ci viene ispirato dalla fede. Nel nostro mondo, spesso così buio, con questo amore brilla la luce di Dio.
(dalla Lettera di Benedetto XVI ai lettori di Famiglia cristiana, numero 6/2006 del 1 febbraio 2006, per presentare l’enciclica Deus Caritas est)

23. ...Può risultare utile un riferimento alle primitive strutture giuridiche riguardanti il servizio della carità nella Chiesa. Verso la metà del IV secolo prende forma in Egitto la cosiddetta «diaconia»; essa è nei singoli monasteri l'istituzione responsabile per il complesso delle attività assistenziali, per il servizio della carità appunto. Da questi inizi si sviluppa in Egitto fino al VI secolo una corporazione con piena capacità giuridica, a cui le autorità civili affidano addirittura una parte del grano per la distribuzione pubblica. In Egitto non solo ogni monastero ma anche ogni diocesi finisce per avere la sua diaconia — una istituzione che si sviluppa poi sia in oriente sia in occidente. Papa Gregorio Magno († 604) riferisce della diaconia di Napoli. Per Roma le diaconie sono documentate a partire dal VII e VIII secolo; ma naturalmente già prima, e fin dagli inizi, l'attività assistenziale per i poveri e i sofferenti, secondo i principi della vita cristiana esposti negli Atti degli Apostoli, era parte essenziale della Chiesa di Roma. Questo compito trova una sua vivace espressione nella figura del diacono Lorenzo († 258). La descrizione drammatica del suo martirio era nota già a sant'Ambrogio († 397) e ci mostra, nel suo nucleo, sicuramente l'autentica figura del Santo. A lui, quale responsabile della cura dei poveri di Roma, era stato concesso qualche tempo, dopo la cattura dei suoi confratelli e del Papa, per raccogliere i tesori della Chiesa e consegnarli alle autorità civili. Lorenzo distribuì il denaro disponibile ai poveri e li presentò poi alle autorità come il vero tesoro della Chiesa. Comunque si valuti l'attendibilità storica di tali particolari, Lorenzo è rimasto presente nella memoria della Chiesa come grande esponente della carità ecclesiale.

24. Un accenno alla figura dell'imperatore Giuliano l'Apostata († 363) può mostrare ancora una volta quanto essenziale fosse per la Chiesa dei primi secoli la carità organizzata e praticata. Bambino di sei anni, Giuliano aveva assistito all'assassinio di suo padre, di suo fratello e di altri familiari da parte delle guardie del palazzo imperiale; egli addebitò questa brutalità — a torto o a ragione — all'imperatore Costanzo, che si spacciava per un grande cristiano. Con ciò la fede cristiana risultò per lui screditata una volta per tutte. Divenuto imperatore, decise di restaurare il paganesimo, l'antica religione romana, ma al contempo di riformarlo, in modo che potesse diventare realmente la forza trainante dell'impero. In questa prospettiva si ispirò ampiamente al cristianesimo. Instaurò una gerarchia di metropoliti e sacerdoti. I sacerdoti dovevano curare l'amore per Dio e per il prossimo. In una delle sue lettere aveva scritto che l'unico aspetto del cristianesimo che lo colpiva era l'attività caritativa della Chiesa. Fu quindi un punto determinante, per il suo nuovo paganesimo, affiancare al sistema di carità della Chiesa un'attività equivalente della sua religione. I « Galilei » — così egli diceva — avevano conquistato in questo modo la loro popolarità. Li si doveva emulare ed anche superare. L'imperatore in questo modo confermava dunque che la carità era una caratteristica decisiva della comunità cristiana, della Chiesa.

25. Giunti a questo punto, raccogliamo dalle nostre riflessioni due dati essenziali:
a) L'intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyria), celebrazione dei Sacramenti (leiturgia), servizio della carità (diakonia). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l'uno dall'altro. La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza...

26. Fin dall'Ottocento contro l'attività caritativa della Chiesa è stata sollevata un'obiezione, sviluppata poi con insistenza soprattutto dal pensiero marxista. I poveri, si dice, non avrebbero bisogno di opere di carità, bensì di giustizia. Le opere di carità — le elemosine — in realtà sarebbero, per i ricchi, un modo di sottrarsi all'instaurazione della giustizia e di acquietare la coscienza, conservando le proprie posizioni e frodando i poveri nei loro diritti. Invece di contribuire attraverso singole opere di carità al mantenimento delle condizioni esistenti, occorrerebbe creare un giusto ordine, nel quale tutti ricevano la loro parte dei beni del mondo e quindi non abbiano più bisogno delle opere di carità. In questa argomentazione, bisogna riconoscerlo, c'è del vero, ma anche non poco di errato. È vero che norma fondamentale dello Stato deve essere il perseguimento della giustizia e che lo scopo di un giusto ordine sociale è di garantire a ciascuno, nel rispetto del principio di sussidiarietà, la sua parte dei beni comuni. È quanto la dottrina cristiana sullo Stato e la dottrina sociale della Chiesa hanno sempre sottolineato. La questione del giusto ordine della collettività, da un punto di vista storico, è entrata in una nuova situazione con la formazione della società industriale nell'Ottocento. Il sorgere dell'industria moderna ha dissolto le vecchie strutture sociali e con la massa dei salariati ha provocato un cambiamento radicale nella composizione della società, all'interno della quale il rapporto tra capitale e lavoro è diventato la questione decisiva — una questione che sotto tale forma era prima sconosciuta. Le strutture di produzione e il capitale erano ormai il nuovo potere che, posto nelle mani di pochi, comportava per le masse lavoratrici una privazione di diritti contro la quale bisognava ribellarsi.

27. È doveroso ammettere che i rappresentanti della Chiesa hanno percepito solo lentamente che il problema della giusta struttura della società si poneva in modo nuovo. Non mancarono pionieri: uno di questi fu, ad esempio, il Vescovo Ketteler di Magonza († 1877). Come risposta alle necessità concrete sorsero pure circoli, associazioni, unioni, federazioni e soprattutto nuove Congregazioni religiose, che nell'Ottocento scesero in campo contro la povertà, le malattie e le situazioni di carenza nel settore educativo. Nel 1891, entrò in scena il magistero pontificio con l'Enciclica Rerum novarum di Leone XIII. Vi fece seguito, nel 1931, l'Enciclica di Pio XI Quadragesimo anno. Il beato Papa Giovanni XXIII pubblicò, nel 1961, l'Enciclica Mater et magistra, mentre Paolo VI nell'Enciclica Populorum progressio (1967) e nella Lettera apostolica Octogesima adveniens (1971) affrontò con insistenza la problematica sociale, che nel frattempo si era acutizzata soprattutto in America Latina. Il mio grande Predecessore Giovanni Paolo II ci ha lasciato una trilogia di Encicliche sociali: Laborem exercens (1981), Sollicitudo rei socialis (1987) e infine Centesimus annus (1991). Così nel confronto con situazioni e problemi sempre nuovi è venuta sviluppandosi una dottrina sociale cattolica, che nel 2004 è stata presentata in modo organico nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, redatto dal Pontificio Consiglio Iustitia et Pax. Il marxismo aveva indicato nella rivoluzione mondiale e nella sua preparazione la panacea per la problematica sociale: attraverso la rivoluzione e la conseguente collettivizzazione dei mezzi di produzione — si asseriva in tale dottrina — doveva improvvisamente andare tutto in modo diverso e migliore. Questo sogno è svanito. Nella situazione difficile nella quale oggi ci troviamo anche a causa della globalizzazione dell'economia, la dottrina sociale della Chiesa è diventata un'indicazione fondamentale, che propone orientamenti validi ben al di là dei confini di essa: questi orientamenti — di fronte al progredire dello sviluppo — devono essere affrontati nel dialogo con tutti coloro che si preoccupano seriamente dell'uomo e del suo mondo.

28. Per definire più accuratamente la relazione tra il necessario impegno per la giustizia e il servizio della carità, occorre prendere nota di due fondamentali situazioni di fatto:
a) Il giusto ordine della società e dello Stato è compito centrale della politica. Uno Stato che non fosse retto secondo giustizia si ridurrebbe ad una grande banda di ladri, come disse una volta Agostino: «Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia?». Alla struttura fondamentale del cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio (cfr Mt 22, 21), cioè la distinzione tra Stato e Chiesa o, come dice il Concilio Vaticano II, l'autonomia delle realtà temporali. Lo Stato non può imporre la religione, ma deve garantire la sua libertà e la pace tra gli aderenti alle diverse religioni; la Chiesa come espressione sociale della fede cristiana, da parte sua, ha la sua indipendenza e vive sulla base della fede la sua forma comunitaria, che lo Stato deve rispettare. Le due sfere sono distinte, ma sempre in relazione reciproca.
La giustizia è lo scopo e quindi anche la misura intrinseca di ogni politica. La politica è più che una semplice tecnica per la definizione dei pubblici ordinamenti: la sua origine e il suo scopo si trovano appunto nella giustizia, e questa è di natura etica. Così lo Stato si trova di fatto inevitabilmente di fronte all'interrogativo: come realizzare la giustizia qui ed ora? Ma questa domanda presuppone l'altra più radicale: che cosa è la giustizia? Questo è un problema che riguarda la ragione pratica; ma per poter operare rettamente, la ragione deve sempre di nuovo essere purificata, perché il suo accecamento etico, derivante dal prevalere dell'interesse e del potere che l'abbagliano, è un pericolo mai totalmente eliminabile.
In questo punto politica e fede si toccano. Senz'altro, la fede ha la sua specifica natura di incontro con il Dio vivente — un incontro che ci apre nuovi orizzonti molto al di là dell'ambito proprio della ragione. Ma al contempo essa è una forza purificatrice per la ragione stessa. Partendo dalla prospettiva di Dio, la libera dai suoi accecamenti e perciò l'aiuta ad essere meglio se stessa. La fede permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio. È qui che si colloca la dottrina sociale cattolica: essa non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato. Neppure vuole imporre a coloro che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa. Vuole semplicemente contribuire alla purificazione della ragione e recare il proprio aiuto per far sì che ciò che è giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato.
La dottrina sociale della Chiesa argomenta a partire dalla ragione e dal diritto naturale, cioè a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano. E sa che non è compito della Chiesa far essa stessa valere politicamente questa dottrina: essa vuole servire la formazione della coscienza nella politica e contribuire affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con situazioni di interesse personale. Questo significa che la costruzione di un giusto ordinamento sociale e statale, mediante il quale a ciascuno venga dato ciò che gli spetta, è un compito fondamentale che ogni generazione deve nuovamente affrontare. Trattandosi di un compito politico, questo non può essere incarico immediato della Chiesa. Ma siccome è allo stesso tempo un compito umano primario, la Chiesa ha il dovere di offrire attraverso la purificazione della ragione e attraverso la formazione etica il suo contributo specifico, affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili.
La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell'argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare. La società giusta non può essere opera della Chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica. Tuttavia l'adoperarsi per la giustizia lavorando per l'apertura dell'intelligenza e della volontà alle esigenze del bene la interessa profondamente.
b) L'amore — caritas — sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c'è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell'amore. Chi vuole sbarazzarsi dell'amore si dispone a sbarazzarsi dell'uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo. Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un'istanza burocratica che non può
assicurare l'essenziale di cui l'uomo sofferente — ogni uomo — ha bisogno: l'amorevole dedizione personale. Non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto. La Chiesa è una di queste forze vive: in essa pulsa la dinamica dell'amore suscitato dallo Spirito di Cristo. Questo amore non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell'anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno materiale. L'affermazione secondo la quale le strutture giuste renderebbero superflue le opere di carità di fatto nasconde una concezione materialistica dell'uomo: il pregiudizio secondo cui l'uomo vivrebbe «di solo pane» (Mt 4, 4; cfr Dt 8, 3) — convinzione che umilia l'uomo e disconosce proprio ciò che è più specificamente umano.

29. Così possiamo ora determinare più precisamente, nella vita della Chiesa, la relazione tra l'impegno per un giusto ordinamento dello Stato e della società, da una parte, e l'attività caritativa organizzata, dall'altra. Si è visto che la formazione di strutture giuste non è immediatamente compito della Chiesa, ma appartiene alla sfera della politica, cioè all'ambito della ragione autoresponsabile. In questo, il compito della Chiesa è mediato, in quanto le spetta di contribuire alla purificazione della ragione e al risveglio delle forze morali, senza le quali non vengono costruite strutture giuste, né queste possono essere operative a lungo.
Il compito immediato di operare per un giusto ordine nella società è invece proprio dei fedeli laici. Come cittadini dello Stato, essi sono chiamati a partecipare in prima persona alla vita pubblica. Non possono pertanto abdicare «alla molteplice e svariata azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune». Missione dei fedeli laici è pertanto di configurare rettamente la vita sociale, rispettandone la legittima autonomia e cooperando con gli altri cittadini secondo le rispettive competenze e sotto la propria responsabilità. Anche se le espressioni specifiche della carità ecclesiale non possono mai confondersi con l'attività dello Stato, resta tuttavia vero che la carità deve animare l'intera esistenza dei fedeli laici e quindi anche la loro attività politica, vissuta come «carità sociale».
Le organizzazioni caritative della Chiesa costituiscono invece un suo opus proprium, un compito a lei congeniale, nel quale essa non collabora collateralmente, ma agisce come soggetto direttamente responsabile, facendo quello che corrisponde alla sua natura. La Chiesa non può mai essere dispensata dall'esercizio della carità come attività organizzata dei credenti e, d'altra parte, non ci sarà mai una situazione nella quale non occorra la carità di ciascun singolo cristiano, perché l'uomo, al di là della giustizia, ha e avrà sempre bisogno dell'amore.

31. ...
b) L'attività caritativa cristiana deve essere indipendente da partiti ed ideologie. Non è un mezzo per cambiare il mondo in modo ideologico e non sta al servizio di strategie mondane, ma è attualizzazione qui ed ora dell'amore di cui l'uomo ha sempre bisogno. Il tempo moderno, soprattutto a partire dall'Ottocento, è dominato da diverse varianti di una filosofia del progresso, la cui forma più radicale è il marxismo. Parte della strategia marxista è la teoria dell'impoverimento: chi in una situazione di potere ingiusto — essa sostiene — aiuta l'uomo con iniziative di carità, si pone di fatto a servizio di quel sistema di ingiustizia, facendolo apparire, almeno fino a un certo punto, sopportabile. Viene così frenato il potenziale rivoluzionario e quindi bloccato il rivolgimento verso un mondo migliore. Perciò la carità viene contestata ed attaccata come sistema di conservazione dello status quo. In realtà, questa è una filosofia disumana. L'uomo che vive nel presente viene sacrificato al moloch del futuro — un futuro la cui effettiva realizzazione rimane almeno dubbia. In verità, l'umanizzazione del mondo non può essere promossa rinunciando, per il momento, a comportarsi in modo umano. Ad un mondo migliore si contribuisce soltanto facendo il bene adesso ed in prima persona, con passione e ovunque ce ne sia la possibilità, indipendentemente da strategie e programmi di partito. Il programma del cristiano — il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù — è «un cuore che vede». Questo cuore vede dove c'è bisogno di amore e agisce in modo conseguente. Ovviamente alla spontaneità del singolo deve aggiungersi, quando l'attività caritativa è assunta dalla Chiesa come iniziativa comunitaria, anche la programmazione, la previdenza, la collaborazione con altre istituzioni simili.
(dalla prima enciclica di Benedetto XVI, Deus caritas est)

Il pensiero cristiano fin dalle origini, la politica contro l’utopia: per una sobria concezione dello Stato

Quando il cristianesimo cercò nel mondo romano una parola, con la quale potesse esprimere, in modo sintetico e comprensibile per tutti, cosa significava Gesù Cristo per loro, ci si imbatté nella parola Conservator, con la quale era descritto a Roma il compito essenziale e il servizio più elevato, che era necessario rendere all’umanità. Ma proprio questo titolo i cristiani non poterono e non vollero trasferire sul loro redentore; non potevano proprio tradurre in tal modo la parola Messia-Cristo, il compito del salvatore del mondo.

Dal punto di vista dell’impero romano doveva in realtà apparire come il più importante compito quello di conservare la situazione dell’impero contro tutte le sue minacce interne ed esterne, poiché questo impero incarnava uno spazio di pace e di diritto, nel quale gli uomini potevano vivere in sicurezza e dignità. Di fatto i cristiani – già anche la generazione apostolica – hanno saputo apprezzare questa garanzia di diritto e di pace che l’impero romano offriva.

Ai padri della Chiesa davanti al caos minacciante, che si annunciava con le invasioni di altri popoli, interessava certamente il mantenimento dell’impero, delle sue garanzie giuridiche, del suo ordinamento di pace. Nondimeno i cristiani non potevano semplicemente volere che tutto rimanesse come era; l’Apocalisse, che certamente con la sua visione dell’impero si colloca al margine del Nuovo Testamento, dimostrava chiaramente per tutti che vi era anche qualcosa che non poteva essere conservato, ma doveva essere cambiato.

Che Cristo non potesse essere designato come Conservator, ma come Salvator, non aveva certamente alcun significato politico-rivoluzionario, ma indicava nondimeno i limiti della pura conservazione e rinviava a una dimensione dell’esistenza umana, che va al di là delle funzioni di pace e di ordine proprie della politica.

Cerchiamo di approfondire un poco questo episodio particolare di una forma della comprensione esistenziale del compito della politica. Dietro l’alternativa, che si era a noi mostrata finora in modo piuttosto indistinto nella contrapposizione fra il titolo di Conservator e di Salvator, si evidenziano in realtà due diverse visioni di ciò che l’agire politico ed etico deve e può realizzare, in cui non solo politica e morale, ma anche politica, religione e morale appaiono reciprocamente intrecciate in diverse modalità.

Da una parte vi è la visione statica, orientata alla conservazione, che forse si manifesta nel modo più evidente nell’universalismo cinese: l’ordine del cielo, eternamente eguale, offre il suo criterio anche all’agire terreno. È il Tao, la legge dell’essere e della realtà, che gli uomini devono riconoscere e riprendere nell’agire. Il Tao è legge sia cosmica che morale. Garantisce l’armonia di cielo e terra e così anche l’armonia della vita politica e sociale. Disordine, turbamento della pace, caos insorgono quando l’uomo si rivolge contro il Tao, vive ignorandolo o contro di esso.

Allora contro tali turbamenti e devastazioni della vita comune deve essere restaurato il Tao e così il mondo reso nuovamente vivibile. Tutto dipende dalla conservazione dell’ordine durevole o dal ritorno a esso, qualora fosse stato abbandonato. Qualcosa di analogo è espresso nel concetto indiano del Dharma, che significa l’ordine tanto cosmico che etico e sociale, al quale l’uomo deve adeguarsi, perché la vita si sviluppi armonicamente.

Il buddismo ha relativizzato questa visione insieme cosmica, politica e religiosa, in quanto ha spiegato tutto quanto il mondo come un ciclo di sofferenze; la salvezza non va cercata nel cosmo, ma nell’uscire da esso. Ma non ha creato nessuna nuova visione politica, in quanto la ricerca della salvezza è concepita in modo non mondano – come orientamento al Nirvana; per il mondo in quanto tale non vengono proposti nuovi modelli.

Diversamente la fede d’Israele. Anch’essa in realtà con l’alleanza stretta da Dio con Noè conosce qualcosa come un ordine cosmico e la promessa della sua stabilità. Ma per la fede dello stesso Israele l’orientamento verso il futuro diventa sempre più evidente. Non l’eternamente immobile, l’oggi sempre uguale a se stesso, ma il domani, il futuro non ancora presente appare come il luogo della salvezza.

Il libro di Daniele, la cui redazione si colloca per altro nel corso del Secondo secolo avanti Cristo, offre due grandi visioni storico-teologiche, che divennero di enorme significato per l’ulteriore sviluppo del pensiero politico e religioso. Nel secondo capitolo si trova la visione della statua, che è costituita in parte d’oro, in parte d’argento, in parte di ferro e infine anche di argilla. Questi quattro elementi indicano una successione di quattro regni.

Alla fine tutti vengono distrutti da una pietra che si stacca da una montagna senza partecipazione di mano d’uomo e che riduce il tutto in polvere, così che il vento ne porta via i resti e di essi non ne rimane più alcuna traccia. La pietra invece diventa una grande montagna e riempie tutta quanta la terra – simbolo di un regno, che il Dio del cielo e della terra erigerà e che non verrà meno per l’eternità (2,44).

Nel settimo capitolo del medesimo libro appare con un simbolismo forse ancora più impressionante la successione dei regni come il susseguirsi di quattro belve, sulle quali alla fine Dio – presentato come «vegliardo» – esercita un giudizio. Le quattro belve – i grandi imperi della storia del mondo – erano salite dal mare, che rappresenta il simbolo della potenza di minaccia contro la vita per mezzo della morte e dei suoi poteri; dopo il giudizio tuttavia giunge dal cielo l’uomo («un figlio d’uomo»), e gli vengono consegnati tutti i popoli, le nazioni e le lingue per un regno, che è eterno, intramontabile e che mai passerà.

Mentre nelle concezioni del Tao e del Dharma gli ordinamenti eterni del cosmo hanno un ruolo, l’idea di «storia» quindi non appare affatto, qui ora la «storia» è concepita come una realtà specifica, non riconducibile al cosmo, e con questa realtà antropologica e dinamica precedentemente non avvertita si inaugura una visione totalmente diversa.

È evidente che una tale rappresentazione di una successione storica di regni, che sono belve voraci in forme sempre più spaventose, non poteva formarsi in uno dei popoli dominatori, ma presuppone quale suo supporto sociologico un popolo che ha coscienza di essere esso stesso minacciato dalla voracità di queste belve e ha anche sperimentato un susseguirsi di potenze che gli hanno conteso il diritto all’esistenza.

È la visione degli oppressi, che guardano a una svolta della storia e non possono essere interessati alla conservazione dell’esistente. Nella visione di Daniele la svolta della storia si realizza non per un’azione politica o militare – a questo fine mancano semplicemente le forze necessarie. Essa subentra solo per un intervento di Dio: la pietra, che distrugge i regni, si stacca da una montagna «non per mano di uomo» (2,34).

I Padri della Chiesa videro qui un misterioso preannuncio della nascita di Gesù dalla Vergine, solo per la potenza di Dio; in Cristo essi vedono la pietra, che alla fine diventa montagna e riempie la terra. Nuovo rispetto alle visioni cosmiche, nelle quali semplicemente il Tao o il Dharma stesso si presentano come la potenza del divino, come il «divino», è dunque non solo l’apparire della storia non riducibile al cosmo, ma questa terza realtà e allo stesso tempo prima: un Dio che agisce, al quale si rivolge la speranza degli oppressi.

Ma già con i Maccabei, che sono da collocare all’incirca nella stessa epoca delle visioni di Daniele, anche l’uomo stesso deve prendere in mano la causa di Dio con un’azione politica e militare; in alcune parti della letteratura di Qumran la fusione di speranza teologica e di azione propriamente umana diventa ancora più evidente. Infine la lotta di Bar Kocheba ha il senso di una chiara politicizzazione del messianismo: Dio si serve per la svolta di un «Messia», che per incarico e con l’autorità di Dio introduce la novità per mezzo di un’azione politica e militare.

Il Sacrum imperium dei cristiani sia nella sua variante bizantina che in quella latina non ha potuto né voluto riprendere tali concezioni, tanto più in quanto i mpegnato nuovamente nella conservazione dell’ordine mondiale fondato ora cristianamente, con la convinzione per altro che si era nella sesta epoca della storia, nell’età della vecchiaia e poi sarebbe venuto l’altro mondo, che come ottavo giorno di Dio già correva parallelamente alla storia e quindi sarebbe a questa definitivamente subentrato.

In realtà l’apocalittica – come si definisce la corrente della speranza critica della storia, al cui inizio sta il libro di Daniele – non è mai del tutto scomparsa. Essa emerge nuovamente con crescente virulenza a partire dall’illuminismo e diviene ora a partire dal Diciannovesimo secolo in forma secolarizzata e in variazioni contrastanti, la visione politica dominante. La sua forma radicale si trova nel marxismo, che si ricollega a Daniele in quanto valuta negativamente tutta la storia precedente come storia di oppressione e inoltre presuppone come supporto sociologico la classe degli sfruttati, degli operai innanzitutto privati di ogni diritto e dei contadini dipendenti.

Con un capovolgimento sorprendente, sui motivi del quale non si è ancora riflettuto abbastanza, è però poi divenuto sempre più la religione degli intellettuali, mentre i lavoratori erano giunti per mezzo di riforme a diritti che rendevano per essi superflua la rivoluzione – la grande evasione dall’attuale forma storica. Per essi non era più necessaria la pietra che distruggeva i regni: puntavano piuttosto sull’altra figura di Daniele, quella del leone, che fu messo sui due piedi come un uomo e al quale fu dato un cuore di uomo (7,4).

Ma dobbiamo forse esaminare ancora un poco più da vicino la fisionomia del nuovo messianismo secolare, come esso si è manifestato nel marxismo, perché esso si aggira ancora come uno spettro in forme diverse nelle anime di molti. Il fondamento di questa nuova concezione della storia è costituito da una parte dalla teoria dell’evoluzione trasferita sulla storia, dall’altra – non senza un legame con la precedente – dalla fede nel progresso nella versione che Hegel le aveva dato.

Il collegamento con la teoria dell’evoluzione significa che la storia è vista in modo biologistico, anzi, materialistico e deterministico: essa ha le sue leggi e il suo corso, contro il quale si può lottare, ma che alla fine non può essere arrestato. L’evoluzione è subentrata al posto di Dio. «Dio» significa ora: sviluppo, progresso. Ma questo progresso – qui entra Hegel – si realizza in movimenti dialettici; anch’esso ultimamente è compreso in forma deterministica. L’ultima tappa dialettica è il salto dalla storia dell’oppressione nella definitiva storia della salvezza – il passaggio dalle belve al figlio dell’uomo, si potrebbe dire con Daniele. Il regno del Figlio dell’uomo si chiama ora «società senza classi».

Sebbene da una parte i salti dialettici come eventi naturali avvengano necessariamente, concretamente essi si verificano di fatto attraverso un cammino politico. Il corrispondente politico del salto dialettico è la rivoluzione. Esso è l’opposto della riforma, che si deve respingere, poiché essa in realtà suscita l’impressione che alla belva sia dato un cuore d’uomo e non sia più necessario combatterla. Le riforme distruggono lo slancio rivoluzionario; pertanto si collocano contro la logica interna della storia, sono un’involuzione invece di un’evoluzione, quindi alla fine nemiche del progresso.

Rivoluzione e utopia – la nostalgia di un mondo perfetto – sono collegate: sono la forma concreta di questo nuovo messianismo, politico e secolarizzato. L’idolo del futuro divora il presente; l’idolo della rivoluzione è l’avversario dell’agire politico razionale in vista di un concreto miglioramento del mondo. La visione teologica di Daniele, dell’apocalittica in genere, è applicata alla realtà secolare, ma allo stesso tempo mitizzata. Infatti entrambe le due idee politiche portanti – rivoluzione e utopia – sono, nel loro legame con l’evoluzione e la dialettica, un mito assolutamente antirazionale: la smitizzazione è urgentemente necessaria, perché la politica possa svolgere la sua opera in modo veramente razionale.

Dove si colloca ora però, prescindendo da Daniele e dal messianismo politico, la fede cristiana? Qual è la sua visione della storia e per quanto riguarda il nostro agire storico? Prima che io possa tentare di formulare un giudizio complessivo, dobbiamo dare uno sguardo ai più importanti testi del Nuovo Testamento. Qui si possono, senza grandi analisi, distinguere facilmente due gruppi di testi: da una parte vi sono i testi dei Vangeli e degli Atti degli apostoli, che al massimo da lontano lasciano intravedere legami con l’apocalittica; dall’altra parte vi è l’Apocalisse di Giovanni, che – come già dice il nome – appartiene alla corrente dell’apocalittica.

È noto che i testi delle lettere degli apostoli – in consonanza con la visione tratteggiata nei Vangeli – non sono affatto toccate dal pathos della rivoluzione, anzi, vi si oppongono chiaramente. I due testi fondamentali di Rom 13,1-6 e di 1 Pt 2,13-17 sono molto chiari e da sempre una spina nell’occhio per tutti i rivoluzionari. Romani 13 chiede che «ciascuno» (letteralmente: ogni anima) stia sottomesso alle autorità costituite, perché non c’è alcuna autorità se non da Dio. Un’opposizione all’autorità sarebbe pertanto un’opposizione contro l’ordine stabilito da Dio. Ci si deve sottomettere quindi non solo per costrizione, ma per ragioni di coscienza.

In modo del tutto analogo la prima Lettera di Pietro richiede sottomissione alle autorità legittime «per amore del Signore»: «Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti. Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia...». Né Paolo né Pietro esprimono qui un’esaltazione acritica dello Stato romano. Sebbene essi affermino l’origine divina degli ordinamenti giuridici statali, sono ben lontani da una divinizzazione dello Stato.

Proprio perché essi vedono i limiti dello Stato, che non è Dio e non si può presentare come Dio, riconoscono la funzione dei suoi ordinamenti e il suo valore morale. Si collocano così in una buona tradizione biblica – pensiamo a Geremia, che esorta gli israeliti esiliati alla lealtà nei confronti dello Stato oppressore di Babilonia, nella misura in cui questo Stato garantisce il diritto e la pace e così anche il relativo benessere di Israele, che è la condizione della sua restaurazione come popolo.

Pensiamo al Deutero-Isaia, che non ha paura di designare Ciro come l’unto di Dio: il re dei persiani, che non conosce il Dio d’Israele e fa ritornare il popolo in patria per considerazioni puramente pragmatico-politiche, agisce nondimeno, dal momento che si impegna per il ristabilimento del diritto, come strumento di Dio. In questa linea si muove la risposta di Gesù ai farisei e agli erodiani in merito alla questione delle tasse: ciò che è di Cesare, deve essere dato a Cesare (Mc 13,12–17).

Nella misura in cui l’imperatore romano è garante del diritto, egli può esigere obbedienza; naturalmente l’ambito del dovere di obbedienza viene allo stesso tempo ridotto: esiste ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio. Laddove Cesare si innalza a Dio, ha superato i suoi limiti e l’obbedienza sarebbe allora rinnegamento di Dio. Sostanzialmente è in questa linea anche la risposta di Gesù a Pilato, nella quale il Signore proprio di fronte al giudice ingiusto riconosce tuttavia che il potere per l’esercizio del ruolo di giudice, del servizio al diritto, può essere dato solo dall’alto (Gv 19,11).

Se si considerano queste correlazioni, appare una concezione dello Stato molto sobria: non è determinante la credibilità personale o le buone intenzioni soggettive degli organi dello Stato. Nella misura in cui garantiscono la pace e il diritto, corrispondono a una disposizione divina; con una terminologia di oggi diremmo: rappresentano un ordinamento creaturale.

Lo Stato è da rispettare proprio nella sua profanità; è necessario a partire dall’essenza dell’uomo come animal sociale et politicum, si fonda su questa natura umana e così è corrispondente alla creazione. In tutto questo è allo stesso tempo contenuta una delimitazione dello Stato: esso ha il suo ambito, che non può superare; deve rispettare il più alto diritto di Dio. Il rifiuto dell’adorazione dell’imperatore e in genere il rifiuto del culto dello Stato è in fondo semplicemente il rifiuto dello Stato totalitario.

Nella prima lettera di Pietro si manifesta molto chiaramente questa linea di demarcazione, quando l’apostolo dice: «Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida o ladro o malfattore o delatore. Ma se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome» (4,15s). Il cristiano è vincolato all’ordine giuridico dello Stato come a un ordinamento morale. Qualcosa di diverso è quando egli soffre «come cristiano»: laddove lo Stato punisce l’essere cristiano come tale, non esercita il potere come garante, ma come distruttore del diritto. Allora non è vergogna, ma un onore, essere puniti.

Chi soffre per questo motivo, si pone proprio nella sofferenza nella sequela di Cristo: il Cristo crocifisso indica i limiti del potere statale e mostra ove hanno fine i suoi diritti e la resistenza nella sofferenza diventa una necessità. La fede del Nuovo Testamento non conosce il rivoluzionario, ma il martire: il martire riconosce l’autorità dello Stato, conosce però anche i suoi limiti. La sua resistenza consiste nel fatto che egli fa tutto ciò che è al servizio del diritto e della comunità organizzata, anche se proviene da autorità estranee o ostili alla fede, ma egli non obbedisce laddove gli viene ordinato di fare il male, cioè di mettersi contro la volontà di Dio. La sua resistenza non è la resistenza della violenza attiva, ma la resistenza di colui che è pronto a soffrire per la volontà di Dio: il combattente della resistenza, che muore con l’arma in mano, non è un martire nel senso del Nuovo Testamento.

La medesima linea si rivela anche se guardiamo ad altri testi del Nuovo Testamento, che prendono posizione nei confronti del problema dell’atteggiamento cristiano davanti allo Stato. Tito 3,1 dice: «Ricorda loro di essere sottomessi ai magistrati e alle autorità, di obbedire, di essere pronti per ogni opera buona...». Molto indicativo è 2 Tess 3,10-12, laddove l’apostolo si rivolge contro coloro che – certamente con il pretesto dell’attesa cristiana del ritorno del Signore – non lavorano e non vogliono fare niente di utile. Essi vengono invece esortati a lavorare pacificamente, perché «chi non lavora, non mangia». L’escatologia entusiasta viene fortemente richiamata a ridimensionarsi.

Un aspetto importante appare anche in 1 Tim 2,2, dove i cristiani vengono esortati a pregare per il re e per tutte le autorità, «perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla». Due cose appaiono qui chiaramente: i cristiani pregano per il re e per le autorità, ma non adorano il re. Il testo data o dal tempo di Nerone – se ne è autore Paolo – o, se è da collocare più tardi, all’incirca dal tempo di Domiziano, quindi due tiranni ostili ai cristiani.

Nondimeno i cristiani pregano per colui che governa, perché egli possa adempiere il suo compito. Naturalmente qualora egli si faccia Dio, gli rifiutano obbedienza. Il secondo elemento consiste nel fatto che viene formulato il compito dello Stato in una forma straordinariamente sobria, che sembra quasi banale: deve preoccuparsi della pace interna ed esterna. Ciò può, come detto, suonare piuttosto banale, ma in realtà vi è espressa una istanza essenzialmente morale: la pace interna ed esterna sono possibili solo quando sono assicurati i diritti essenziali dell’uomo e della comunità.

Cerchiamo ora brevemente di inserire queste indicazioni nelle prospettive che abbiamo incontrato in precedenza. A me sembra che si potrebbero dire due cose. La visione storica dinamicizzata dell’apocalittica e delle speranze messianiche fa la sua apparizione solo indirettamente; il messianismo è essenzialmente modificato dalla figura di Gesù. Esso rimane politicamente rilevante, in quanto indica il punto in cui il martirio diventa necessario e così viene precisato il limite dei diritti dello Stato.

Ogni martirio tuttavia sta sotto la promessa del Cristo risorto e che ritornerà; in questo senso rinvia al di là del mondo presente a una nuova, definitiva comunione degli uomini con Dio e fra di loro. Ma questa delimitazione dell’ambito dello Stato e questa apertura dell’orizzonte a un futuro mondo nuovo non dissolve gli attuali ordinamenti statali che sulla base della ragione naturale e della sua logica devono continuare a governare e sono ordinamenti validi per il tempo della storia. Un messianismo entusiasta escatologico-rivoluzionario è assolutamente estraneo al Nuovo Testamento.

La storia è per così dire il regno della ragione; la politica non instaura il Regno di Dio, ma certamente deve preoccuparsi per il giusto regno dell’uomo, ciò vuol dire: creare i presupposti per una pace interna ed esterna e per una giustizia, nella quale tutti «possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità» (1 Tim 2,2). Si potrebbe dire che qui è espresso anche il postulato della libertà di religione, come viceversa si ritiene la ragione capace di conoscere i fondamenti morali essenziali dell’essere umano e di realizzarli politicamente. In questo senso vi è una vicinanza con le posizioni che il Tao o il Dharma propongono a fondamento dello Stato.

Per questo i cristiani potevano guardare positivamente all’idea stoica della legge morale naturale, che proponeva analoghe concezioni nel contesto della filosofia greca. La dinamicizzazione della storia, particolarmente visibile nel libro di Daniele, che non considera la storia semplicemente in modo cosmico, ma la interpreta come dinamica di bene e male in movimento progressivo, rimane presente attraverso la speranza messianica.

Essa evidenzia i criteri morali della politica e indica i limiti del potere politico; grazie all’orizzonte della speranza, che lascia intravedere al di là della storia e in essa dà il coraggio per il retto agire e per il retto soffrire. In questo senso si può parlare di una sintesi della visione cosmica e storica. Io credo che a partire di qui si può perfino definire esattamente dove corre il confine fra l’apocalittica cristiana e quella non cristiana, gnostica.

L’apocalittica è cristiana allorquando mantiene il legame con la fede nella creazione; laddove la fede nella creazione, la sua permanenza e la sua fiducia nella ragione vengono abbandonate, là si compie il trapasso dalla fede cristiana alla gnosi. All’interno di queste opzioni di fondo vi è senza dubbio una grande possibilità di variazioni, ma certamente una opzione di fondo comune.
Un’analisi dei testi, che qui non è possibile, potrebbe mostrare che l’Apocalisse di Giovanni, per quanto il suo pathos di resistenza la distingua dagli scritti apostolici, resta molto chiaramente all’interno dell’opzione cristiana.
(Libertà e religione nell'identità dell'Europa, discorso del card.J.Ratzinger, nel ricevere il premio “Liberal” in occasione delle Giornate internazionali del pensiero filosofico sul tema: “Le due libertà: Parigi o Filadelfia?", il 20 settembre del 2002
di Cardinale Joseph Ratzinger)

I fondamenti patristici, nel pensiero di S.Agostino, per il rifiuto cristiano della teocrazia e la fondazione della distinzione tra stato e Chiesa

Quando cinquant'anni fa ho cominciato a dialogare con sant'Agostino, l'ho trovato quasi subito come un mio contemporaneo. Un uomo che non parla da lontano e da un contesto totalmente diverso dal nostro, ma che, avendo vissuto in un contesto molto simile al nostro, risponde, naturalmente alla sua maniera, a problemi che sono proprio anche problemi nostri. Il primo problema nascosto sotto la parola "potere" è quello della cosiddetta teologia politica, della relazione tra mondo politico e mondo religioso... Agostino ha vissuto in un Impero giuridicamente cristiano, dove il cristianesimo era religione di Stato anche se la maggioranza dei cittadini ancora non erano cristiani. L'imperatore era cristiano e si considerava il protettore della Chiesa, anzi, la personificazione della Chiesa, che era per lui quasi identificata con l'Impero. E in uno Stato in cui il cristianesimo è religione ufficiale, intrecciandosi con i gradi più alti dello Stato, è grande il pericolo che anche il teologo e il vescovo perdano di vista la differenza tra le due cose e si arrivi a una politicizzazione della fede incompatibile sia con la sua libertà sia anche con la sua universalità. In realtà, nel periodo e nella generazione precedenti a sant'Agostino, Eusebio di Cesarea aveva creato una teologia politica in questo senso, nella quale l'Impero e la Chiesa quasi si identificano. L'Impero diventa il modo in cui Dio realizza il suo progetto per la storia. Il problema di quest'identificazione si è rivelato nella crisi ariana, che non è solo una crisi di insegnamento cristologico, di fede cristologica, ma è soprattutto una crisi del problema della giusta relazione tra Stato e Chiesa, tra politica e fede. Pensiamo soltanto all'episodio relativo al Sinodo di Milano del 355, quando Eusebio di Vercelli, una delle grandi figure che resistettero a questa identificazione, rifiutò di sottostare alla volontà dell'imperatore che voleva che egli firmasse un documento di fede ariana. A Eusebio, che considera questo documento non compatibile con le leggi della Chiesa, l'imperatore Costanzo risponde: "La legge della Chiesa sono io". La fede è divenuta, quindi, una funzione dell'Impero. Eusebio è, con pochi altri, una della grandi figure che, come ho detto, resistono a queste insinuazioni e difendono la libertà della Chiesa, la libertà della fede e anche la sua universalità. Mi arreca realmente gioia il fatto che una rivista di informazione come 30Giorni abbia presentato per mesi al grande pubblico questa figura in un dialogo col nostro tempo. Un dialogo che realmente evidenzia la profondità e l'attualità del suo pensiero. Questo fatto, che sant'Agostino diventa accessibile alle nostre domande, e nella nostra attualità, è il mio motivo di gioia Questo, una generazione dopo, nella vita di sant'Agostino, appare già più difficile perché la fede nicena nel frattempo è accettata anche dagli imperatori. Quindi, non esistendo più questi conflitti, si potrebbe facilmente essere tentati di entrare in questa identificazione, arrivando così a un'inculturazione della fede nella quale fede e cultura si identificano in un modo inseparabile, e la fede perde così la sua universalità sia diacronica che sincronica. La fede non è, cioè, più in grado di comunicarsi ad altri mondi di cultura, né ad altri tempi con altre culture. Sant'Agostino era, in questa grande tentazione, la figura che ha difeso la differenza essenziale, che anche in situazioni privilegiate di quasi identità della popolazione, non può mai scomparire. Certamente egli fu aiutato dal fatto che nell'anno 410 i goti conquistarono Roma, la saccheggiarono, e i pagani reagirono dicendo: "Ecco, questo è successo adesso con il cristianesimo. Quando c'erano ancora gli dèi della patria, Roma era difesa, era la capitale del mondo. Adesso avete espulso gli dèi, e san Pietro e san Paolo, i vostri patroni, non sono in grado di difendere la città. Vediamo che bisogna tornare agli dèi". E così i pagani si fanno (giustamente dal loro punto di vista) propagatori di una teologia politica in cui gli dèi sono in funzione dello Stato e lo Stato è in funzione delle divinità. Proprio in questa situazione di profonda crisi spirituale, sant'Agostino capisce e vede che l'identificazione è una caratteristica della religione pagana, in cui le divinità sono autoctone, sono le divinità parziali di questa realtà. Mentre una fede che crede nell'unico Dio, nel Dio di tutti i popoli e di tutte le culture, non può conoscere questa identificazione. E così insiste sul fatto che Chiesa e Stato non possono confondersi. La Chiesa in tutta la sua fragilità, in tutto il suo inserimento nelle cose umane di un determinato tempo, anche nei peccati di un certo tempo, tuttavia è una realtà diversa, un segno di una nuova società futura che adesso non è Stato, ma che si annuncia, tramite la Chiesa, per il futuro e muove la storia verso il futuro. Mentre lo Stato rimane lo Stato del presente e la sua funzione è distinta dalla Chiesa.
Non vorrei adesso approfondire questo, ma mi sembra che il grande merito di sant'Agostino sia di aver creato questa filosofia, questa teologia della diversità delle funzioni, nella responsabilità comune guidata dai valori che possono costruire una società giusta. Sappiamo bene quanto fosse difficile per i contemporanei di sant'Agostino comprendere questa distinzione. Già il suo amico Orosio, nel suo libro sulla storia, sulla città di Dio, cade più o meno nella identificazione. Poi, il Medioevo ha creato un agostinismo politico che era un malinteso del vero agostinismo. Ma, con le letture approfondite, riappare la grandezza della figura di sant'Agostino. E penso che una filosofia politica e una vera ecclesiologia, una fede nell'unico Dio che è Dio di tutti, la ricerca di una vera universalità della fede che si esprime in tutte le culture non identificandosi mai con una sola di esse possano anche oggi imparare molto dal dialogo con sant'Agostino.
(dalla relazione per la presentazione del libro di 30Giorni sull’attualità di sant’Agostino, Il potere e la grazia)

Per un ulteriore approfondimento patristico: l’opposizione tra la concezione di Origene e quella di Agostino

L’incontro tra il messaggio di pace di Betlemme e la promessa augustea della pax romana ha significato di sintomo rispetto all’urto tra due mondi, alla loro affinità e alla loro diversità profonda. L’idea dell’unità del mondo e dell’umanità aveva il suo posto ben saldo nella fede biblica con la confessione di fede in un unico Dio e col radicarsi di tutta la storia in un unico Adamo e ancora una volta in un antenato solo, Noè; i due fattori – il punto di riferimento superiore nella unità di Dio e quello inferiore nell’unità del capostipite dell’umanità – erano inoltre tenuti uniti dalla concezione di ‘Adamo’, cioè dell’uomo per eccellenza come immagine di Dio e dall’idea del patto noachico, il cui arco si tende sulla terra intera e la cui protezione abbraccia tutti gli uomini. Dall’altro lato la filosofia ellenistica aveva colto l’idea orfica secondo la quale il Tutto nella sua interezza riposa nel gran corpo di Zeus e di qui aveva elaborato speculativamente a suo modo l’unità tra divinità,cosmo, umanità; l’impero romano però era conscio di essere l’attuazione di questa idea nella politica reale, il suo princeps concretava la monarchia divina sulla terra. Immediatamente balza agli occhi una distinzione fondamentale: l’unità del mondo nello ambito greco-romano è pensata a partire da una impostazione panenteistica, la divinità è essa stessa del mondo, ed il mondo ha rango divino. Pertanto l’unità degli uomini può essere trasposta direttamente in realtà politica, l’unità è latente entro il mondo stesso e perciò la si può attuare anche in esso medesimo per mezzo delle forze che gli sono proprie. L’imperatore romano sa di essere colui che dà esecuzione a questa potenza cosmica divina e quindi di essere colui che media tra il divino e il mondo degli uomini. Nella Bibbia, al contrario, Dio si erge libero di fronte al mondo; la storia della costruzione della torre di Babele, che segue immediatamente l’elenco dei popoli con la sua dimostrazione dell’unità fra tutti gli uomini, fa sapere al lettore che Dio per punizione disgregò l’umanità, resasi colpevole, nella molteplicità delle lingue separate e separanti (Gn 11,1-10). Così la suddivisione dell’umanità è bensì colpa propria degli uomini, ma al tempo stesso loro castigo e pertanto non affatto cosa unicamente loro propria, che, a loro talento, essi possano magari, un giorno, revocare di iniziativa e con forze proprie. Il contrapporsi di Dio al mondo, nella sua potenza libera e indipendente da esso, limita il potere e la possibilità dell’uomo, egli non può per nulla produrre di per sé la unità del mondo, poiché la separazione gli è imposta dal volere sovrano di Dio. Lo sguardo dell’Antico Testamento va, bensì, sempre a questo momento avvenire, in cui tutti i popoli peregrineranno al monte Sion, e Gerusalemme sarà capitale e centro d’una umanità unita, esso però non vede in tale evento un compito da svolgere direttamente in senso politico, ma una speranza escatologica, la cui realizzazione, in ultima analisi, è nelle mani di Dio.
Nel Nuovo Testamento questa contrapposizione tra l’idea biblica dell’unità e quella greco-romana si inasprisce ancor più, poiché, di fronte alla dottrina dell’Adamo uno, fino allora dominante, se ne presenta una incentrata sui due Adami; essa conseguenzialmente porta anche a una ulteriore strutturazione della dottrina, già impostata nell’Antico Testamento, delle due πόλεις in contrasto con l’idea greco-romana dell’una e unica χοσμόπολις che dapprima implicò l’autoidentificazione di ogni πόλις col χόσμος, più tardi ebbe come conseguenza la trasposizione della equiparazione πόλις = χόσμος alla πόλις Roma, unica rimasta. La dottrina dei due Adami significa che l’umanità finora esistita, la quale, presa nel suo insieme è ‘un Adamo’, non rappresenta nulla di definitivo, che essa nella sua totalità reca il marchio del suo inizio difettoso e perciò, in quanto totalità, è anche qualcosa che deve essere superato, che deve passare attraverso la Croce, cioè la morte e la rovina. Significa inoltre che con Cristo, crocifisso e risorto, ha avuto principio la seconda e definitiva umanità, cui si è incorporati non per discendenza di sangue, ma mediante la sottomissione al destino di morte del Crocifisso, quindi col superare la condizione umana finora vigente, di carattere naturale, e con la vita che fluisce dalla umanità nuova, ‘seconda’ del Dio fatto uomo, la quale smaschera come disumanità l’umanità del puro uomo in atto di deificarsi. In tal modo la comunità dei credenti in Cristo rivendica il titolo d’essere il secondo e definitivo genere umano, che già da ora va costruendosi di traverso di mezzo all’umanità antica, essa si pone in analogia non con le sette misteriche, nemmeno semplicemente con un popolo e una polis (sebbene in un primo momento lo faccia, intendendo se stessa come il vero Israele), ma con l’umanità. Pertanto, nella genealogia di Gesù, il Signore viene presentato non semplicemente come figlio di Abramo e padre di un nuovo Israele, ma anche come figlio di Adamo, rivendicazione questa di appartenenza al piano universalmente umano (Mt 1,1-17 e Lc 3,23-38). La Chiesa è la nuova cosmopoli, che perciò, di conseguenza, promette anche realmente un nuovo cosmo (per esempio Ap 21,1).Il suo mettersi di fronte alla cosmopoli politica Roma è quindi di natura senz’altro diversa dalla contrapposizione di due πόλεις antiche. In questo secondo caso, ciascuna pretendeva di impersonare tale cosmo, e perciò di dominarlo. La Chiesa non pensava a una pretensione del genere, essa confermava espressamente a Roma che per il cosmo presente questa rappresentava di fatto la cosmopoli; ciò per esempio risultava presupposto nello sfondo quando la cristianità primitiva designava Roma col nome cosmico di Babilonia, tratto da Gn 11, il testo fondamentale sull’essenza dell’umanità attuale, mentre il giudaismo contemporaneo chiamava Roma non Babilonia, ma Edom. Essa tuttavia dichiarava al tempo stesso che appena nella Chiesa si preannunciava il cosmo definitivo e vero, cui quello antico un giorno avrebbe dovuto cedere. La dottrina delle due πόλεις, che fin dall’Apocalisse apparteneva al patrimonio consolidato della predicazione cristiana, non è che l’applicazione della dottrina dei due Adami all’immagine di Gerusalemme il cui significato cosmico ed escatologico era stato già ripensato e trasformato in senso cristiano da Paolo (Gal 4,26 ss.).

Di fatto non v’è da meravigliarsi che la voce della rivoluzione cristiana sia potuta spesso risuonare tanto simile a quella della rivoluzione gnostica, da dar ansa allo scambio; certo, nel fondo, esse si distinguevano nella maniera più radicale. Infatti, per quanto la fede cristiana volesse designare il cosmo presente e l’umanità attuale come passeggeri, sconvolti e contaminati dal peccato, mai essa lasciò sorgere un dubbio che nondimeno questo cosmo fosse opera propria di Dio, e perciò buona, e che il Dio del cosmo e il Dio di Gesù Cristo fossero un solo e medesimo Dio. I cristiani sapevano bensì che Dio avrebbe sostituito alla fine questo mondo con uno migliore, il quale, attraverso di loro, già cominciava a entrare nella realtà, sapevano altresì tuttavia che il mondo presente non era totalmente malvagio, ma aveva solo bisogno della trasformazione e trasfigurazione, nella quale doveva risorgere alla gloria eterna. Perciò non riuscì loro nemmeno difficile capire che l’ordine presente del mondo, sebbene transitorio, possedeva tuttavia un relativo diritto, perciò, nel suo ambito, meritava anche rispetto e doveva essere respinto unicamente quando esorbitava da questo suo quadro e si assolutizzava. Ciò essi trovavano espresso nella nota parola del Signore: “Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio” (Mc 12,17); trovavano la stessa dottrina nelle lettere dell’apostolo Pietro (1Pt 2,13-17) e Paolo (Rom 13,1-7). Fondandosi sull’Antico Testamento, sapevano distinguere tra la funzione e il suo detentore: come il re di Babilonia era potuto essere ‘servo di Dio’ (Ger 25,9), senza conoscere né onorare da parte sua questo Dio, pure le forze statali dell’impero romano potevano adempiere un mandato, che viene da Dio, per questo nostro tempo, anche se tali poteri erano amministrati da titolari sommamente discutibili e indegni. Il cristiano doveva rispettare in essi la disposizione di Dio, finché e nella misura in cui, cioè, essi stessi si muovevano nella sfera di questo ordinamento rimesso e destinato loro. Quindi, mentre la rivoluzione gnostica era anarchica, ponendo per principio in discussione ogni specie di ordinamento che rientrasse in questo mondo, la rivoluzione cristiana rimaneva limitata, negando bensì la comprensione che lo stato fino allora aveva avuto di sé, e in tal modo, d’altra parte, le sue fondamenta teoretiche fino allora vigenti, ma attribuendogli tuttavia, nel proprio nuovo mondo intellettuale, un nuovo ambito di validità, certo sostanzialmente ridotto.

(Su Origene)
Il problema del come si rapportino mutuamente i valori di ciò che è universalmente umano e quelli del fattore nazionale costituisce uno dei punti principali della disputa tra Celso e Origene. Celso non rinfaccia semplicemente ai cristiani una congiura illegale, ma egli sostiene che essi sono compagni senza patria, che non hanno appartenenza ad alcun luogo, che tradiscono la legge del loro popolo e quindi si sono posti al di fuori di tutte le leggi. “Voglio chiedere loro donde siano venuti e qual legge patria seguano. Nessuna, diranno; dal momento che, derivando essi stessi dalla medesima origine, non hanno un maestro e capo da un’altra; sono tuttavia giudei apostati”. I cristiani però, abbandonando le leggi patrie, hanno lasciato il valore dell’elemento nazionale, si sono posti fuori dall’ordinamento divino del mondo, cui è essenziale l’inserimento dei singoli uomini nell’ambito di una nazione del tutto determinata e delle sue forme politiche e religiose. Dio, cioè, non amministra la terra direttamente lui stesso, ma l’ha distribuita fin dall’inizio sotto diversi sorveglianti, che hanno dato ai singoli popoli le loro leggi religiose e politiche. La religione è quindi una parte della realtà nazionale, l’inserimento dell’uomo nell’ordine della nazione è una disposizione del governo divino del mondo.

A priori, per Origene Israele esula dal problema del fattore nazionale, non è mai stato ‘nazione’ in senso vero e proprio, ma quell’unica parte dell’umanità che non entrò nella prigionia dell’elemento nazionale, bensì rimase ciò che tutti sarebbero potuti e dovuti essere: umanità che è in contatto diretto, senza mediazione, con Dio. Perciò Origene non poté, da un lato, accogliere la lode che Celso tributava agli Ebrei perché in antitesi con i cristiani seguivano una religione nazionale e permanevano nell’ordinamento del fattore etnico dato da Dio. Pertanto egli dovette però anche assumerne la difesa contro il rimprovero che la loro coscienza di elezione fosse arrogante e stolta, poiché altri popoli avevano leggi eguali o simili, e onoravano sotto diversi nomi lo stesso Dio supremo. No, Israele ha donato al mondo i santi simboli della città di Dio, del tempio e del suo culto venerabile e con ciò segni che rimandavano, al di sopra delle nazioni, alla Realtà originaria e più autentica, comune a tutti. Soprattutto: aveva dato all’uomo quel vero stato, di cui aveva sognato Platone, senza riuscire a pensarlo in tutta la sua purezza. Se Origene vede il privilegio di Israele nel fatto che non era entrato nello schema del fattore nazionale, ma era rimasto ‘umanità’ e in tal modo aveva eretto il vero stato, l’unica vera patria di tutti gli uomini, con ciò si delinea già chiaramente la sua interpretazione della Chiesa e del suo rapporto con gli ordinamenti nazionali. Anzitutto è importante però mettere in risalto ancora più preciso la sua concezione della nazione. Che gli angeli delle genti esprimano la categoria della realtà nazionale, per noi risulta chiaramente dal fatto che sono essi ad assegnare ai singoli popoli linguaggio e paese, gli autentici elementi costitutivi della nazione, e inoltre che anche le culture nazionali sono ricondotte ad essi. Da quanto si è detto finora, è già chiaro per di più che Origene vede in tali angeli un ordinamento emanato a modo di punizione, che seguì la defezione dei popoli dalla unità spirituale dell’umanità. Tuttavia egli va ancora oltre. Egli vede, negli angeli delle genti, usurpatori che hanno illegalmente avocato a sé il potere e si sono cercati ambiti di dominio in corrispondenza dell’empietà degli uomini, che ha aperto loro la porta d’accesso al potere. L’unico dominatore dell’umanità per diritto è Gesù Cristo. Gli arconti, come Origene chiama gli angeli delle genti, sono forze del disordine, non dell’ordine, il loro diritto è iniquità e le loro leggi sono illegali. Pertanto Satana nella tentazione di Gesù poté riferirsi ai regni di questo mondo come a regioni della sua sovranità, poiché i suoi arconti, in verità, sono servi del diavolo.

Origene senza dubbio nella radicalità del suo ethos rivoluzionario si è spinto sino a giungere a stretto contatto con i confini della concezione gnostica, con la sua negazione per principio degli ordinamenti naturali. Tuttavia egli - anche nella sua teologia dell’umanità e dei popoli – è rimasto cristiano ecclesiale; cioè la rivoluzione predicata da lui non è semplicemente rinnegamento del cosmo, della struttura d’ordine del mondo; ma, in ultima istanza, addirittura, essa soltanto è la sua vera conferma e assicurazione.

I cristiani, per lui, in verità erano addirittura maggiori benefattori della patria che gli altri cittadini, poiché servivano all’educazione del genere umano e insegnavano la pietà religiosa verso il Dio di tutti gli stati.
Chi si sottopone alla categoria del nazionale, si è, così facendo, portato “nella prigione”, si è rimesso al potere dominatore del male.

(Su Agostino)
Da una parte (secondo Agostino) Dio ha dato ai suoi — in Israele - un dominio terreno per annunciare che anch’esso ri­posa nella sua mano; d’altro lato agli adoratori dei demoni — nei grandi imperi orientali dappri­ma, poi a Roma — ha concesso potenza terrena, per mostrare che questo intero settore non è un valore ultimo, bensì qualcosa che è senz’altro penultimo, al di sopra del quale l’uomo deve sa­lire, trascendendolo, per giungere al suo vero fi­ne: «L’uno e vero Dio dà ai regni terreni beni e mali..., (la vera) felicità però solo ai buoni. Tan­to i sudditi quanto anche i padroni cioè possono averla e non averla, essa sarà piena poi in quella vita, in cui non vi saranno più schiavi. I regni terreni però vengono concessi da lui a buoni e cattivi, affinché i suoi adoratori, rimasti ancora piccoli nella crescita spirituale, non desiderino da Lui tali cose come alcunché di grande». Il dominio terreno nelle mani di buoni e cattivi è quindi il segno duplice e unitario insieme di Dio nella storia, che allude tanto al potere assoluto di Dio come alla relatività dei valori immanenti al mondo, e particolarmente della grandezza politica. La storia di Roma in quanto stato terreno in cui alla fine confluì la storia del mondo, consente che si giunga a una comprensione ancora più profonda di questo dato di fatto. Anzitutto v’è la storia della repubblica romana che riuscì a spostare innanzi i suoi confini fino alle estremità della terra. Anche questa fortuna di Roma lascia scorgere allo sguardo più profondo la medesima dialettica che sta dietro ogni grandezza terrena. Agli occhi di Agostino il motivo del successo di Roma è la prisca virtus romana. Ma di che cosa si tratta in verità, nel caso di questa virtù romana? Essa consiste, per usare l’espressione di Virgilio, nell’amor patriae laudumque immensa cupido. Essa è rinuncia agli altri vizi in favore dell’unico vizio della illimitata ambizione, brama di onore patriottico e della volontà di potenza. Quindi i Romani erano buoni secundum quandam formam terrenae civitatis, buoni se si assume quale bene sommo la grandezza terrena della nazione. La loro virtù è sacrificio di molti vizi per amore di uno, quello dell’assolutizzazione della nazione. Perciò non fu se non giusto che venisse loro concesso pure in realtà ciò che si sforzavano con tanto ardore di conseguire e per cui erano pronti a sacrificare tutto: la grandezza nazionale. Ma questa ricompensa che loro elargì il giusto Iddio costituì al tempo stesso la loro punizione: avevano fatto della grandezza terrena della nazione il valore supremo e con ciò stesso si erano preclusi l’accesso alla realtà più grande, ai valori dell’eternità. Essi appartenevano al novero di coloro sui quali è stata pronunciata la parola del Signore: “In verità vi dico, voi avete già ricevuto la vostra mercede” (Mt 6,2).

Alla repubblica seguì in Roma l’età imperiale, essa pure a sua volta con un duplice volto, poiché aveva prodotto tanto un Nerone quanto un Co­stantino. Pure Nerone, modello di ogni ignominia, aveva posseduto il potere su un impero mondia­le. Anche a tali persone il dominio viene conces­so soltanto in virtù della provvidenza dell’altissi­mo Iddio, quando Egli ritiene che per le cose umane convengano ancora soltanto tali padroni. Parola poderosa di un uomo che conosceva impie­tosamente l’abissalità dell’uomo e la esprimeva senza orpelli o scusanti... Frattanto, a lato di Nerone sta Costantino ed esclude anche qui ogni unilaterale ripudio della realtà politica, che la muti in elemento demoniaco. Certo, il potere politico viene concesso a servi dei demoni per denunciare la esiguità del suo valore; ma è Dio a darlo, e lo consegna e lo elargisce, in aggiunta, anche ai suoi, per dimostrarsi quale Signore che fa come vuole. La fortuna politica e militare di un Costantino e di un Teodosio mostra che non c’è bisogno di ricorrere ai demoni per conseguire tali doni; la politica non è necessariamente demonizzata, essa non vive di necessità della menzogna e dell’inosservanza del diritto, ma può prosperare anche nutrendosi dal terreno della verità e della giustizia.

Per Agostino gli stati e le patrie della terra passano ad un rango secondario perché egli ha trovato la città, lo stato di Dio e in esso la patria unica di tutti gli uomini. Qui non è consentito abbandonarsi ad alcuna illusione: tutti gli stati di questa terra sono “stati terreni”, anche quando sono retti da imperatori cristiani e abitati più o meno completamente da cittadini cristiani. Sono stati su questa terra e quindi “terreni” e nemmeno possono divenire di fatto qualcosa d’altro. In quanto tali, sono forme di ordinamento necessarie di quest’epoca del mondo ed è giusto preoccuparsi del loro bene; Agostino stesso ha amato lo stato romano come sua patria e si è preoccupato amorevolmente del suo perdurare. Ma giacché tutte queste formazioni non sono infine e non rimangono che stati terreni, rappresentano un valore relativo e non meritano una sollecitudine d’ordine supremo. Essa spetta soltanto alla patria eterna di tutti gli uomini, alla civitas caelestis. Di nuovo qui troviamo Agostino in unità con Origene e con l’intera tradizione cristiana, quando è convinto che con questo nome, civitas caelestis, può essere chiamata non solo la celeste Gerusalemme avvenire, ma già anche il popolo di Dio nel pellegrinaggio attraverso il deserto del tempo terreno: la Chiesa. In essa si raccoglie, attraverso tutti i tempi e i popoli, e al di là dei confini dell’impero romano, la comunità di coloro che insieme con gli angeli santi di Dio formeranno una polis dell’eternità. Su questa terra, certo, essa viene in condizione di straniera in esilio e non può vivere altrimenti che così, poiché ormai il suo vero luogo è altrove. Così gli stati di questo mondo rimangono “stati terreni” fino alla fine dei tempi e la Chiesa rimane comunità di stranieri, parimenti fino alla fine dei tempi. Ciò si mostra nel fatto che la Chiesa è per essenza Chiesa dei martiri.

Il vescovo d’Ippona, quindi, non solo si è rassegnato alla realtà, anzi necessità, ma anche alla permanente imperfezione dello stato o meglio degli stati in questo mondo. Pertanto la radicalità escatologica della rivoluzione cristiana in lui è chiaramente moderata rispetto a Origene. Questa distinzione nell’atteggiamento si può constatare anche nella concezione dell’unione dell’intera umanità. Origene come Agostino, con la tradizione tardo-ebraica e cristiana primitiva, hanno avvertito la suddivisione dell’umanità in nazioni soprattutto in rapporto al problema del linguaggio: gli uomini sono ineluttabilmente separati gli uni dagli altri dalla molteplicità dei differenti idiomi. Entrambi vedono in questa confusione delle lingue il segno del peccato originale, il cui superamento ha avuto l’esordio in Gesù Cristo. Origene a tal proposito guarda direttamente all’εσχατον, in cui gli uomini parleranno tutti un unico linguaggio, e così sarà istituita l’unità dell’umanità. L’unificazione delle lingue è un dono rigorosamente escatologico, la speranza si orienta direttamente verso l’εσχατον. Altrimenti Agostino. In parole di grandiosa efficacia incisiva, egli contrappone il prodigio delle lingue a Pentecoste alla confusione delle lingue a Babilonia. Ma, mentre per Origene il prodigio pentecostale era rimasto un segno escatologico unico e non ripetibile, Agostino vi scorge una rappresentazione di ciò che avviene d’allora in poi nella Chiesa: l’unica Chiesa abbraccia nella sua estensione tutti i paesi e le lingue; la comunione nell’amore per il Signore raccoglie coloro che sono linguisticamente separati: nel corpo di Cristo il miracolo pentecostale è presenza permanente, esso parla tutte le lingue. “Perché non vuoi parlare in tutte le lingue? Ecco là risonarono tutte le lingue. Perché ora colui, cui viene elargito lo Spirito Santo, non può parlare in tutte le lingue? Quello, voglio dire, era allora il segno del conferimento dello Spirito Santo agli uomini, il fatto che essi padroneggiavano tutte le lingue. Che cosa dirai quindi ora, eretico? Forse che lo Spirito Santo non viene dato? Perché lo Spirito Santo non appare in tutte le lingue? Eppure Egli appare pure oggi ancora in tutte le lingue. Allora la Chiesa non s’era ancora diffusa sull’orbe terrestre, cosicché membri di Cristo parlassero presso tutti i popoli. Allora si adempì in uno quanto per preannuncio valeva per tutti. Già il corpo di Cristo parla tutte le lingue, e quelle che non parla le parlerà. Dunque la Chiesa deve crescere, per apprendere tutte le lingue... Io parlo in tutte le lingue, oso dirti. Nel corpo di Cristo io sono, se il corpo di Cristo parla già in tutte le lingue, allora anch’io sono in tutte le lingue: a me appartiene il greco, a me il siriano, a me l’ebraico, a me ciò che è di tutti i popoli, perché io sono nell’unità di tutte le genti”. Ciò che quella torre aveva disperso, già raduna la Chiesa. Da una lingua ne vennero molte; non meravigliarti – l’υβρις l’ha fatto. Di tante lingue, se ne forma una, non meravigliarti, è l’amore che l’ha fatto”.

Sarebbe stimolante, ma porterebbe troppo lontano, contrapporre a queste due teologie del linguaggio, quella escatologica di Origene, accanto alla quale certo presso di lui se ne trova una intemporale-mistico-spiritualistica, e quella sacramentale di Agostino quella terza, che si andò formando nella linea inaugurata da Eusebio di Cesarea, linea secondo la quale l’unificazione escatologica dei linguaggi è stata creata nell’unità della lingua imperiale della nuova Roma, quindi sulla via verso la teocrazia politica. Ciò caratterizza la teologia di questa cerchia in genere, che equivoca l’universalismo cristiano con quello romano, abbassa quindi il primo al livello politico e così gli toglie la sua vera e propria grandezza. La breccia attraverso il nazionalismo è ormai solo apparente: è fissata di nuovo a un’entità politica. All’opposto presso Agostino l’elemento di novità cristiana è mantenuto: la sua dottrina delle due civitates non mira né ad ecclesializzare lo stato né a statalizzare la Chiesa, ma, in mezzo agli ordinamenti di questo mondo, che rimangono e devono restare ordinamenti mondani, aspira a rendere presente la nuovo forza della fede nell’unità degli uomini nel corpo di Cristo, come elemento di trasformazione, la cui forma completa sarà creata da Dio stesso, una volta che questa storia abbia raggiunto il suo fine.

La sua civitas Dei non è bensì una comunità puramente ideale di tutti gli uomini che credono in Dio, ma non ha neppure la menoma comunanza con una teocrazia terrena, con un mondo strutturato cristianamente, bensì è un’entità sacramentale-escatologica, che vive in questo mondo quale segno del mondo avvenire. Quanto sia precaria la causa di un mondo cristiano, glielo aveva mostrato l’anno 410, in cui veramente non erano stati solo i pagani a invocare gli antichi dèi di Roma. Così per lui lo stato, pure in tutta la reale o apparente cristianizzazione, rimase “stato terreno” e la Chiesa comunità di stranieri, che accetta e usa le realtà terrene, ma non è a casa propria in esse. Certo, la convivenza delle due comunità era divenuta più pacifica di quanto fosse ai tempi di Origene; Agostino non parlò più della cospirazione contro lo stato “scitico”; ma ritenne giusto che i cristiani, membri della patria eterna, prestassero servizio in Babilonia come funzionari, anzi come imperatori. Mentre dunque in Origene non si vede bene come questo mondo possa proseguire, ma si percepisce soltanto il mandato di tendere allo sbocco escatologico, Agostino mette in conto una permanenza della situazione attuale, che ritiene tanto giusta per quest’epoca del mondo, da desiderare un rinnovamento dell’impero romano. Ma rimane fedele al pensiero escatologico in quanto reputa tutto questo mondo un’entità provvisoria e non cerca perciò di conferirgli una costituzione cristiana, ma lascia ch’esso sia mondo, che deve tendere lottando a conseguire il proprio relativo ordinamento. In tal misura anche il suo cristianesimo, fattosi consapevolmente legale, rimane, in un senso ultimo, “rivoluzionario”, poiché non può considerarsi identico ad alcuno stato, ma è invece una forza che relativizza tutte le realtà immanenti al mondo, indicando e rinviando all’unico Dio assoluto e all’unico mediatore tra Dio e l’uomo: Gesù Cristo.

Pertanto è del tutto una deviazione dichiarare Agostino padre della concezione teocratica della Chiesa, propria del medioevo, basandosi sul compelle intrare della controversia antidonatistica, anche se il cosiddetto agostinismo medievale si appellò a lui per tale concezione. L’aiuto imperiale, accettato con esitanza da Agostino contro i partigiani donatisti, i circumcelliones, e infine contro il movimento donatista in genere, non ha qui eliminato il suo atteggiamento di principio di fronte alla civitas terrena, né, quando si consideri il complesso della situazione, l’ha realmente contraddetto. Non si può lealmente chiamare responsabile Agostino stesso dell’interpretazione errata, che più tardi si è collegata a questi avvenimenti.
(da J.Ratzinger, L’unità delle nazioni. Una visione dei padri della Chiesa, Morcelliana, Brescia, 1973)

La laicità nasce e si sviluppa all’interno della tradizione cristiana

Un elemento della tradizione cristiana vorrei ancora ricordare, di fondamentale importanza nelle avversità del nostro tempo. La fede cristiana ha soppresso, seguendo il cammino di Cristo, l’idea della teocrazia politica.
Per dirla in termini moderni, essa ha fondato la secolarità dello Stato nel quale i cristiani coabitano, nella libertà, con gli esponenti di altre convinzioni. Una coabitazione fondata peraltro sulla comune responsabilità morale, insita nella natura dell’uomo e nella natura della giustizia.
La fede cristiana fa distinzione tra questa forma secolare e il Regno di Dio, che come realtà politica non esiste e non può esistere in quanto tale su questa terra, ma vive nella fede, nella speranza e nella carità e deve trasformare il mondo dall’interno. Le tentazioni di Gesù hanno come tema di fondo proprio questa distinzione, il rifiuto della teocrazia politica, la relatività dello Stato e il diritto della ragione, e anche la libertà di scelta, garantita a tutti gli uomini.
In questo senso, lo Stato laico è un esito della decisione cristiana fondamentale, anche se è stata necessaria una lunga lotta per comprenderne tutte le conseguenze. Questo carattere secolare, “laico” dello Stato include nella sua essenza quell’equilibrio tra ragione e religione...
Ed è per questa sua natura che si oppone anche a quel laicismo ideologico che vorrebbe stabilire qualcosa come uno “Stato della pura ragione”, uno Stato separato dalle sue radici storiche e perciò incapace di riconoscere i fondamenti morali che alla ragione si impongono. Altro non resta allo Stato, su queste basi, che il positivismo del principio di maggioranza e la decadenza del diritto, con la conseguenza che quest’ultimo risulta essere retto in fin dei conti da criteri statistici.
Se gli Stati d’Occidente si caratterizzassero integralmente in questo senso, alla lunga non potrebbero resistere alla pressione delle ideologie e delle teocrazie politiche. Uno Stato, anche se laico, ha il diritto e persino l’obbligo di trovare sostegno nelle radici morali che lo hanno segnato nel suo sorgere; esso può e deve riconoscere quei valori fondamentali in assenza dei quali non sarebbe diventato quello che è e non potrebbe sopravvivere. Uno Stato della ragione astratta, antistorica, non potrebbe sussistere.
Sul piano pratico tutto ciò significa che noi cristiani dobbiamo sforzarci, insieme ai nostri concittadini tutti, di dare al diritto e alla giustizia un fondamento morale che si ispiri alle idee cristiane fondamentali, qualunque sia il modo in cui ciascuno ne interpreta le origini e le armonizza con l’insieme della sua vita. Ma per far sì che simili convinzioni razionali comuni siano possibili, è necessario che noi stessi viviamo con energia e purezza la nostra eredità, in modo che diventi visibile ed efficace e eserciti la sua forza interiore di persuasione nell’insieme della società.
Vorrei concludere con le parole del filosofo di Kiel, Kurt Hübner, che illustrano limpidamente questo intento: “Potremo evitare il conflitto con le culture che oggi ci sono ostili solo se riusciremo a smentire il veemente rimprovero di aver dimenticato Dio, tornando ad essere pienamente coscienti del radicamento profondo della nostra cultura nel cristianesimo. Certamente questo non basterà a cancellare il risentimento prodotto dalla superiorità occidentale che in molti campi connota la vita del nostro tempo, ma potrà contribuire in misura significativa a spegnere il fuoco religioso che, a ben vedere, si alimenta naturalmente”. E’ un fatto: se non siamo fedeli alla memoria del Dio della Bibbia, del Dio che si è fatto prossimo in Gesù Cristo, non troveremo la strada della pace.
(dal discorso per il 60° anniversario dello sbarco alleato in Normandia, tenuto il 4 giugno 2004)


La moderna idea di libertà è perciò un legittimo prodotto dello spazio vitale cristiano; essa non poteva svilupparsi in nessun altro ambito se non in esso. Bisogna anzi aggiungere: essa non è affatto impiantabile in qualsiasi altro sistema, come si può oggi constatare con chiara evidenza nella rinascita dell’islam. Il tentativo di innestare i cosiddetti criteri occidentali, staccati dal loro fondamento cristiano, nelle società islamiche, misconosce la logica interna dell’islam come la logica storica cui appartengono i criteri occidentali.
Un tale tentativo era perciò destinato al fallimento in questa forma. La costruzione sociale dell’islam è teocratica, quindi monistica, non dualistica. Il dualismo che è la condizione previa della libertà presuppone a sua volta la logica cristiana. Dal punto di vista pratico, ciò sta a significare: solo lì dove è preservato il dualismo di Chiesa e Stato, di istanza sacrale e politica, vi è la condizione fondamentale per la libertà. Dove la Chiesa diviene essa stessa Stato, la libertà va perduta. Ma anche lì dove la Chiesa viene soppressa come istanza pubblica e pubblicamente rilevante, viene a cadere la libertà, perché lì lo Stato reclama di nuovo per sé la fondazione dell’etica. Nel mondo profano, post-cristiano lo Stato avanza questa istanza non nella forma di autorità sacrale, ma come autorità ideologica, cioé lo stato si fa partito e dato che non gli si può contrapporre nessuna altra istanza con un suo proprio ruolo, esso stesso diventa nuovamente totalitario. Lo stato ideologico è totalitario; esso deve diventare ideologico quando non si dà nei suoi confronti una autorità libera e pubblicamente riconosciuta.
(da Teologia e politica della Chiesa in Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1987, pag.156)

La laicità nelle sue diverse espressioni storiche: la tradizione americana e quella francese

La sua (N.d.R. di Marcello Pera) idea di una religione civile cristiana mi fa venire in mente l'opera di Alexis de Tocqueville, La democrazia in America. Durante i suoi studi negli Stati Uniti, lo studioso francese aveva constatato – per dirla in breve – che il sistema di regole di per sé instabile e frammentario di cui, vista da fuori, questa democrazia era costituita funzionava soltanto perché nella società americana era vivo tutto un insieme di convinzioni religiose e morali di ispirazione cristiano-protestante, che nessuno aveva prescritto o definito, ma che veniva semplicemente presupposto da tutti come ovvia base spirituale. Il riconoscimento di tali orientamenti di fondo, religiosi e morali, che oltrepassavano le singole confessioni ma determinavano la società dall'interno, dette forza all’insieme degli orientamenti; definiti i limiti della libertà individuale dall'interno, offrendo proprio per questo le condizioni di una libertà condivisa e partecipata.

Vorrei, a tale riguardo, citare un'espressione significativa di Tocqueville: “Il dispotismo può fare a meno della fede, la libertà no”. Lei stesso, nella Sua lettera a me indirizzata, ha citato un'espressione di John Adams che va nella stessa direzione: la costituzione americana “è fatta soltanto per un popolo morale e religioso”. Benché anche in America la secolarizzazione proceda a ritmo accelerato e la confluenza di molte differenti culture sconvolga il consenso cristiano di fondo, lì si percepisce, assai più chiaramente che in Europa, l'implicito riconoscimento delle basi religiose e morali scaturite dal cristianesimo e che oltrepassano le singole confessioni. L’Europa – contrariamente all'America – è in rotta di collisione con la propria storia e si fa spesso portavoce di una negazione così viscerale di qualsiasi possibile dimensione pubblica dei valori cristiani.

La società americana fu costruita in gran parte da gruppi che erano fuggiti dal sistema di chiese di Stato vigente in Europa, e avevano trovato la propria collocazione religiosa nelle libere comunità di fede al di fuori della Chiesa di Stato. Il fondamento della società americana è costituito pertanto dalle chiese libere, per le quali – a causa del loro approccio religioso – è strutturale non essere Chiesa dello Stato, ma fondarsi su un'unione libera degli individui.

In questo senso si può dire che alla base della società americana c'era una separazione fra Stato e Chiesa determinata, anzi reclamata dalla religione; separazione, di conseguenza, ben altrimenti motivata e strutturata rispetto a quella imposta, nel segno del conflitto, dalla Rivoluzione francese e dai sistemi che a essa hanno fatto seguito. Lo Stato in America non è altro che lo spazio libero per diverse comunità religiose; è nella sua natura riconoscere queste comunità nella loro particolarità e nel loro essere non statali, e lasciarle vivere. Una separazione che intende lasciare alla religione la sua propria natura, che rispetta e protegge il suo spazio vitale distinto dallo Stato e dai suoi ordinamenti, è una separazione concepita positivamente.

Questo ha poi comportato un rapporto particolare tra sfera statale e sfera “privata”, del tutto diverso da quello che conosciamo in Europa: la sfera “privata” ha un carattere assolutamente pubblico, ciò che non è statale non è affatto escluso per questo dalla dimensione pubblica della vita sociale. La maggior parte delle istituzioni culturali non è statale – prendiamo le università oppure gli enti per la tutela delle discipline artistiche eccetera; l'intero sistema giuridico e fiscale favorisce questo tipo di cultura non statale e la rende possibile, mentre da noi, per esempio le università private costituiscono un fenomeno recente e di fatto marginale.

Il principio cattolico contrasta con il sistema della Chiesa di Stato: esso sottolinea il carattere universale della Chiesa, che non coincide con nessuna nazione e con nessuna comunità statale, vive in tutte le nazioni malgrado la fedeltà al proprio paese, crea comunque una comunità che va oltre i confini nazionali. Bisogna inoltre aggiungere che la Riforma gregoriana era riuscita, dopo tanti sforzi, a ottenere la distinzione tra sacerdotium e imperium, creando così anche le basi per una separazione delle due sfere. In realtà, anche in ambito cattolico, in Europa – almeno a partire dall'inizio dell'età moderna – il sistema delle chiese di Stato è riuscito ad affermarsi in modo da far diventare la fede praticamente una cosa dello Stato.

Tuttavia, nel protestantesimo e nel cattolicesimo, propria a causa della peculiarità di ciascuno di essi, la ricezione dell'Illuminismo è avvenuta in due modi del tutto differenti. Di fronte alla proclamata autonomia della ragione e alla sua emancipazione dalla fede tradizionale, la Chiesa cattolica rimase fortemente attaccata al suo patrimonio di fede, così che Illuminismo e cattolicesimo si trovarono contrapposti l'uno all'altro in un conflitto insanabile. Nonostante tanti disordini, i paesi cattolici non avevano conosciuto alcuno scisma nel XVI secolo; esso doveva verificarsi più tardi, nel XVIII secolo. Da lì scaturì la nuova “confessione” dei “laici”.

Da allora la separazione tra cattolici e laici è tipica dei paesi latini, mentre l'area linguistica germanica protestante non solo non conosce l'uso della parola “laico”, ma trova il termine stesso del tutto incomprensibile. Essere “laico” indica l'appartenenza – nel senso più vasto della parola – alla corrente spirituale dell'Illuminismo, e da quel momento non sembra esserci più nessun ponte che conduca alla fede cattolica; i due mondi sembrano essere diventati impenetrabili l'uno all'altro.

Siccome “laicità” significa anche libero pensiero e libertà da ogni costrizione religiosa, ciò comporta anche l'esclusione dei contenuti e dei valori cristiani della vita pubblica; ne deriva naturalmente anche la fondamentale “soggettivizzazione” dell'intero ambito della fede e della morale nella coscienza moderna. Grazie a Dio nel frattempo i fronti si sono un po' ammorbiditi; il panorama della laicità ora è vario, e, d'altro canto, il Concilio Vaticano II ha fatto suoi tutti gli sforzi compiuti da teologia e filosofia in duecento anni affinché si aprissero le porte che dividevano Illuminismo e fede e potesse iniziare un secondo scambio. Così, da una parte, vista la frattura fra cattolici e laici, una forma di religione civile sembra da escludere; dall'altra emergono delle aperture che bisogna saper cogliere.

E così sorge la domanda: come può l'Europa arrivare a una religione civile cristiana che vada oltre i confini delle confessioni e rappresenti valori che non solo siano di consolazione per l’individuo ma che possano sostenere la società? E’ chiaro che essa non può essere costruita da esperti, in quanto nessuna commissione e nessuna riunione, quali che esse siano, possono produrre un éthos mondiale. Qualcosa di vivo non può nascere altrimenti che da una cosa viva. E’ qui che vedo l'importanza delle minoranze creative. Certo, dal punto di vista numerico, in gran parte dell'Europa i cristiani costituiscono ancora la maggioranza, anche se il numero dei battezzati è ormai in declino in alcuni paesi, specialmente nell'Est e nel Nord della Germania, tanto che nella Germania ex comunista i battezzati non sono più la maggioranza. Ma anche le maggioranze ancora esistenti sono diventate stanche e mancano di fascino.

Dunque la mia prima tesi è che una religio civilis che realmente abbia la forza morale di sostenere tutti presuppone delle minoranze convinte che hanno trovato la “perla” e che vivono questo in modo convincente anche per gli altri. Senza tali forze sorgive non si costruisce niente.

La seconda tesi poi è che ci devono essere forme di appartenenza o di riferimento, o semplicemente di contatto con tali comunità, o, piuttosto, che esse si creano da sé quando la loro capacità di convincere è sufficientemente grande. Il Signore ha paragonato il Regno di Dio a un albero sui cui rami fanno il nido vari uccelli (Mt 13,32). Forse la Chiesa ha dimenticato che l'albero del Regno di Dio giunge oltre i rami della Chiesa visibile, ma che proprio per questo essa stessa deve essere, per così dire, un luogo ospitale nei cui rami molteplici ospiti trovano posto.

Come terza tesi, direi che queste minoranze creative evidentemente non possono stare in piedi da sé, né vivere di sé. Vivono naturalmente del fatto che la Chiesa nel suo insieme resta, vive della fede nella sua origine divina e di conseguenza difende ciò che non ha inventato lei stessa ma che riconosce come un dono della cui trasmissione è responsabile. Le “minoranze” rendono di nuovo vitale questa grande comunità, ma attingono, nello stesso tempo, alla forza di vita che è nascosta in essa ed in grado di creare sempre nuova vita.

Come quarta tesi, infine, direi che laici e cattolici, coloro che cercano e quelli che credono, nel folto intreccio dei rami dell'albero con tanti uccelli, devono andare incontro gli uni agli altri con una nuova capacità di apertura. Anche i credenti non smettono mai di cercare, e chi cerca, d'altra parte, è toccato dalla verità e come tale non può essere classificato come un uomo senza fede o senza principi morali ispirati alla fede cristiana. Ci sono modi di appartenenza alla verità nei quali gli uni danno agli altri, ed entrambi possono sempre imparare qualcosa dall'altro.

È per questo che la distinzione tra cattolici e laici dev’essere relativizzata. I laici non sono un blocco rigido, non costituiscono una confessione fissa, o peggio un’ “anti-confessione”. Sono uomini che non si sentono in grado di fare il passo della fede cristiana con tutto ciò che un tale passo comporta; ma molto spesso sono uomini che cercano appassionatamente la verità, che soffrono per la mancanza di verità dell'uomo, riprendendo proprio così i contenuti essenziali della cultura e della fede e spesso rendendoli, con il loro impegno, ancora più luminosi di quanto possa fare una fede scontata, accettata più per abitudine che per conoscenza sofferta.

Gradi diversi di appartenenza hanno anche un senso positivo. Tra l'interno e l'esterno – come già detto – c’è un reciproco dare e ricevere. Negli anni Cinquanta Hans Urs von Balthasar parlò dell' “abbattimento delle barriere”, intendendo proprio questa nuova reciproca apertura. In un tale andare oltre i confini, oltre le classificazioni irrigidite, si potrebbe – se Dio vuole – formare una religione civile cristiana che non sia una costruzione artificiale di ciò che è presumibilmente ragionevole per tutti, ma una viva partecipazione alla grande tradizione spirituale del cristianesimo, nella quale questi valori vengono resi presenti e condotti a nuova forza vitale.
(dalla Lettera a Marcello Pera del card. J.Ratzinger in J.Ratzinger-M.Pera, Senza Radici, Mondadori, Milano, 2004)

La democrazia come “societas imperfecta”: oltre la semplice affermazione delle maggioranze, la questione della ragione morale e della dignità nativa dell’uomo

Per vedere tutta l'ampiezza del problema bisogna, accanto al dubbio di fede nella concezione democratica, collocare nel contesto... l'ipocrisia che si è impadronita nel frattempo dell'opinione pubblica mondiale. La critica al comportamento non democratico nei paesi del terzo mondo ammutolisce quando vi si stabilisce un regime comunista. "Per la vittoria del popolo vietnamita", era scritto a grosse lettere rosse sulle pareti della mensa della nostra università di Ratisbona quando la guerra nel Vietnam volgeva alla fine. Oggi si cercherebbe inutilmente una scritta di questo genere. Il Vietnam, come gli altri paesi diventati marxisti, non è più tema di pubblica discussione. I paesi a regime marxista del terzo mondo non si devono criticare.

La democrazia pluralista non è mai pienamente consolidata. Essa non si appoggia su se stessa, in modo tale da essere lei a unire i suoi cittadini in un consenso fondamentale. Anche quando funziona relativamente bene - come è stato il caso, nonostante tutto, da noi negli ultimi trent'anni - non genera automaticamente la convinzione che sia sotto tutti gli aspetti la migliore forma di Stato. Non soltanto le crisi economiche la possono fare crollare, ma anche le tempeste spirituali possono toglierle il terreno su cui si appoggia. Ernst Wolfgang Bockenforde, tenendo conto di questo stato di cose, ha potuto avanzare la tesi che l'attuale Stato liberale e secolarizzato non è più societas perfecta: "esso, per il suo proprio fondamento e conservazione si appoggia su altre potenze e forze"; in altri termini: vive di presupposti, "che esso stesso non può garantire". Cioè, vi è "qualcosa di irrinunciabile" per la democrazia pluralista che non risiede nel campo politico.

Che cosa minaccia oggi la democrazia?... Vi è, anzitutto, l'incapacità di accettare francamente l'imperfezione delle cose umane. La pretesa dell'assoluto nella storia è il nemico del bene che vi è in essa. Manès Sperber parla di un fanatismo che nasce dalla nausea davanti a ciò che esiste. La nausea davanti a ciò che esiste è oggi in crescita, e con essa cresce il gusto dell'anarchia, a partire dalla convinzione che da qualche parte il mondo buono ci deve proprio essere. Oggi certamente nessuno vuole più rendere omaggio alla fede nel progresso dell'illuminismo, ma un certo messianismo profano è profondamente penetrato nella coscienza collettiva. La frase di Ernesto Cardenal "Io credo nella storia" esprime il credo nascosto di molti: in qualche modo l'idea di Hegel che la storia stessa, alla fine, ci porterà la grande sintesi si è installata nella coscienza collettiva. L'idea che tutta la storia precedente sia storia della schiavitù e che però ora finalmente può e deve essere presto edificata la società giusta, è oggi - in svariati slogan - diffusa sia fra atei che fra cristiani, e si è introdotta perfino nelle pastorali dei vescovi e nei testi liturgici. In un modo curioso ritorna la mistica del Regno del periodo fra le guerre [mondiali], che ha poi avuto un esito così macabro. Di nuovo si preferisce parlare, anziché di "Regno di Dio", di "Regno" semplicemente. Realtà, questa, per la quale noi lavoriamo, che costruiamo, che si avvicina in modo tangibile grazie ai nostri sforzi. Il "Regno", la "nuova società" si è trasformata in un moralismo che dispensa da ulteriori argomentazioni politiche ed economiche. Il fatto che noi lavoriamo per un nuovo e definitivo mondo migliore è da lungo tempo diventato qualcosa di ovvio. Il lato filosoficamente e politicamente sospetto di questa escatologia dell'imminente si può capire, a mio avviso, soffermandosi su (alcuni) aspetti fondamentali di tale concezione.

1. Nella società liberata il bene non riposa più sullo sforzo etico degli uomini che compongono questa società, ma è previamente dato, in modo semplice e irrevocabile, mediante le strutture. Il mito della società liberata riposa su questa rappresentazione perché l'ethos è sempre minacciato, non è mai perfetto e deve sempre essere raggiunto.
Per questo uno Stato che si appoggia sull'ethos - cioè sulla libertà - non è mai compiuto, mai totalmente giusto, mai assolutamente protetto. E' imperfetto come l'uomo stesso.

Anzi, l'ethos viene in fondo trasferito dall'uomo alle strutture. Le strutture attuali sono peccaminose, quelle future saranno giuste: bisogna inventarle e costruirle come si costruisce una macchina - poi, però, vi sono. Per questo anche il peccato diventa peccato sociale, strutturale e deve essere di nuovo ridefinito come tale. Per questo la salvezza riposa sull'analisi delle strutture e dell'attività politico-economica che ne consegue. Non è l'ethos a sorreggere le strutture, piuttosto le strutture sorreggono l'ethos, e questo perché l'ethos rappresenta l'elemento fragile, mentre le strutture sono l'elemento solido e sicuro. In questo rovesciamento che soggiace al mito del mondo migliore io vedo l'autentica essenza del materialismo, che non consiste semplicemente nella negazione di un ambito della realtà, ma più profondamente è un programma antropologico che naturalmente si collega con una determinata idea di come i singoli ambiti nella realtà si relazionano tra di loro. La tesi che lo spirito è solo un prodotto di processi materiali e non il principio della materia, corrisponde all'idea che l'ethos è una produzione dell'economia, e non è l'economia a essere in definitiva determinata dalle scelte umane fondamentali. Però, se si guarda ai presupposti e alle conseguenze di questo così sorprendente esonero dell'uomo dalla sua responsabilità, si riconosce che questo esonero - "liberazione" - riposa sulla dimissione dell'ethos, cioè sulla dimissione della responsabilità e della libertà, sulla dimissione della coscienza. Perciò, questo tipo di "Regno" è una mistificazione con la quale l'Anticristo ci prende in giro: la società "liberata" presuppone la perfetta tirannide. Penso che oggi dobbiamo di nuovo chiarire con ogni decisione che né la ragione né la fede ci promettono che vi sarà, prima o poi, il mondo perfetto. Esso non esiste.

Viceversa è immorale quell'apparente moralismo che si ritiene soddisfatto solo con ciò che è perfetto. Qui è necessario un esame di coscienza anche riguardo alla predicazione ecclesiastica o para-ecclesiastica, le cui eccessive esigenze e speranze favoriscono la fuga dal morale all'utopico.

2. Il tentativo di rendere superflua la morale nella sua insufficienza e precarietà mediante la quasi meccanica garanzia da parte della società bene strutturata ha però anche altre radici. Esse risiedono nella unilateralità del moderno concetto di ragione, come è stato dapprima formulato con Francesco Bacone e poi si è affermato sempre di più nel secolo XIX: solo la ragione quantitativa, la ragione del calcolo e dell'esperimento, appare soprattutto come ragione; tutto il resto appare come arazionale, che deve essere lentamente superato e nello stesso tempo trasferito nell'ambito della conoscenza "esatta".

Una volta che il funzionamento di una macchina è stato eretto a modello della ragione, allora alla morale classica non resta altro spazio che quello dell'irrazionale. Nel frattempo si fanno strada i tentativi di presentare anche la morale come scienza esatta. Essa viene allora ricondotta nell'una o nell'altra forma al tipo della matematica, al calcolo dei rapporti tra effetti piacevoli e spiacevoli di una azione umana. In questo modo, però, viene liquidata la morale in quanto tale; perché il bene in sé e il male in sé non esistono più, ma resta soltanto una contabilità di vantaggi e di svantaggi, dove le cose non cambiano, anche se ci viene assicurato che, in generale, verranno mantenuti gli stessi criteri finora considerati come norme di azione.
In questo modo anche il diritto perde il terreno sotto i piedi. Non posso evitare di portare qui un esempio - preso dalla giurisprudenza di Monaco di Baviera - che fa apparire in modo sorprendentemente chiaro la perdita di sostanza della giuridicità nel nostro diritto. Per almeno due volte, negli ultimi tempi sono state respinte querele per offesa alla religione, ultimamente con la motivazione che la pubblica quiete non era stata minacciata dalle azioni incriminate. Prescindo qui dalla questione relativa al merito di quelle querele, l'aspetto che interessa è solo la motivazione del loro rifiuto, perché in questa motivazione è contenuta, in realtà, una esaltazione del diritto del più forte. Se gli offesi avessero minacciato di provocare disordini per la loro causa, il caso avrebbe potuto essere preso sul serio. E' la conseguenza di una tale premessa. Questo però significa che non si proteggono più beni giuridici, ma ci si preoccupa soltanto di evitare lo scontro di interessi contrastanti. Questo è logico, naturalmente, se la morale in se stessa non viene più riconosciuta come bene giuridico degno di protezione perché è qualcosa che deriva dall'apprezzamento soggettivo, che rientra nell'ambito della giustizia solo se la pace pubblica corre pericoli.

Riassumendo, risulta chiaramente confermata la tesi di Bockenforde che lo Stato moderno è una societas imperfecta. Imperfetta non solo nel senso che le Sue istituzioni restano sempre imperfette come i suoi cittadini, ma anche nel senso che ha bisogno di forze dall'esterno per potere sussistere. Dove sono queste forze che gli sono indispensabili?

Un primo sguardo al cristianesimo come possibile fonte di una tale energia non è del tutto incoraggiante. Per questo, un'autocritica dei cristianesimo è indispensabile proprio a chi vuole riconoscere in esso l'elemento risolutivo. E' stata prospettata la tesi secondo cui il marxismo non può mettere piede in nessun posto, dove prima il cristianesimo non abbia fatto scomparire le religioni tradizionali. Sembra che l'elemento cristiano debba precedere, affinché la logica marxista possa trovare il suo punto d'aggancio. Non so fino a quanto questa tesi si lasci empiricamente verificare. In ogni caso, però, non è campata per aria.

Già a partire dall'Alto Medioevo, con la recezione di Aristotele e della sua idea di diritto naturale, la teologia cattolica aveva elaborato un concetto positivo dello Stato profano, non messianico. Però, con frequenza, l'idea del diritto naturale apparve in questa teologia così caricata di contenuti cristiani che andò perduta la necessaria capacità del compromesso e lo Stato non poté essere inteso nei limiti della profanità che gli sono essenziali. Questa teologia pretese troppo, si ostruì in questo modo la strada verso il possibile e il necessario.

La fede cristiana aveva fatto saltare, dal punto di vista del contenuto, l'antica idea di tolleranza. Il cristianesimo, infatti, non si lasciò inserire nel Pantheon, che era lo spazio della convivenza pacifica delle religioni e rappresentava lo scambio e il mutuo riconoscimento degli dei. Considerando le cose giuridicamente il cristianesimo non poteva simpatizzare per la tolleranza religiosa, perché rifiutava di lasciarsi confinare nell'ambito del diritto privato, nel quale trovavano posto le differenti forme religiose. Un tale inserimento nel diritto privato non era possibile per la fede dei cristiani, perché il diritto pubblico era diritto degli dei. Per questo il monoteismo cristiano non poteva ritirarsi nel privato: sarebbe stato rinunciare alla sua pretesa di verità in quanto monoteismo. Il cristianesimo doveva aspirare al riconoscimento giuridico pubblico, per lo meno in forma negativa, cioè ottenendo il diritto a negare il carattere religioso del diritto pubblico vigente. In questo senso, fin dal principio, per quanto piccolo fosse il numero dei suoi aderenti, ha avanzato la pretesa a un riconoscimento pubblico e si è posto su un piano giuridico paragonabile a quello dello Stato. Per questo la figura del martire appartiene alla struttura interna del cristianesimo. Qui sta la sua grandezza come controparte di ogni totalitarismo statale, Qui, però, può stare anche il pericolo di una esagerazione teocratica, che si trova in relazione con il fatto che la pretesa di verità del cristianesimo può trasformarsi in intolleranza politica, come è successo più di una volta.
Vale quindi anche per il cristianesimo, considerato come una delle realtà vissute dall'uomo, la legge della imperfezione e della minaccia. La sua influenza politica positiva non è garantita in modo automatico. Questa promessa non gli è stata proprio fatta e gli uomini di Chiesa, nelle loro attività politiche, non dovrebbero mai dimenticarlo. Ciò non cambia nulla al fatto che lo Stato è societas imperfecta e per questo cerca qualche cosa di "altro" che lo possa completare e offrirgli le energie morali che non può creare da solo. Dove le può trovare? Se facciamo un inventario delle possibilità esistenti nel mondo e diamo un'occhiata a eventuali altre soluzioni, ci si offrono - al di fuori del cristianesimo - solo due alternative: il tentativo di un ritorno al pre-cristiano, per esempio a un aristotelismo purificato, oppure il collegamento con culture non europee da una parte e con l'islam dall'altra. Ma la ricostruzione del precristiano rimane pur sempre una astrazione non sostenibile. Le visioni del mondo da laboratorio che ci vengono tanto spesso proposte sono prodotti artificiali che, nel migliore dei casi, non valgono come modello universale. Un esempio di questa impostazione è il progetto di Karl Jaspers. Jaspers pensava di avere trovato nella sua filosofia esistenziale un modello universale che potesse subentrare al cristianesimo, tacciato di particolarismo (10). Oggi non sono più molti a conoscere la sua filosofia. Tali iniziative non superano mai lo stadio dell'esperimento intellettuale interessante. Manca loro il soffio di vita di una realtà storica matura. L'islam, in quanto realtà che si muove alla ribalta della storia come alternativa alle forme di Stato nate dal cristianesimo, dovrebbe senz'altro ricevere maggiore attenzione di quanto non sia stato fatto finora. Ma è a tutti noto che l'islam si presenta proprio come contromodello rispetto alla democrazia pluralista e non può quindi diventare la forza che possa dare fondamento a essa. Rimane, quindi, che questa democrazia è un prodotto della commistione fra eredità greca e cristiana e che anche perciò può sopravvivere solo mantenendo il collegamento con queste radici fondamentali.

A questo bisogna aggiungere, a titolo di maggiore precisione, che la democrazia, nella sua accezione contemporanea, non deve essere ricondotta meccanicamente a tali radici. Di fatto si è formata nel particolare contesto del modello congregazionalistico americano, cioè al di fuori della tradizione classica europea e dei rapporti Stato-Chiesa che si sono in essa storicamente sviluppati. Per questo l'opinione che l'illuminismo abbia condotto alla democrazia può essere accettata solo con molte condizioni, come ha mostrato Hannah Arendt, nel suo libro On Revolution, Londra 1962. Ancora meno ha potuto aprirgli la strada la Riforma europea con la sua concezione della Chiesa legata allo Stato. Tutto questo non deve invece impedire di scorgere l'esistenza di fondamentali elementi democratici nella società cristiana pre-rivoluzionaria.

Il Nuovo Testamento conosce un ethos politico, ma nessuna teologia politica. Proprio attraverso questa distinzione corre la linea di demarcazione che Gesù stesso e poi, molto esplicitamente, le lettere apostoliche hanno tracciato fra cristianesimo e fanatismo [Schwarmerei]. Per quanto frammentari e occasionali possano singolarmente essere i diversi pronunciamenti del Nuovo Testamento in campo politico, sono assolutamente concordi e chiari in questa impostazione di fondo. Pensiamo al racconto delle tentazioni di Gesù con le loro implicazioni politiche, al racconto della moneta del tributo che appartiene all'imperatore, o alle esortazioni politiche nelle lettere di Paolo e di Pietro, o anche all'Apocalisse, per tanti aspetti così diversa: si rifiuta sempre l'esaltazione entusiastica che vuole fare del Regno di Dio un programma politico (12). Rimane sempre valido che la politica non è l'ambito della teologia, ma dell'ethos che certamente deve, in ultima analisi, fondarsi teologicamente. Proprio in questo modo il Nuovo Testamento rimane fedele al suo rifiuto della giustificazione mediante le opere, perché teologia politica, in senso stretto, significa che la perfetta giustizia del mondo deve essere prodotta mediante la nostra opera, che la giustizia nasce come opera e solo come opera. La giustizia è possibile e viene fatta. Quando invece lo Stato viene fondato sull'ethos, l'uomo viene certamente coinvolto, ma resta di Dio quello che è di Dio. La derivazione della giustizia dello Stato dall'ethos, e non dalle strutture, significa il riconoscimento della imperfezione dell'uomo. Questa visione è umanamente realistica, cioè ragionevole e teologicamente vera. Il rifiuto delle opere non si dirige contro la morale; al contrario, solo la perseveranza nella moralità ci fa rimanere fedeli a questo dato del Nuovo Testamento.

Il vero pericolo del nostro tempo, il nòcciolo della nostra crisi culturale è la destabilizzazione dell'ethos, che deriva dal fatto che non siamo più in grado di afferrare la ragione della moralità e abbiamo ridotto la ragione nell'ambito del calcolabile.

Questo significa, inoltre, che l'atto fondamentale per lo sviluppo e la sopravvivenza di società giuste è l'educazione morale, nella quale l'uomo impara a usare la sua libertà. I greci avevano assolutamente ragione quando facevano dell'educazione il concetto centrale della loro soteriologia e vedevano nell'educazione la forza che si oppone alla barbarie. Quando la morale viene considerata superflua, la corruzione diventa normale; e la corruzione corrompe insieme i singoli e gli Stati.
Tuttavia l'ethos non si fonda da sé, stesso. Anche l'ethos illuministico che tiene ancora insieme i nostri Stati vive della eredità del cristianesimo, che gli ha dato i fondamenti della sua razionalità e della sua intima coesione. Quando il fondo cristiano viene tolto via del tutto, niente sta più insieme.

Qui tocchiamo certamente il punto nevralgico nei rapporti fra cristianesimo e democrazia pluralistica. Da noi, nessuno contesta il diritto al cristianesimo - come agli altri gruppi sociali - di coltivare la sua scala di valori e di sviluppare la sua forma di vita, cioè di agire come una forza sociale fra le altre. Solo che questo ripiegamento nel privato, questa sistemazione nel Pantheon di tutti i possibili sistemi contraddice la pretesa di verità della fede che, in quanto tale, è una pretesa di riconoscimento pubblico. Robert Spaemann, a questo proposito, parla di una tendenza fatale delle Chiese cristiane di comprendersi come parte dell'insieme "forze sociali", il che comporta automaticamente la revoca della propria pretesa di verità ed elimina con ciò lo specifico della Chiesa e quello che la rende anche "un valore" per lo Stato. Spaemann sostiene invece che la Chiesa non può ritirarsi nel ruolo di rappresentanza di un "bisogno religioso", ma deve comprendere se stessa "come luogo di una rilevanza pubblica assoluta, che supera lo Stato e che si legittima in base a una pretesa divina". Così risulta chiaro che proprio questa autocomprensione non può trovare alcuna adeguata rappresentazione nella sfera del diritto statale. Ci troviamo di fronte a una aporia: se la Chiesa rinuncia a questa pretesa, non è più per lo Stato quella di cui lo Stato ha bisogno, se però lo Stato la accetta, smette di essere pluralistico e così sia lo Stato che la Chiesa perdono se stessi.
Per arrivare a un equilibrio fra queste due possibilità-limite si è lottato soprattutto nella Chiesa occidentale in tutti i secoli. Da tale equilibrio dipendono la libertà della Chiesa e la libertà dello Stato. A seconda della situazione storica è maggiore il pericolo di eliminare l'uno o l'altro dei due poli. Nell'attuale situazione generale della cultura il pericolo teocratico è scarso: si affaccia tutt'al più dove il connubio tra cristianesimo e marxismo evoca il miraggio di un Regno di Dio da costruire politicamente. In generale, nel secolo contemporaneo è chiaro che la pretesa di riconoscimento pubblico della fede non può compromettere il pluralismo e la tolleranza religiosa dello Stato. Ma da qui non si può dedurre una piena neutralità dello Stato di fronte ai valori. Esso deve riconoscere che un patrimonio fondamentale di valori, fondati sulla tradizione cristiana, è il presupposto della sua consistenza. Deve in questo senso semplicemente per così dire, riconoscere il proprio luogo storico, il proprio humus da cui non si può separare del tutto senza distruggersi. Deve imparare che vi è un patrimonio di verità che non è sottoposto al consenso, ma lo precede e lo rende possibile.
Mi si permetta in conclusione di ricorrere di nuovo a un esempio, che riassume tutto quanto si è detto e nel quale diventa percepibile tutta la drammaticità della cosa. La battaglia per i crocifissi nelle scuole, che viene condotta oggi in Polonia e che, al tempo del Terzo Reich, fu condotta dai nostri genitori in Germania ha un carattere assolutamente sintomatico. Per i genitori polacchi - come allora per i nostri - il crocifisso nella scuola è il segno di un ultimo brandello di libertà, che non ci si vuole lasciare strappare dallo Stato totalitario. E' la garanzia di una dignità umana nella cui abolizione i genitori vedono la pretesa dello Stato di disporre liberamente degli uomini pretesa che non si lascia più misurare dalla Croce e che, dunque, non ha più alcuna misura. Quegli uomini lottano per il riconoscimento pubblico del cristianesimo e lottano per il patrimonio di dignità e di misura umana di cui anche lo Stato ha bisogno. Se non abbiamo però la forza di comprendere e di conservare questi segni nella loro imprescindibilità, il cristianesimo diventa qualcosa di cui si può fare a meno. Ma lo Stato non diventa per questo più pluralistico e più libero, bensì rimane senza fondamenti. Lo Stato ha bisogno di segni pubblici della realtà che lo sostiene. Anche i giorni di festa, come configurazione pubblica del tempo, hanno lo stesso significato.
Per questo il cristianesimo deve difendere tali segni pubblici della sua rilevanza per gli uomini. Però, lo può fare solo se lo sostiene la forza del riconoscimento pubblico.
In questo consiste la sfida. Se non siamo coscienti e non sappiamo convincere, non abbiamo alcun diritto a reclamare un riconoscimento pubblico. Se le cose stanno così, siamo superflui e lo dobbiamo riconoscere. Allora, però, con la nostra stessa mancanza di convinzione priviamo la società di ciò che le è oggettivamente indispensabile: i fondamenti spirituali della sua umanità e della sua libertà. La sola forza, con la quale il cristianesimo può ottenere il riconoscimento pubblico, è in fondo la forza della sua intrinseca verità. Questa forza però è oggi indispensabile come sempre, perché l'uomo senza verità non può sopravvivere. Questa è la sicura speranza del cristianesimo, questa è la gigantesca provocazione che lancia a ciascuno di noi.
(Cristianesimo e democrazia pluralista, Christliche Orientierung in der pluralistichen Demokratie? Uber die Unverzichtbarkeit des Christentums in der modernen Welt, conferenza del 24 aprile 1984, pubblicata in tedesco in Pro Fide et Justitia. Festschrift fur Agostino Kardinal Casaroli zum 70. Geburtstag, a cura di Herbert Schambeck, Duncker & Humblot, Berlino 1984, pp. 747-761, traduzione di don Pietro Cantoni)

La questione dei fondamenti del diritto e della democrazia

La questione di cosa sia... veramente il bene – soprattutto nel contesto attuale – e perché lo si debba mettere in pratica anche a costo di ricavarne un danno personale, tale questione fondamentale rimane ampiamente senza risposta.

Ora, mi sembra evidente che la scienza come tale non può produrre un’etica e dunque una rinnovata consapevolezza etica non si realizza come prodotto di dibattiti scientifici. D’altra parte è anche innegabile che il fondamentale cambiamento della concezione del mondo e dell’essere umano, risultato delle crescenti conoscenze scientifiche, abbia svolto un ruolo essenziale nella distruzione delle antiche certezze morali.

A tale riguardo, esiste però una responsabilità della scienza nei confronti dell’essere umano in quanto tale, e soprattutto una responsabilità della filosofia nell’accompagnare criticamente lo sviluppo delle singole scienze e nell’esaminare criticamente conclusioni affrettate e finte certezze su cosa sia l’essere umano, da dove venga e perché esista; in altre parole, nel separare l’elemento non scientifico dai risultati scientifici – con cui spesso è mescolato – e mantenere lo sguardo sull’insieme, sulle altre dimensioni della realtà umana, di cui nella scienza si possono mostrare solo aspetti parziali...

Dal momento che difficilmente c’è unanimità tra gli esseri umani, per il processo decisorio democratico rimane come strumento indispensabile esclusivamente la delega della rappresentanza da un lato e la decisione a maggioranza dall’altro; per quanto riguarda quest’ultima, in base all’importanza della decisione si possono richiedere diversi ordini di grandezza della maggioranza. Anche le maggioranze, però, possono essere cieche o ingiuste. La storia lo dimostra in modo più che evidente: quando una maggioranza – per quanto preponderante – opprime con norme persecutorie una minoranza, per esempio religiosa o etnica, si può parlare ancora di giustizia o in generale di diritto? Il principio di maggioranza lascia pertanto sempre aperta la questione dei fondamenti etici della legge: la questione se non esista qualcosa che non può mai diventare legittimo, qualcosa dunque che di per sé rimane sempre un’ingiustizia, oppure al contrario anche qualcosa che per sua natura è legge immutabile, a prescindere da ogni decisione della maggioranza, e da essa deve essere rispettata.

L’età moderna ha formulato un patrimonio di simili elementi normativi nelle differenti dichiarazioni dei diritti umani e li ha sottratti al gioco delle maggioranze. Ci si può accontentare, nella coscienza contemporanea, dell’evidenza interna di questi valori; tuttavia, anche una simile rinuncia autoimposta ad indagare ha carattere filosofico. Ci sono dunque valori che valgono per se stessi, che provengono dalla natura umana e perciò sono inattaccabili per tutti coloro che possiedono questa natura. Sulla portata di una simile rappresentazione dovremo tornare ancora in seguito, tanto più che tale evidenza oggi non è assolutamente riconosciuta in tutte le culture.

Inoltre è spaventoso che almeno in parte il terrorismo si legittimi moralmente. I messaggi di Bin Laden presentano il terrorismo come la risposta dei popoli oppressi e senza potere alla superbia dei potenti, come la giusta punizione per la loro arroganza e per il loro sacrilego autoritarismo e la loro crudeltà. Per persone in determinate condizioni sociali e politiche simili motivazioni evidentemente sono convincenti. In parte il comportamento dei terroristi è rappresentato come la difesa di una tradizione religiosa contro l’empietà della società occidentale.

A questo punto si impone un’altra questione su cui dovremo tornare: se il terrorismo è alimentato dal fanatismo religioso, come è, la religione è salvifica e risanatrice, o non piuttosto un potere arcaico e pericoloso, che crea falsi universalismi e perciò induce all’intolleranza e al terrorismo? La religione non deve pertanto essere posta sotto la tutela della ragione e attentamente delimitata? Sorge dunque spontaneamente la domanda: chi può farlo? Come si può fare? Ma la domanda generale rimane: l’annullamento generalizzato della religione, il suo superamento, deve essere considerato un necessario progresso dell’umanità sulla via della libertà e della tolleranza universale, o no?

Nel frattempo è apparsa in primo piano un’altra forma di potere, che sembra del tutto benefica e meritevole di approvazione, ma in realtà può diventare una nuova minaccia per l’essere umano: l’uomo è ora in grado di creare essere umani, per così dire di produrli in provetta. L’uomo diventa un prodotto, e di conseguenza cambia radicalmente l’atteggiamento dell’uomo verso se stesso. Non è più un dono della natura o del Dio creatore; è prodotto di se stesso. L’uomo è giunto alla sorgente del potere, nel luogo di origine della propria stessa esistenza. La tentazione di creare infine l’uomo perfetto, di condurre esperimenti sugli esseri umani, di vedere gli esseri umani come spazzatura e di metterli da parte, non è una fantasticheria di moralisti nemici del progresso.

Se poco fa ci si è posta la questione se la religione sia davvero una forza morale positiva, ora deve affiorare il dubbio sulla affidabilità della ragione. Alla fin fine, anche la bomba atomica è un prodotto della ragione e l’allevamento e la selezione di esseri umani sono stati ideati dalla ragione. Ora non dovrebbe dunque a sua volta essere messa sotto osservazione la ragione? Ma da chi o da cosa? O forse religione e ragione dovrebbero limitarsi a vicenda, e ciascuna mettere l’altra al suo posto e condurla sulla propria via positiva? A questo punto di nuovo si pone la questione di come, in una società globale con i suoi meccanismi di potere e con le sue forze senza freni, con le sue differenti visioni di ciò che è giusto e di ciò che è morale, si possa trovare una evidenza etica operativa, con sufficiente potere di motivarsi e di imporsi, per rispondere alle sfide delineate in precedenza e aiutare a superarle.

Si raccomanda innanzi tutto uno sguardo alle situazioni storiche comparabili con la nostra, fino al punto in cui la comparazione è possibile. Vale la pena almeno di considerare brevemente che la Grecia conobbe il suo illuminismo, che il diritto fondato sugli dèi perse la sua evidenza e si dovette indagare alla ricerca di più profondi fondamenti del diritto. Così nacque l’idea che di fronte alla giurisprudenza, che può essere iniqua, deve esserci una legge che promani dalla natura, dall’essenza stessa dell’essere umano. Tale legge deve essere trovata e rappresenta quindi il correttivo del diritto positivo.

In un’epoca più vicina a noi, si può considerare la doppia frattura che si è verificata all’inizio dell’evo moderno per la coscienza europea e che ha costretto ad una nuova riflessione sul contenuto e sull’origine del diritto, sin dai fondamenti. In primo luogo, dunque, l’evasione dai confini del mondo europeo e cristiano, che si compie con la scoperta dell’America. Si incontrano popoli che non appartengono alla compagine di credo e di diritto cristiana, che era stata fino ad allora l’origine del diritto per tutti e gli aveva conferito la sua fisionomia. Ma sono dunque privi di diritto, come molti pensarono allora e come fu praticato largamente, o esiste un diritto che supera tutti i sistemi giuridici e lega e delimita gli esseri umani come tali nel loro incontrarsi? Francisco de Vitoria in questa situazione ha sviluppato il concetto preesistente dello «ius gentium», il «diritto dei popoli», in cui nella parola «gentes» è compreso anche il significato di pagani, non cristiani. La seconda frattura nel mondo cristiano si compì all’interno della cristianità stessa, attraverso lo scisma con cui la comunità dei cristiani si divise in comunità diverse e in parte ostili. Di nuovo occorre sviluppare un diritto comune precedente al dogma, almeno un minimum giuridico, le cui basi devono trovare il proprio fondamento non più nella fede, ma nella natura, nella ragione umana. Hugo Grotius, Samuel von Pufendorf e altri hanno sviluppato il concetto di un diritto naturale come diritto razionale, che oltre le barriere di fede pone in vigore la ragione come l’organo di comune costruzione del diritto.

Il diritto naturale è rimasto, soprattutto nella chiesa cattolica, la figura argomentativa con cui essa richiama alla ragione comune nel dialogo con le società laiche e con le altre comunità di fede e con cui ricerca i fondamenti di una comprensione attraverso i principi etici del diritto in una società laica e pluralista. Ma questo strumento è purtroppo diventato inefficace, e non vorrei basarmi su di esso in questo intervento. Il concetto del diritto di natura presuppone un’idea di natura in cui natura e ragione si compenetrano, la natura stessa è razionale. Questa visione della natura, con la vittoria della teoria evoluzionista si è persa. La natura come tale non sarebbe razionale, anche se in essa v’è un atteggiamento razionale: questa è la diagnosi che per noi ne deriva e che oggi appare per lo più inoppugnabile. Delle differenti dimensioni del concetto di natura, su cui si fondava un tempo il diritto naturale, rimane dunque solo quella sintetizzata da Ulpiano (III secolo d. C.) nella nota formulazione: «Ius naturae est, quod natura omnia animalia docet». Ma ciò non basta per le nostre questioni, in cui si tratta di individuare non già cosa riguarda tutti gli «animalia», ma gli specifici doveri, che la ragione umana ha creato per gli uomini e ai quali non si possono fornire risposte senza la ragione.

Come ultimo elemento del diritto naturale, che vuole essere il più profondamente possibile un diritto razionale – almeno nell’età moderna – sono rimasti i diritti umani. Essi non sono comprensibili senza presupporre che l’uomo in quanto tale, semplicemente per la sua appartenenza alla specie umana, sia soggetto di diritti, che il suo essere stesso comporti valori e norme che devono essere individuati, ma non inventati. Forse oggi la teoria dei diritti umani dovrebbe essere integrata da una dottrina dei doveri umani e dei limiti umani, e ciò potrebbe però aiutare a rinnovare la questione, se non ci possa essere una ragione naturale, e dunque un diritto razionale, per l’uomo e la sua esistenza nel mondo. Un simile discorso dovrebbe oggi essere interpretato e applicato interculturalmente. Per i cristiani ciò avrebbe a che fare con la creazione e con il Creatore. Nel mondo indiano corrisponderebbe al concetto di «Dharma», la legge interna all’essere, nella tradizione cinese all’idea degli ordinamenti celesti.

Che fare, dunque? Per ciò che riguarda le conseguenze pratiche, mi trovo in ampio accordo con ciò che Habermas ha esposto sulla società post-secolare, riguardo la disponibilità ad apprendere e la autolimitazione da entrambe le parti. Vorrei riassumere la mia opinione personale in due tesi. In primo luogo, abbiamo visto che ci sono patologie nella religione, che sono assai pericolose e che rendono necessario considerare la luce divina della ragione come un organo di controllo, dal quale la religione deve costantemente lasciarsi chiarificare e regolamentare; questo era anche il pensiero dei Padri della Chiesa. Ma nelle nostre riflessioni si è anche mostrato che esistono patologie anche nella ragione (cosa che all’umanità oggi non è altrettanto nota): una hybris della ragione, che non è meno pericolosa, ma a causa della sua potenziale efficacia è ancora più minacciosa: la bomba atomica, l’uomo visto come un prodotto. Perciò anche alla ragione devono essere rammentati i suoi limiti ed essa deve imparare la capacità di ascolto nei confronti delle grandi tradizioni religiose dell’umanità. Quando essa si emancipa completamente e rifiuta questa capacità di apprendere, questo rapporto correlativo, diventa distruttiva.

Kurt Hübner ha brevemente formulato una simile esortazione dicendo che con una tesi del genere non si tratterebbe di un «ritorno alla fede», ma della «liberazione dall’errore epocale, che essa (cioè la fede) non abbia più nulla da dire ai contemporanei, perché in contrasto con la loro idea umanistica di ragione, illuminismo e libertà» (in Das Christentum im Wettstreit der Religionen, Mohr Siebeck, 2003, pag. 148). Di conseguenza parlerei della necessità di un rapporto correlativo tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca chiarificazione e devono far uso l’una dell’altra e riconoscersi reciprocamente.
In secondo luogo, questa regola di base deve essere messa in pratica nel contesto interculturale della contemporaneità. Senza dubbio, i due partner principali in questo rapporto correlativo sono la fede cristiana e la razionalità laica occidentale: si può e si deve dirlo senza falso eurocentrismo. Entrambi determinano la situazione globale come nessun’altra delle forze culturali. Ciò non significa però che sia lecito accantonare le altre culture come un’entità in qualche modo trascurabile. Ciò sarebbe una hybris occidentale, che pagheremmo cara e in parte già paghiamo. È importante per entrambe le grandi componenti della cultura occidentale acconsentire ad un ascolto, ad un rapporto di scambio anche con queste culture. È importante accoglierle nel tentativo di una correlazione polifonica, in cui esse si aprano spontaneamente alla complementarità essenziale di ragione e fede, cosicché possa crescere un processo universale di chiarificazione, in cui infine le norme e i valori essenziali in qualche modo conosciuti o intuiti da tutti gli esseri umani possano acquistare nuovo potere di illuminare, cosicché ciò che tiene unito il mondo possa nuovamente conseguire un potere efficace nell’umanità.
(dalla relazione del card. J.Ratzinger in occasione del Colloquio con J.Habermas, tenutosi a Monaco, presso la Katholische Akademie in Bayern, il 19 gennaio 2004, pubblicata nella traduzione italiana di Lorenzo Lozzi Gallo qui riportata nel numero 83 di Reset, maggio-giugno 2004, con il titolo “Ragione e fede. Scambio reciproco per un’etica comune” e sul numero 2 di Humanitas 2004, con il titolo “Ciò che tiene unito il mondo. Etica, religione e stato liberale”)

Dialogo fra laicità e religioni: etica e politica in un mondo globalizzato

Nello scorso gennaio ho avuto un dialogo con Habermas, il filosofo considerato nel mondo di lingua tedesca come il laico più puro. Nella sorpresa dei suoi ammiratori aveva detto, più o meno due anni fa, a Francoforte, che conviene per un laico essere attento alla saggezza nascosta nelle tradizioni religiose. Era per lui stesso una scoperta nuova, e in quell'incontro ha espresso il desiderio che si trovino delle persone religiose capaci di decifrare il linguaggio tradizionale e di tradurre in linguaggio laico il tesoro di saggezza che, nella sua convinzione strettamente laica, è nelle tradizioni religiose.

Ci troviamo in una situazione del mondo in cui conviene mobilitare tutte le forze morali per riuscire a stabilire una convivenza pacifica. Abbiamo bisogno del dialogo di tutti i responsabili. Vediamo certamente che nel mondo di oggi esistono tante nuove possibilità positive, tante speranze, ma anche tante minacce e tanti pericoli. E su questo sottofondo del nostro dialogo vorrei indicare due elementi. Il primo: il nostro mondo, come vediamo e tocchiamo ogni giorno, è caratterizzato da una progressiva unificazione. Tutte le culture si toccano in permanenza, in Europa sono presenti l'Asia e l'Africa, è presente il mondo musulmano e nelle altre parti del mondo sono presenti le altre culture. Soprattutto c'è una presenza universale della cultura tecnica nata in occidente e determinante in tutte le parti del mondo per la vita di ogni giorno. C'è una presenza unificante, in un certo senso, della cultura tecnica e così della cultura laica.

Vediamo come gli edifici siano uguali ovunque nel mondo, la televisione dà uniformazione al nostro comportamento, fino al vestiti e ai canti, e questo fattore tuttavia ha due aspetti: da una parte crea unificazione fino alla uniformità, ma nello stesso tempo provoca ribellione, resistenza contro questa imposizione, contro una cultura aliena che appare anche, nonostante tutti i vantaggi che comporta, una imposizione straniera e una minaccia contro la propria identità. Così vediamo che insieme a questa unificazione cresce anche una ribellione contro l'uniformità, un desiderio, una volontà ferma, radicale, anzi violenta di difendere la propria identità contro questa uniformazione, un'esacerbazione contro un'imposizione che appare da una parte utile, dall'altra come schiavitù.

C'è da aggiungere che si vede in tutte le parti del mondo il lusso del mondo occidentale, si può immaginare che tutti qui vivano nella ricchezza e nel lusso, e fare esperienza nello stesso momento della propria povertà e della propria espropriazione non solo culturale ma anche materiale. La contraddittorietà di questa cultura che appare dall'occidente e si mostra nel proprio mondo radicalizza il senso di una schiavitù contro la quale ci si deve difendere. Così l'uniformazione crea anche la parzializzazione delle culture del mondo e l'opposizione tra queste culture.

Questa cultura è considerata occidentale, l'occidente è identificato con cristianesimo e quindi questa opposizione si dirige non solo contro l'occidente ma diventa anche un'opposizione crescente contro la cristianità e il cristianesimo. Trovare una risposta giusta tra unità e molteplicità mi sembra una cosa importante, nel rispetto delle altre culture, e tra l'insieme della cultura uniformante dell'occidente e la ricchezza delle grandi culture. E' un compito di grande importanza e priorità.

L'altro punto della nostra situazione al quale volevo accennare consiste nel fatto che è cresciuto, in un modo inimmaginabile fino a poco tempo fa, il potere dell'uomo. Potere che arriva fino alla possibilità dell'autodistruzione, della distruzione del proprio pianeta, potere che d'altra parte è arrivato alle radici del nostro essere: l'uomo è capace di fare l'uomo, di produrre in laboratorio l'uomo. L'uomo non appare più come un dono della natura, di Dio, ma diventa un prodotto nostro, che si può fabbricare, e quando si può fabbricare si può anche distruggere, sostituire con altre cose. Così, questa capacità di per sé positiva di andare fino alle radici del suo essere, diventa man mano una minaccia più pericolosa dei mezzi di distruzione, perché tocca l'essere umano nel più intimo fondamento.

L'uomo “fatto”, l'uomo fabbricato, diventa anche una merce; si possono produrre esseri umani per scopi di ricerca, sempre con apparenti benefici. Tuttavia l'uomo diventa, la stessa creatura umana diventa, un laboratorio con il quale cercare dei progressi in certi settori. E così automaticamente si è introdotto anche il commercio dell'essere umano, l'uomo come merce. Lo vediamo non solo nel mercato degli organi, ma anche nel mercato della prostituzione e della pedofilia, in tutti questi fenomeni di una società veramente ammalata, che non vede più nell'uomo lo splendore divino ma solo un prodotto fatto da noi.

Da una parte abbiamo questa crescita, inimmaginabile fino a poco tempo fa, delle nostre capacità, delle nostre possibilità, del nostro potere, che potrebbe essere, ed è in molti sensi, una cosa positiva. Ma è anche, come ho accennato, qualcosa che implica grandi pericoli. Dobbiamo dire che con questa capacità di fare, con questa capacità di produrre, con queste conoscenze della ricerca che arrivano fino alle radici dell'essere non è cresciuta ugualmente la nostra capacità morale.

Questa mi sembra la formula più precisa per esprimere il dilemma del nostro tempo che vediamo con il crescere permanente delle nostre capacità, del nostro potere, e una crescita non equivalente delle nostre capacità morali. Questo squilibrio tra potere tecnico, potere di fare, e la capacità di dominare il nostro essere con principi che garantiscono la dignità dell'uomo e il rispetto della creatura, del mondo, questo squilibrio è la grande sfida alla quale rispondere positivamente è dovere di noi tutti.

Quindi provoca necessariamente la necessità di un dialogo aperto, franco, tra rappresentanti della fede cristiana e laici di diverse sfumature, perché sappiamo bene che il concetto di laico, come quello di cristiano, implica tante diverse realizzazioni.
(dall’intervento del card.J.Ratzinger nel Dialogo su storia, politica e religione con lo storico Ernesto Galli della Loggia, tenutosi nell’ottobre 2004 nell'ambito degli incontri organizzati dal Centro di orientamento politico, presieduto da Gaetano Rebecchini. La trascrizione è tratta da “Il Foglio”, 27 e 28-10-2004 ed è già apparsa on-line nell’agenzia di stampa Zenit)

I miti del progresso, della scienza e della libertà e la ragione morale della politica

In due tesi vorrei brevemente raccogliere indicazioni...

1. La politica è l’ambito della ragione, e più precisamente non di una ragione semplicemente tecnica-calcolatrice, ma morale, poiché il fine dello Stato e così il fine ultimo di ogni politica è di natura morale, cioè la pace e la giustizia. Ciò significa che la ragione morale o – forse meglio – il discernimento razionale di ciò che serve alla giustizia e alla pace, e quindi è morale, deve essere continuamente esercitato e difeso contro oscuramenti che diminuiscono la capacità di discernimento della ragione.

Lo spirito di parte, che si accompagna al potere, produrrà continuamente miti in diverse forme che si presentano come la vera via della realtà morale nella politica, ma in verità sono mascheramenti e rivestimenti del potere. Nel secolo scorso abbiamo sperimentato due grandi elaborazioni mitiche con conseguenze terribili: il razzismo con la sua falsa promessa di salvezza da parte del nazionalsocialismo; la divinizzazione della rivoluzione sullo sfondo dell’evoluzionismo storico dialettico; in entrambi i casi furono di fatto cancellate le intuizioni morali originarie dell’uomo sul bene e sul male. Tutto ciò che serve il dominio della razza, ovvero tutto ciò che serve l’instaurazione del mondo futuro, è bene – così ci veniva detto –, anche se ciò, secondo le conoscenze dell’umanità finora acquisite, fosse stato un male.

Dopo la caduta delle grandi ideologie oggi i miti politici sono presentati in modo meno chiaro, ma esistono anche oggi forme di mitizzazione di valori reali che appaiono credibili, proprio per il fatto che si ancorano ad autentici valori, ma appunto anche per questo sono pericolosi, per il fatto che unilateralizzano questi valori in un modo che si può definire mitico. Direi che oggi tre valori sono dominanti nella coscienza comune, la cui unilateralizzazione mitica rappresenta allo stesso tempo un pericolo per la ragione morale di oggi. Questi tre valori continuamente miticamente unilateralizzati sono il progresso, la scienza, la libertà.

Il progresso è da sempre una parola mitica, che si impone come norma dell’agire politico e umano in generale e appare come la sua più alta qualificazione morale. Chi guarda anche solo al cammino degli ultimi cento anni, non può negare che sono stati raggiunti progressi enormi nella medicina, nella tecnica, nella conoscenza e nello sfruttamento delle forze della natura e progressi ulteriori possono essere sperati. Nondimeno permane di attualità anche l’ambivalenza di questo progresso: il progresso comincia a minacciare la creazione – la base della nostra esistenza; esso produce disuguaglianze fra gli uomini e produce anche sempre nuove minacce al mondo e all’umanità. In questo senso orientare il progresso secondo criteri morali è indispensabile. Secondo quali criteri? Questo è il problema.

Innanzitutto però deve essere chiaro che il progresso si estende al rapporto dell’uomo con il mondo materiale ma non dà luogo in quanto tale – come il marxismo e il liberalismo avevano insegnato – all’uomo nuovo, alla nuova società. L’uomo come uomo resta uguale nelle situazioni primitive come in quelle tecnicamente sviluppate e non cresce di livello semplicemente per il fatto che ha imparato ad adoperare strumenti meglio sviluppati. L’essere uomo ricomincia da capo in ogni essere umano. Perciò non può esistere la definitivamente nuova, progredita e sana società, nella quale non solo hanno sperato le grandi ideologie, ma che diviene sempre più – dopo che la speranza nell’aldilà è stata demolita – l’obiettivo generale da tutti sperato.

Una società definitivamente sana presupporrebbe la fine della libertà. Poiché però l’uomo rimane sempre libero, ricomincia a ogni generazione, pertanto si deve anche di nuovo operare per la forma giusta di società nelle sempre nuove condizioni. L’ambito della politica pertanto è il presente e non il futuro – il futuro solo nella misura in cui la politica odierna cerca di creare forme di diritto e di pace che possano valere anche domani e invitare a corrispondenti riforme, che riprendano e continuino ciò che si è raggiunto. Ma non possiamo garantirlo. Io penso che è molto importante tenere presenti questi limiti del progresso ed evitare false scappatoie nel futuro.

Al secondo posto vorrei menzionare il concetto di scienza. La scienza è un grande bene, proprio perché è una forma di razionalità controllata e confermata dall’esperienza. Ma vi sono anche patologie della scienza, stravolgimenti delle sue possibilità in favore del potere, in cui allo stesso tempo viene intaccata la dignità dell’uomo. La scienza può anche servire alla disumanità, se pensiamo alle armi di distruzione di massa o agli esperimenti umani o al commercio di persone per l’esplantazione di organi ecc. Pertanto deve essere chiaro che anche la scienza deve sottostare a criteri morali e la sua vera natura va sempre perduta allorquando invece che della dignità dell’uomo si mette al servizio del potere o del commercio o semplicemente del successo come unico criterio.

Infine vi è il concetto di libertà. Anch’esso nell’epoca moderna ha assunto diversi tratti mitici. La libertà non di rado viene concepita in modo anarchico e semplicemente antistituzionale e così diviene un idolo: la libertà umana può essere sempre solo la libertà del giusto rapportarsi reciproco, la libertà nella giustizia, altrimenti diventa menzogna e conduce alla schiavitù.

2. Il fine di ogni sempre necessaria smitizzazione è la restituzione della ragione a se stessa. Qui però deve ancora una volta essere smascherato un mito che solo ci mette davanti all’ultima decisiva questione di una politica ragionevole: la decisione a maggioranza è in molti casi, forse nella maggioranza dei casi, la via «più ragionevole» per giungere a soluzioni comuni. Ma la maggioranza non può essere il principio ultimo; ci sono valori che nessuna maggioranza ha il diritto di abrogare. L’uccisione degli innocenti non può mai divenire un diritto e non può essere elevato a diritto da alcun potere. Anche qui si tratta ultimamente della difesa della ragione: la ragione, la ragione morale, è superiore alla maggioranza.

Ma come possono essere conosciuti questi valori ultimi, che costituiscono i fondamenti di ogni politica «ragionevole», moralmente giusta e pertanto vincolano tutti al di là di ogni cambiamento delle maggioranze? Quali sono questi valori? La dottrina dello Stato sia nell’antichità e nel Medioevo come anche nei contrasti dell’epoca moderna ha fatto appello al diritto naturale che la recta ratio può riconoscere. Ma oggi questa recta ratio sembra non dare più una risposta e il diritto naturale non viene più considerato come ciò che è evidente per tutti, ma piuttosto come una dottrina cattolica particolare. Questo significa una crisi della ragione politica, il che equivale a una crisi della politica come tale.

Sembra che ormai esista solo la ragione partitica, non più la ragione comune a tutti gli uomini almeno nei grandi ordinamenti fondamentali dei valori. Lavorare al superamento di questa situazione è un compito urgente di tutti coloro che hanno nel mondo responsabilità per la pace e la giustizia – e questo in definitiva lo siamo di fatto noi tutti. Questo impegno non è affatto senza prospettive, non lo è proprio per il fatto che la ragione si fa continuamente sentire contro il potere e lo spirito di parte. Esiste oggi un canone dei valori mutato, che praticamente non è messo in discussione, ma in realtà resta troppo indeterminato e mostra zone oscure.

La triade pace, giustizia, integrità della creazione è universalmente riconosciuta, ma dal punto di vista del contenuto totalmente indeterminata: che cosa è al servizio della pace? Che cosa è la giustizia? Come si protegge nel modo migliore la creazione? Altri valori universalmente praticamente riconosciuti sono l’uguaglianza degli uomini in opposizione al razzismo, la pari dignità dei sessi, la libertà di pensiero e di fede.

Anche qui vi sono mancanze di chiarezza dal punto di vista dei contenuti, che possono perfino diventare di nuovo minacce per la libertà del pensiero e della fede, ma gli orientamenti di fondo sono da approvare e sono importanti. Un punto essenziale resta controverso: il diritto alla vita per ciascun che sia un essere umano, l’inviolabilità della vita umana in tutte le sue fasi. In nome della libertà e in nome della scienza vengono inferte ferite sempre più gravi nei confronti di questo diritto: laddove l’aborto è considerato un diritto di libertà, la libertà di uno è posta al di sopra del diritto alla vita dell’altro. Laddove esperimenti umani con embrioni vengono reclamati in nome della scienza, la dignità dell’uomo viene negata e calpestata nell’essere più indifeso.

Qui si deve dare spazio alle smitizzazioni dei concetti di libertà e di scienza, se non vogliamo perdere i fondamenti di ogni diritto, il rispetto per l’uomo e per la sua dignità. Un secondo punto oscuro consiste nella libertà di deridere ciò che è sacro per altri. Grazie a Dio presso di noi nessuno si può permettere di deridere ciò che è sacro per un ebreo o per un musulmano. Ma si annovera fra i diritti di libertà fondamentali il diritto di dileggiare e di coprire di ridicolo ciò che è sacro per i cristiani. E infine vi è un ulteriore punto oscuro: matrimonio e famiglia sembrano non essere più valori fondamentali di una società moderna. È richiesto con urgenza un completamento della tavola dei valori e una smitizzazione di valori miticamente alterati.

Nel mio dibattito con il filosofo Paolo Flores d’Arcais si toccò proprio questo punto – i limiti del principio del consenso. Il filosofo non poteva negare che esistono valori, i quali non possono essere messi in discussione anche da maggioranze. Ma quali? Davanti a questo problema il moderatore del dibattito, Gad Lerner, ha posto la domanda: perché non prendere come criterio il Decalogo? E in realtà il Decalogo non è una proprietà privata dei cristiani o degli ebrei. È un’altissima espressione di ragione morale che come tale si incontra largamente anche con la sapienza delle altre grandi culture. Riferirsi nuovamente al Decalogo potrebbe essere essenziale proprio per il risanamento della ragione, per un nuovo rilancio della recta ratio.

Qui emerge ora anche con chiarezza ciò che la fede può fare per una buona politica: essa non sostituisce la ragione, ma può contribuire all’evidenza dei valori essenziali. Attraverso la concretezza della vita nella fede conferisce a essi una credibilità, che poi illumina e risana anche la ragione. Nel secolo trascorso – come in tutti i secoli – proprio la testimonianza dei martiri ha posto dei limiti agli eccessi del potere e ha così contribuito in modo decisivo al risanamento della ragione.
(Libertà e religione nell'identità dell'Europa, discorso del card.J.Ratzinger, nel ricevere il premio “Liberal” in occasione delle Giornate internazionali del pensiero filosofico sul tema: “Le due libertà: Parigi o Filadelfia?", svoltosi a Trieste il 20 settembre del 2002
di Cardinale Joseph Ratzinger)

Non basta a dare vita ad una nazione l’enunciazione giuridica dei diritti umani

Il puro positivismo dei diritti umani come tale non può essere in nessun senso un'ultima parola. Forse è sufficiente per una costituzione, non lo posso decidere, ma per il nostro dibattito culturale umano, per il nostro incontro con le altre culture non è sufficiente.

Questo positivismo è però solo la facciata di un dilemma più profondo. Non ci sono più motivazioni per i nostri grandi principi etici, per la dignità umana e si arriva finalmente al positivismo perché anche il patriottismo costituzionale di Habermas è un positivismo. La costituzione, così ha detto anche a Monaco durante il nostro dialogo, di per sé produce la moralità. Ma non è vero, non lo fa, ha bisogno di forze precedenti, e dobbiamo ritrovare e risvegliare queste forze. Il relativismo da un parte può apparire come positivo, in quanto invita alla tolleranza, facilita la convivenza, il riconoscimento fra culture, fino al punto di ridimensionare le proprie convinzioni e riconoscere il valore degli altri relativizzando se stessi: è un passo positivo.

Ma se si trasforma in un assoluto, il relativismo diventa contraddittorio in se stesso, distrugge l'agire umano e in ultima istanza mi sembra una mutilazione della nostra ragione. Ragionevole viene considerato allora soltanto ciò che è calcolabile e falsificabile o provabile nell'esperimento del grande settore, settore ammirevole, delle scienze. Qui si vede se questo è falso, se questo non lo è, se questo funziona e questo non funziona. Questo settore appare come l'unica espressione della razionalità, tutto il resto è soggettivo.

Il grande fisico Max Planck si considerava come un uomo religioso, tuttavia ha detto che dobbiamo ripristinare la religione ma come una cosa del soggetto. Ma se le questioni essenziali della vita umana, le grandi decisioni sulla vita, sulla famiglia, sulla morte, sui comportamenti, sulla condivisione della libertà e il modo etico di condividerla, sono tutti solo nella sfera della soggettività, allora non abbiamo più criteri. Ogni uomo può e deve agire soltanto secondo la sua cosiddetta coscienza. Coscienza, nella modernità, diventa la divinizzazione della soggettività, mentre nella tradizione cristiana è proprio il contrario, è la convinzione che l'uomo è trasparente e può sentire in se stesso la voce della ragione stessa, della ragione fondante del mondo. E quindi il soggetto non è chiuso in sé, un'ultima istanza, come una divinità, ma è una realtà aperta, per la ragione stessa che ciò ci permette di comunicare nelle grandi decisioni della nostra vita.

Superare quindi un razionalismo unilaterale che in realtà non allarga la ragione, non eleva la ragione ma amputa e riduce, e arrivare a una più larga concezione della ragione, che è creata non soltanto per poter fare ma per poter conoscere le cose essenziali della vita umana, è un imperativo urgente, del resto espresso nell'enciclica “Fides et ratio”. Il professore (N.d.R. il prof.Ernesto Galli della Loggia) ha notato la questione se il ius naturale difeso dalla Chiesa cattolica può essere una risposta a questo e sappiamo bene che il mondo di oggi è convinto che non sia una risposta. Per la Chiesa era l'idea, la visione di un diritto naturale insito nella stessa creatura umana, il mezzo per poter dialogare con quanti non condividono la fede. Adesso anche il concetto di natura è ridotto al puramente empirico, a quanto si può osservare con la scienza, con la biologia nella dottrina dell'evoluzione. Quindi natura non indica più niente di umano, il diritto naturale si riduce quindi, aveva detto Ulpiano nel terzo secolo dopo Cristo, “natura naturale est quod natura omnia animalia ducet”.

Ma noi non abbiamo bisogno soltanto di ciò che possono imparare tutti gli animali ma proprio dello specifico umano, e questo in una natura così considerata non appare. Ma dobbiamo forse tenere presente in quale senso nell'epoca moderna il concetto di diritto naturale che viene dall'antichità è rinato ed è stato rafforzato da due fonti: la scoperta delle Americhe era un grande appello, una grande domanda anche alla cristianità. Queste genti, questi popoli che non appartengono alla cristianità, che non sono battezzati, che non appartengono alla nostra sfera di diritto, hanno un diritto o no? Sono da rispettare come soggetti di diritto o essendone fuori non hanno diritti e possiamo farne ciò che vogliamo? La posizione che finalmente ha vinto, con tante difficoltà, era quella che sì, hanno un diritto perché sono persone umane e come creature umane hanno il diritto insito nell'essere umano come tale. Questa non è una dottrina occidentale ma era proprio la difesa dei non occidentali contro l'occidente e rimarrà tale. E' fondamentale, nel nostro essere insieme, che l'uomo di per sé, senza nessun sistema precedente di diritto, è portatore di un diritto della persona umana come tale.

Il secondo punto è la divisione confessionale dell'Europa. C'era da ritrovare tra gli Stati una forma di pace anche morale, non solo giuridica e qui si è capito che se nella fede siamo divisi, abbiamo tutti la natura umana che indica comportamenti morali fondamentali. Penso che non dovrebbe essere così impossibile, con tutte le riserve contro la metafisica che ben conosciamo, capire che questa non è un'invenzione cattolica ma è proprio la risposta alle sfide dell'essere umano: il riconoscimento che l'uomo, prima di tutte le costituzioni, ha diritti, e il diritto deve conformarsi ai diritti e non i diritti alla costituzione.

Dobbiamo anche ritrovare questi elementi in un dialogo interculturale perché, in forme diverse, questa stessa conoscenza è presente anche nelle altre culture, seppure non nello stesso modo, e dal nostro punto di vista è ancora da migliorare, come le nostre conoscenze. Pensiamo all'idea del Tao nel mondo cinese, del Dharma nel mondo indiano: concetti che presuppongono che l'uomo si trovi in un ordine del cosmo, che gli indica come vivere, e che precede le nostre decisioni. Quindi questa interculturalità, per riguadagnare un concetto comprensibile e accettabile, che divenga la piattaforma per una visione etica comune, mi sembra di grande importanza.

Arrivo al problema se la tradizione cristiana sia compatibile con il concetto di libertà sviluppato nella modernità, nel laicismo. Io distinguo tra laicismo e laicità, e se è così, per me è molto importante superare un malinteso concetto individualistico della libertà. C'è un concetto di libertà per il quale esiste solo, come portatore della libertà, il soggetto, l'individuo. E' il vecchio sogno di essere come un dio. Ma da due punti di vista è assolutamente sbagliato. E' sbagliato dal punto di vista antropologico, perché l'uomo è un essere finito, è un essere creato per convivere con altri e quindi la sua libertà necessariamente deve essere una libertà condivisa, che insieme garantisca per tutti la libertà e quindi supponga anche la rinuncia alla assolutizzazione dell'io, che è contro la verità e contro la realtà empirica.

Reimparare che la libertà è ben definita antropologicamente e sociologicamente soltanto se interpretata come libertà condivisa, è una cosa che implica il diritto comune, l'autorità. C'è il grande errore di considerare l'autorità in contrasto con la libertà. In realtà, un'autorità ben definita è la condizione della libertà, non in contrasto con essa. Siamo sulla strada delle migliori tradizioni cristiane, che sempre suppongono che l'uomo è creato per la libertà, una libertà umana, che è libertà condivisa. E' errata la convinzione che la mia volontà sia la mia unica misura e il mio unico criterio, anche da un punto di vista teologico. Questa idea, rendendo l'uomo come un dio, implica che possa fare come vuole, vede un idolo e non Dio, perché il vero Dio è verità e amore, e quindi la sua libertà è una libertà definita dalla verità e dall'amore. Anche la nostra libertà diventa vera se si concilia con la nostra verità umana che è quella di una dipendenza dal creatore, di una intercomunione della libertà, e una dipendenza che è amore non è dipendenza ma è la condizione del nostro essere.

Quando si vede nella relazione tra due persone l'amore come dipendenza siamo sulla strada sbagliata, tanto più se consideriamo la nostra relazione con Dio come dipendenza. In realtà siamo esseri relazionali e questo non è un limite ma un'apertura infinita del nostro essere. In questo senso qui si nasconde, per tornare a Habermas, una delle ricchezze della saggezza della fede che devono essere trasportate nel nostro mondo di oggi...

Il monoteismo, soprattutto un monoteismo costruito artificialmente fuori dalla realtà dei monoteismi concreti, non può essere comun denominatore. Non solo perché un monoteismo astratto dalle realtà vissute non ha vita, quindi non ha forza, ma anche perché il monoteismo copre solo una parte del mondo e delle culture. Abbiamo culture non monoteiste, soprattutto il buddhismo, e abbiamo il fatto che in diverse parti del mondo il laicismo radicale non ha distrutto la religione ma ha terribilmente debilitato la forza delle religioni.

Pensiamo alla Cina, dove il marxismo, così come un tipo di presunto razionalismo ha in ampia misura distrutto la tradizione religiosa. Pensiamo al Giappone, dove il laicismo occidentale ha marginalizzato in gran parte le tradizioni religiose. Quindi abbiamo un panorama culturale e religioso molto diversificato. Abbiamo le religioni monoteiste molto divise tra di loro, con concetti diversi di monoteismo, abbiamo religioni non teiste, abbiamo religioni cosmiche con idee della divinità diverse e abbiamo la presenza del laicismo, una forza presente in tutte le civilizzazioni.

Così, invece della questione se il monoteismo possa essere un minimo comun denominatore, chiediamoci se il laicismo potrebbe essere la forza che crea la convivenza, essendo esso realmente presente in tutte le culture, in tutte le parti del mondo. Mi sembra che si dovrebbe rispondere di no. Non solo perché il laicismo, nonostante tutta la sua presenza, va considerato come un'imposizione non corrispondente alla propria cultura, ma anche perché il laicismo è un'ideologia, lo dico non in un senso negativo, un'ideologia parziale in un duplice senso: è parziale proprio perché vuol rispondere alla sfida morale.

Si limita alla superficie dell'essere umano e lascia aperte tutte le questioni realmente decisive per la vita umana, frammenta la persona umana e non dà le risposte che possono dare una coesione comune. Al contrario, debilita decisamente queste forze, e in diverse parti del mondo si vede come abbia paralizzato le capacità di convivenza. Pensiamo alle eredità lasciate dal marxismo in Russia, ma dobbiamo pensare anche alla realtà africana. Qui l'occidente ha importato la sua visione del mondo, ha armato l'Africa in permanenza e ha distrutto i mores maiorum, cioè le regole morali che erano il fondamento di quelle tribù. Naturalmente, prima della colonizzazione l'Africa non era un paradiso. Era, parlando da cristiano, marcata dal peccato originale, da violenza, problemi, aspetti negativi. Ma c'era una forza fondante, la vita comune, la condivisione della libertà, la definizione dell'essere umano nelle diverse tribù. Questa forza morale con l'illuminismo europeo è stata distrutta.

Ora vediamo gli effetti della duplice importazione di cui parlavo prima. Vediamo la violenza crescente, che comincia a distruggere veramente i popoli, la distruzione morale, con l'epidemia dell'Aids che distrugge intere popolazioni, e la responsabilità di introdurre un razionalismo che non risponde a nessuna delle questioni fondamentali della nostra vita. Questa duplice parzialità è importante anche nel senso che la laicità, rappresentata da Habermas e da tanti altri, non è come tale considerata realmente la risposta della nostra ragione.

Habermas raccontava che a Teheran un professore iraniano gli aveva suggerito di riflettere sul fatto se anche la sua filosofia, il razionalismo, non fosse solo un'idea parziale e non espressione universale della ragione. Non è vero che la razionalità stessa sia la risposta della ragione. E' un'espressione cresciuta su un humus culturale determinato, un'espressione parziale della ragione umana e non semplicemente la luce della nostra ragione. Dobbiamo, insieme con gli altri, imparare una totalità della ragione che ci aiuti a convivere. In questo senso il fondamentalismo religioso è anche una reazione contro la violenza del razionalismo. Personalmente non amo la parola fondamentalismo, perché copre troppe cose totalmente diverse. Ma usiamola, in mancanza di un'altra parola, per definire l'affermazione cieca di se stessi, che diventa poi violenta ed è certo una grande minaccia per noi tutti. Ma dobbiamo vedere che essa reagisce a un pretesto di universalità che in realtà non è verificabile e difende un'altra visione della realtà della vita.

Si difende soprattutto contro il cinismo e l'arroganza che calpesta il rispetto del sacro e calpesta il rispetto delle grandi tradizioni morali cresciute nei secoli, che sono sacre alle nazioni, e che, benché discutibili, garantiscono tuttavia un minimo di convivenza e dovrebbero essere nel dialogo per la convivenza aperte, per aprirsi a una comunione e a una comune definizione della vita. Il monoteismo come tale non è il comune denominatore, ma possiamo noi creare nel laboratorio della nostra ragione una religione in grado di scoprire tutto?

Tantomeno, a maggior ragione, il laicismo può essere una religione universale: è parziale e non risponde alle sfide fondamentali dell'uomo. Mi sembra che le grandi culture religiose debbano trovarsi in un dialogo interculturale e interreligioso per non perdere i tesori di verità nel relativismo che li distrugge, i grandi tesori della saggezza che sono comuni. Soprattutto mi sembra importante che ci siano persone e comunità che vivono in purezza e con convinzione i grandi tesori della fede.

Per esempio Madre Teresa è divenuta una figura interculturale. Il Signore ha detto una volta : “Chi crede in me diventa una fontana dalla quale si diffonde acqua viva nei deserti del mondo”. Le persone che vivono in modo puro il nucleo fondamentale della religione cristiana, o riescono forse a vivere il modo puro il loro nucleo, sono fontane di vita che aiutano anche gli altri a vivere e ad andare al centro non astrattamente ma con l'esperienza di verità che si verifica nella vita.
(dall’intervento del card.J.Ratzinger nel Dialogo su storia, politica e religione con lo storico Ernesto Galli della Loggia, tenutosi nell’ottobre 2004 nell'ambito degli incontri organizzati dal Centro di orientamento politico, presieduto da Gaetano Rebecchini. La trascrizione è tratta da “Il Foglio”, 27 e 28-10-2004 ed è già apparsa on-line nell’agenzia di stampa Zenit)

La centralità della questione del diritto

Chiesa e diritto, fede e diritto sono uniti da un legame profondo e diversamente articolato. Basti ricordare che la parte fondamentale del canone veterotestamentario é raccolta sotto il titolo "Torah" (legge). La liberazione di Israele dall’Egitto non era conclusa con l'esodo, ma solo iniziata. Essa divenne realtà piena solo quando Israele ricevette da Dio un ordinamento giuridico, che regolava la relazione con Dio, con la comunità del popolo e dei singoli fra di loro così anche come la relazione con gli stranieri: un diritto comune è la condizione della libertà umana. Di conseguenza l'ideale veterotestamentario della persona pia era il zaddik, il giusto, l’uomo che vive rettamente ed agisce rettamente secondo l'ordine del diritto donato da Dio. Nel Nuovo Testamento di fatto la designazione zaddik e stata sostituita dal termine pistos: l'atteggiamento essenziale del cristiano è la fede, che lo rende "giusto". Ma con ciò è stata diminuita l'importanza del diritto? È stato forse estromesso l'ordinamento giuridico dall'ambito del sacro ed e divenuto semplicemente profano? E' questo un problema, che sopratutto dalla Riforma del 16° secolo in poi è stato discusso con passione. Esso é acuito dal fatto che il concetto di "legge" (torah) appare negli scritti paolini con accenti problematici e poi in Lutero è considerato addirittura come l'opposto del Vangelo. Lo sviluppo del diritto nel tempo moderno è stato profondamente segnato da queste contrapposizioni.
Non è questa la sede per sviluppare ulteriormente questo problema. Ma vorrei nondimeno molto brevemente parlare dei due rischi attuali del diritto, che hanno entrambi anche una componente teologica e pertanto non riguardano solo i giuristi, ma anche i teologi. La "fine della metafisica", che in ampi settori della filosofia moderna viene presupposta come un fatto irreversibile, ha condotto al positivismo giuridico che oggi ha assunto soprattutto la forma della teoria del consenso: come fonte del diritto, se la ragione non è più in grado di trovare il cammino verso la metafisica, vi sono per lo Stato solo le comuni convinzioni sui valori dei cittadini, convinzioni che si rispecchiano nel consenso democratico. Non la verità crea il consenso, ma il consenso crea non tanto la verità, quanto ordinamenti comuni. La maggioranza determina ciò che deve valere come vero e come giusto. Ciò significa che il diritto é esposto al gioco delle maggioranze e dipende dalla coscienza dei valori della società del momento, che a sua volta è determinata da molteplici fattori. Concretamente questo si manifesta in un progressivo scomparire dei fondamenti del diritto ispirati alla tradizione cristiana.
Matrimonio e famiglia sono sempre meno le forme portanti della comunità statuale e vengono sostituite da molteplici, spesso labili e problematiche forme di convivenza. La relazione fra uomo e donna diviene conflittuale, ed ugualmente la relazione fra le generazioni. L'ordine cristiano del tempo si dissolve; la domenica scompare e viene sempre più sostituita da forme mobili di tempo libero. Il senso del sacro non ha più quasi alcun significato per il diritto, il rispetto di Dio e di ciò che per gli altri e sacro, è ormai difficilmente un valore giuridico; ad esso viene anteposto il valore supposto più importante di una libertà senza confini del parlare... Anche la vita umana è qualcosa di cui si può disporre - aborto ed eutanasia non vengono più esclusi dagli ordinamenti giuridici. Nell'ambito degli esperimenti sugli embrioni e della medicina dei trapianti si delineano forme di manipolazione della vita umana, nelle quali l'uomo si arroga non solo di poter disporre della vita e della morte, ma anche del suo divenire e del suo essere. Così recentemente si è giunti a reclamare perfino la selezione e l'allevamento programmato per il continuo sviluppo del genere umano, e l'essenziale diversità dell'uomo nei confronti dell'animale è messa in discussione. Poiché negli stati moderni la metafisica e con essa il diritto naturale sembra essere definitivamente venuto meno, è in corso una trasformazione del diritto, i cui passi ulteriori non sono ancora prevedibili; il concetto stesso di diritto perde i suoi contorni precisi.
Vi è ancora una seconda minaccia del diritto, che oggi sembra essere meno attuale di quanto non lo era ancora dieci anni fa, ma può in ogni momento riemergere e trovare agganci con la teoria del consenso. Penso alla dissoluzione del diritto per mezzo dello spinta dell'utopia, cosi come aveva assunto forma sistematica e pratica nel pensiero marxista. Il punto di partenza era qui la convinzione che il mondo presente è cattivo - un mondo di oppressione e di mancanza di libertà. Esso dovrebbe essere sostituito da un mondo migliore da pianificare e da realizzare adesso. La vera ed ultimamente unica fonte del diritto diviene ora l'immagine della nuova società; morale e con importanza giuridica è ciò che serve all'avvento del mondo futuro. A partire da questo criterio si è venuto elaborando il terrorismo, che si riteneva pienamente come un progetto morale; uccisione e violenza appaiono come azioni morali, perché erano al servizio della grande rivoluzione, al servizio della distruzione dell'attuale mondo cattivo e servivano al grande ideale della nuova società. Anche qui è data per scontata la fine della metafisica, al cui posto subentra in questo caso non il consenso dei contemporanei, ma il modello ideale del mondo futuro.
Vi è anche una origine criptoteologica di questa negazione del diritto. A partire da questa si comprende perché vaste correnti della teologia - innanzitutto le diverse forme di teologia della liberazione - erano così soggette a questa tentazione. Anche queste connessioni non mi é possibile presentare qui per esteso. Mi accontenterò dell'accenno al fatto che un malinteso paolinismo ha dato molto presto occasione per interpretazioni del cristianesimo radicali ed anche anarchiche. Per non parlare dei movimenti gnostici, nei quali inizialmente si svilupparono queste tendenze, che insieme con il no al Dio creatore includevano anche un no alla metafisica, al diritto creaturale ed al diritto naturale. Non ci soffermiamo qui sulle inquietudini e le agitazioni sociali del sedicesimo secolo, nell'ambito delle quali le correnti radicali della riforma diedero vita a movimenti rivoluzionari ed utopistici. Mi soffermo piuttosto su di un fenomeno apparentemente molto più innocuo, su di una forma di interpretazione del cristianesimo che dal punto di vista scientifico apparirebbe come totalmente rispettabile e che il grande giurista evangelico Rudolph Sohm ha sviluppato nel secolo scorso. Egli propose la tesi, che il cristianesimo come vangelo, come rottura della legge originariamente non avrebbe potuto e voluto includere alcun diritto, ma la Chiesa sarebbe inizialmente nata come "anarchia spirituale", che poi certamente a partire dalle necessità esterne dell'esistenza ecclesiale già verso la fine del primo secolo sarebbe stata sostituita da un diritto sacramentale. Al posto di questo diritto, che per cosi dire era fondato sulla carne di Cristo, sul corpo di Cristo ed era di natura sacramentale, sarebbe poi subentrato nel medioevo il diritto non più del corpo di Cristo, ma della corporazione dei cristiani, appunto quel diritto ecclesiale, che da allora noi conosciamo. Ma il vero modello restava per Sohm, l'anarchia spirituale: in realtà nella condizione ideale della Chiesa non dovrebbe esserci bisogno di nessun diritto. Nel nostro secolo a partire da tali posizioni divenne di moda la contrapposizione fra la Chiesa del diritto e la Chiesa dell'amore: il diritto fu presentato come l'opposto dell'amore. Un simile contrasto può certamente emergere nella concreta applicazione del diritto, ma innalzare questo a principio stravolge l'essenza del diritto così come l'essenza dell'amore. Queste concezioni ultimamente avulse dalla realtà, che non giungono fino allo spirito dell'utopia, ma le sono apparentate, si sono ampiamente diffuse nella nostra società. Il fatto che dagli anni cinquanta "Law and Order" (Legge ed ordine) siano divenute un insulto, anzi, "Law and Order" siano fatti passare come fascistoidi, dipende da queste concezioni. L'ironizzazione del diritto apparteneva per altro ai fondamenti del nazionalsocialismo (non conosco sufficientemente la situazione per quanto riguarda il fascismo italiano). Nei cosiddetti anni della lotta il diritto fu molto consapevolmente calpestato e contrapposto al cosiddetto sano sentimento popolare. Successivamente il "Fuhrer" fu dichiarato come l'unica fonte del diritto e cosi l'arbitrio fu messo al posto del diritto. La denigrazione del diritto non è mai ed in nessun modo al servizio della libertà, ma è sempre uno strumento della dittatura. La eliminazione del diritto è disprezzo dell'uomo; ove non vi è diritto, non vi è libertà.
A questo punto anche alla vera domanda di fondo cui mi vado dirigendo con queste riflessioni, può essere data una risposta purtroppo solo in modo assai sintetico - alla questione cioè di che cosa la fede e la teologia possano e debbano fare in questa situazione per la difesa del diritto. Vorrei in modo molto sommario e certamente insufficiente accennare ad una risposta proponendo le seguenti due tesi:
1. L'elaborazione e la strutturazione del diritto non é immediatamente un problema teologico, ma un problema della "recta ratio", della retta ragione. Questa retta ragione deve cercare di discernere, al di là delle opinioni e delle correnti di pensiero, ciò che è giusto, il diritto in se stesso, ciò che è conforme all'esigenza interna dell'essere umano di tutti i luoghi e che lo distingue da ciò che è distruttivo dell'uomo. Compito della Chiesa e della fede é contribuire alla sanità della "ratio" e per mezzo della giusta educazione dell'uomo conservare alla sua ragione la capacita di vedere e di percepire. Se questo diritto in se lo si vuol chiamare diritto naturale od in altro modo, é un problema secondario. Ma laddove questa esigenza interiore dell'essere umano, che come tale è orientato al diritto, laddove questa istanza, che va al di là delle correnti mutevoli, non può più essere percepita e quindi la "fine della metafisica" è totale, l'essere umano nella sua dignità e nella sua essenza è minacciato.
2. La Chiesa deve fare un esame di coscienza sulle spinte distruttive del diritto, che hanno avuto origine da interpretazioni unilaterali della sua fede e hanno contribuito a determinare la storia di questo secolo. Il suo messaggio supera l'ambito della semplice ragione e rinvia a nuove dimensioni della libertà e della comunione. Ma la fede nel creatore e nella sua creazione è inseparabilmente congiunta con la fede nel redentore e nella redenzione. La redenzione non dissolve la creazione ed il suo ordine, ma al contrario ci restituisce la possibilità di percepire la voce del creatore nella sua creazione e così di comprendere meglio i fondamenti del diritto. Metafisica e fede, natura e grazia, legge e vangelo non si oppongono, ma sono intimamente legati. L'amore cristiano, come lo propone il discorso della montagna, non può mai divenire fondamento di un diritto statuale. Esso va molto al di là ed è realizzabile almeno embrionalmente solo nella fede. Ma esso non è contro la creazione ed il suo diritto, bensì si fonda su di esso. Ove non vi è un diritto, anche l'amore perde il suo ambiente vitale. La fede cristiana rispetta la natura propria dello Stato, soprattutto dello Stato di una società pluralista, ma sente anche la sua corresponsabilità affinché i fondamenti del diritto continuino a rimanere visibili e lo Stato non sia esposto privo di orientamenti soltanto al gioco di correnti mutevoli. Poiché in questo senso, pur con tutte le distinzioni fra ragione e fede, fra diritto statuale da elaborare con l'aiuto della ragione e struttura vitale della Chiesa, tuttavia entrambi gli ordinamenti sono in una relazione reciproca od hanno una responsabilità l'uno per l'altro.
(dal discorso dell’allora card.J.Ratzinger in occasione del conferimento della laurea honoris causa della Facoltà di giurisprudenza della LUMSA, pronunciato il 10.11.1999)

Per una politica dell’Europa e dell’Occidente, storia e presente

La Chiesa sostanzialmente non può riconoscersi nella categoria “occidente”. Sarebbe sbagliato storicamente, empiricamente, ideologicamente.

Storicamente, sappiamo che il cristianesimo è nato nell'incrocio di Europa, Asia e Africa, e questo indica anche qualcosa della sua essenza interna. E' nato in un incontro delle culture come capacità, possibilità e sfida di una sintesi delle culture e come possibilità di trascendere le culture in qualcosa che è l'essere umano come tale e che precede e trascende le culture. Ai suoi inizi, l'espansione del cristianesimo andava ugualmente a oriente, verso Cina, India, Persia, Arabia, e a occidente.

Purtroppo, dopo la nascita dell'islam gran parte di questa cristianità orientale è scomparsa. Ma non del tutto, perché esistono elementi di queste cristianità storiche che testimoniano la sua universalità, e anche la cristianità europea si divide in occidentale e orientale. Quindi l'estensione della Chiesa riferita alla nostra cultura è molto grande e si dettaglia in diverse culture.

Empiricamente, non solo abbiamo questa grande eredità storica, ma il cristianesimo è presente, con minoranze di forza spirituale riconosciuta, in tutti i continenti. Sempre più l'asse della cristianità si sposta verso i nuovi continenti, verso Africa, Asia, America latina. L'Europa è ancora una fonte essenziale per lo sviluppo del cristianesimo, tuttavia comincia a emarginarsi proprio con la discussione sulla sua identità.

Teologicamente, perché la Chiesa, per sua essenza, dovrebbe trascendere le culture, essere il fatto che non è legato a una cultura determinata ma aiuta l'esodo dal carcere di una cultura e la comunicazione delle culture. E' quanto gli Atti degli Apostoli dicono sul giorno di Pentecoste, sulla presenza di tutte le culture conosciute e di tutte le lingue. E' come la carta costituzionale che indica come dovrebbe essere l'essenza di una Chiesa che parla in tutte le lingue, abbraccia, unisce le culture e allo stesso tempo ne rispetta le diverse ricchezze. Non è un comportamento politico dettato dal bisogno di non perdere la simpatia per la Chiesa in Africa, Asia o America latina, ma è un comportamento teologico.

La Chiesa non può riconoscersi semplicemente come occidente, ma deve sempre di nuovo trascendere la sua definizione occidentale e estendersi realmente verso l'universalità, soprattutto trascendendo se stessa verso il divino, che è l'unica realtà che può creare una comunicazione delle culture. E' vero, a volte la Chiesa si comporta in modo politico, ma è anche giusto che avvenga.

Rispetto alla distruzione delle culture precedenti: c'è una differenza sostanziale tra l'espropriazione fatta dall'invasione del laicismo in Africa, dove i mores maiorum sono stati sostituiti con una razionalità che non conosce mores e non conosce risposte in questo campo e quindi li distrugge come irrazionali ma non offre nuove risposte. La visione cristiana ha almeno cercato di non distruggere semplicemente ma di assimilare l'essenza delle religioni che, secondo la nostra convinzione, era in attesa di una risposta. Possiamo osservare che le culture africane erano e sono in attesa di una risposta nuova, così come lo erano le culture mediterranee del tempo di Cristo. Il politeismo greco-romano non poteva sopravvivere, era superato, era divenuto irrazionale, pura tradizione senza cuore e senza ragione, e aspettava una risposta che trasformasse profondamente.

La stessa cosa è avvenuta per i popoli africani, nell'Ottocento e Novecento. Si attendeva una nuova risposta che integrasse le ricchezze al loro interno, trasformandole in una nuova apertura che rispondesse alla nuova situazione storica. La predicazione cristiana ha trovato in tutte quelle religioni una mistica di morte e resurrezione, prefigurazione di quanto insegna la fede cristiana, idee di iniziazione, di sacramentalità. Anche in America latina: pensiamo all'immagine della Madonna di Guadalupe, che è realmente una sintesi interculturale incredibile, che nessuno poteva escogitare.

Così sono state salvate sostanze essenziali, e questi popoli non avrebbero accettato con tanto entusiasmo il messaggio cristiano se non avessero trovato nel Dio sofferente una risposta a quanto si aspettavano, e nella Madonna una risposta al desiderio di una madre. Ci sono state distruzioni, certo, ma oso dire, da cattolico, che le due distruzioni sono state diverse.

Ultimo punto, che cosa è l'Europa. E' evidente l'elemento geografico, ma la geografia sola non crea un continente.

Nell'epoca greco-romana i limiti erano molto diversi, e solo per la religione e la cultura comune si è formato questo continente, che non si definisce come tale senza quel fondamento che non è solo una radice storica del passato ma è fonte e condizione di vita, come la radice per un albero. Per ridefinire che cosa sia l'Europa non possiamo fermarci al positivismo, a ciò che siamo, alle leggi e ai diritti definiti. Se vogliamo definire l'Europa in modo che possa vivere e contribuire al mondo di oggi e non vivere “contro” gli altri, ma per se stessa e gli altri essere una fonte di umanizzazione nel mondo, abbiamo bisogno di ridefinire il nostro continente.

Ci sono due cose che a mio avviso dobbiamo difendere come la grande eredità europea che vive e deve vivere. Il primo è la razionalità, che è un dono dell'Europa al mondo ed è anche voluta dal cristianesimo. I Padri della Chiesa hanno visto la preistoria della Chiesa non nelle religioni ma nella filosofia. Loro erano convinti che “semina verbi”, “logos spermatikos” non erano le religioni ma il movimento della ragione cominciato con Socrate, che non si accontentava della tradizione ma sorpassava le tradizioni per trovare ciò che è vero, e trovarlo con la forza della ragione.

Così è stata aperta la porta al cristianesimo, con la critica delle tradizioni, l'esperienza della necessità di uscire dal carcere di una tradizione non più valida, con questo cammino avventuroso, questo cercare di più, cercare con tutte le forze della ragione umana la realtà, da dove veniamo e dove dobbiamo andare. Questa critica delle tradizioni, che ha aperto la questione se il cristianesimo fosse la risposta, era necessaria per aprire le porte al movimento cristiano. La razionalità è voluta dalla fede. San Pietro dice nella sua prima lettera: “Siate sempre pronti a dare apologia per il logos della vostra speranza”. Cioè, la vostra speranza, che è identica alla fede, porta con sé un logos e questo logos può divenire una apologia, una risposta che può essere comunicata agli altri. Non vogliamo creare un impero di potere, ma abbiamo una cosa comunicabile alla quale va incontro un'attesa della nostra ragione, è comunicabile perché appartiene alla nostra comune natura umana e c'è un dovere di comunicare da parte di chi ha trovato un tesoro di verità e amore.

La razionalità era quindi postulato e condizione del cristianesimo, e rimane un'eredità europea per confrontarci, in modo pacifico e positivo, sia con l'islam sia con le grandi religioni asiatiche. Secondo punto: questa razionalità diventa pericolosa e distruttiva per la creatura umana se diventa positivista e riduce i grandi valori del nostro essere alla soggettività, e diventa così un'amputazione della creatura umana. Non vogliamo imporre a nessuno una fede che si può accettare solo liberamente, ma come forza vivificatrice della razionalità dell'Europa essa appartiene alla nostra identità.

E' stato detto che non dobbiamo parlare di Dio nella Costituzione europea perché non dobbiamo offendere i musulmani e i fedeli di altre religioni. E' vero il contrario. Ciò che offende i musulmani e i fedeli di altre religioni non è parlare di Dio o delle nostre radici cristiane, ma piuttosto il disprezzo di Dio e del sacro, che ci separa dalle altre culture e non crea una possibilità d'incontro ma esprime l'arroganza di una ragione diminuita, ridotta, che provoca reazioni fondamentaliste.

L'Europa, sottolineo, deve difendere la razionalità e su questo punto anche noi credenti dobbiamo essere grati al contributo dei laici, dell'illuminismo, che deve rimanere una spina nella nostra carne. Ma anche i laici devono accettare la spina nella loro carne, cioè la forza fondante della religione cristiana per l'Europa, non solo ieri ma anche oggi e domani.
(dall’intervento del card.J.Ratzinger nel Dialogo su storia, politica e religione con lo storico Ernesto Galli della Loggia, tenutosi nell’ottobre 2004 nell'ambito degli incontri organizzati dal Centro di orientamento politico, presieduto da Gaetano Rebecchini. La trascrizione è tratta da “Il Foglio”, 27 e 28-10-2004 ed è già apparsa on-line nell’agenzia di stampa Zenit)

La discussione politica sullo statuto dell’embrione e sulla fecondazione artificiale

Negli ultimi tempi mi capita di notare sempre di più che il relativismo – quanto più diventa la forma di pensiero generalmente accettata – tende all'intolleranza, trasformandosi in un nuovo dogmatismo. La political correctness, la cui pressione onnipresente Lei ha evidenziato, vorrebbe erigere il regno di un solo modo di pensare e parlare. Il suo relativismo apparentemente la innalza più in alto di tutte le grandi vette del pensiero finora raggiunte; soltanto così si dovrebbe ancora pensare e parlare se si vuole essere all'altezza del presente. Mentre la fedeltà ai valori tradizionali e alle conoscenze che li sostengono viene bollata come intolleranza e lo standard relativistico viene elevato a obbligo.

Mi sembra molto importante contrapporsi a questa costrizione di un nuovo pseudo-Illuminismo che minaccia la libertà di pensiero e anche la libertà di religione. Che in Svezia un predicatore che aveva esposto l'insegnamento biblico circa la questione dell'omosessualità senza se e senza ma sia stato condannato a una pena detentiva è soltanto uno dei segni del fatto che il relativismo comincia a prendere piede come una sorta di nuova “confessione”, che pone limiti alle convinzioni religiose e cerca di sottoporle tutte al suo super-dogma del relativismo.

Qui emerge appieno il dilemma dell'esistenza umana. Se si dovessero equiparare razionalità e coscienza media, alla fine rimarrebbe ben poco della “ragione”. Il cristiano è convinto che la sua fede non solo gli apre nuove dimensioni del conoscere, ma che aiuta soprattutto la ragione a essere se stessa. C’è il vero e proprio patrimonio della fede (Trinità, divinità di Cristo, sacramenti, eccetera), ma ci sono anche le conoscenze alla cui evidenza contribuisce la fede, che poi però vengono riconosciute come razionali e appartenenti alla ragione come tale, e che perciò implicano anche una responsabilità nei confronti degli altri.

Il fedele, che ha ricevuto egli stesso un aiuto per la sua ragione, deve impegnarsi in favore della ragione e di ciò che è razionale: questo, di fronte alla ragione addormentata o ammalata, è un dovere che ha verso tutta la comunità umana. Naturalmente il fedele sa che deve rispettare la libertà degli altri e che la sua unica arma alla fine è proprio la razionalità degli argomenti che propone nell'agone politico e nella lotta per formare la pubblica opinione. Per questo è molto importante sviluppare un'etica filosofica che, pur essendo in armonia con l'etica della fede, deve però avere il suo proprio spazio e il suo rigore logico. La razionalità degli argomenti dovrebbe cancellare il fossato fra etica laica e etica religiosa e fondare un'etica della ragione che vada oltre tali distinzioni.

Detto questo, vorrei brevemente trattare due questioni di contenuto. C’è, per prima cosa, il problema dell'essere “persona fin dal concepimento”. L'istruzione Donum vitae del 22 febbraio 1987, al n. I, 1, ricorda come, in base alle conoscenze della genetica moderna, “dal primo istante si trova fissato il programma di ciò che sarà questo vivente: un uomo, quest'uomo individuo con le sue note caratteristiche già ben determinate”. O, in altre parole: “nello zigote derivante dalla fecondazione si è già costituita l'identità biologica di un nuovo individuo umano”. È qui che si passa dall'empirico al filosofico.

L'istruzione afferma che nessun dato sperimentale potrà mai essere sufficiente per constatare l'esistenza di un'anima spirituale. Il documento formula la connessione tra livello empirico e filosofico in forma di domanda. Ricorda ancora una volta che si può constatare empiricamente che c'è un nuovo individuo: “individuo” è un termine empirico in quanto si tratta di un organismo che, pur essendo completamente dipendente da quello della madre, tuttavia è un organismo nuovo, con un suo proprio programma genetico. Ne consegue la domanda: “Come può un individuo umano non essere una persona umana?”. Da cui risulta la deduzione etica: “L'essere umano da rispettare – come una persona – fin dal primo istante della sua esistenza”.

Il Magistero qui non propone una propria teoria filosofica, tanto meno argomenta teologicamente; pone, al punto d'incontro dei livelli empirico e filosofico (antropologico), una domanda che – a mio parere – comporta una chiara conseguenza etica per la ragione. Da cui risulta, d'altra parte, una deduzione per il legislatore: se le cose stanno così, allora l'autorizzazione all'uccisione dell'embrione significa che “lo Stato viene a negare l'uguaglianza di tutti davanti alla legge” (parte III). La questione del diritto la vita di tutti quelli che sono uomini non è per noi una questione di etica della fede, ma di etica della ragione. Ed è a questo livello che si deve svolgere il dibattito.

Trattare allo stesso modo anche i problemi inerenti alla fecondazione artificiale ci costringerebbe ad andare troppo oltre. Vorrei però almeno accennare al fatto che la Donum vitae, pur rifiutando, sulla base di un'etica che argomenta antropologicamente, la fecondazione omologa come anche quella eterologa, non esige dal legislatore il divieto della fecondazione omologa extra corporea, ma vorrebbe comunque vedere esclusa la fecondazione eterologa anche per legge, in quanto altrimenti si rinuncerebbe al valore, ancora protetto per legge, del matrimonio; sarebbe cioè un “no” a un'istituzione fondamentale delle società basate sulla cultura cristiana. Un tale affronto contro la base della nostra struttura sociale è in fondo un'auto-contraddizione del legislatore; il fatto che ciò non venga più percepito dimostra chiaramente quanto sia avanzato il processo di smantellamento dell'istituzione matrimoniale. Partendo dalla mia fede, come anche dalla ragione morale, posso in questo riconoscere un segnale d'allarme molto serio per le nostre società.

I documenti della Chiesa degli ultimi tempi sono ben consapevoli di questo contesto. Partono innanzitutto dal fatto che accettazione e successo non possono essere i criteri decisivi per la coscienza in cerca della verità.

Ma, d'altra parte, si rendono anche conto che in politica si tratta di ciò che è realizzabile e di avvicinarsi il più possibile a ciò che la coscienza e la ragione hanno riconosciuto come il vero bene per l'individuo e la società. Alla politica appartiene il compromesso. Fin dove si può spingere, con dei compromessi, il politico cristiano nella sua ricerca di un diritto moralmente fondato senza entrare in contraddizione con suo coscienza?

Sia la Evangelium vitae che la Donum vitae sono consapevoli del fatto che, sulla base di una ragione su cui oggi ci sono opinioni tanto contrastanti, non si potrà raggiungere il necessario consenso per una legislazione intorno alle questioni di etica della vita che corrisponda pienamente alla coscienza cristiana.

Tutti e due i testi insistono perciò che il legislatore, partendo dal principio comunemente riconosciuto della libertà di coscienza, dovrebbe, in questo ambito, concedere il diritto all'obiezione di coscienza: la Chiesa non vuole imporre agli altri ciò che non comprendono, ma si aspetta, da parte loro, almeno il rispetto per la coscienza di coloro che lasciano guidare la loro ragione dalla fede cristiana.
(dalla Lettera a Marcello Pera del card. J.Ratzinger in J.Ratzinger-M.Pera, Senza Radici, Mondadori, Milano, 2004)

Guerra, violenza, terrorismo

Quando, il 5 giugno 1944, iniziò lo sbarco delle truppe alleate nella Francia occupata dalla Wermacht, l’evento rappresentò per il mondo intero, compresa una gran parte dei tedeschi, un segnale di speranza: la speranza che in Europa presto sarebbero arrivate la pace e la libertà.

Che cos’era accaduto? Un criminale con i suoi accoliti era riuscito a impadronirsi del potere in Germania. Sotto il dominio del Partito, il diritto e l’ingiustizia si erano intricati tra loro in maniera pressoché indissolubile, tanto da travasarsi spesso l’uno nell’altra e viceversa. Questo perché un regime diretto da un criminale esercitava anche le funzioni classiche dello Stato e dei suoi ordinamenti, così che aveva facoltà, in un certo senso, di esigere di diritto l’obbedienza dei cittadini e il loro rispetto nei confronti dell’autorità dello Stato (Rm 12, 1 e seg.) ma nello stesso tempo utilizzava gli strumenti del diritto come mezzi per i suoi scopi criminali.

Lo stesso Stato di diritto, che in parte continuava a funzionare nelle sue forme abituali all’interno della vita quotidiana, era diventato una potenza che distruggeva il diritto: la perversione degli ordinamenti, che dovevano servire la giustizia e contemporaneamente consolidavano e rendevano impenetrabile il dominio dell’iniquità, si traduceva in un dominio esteso e profondo della menzogna, tale da oscurare le coscienze.

Al servizio di questo dominio della menzogna stava un regime di paura, nel quale nessuno poteva fidarsi dell’altro perché tutti in qualche modo dovevano proteggersi sotto la maschera della menzogna. Così fu di fatto necessario che il mondo intero intervenisse a spezzare il cerchio dell’azione criminale, perché fossero ristabiliti la libertà e il diritto. Oggi noi siamo grati al fatto che questo sia avvenuto, e a esser grati non sono soltanto i Paesi occupati dalle truppe tedesche. Noi stessi, i tedeschi, siamo grati perché, con l’aiuto di quell’impegno, abbiamo recuperato la libertà e il diritto.

Se mai si è verificato nella storia un bellum justum è qui che lo troviamo, nell’impegno degli Alleati, perché il loro intervento operava nei suoi esiti anche per il bene di coloro contro il cui Paese era condotta la guerra. Questa constatazione mi pare importante perché mostra, sulla base di un evento storico, l’insostenibilità di un pacifismo assoluto. Il che non ci esenta in alcun modo dal porci con molto rigore la domanda se oggi sia ancora possibile, e a quali condizioni, qualcosa di simile a una guerra giusta, vale a dire un intervento militare, posto al servizio della pace e guidato dai suoi criteri morali, contro i regimi ingiusti.

Soprattutto, si spera che quel che abbiamo fin qui detto aiuti a comprendere meglio che la pace e il diritto, la pace e la giustizia sono inseparabilmente interconnessi. Quando il diritto è distrutto, quando l’ingiustizia prende il potere, la pace è sempre minacciata ed è già, almeno in parte, compromessa.

In Europa, a partire dalla fine delle ostilità, nel maggio 1945, ci è stato dato di vivere un periodo di pace lungo come non mai in tutto il corso della storia del continente. Questo in gran parte per merito della prima generazione di politici che hanno operato nel dopoguerra Churchill, Adenauer, Schumann, De Gasperi.

A loro dobbiamo ancor oggi gratitudine, e dobbiamo essere grati che a guidare in maniera determinante la loro politica non fu un’idea di rivalsa, o di vendetta, o di umiliazione dei vinti ma il dovere di garantire a tutti un diritto; che in luogo della concorrenza fu introdotta la collaborazione, lo scambio di doni offerti e accettati, la mutua conoscenza e l’amicizia nel cuore di una diversità nella quale ciascuna nazione conserva la sua identità e la conserva nella comune responsabilità nei confronti del diritto, in luogo della precedente perversione del diritto.

Il centro motore di quella politica di pace fu il legame fra l’agire politico e la morale. Il discrimine interno a qualsiasi politica è costituito dai valori morali che noi non inventiamo: essi esistono e sono gli stessi per tutti gli uomini. Diciamolo apertamente: quegli uomini politici hanno fondato la loro idea morale dello Stato, della pace e della responsabilità sulla loro fede cristiana, che aveva superato la prova dell’illuminismo e si era ampiamente purificata nel confronto con la distorsione del diritto e della morale operata dal Partito.

Essi non volevano costruire uno Stato confessionale bensì uno Stato che prendesse forma attraverso l’etica. A ciò si aggiunge in verità il fatto che l’Europa era divisa da una frontiera che non attraversava soltanto il nostro continente bensì il mondo intero. Una grande parte dell’Europa centrale e dell’Europa orientale si trovava sotto il dominio di un’ideologia che passava attraverso il Partito e sottometteva lo Stato al Partito, trasformandolo esso stesso in partito.

Anche qui ne derivava un dominio della menzogna. Dopo il crollo di queste dittature, sono emersi con chiarezza i disastri economici, ideologici e spirituali da esse generati. Nei Balcani si è arrivati a conflitti armati nei quali senza alcun dubbio tutto il peso storico del passato produceva per parte sua ulteriori esplosioni di violenza. Ma sottolineare il carattere criminale di quei regimi ed essere felici che siano stati rovesciati non ci esime dal chiederci perché, alla maggior parte dei popoli africani e asiatici, a quei Paesi che erano detti “non allineati”, il regime dell’Est appariva più morale e più realizzabile come modello rispetto all’ordinamento politico e giuridico dell’Occidente. E’ un sintomo, questo, di alcune deficienze nella nostra struttura, deficienze sulle quali dobbiamo riflettere...
Ma le organizzazioni terroriste e quelle criminali non hanno niente a che vedere con quel tipo di ragione, dato che uno dei pilastri del terrore poggia sulla disponibilità all’autodistruzione, un’autodistruzione trasfigurata in martirio e tradotta in promessa.

Che cosa possiamo e dobbiamo fare in questa situazione? Prima di tutto è bene soffermarsi su alcune verità fondamentali. Non è possibile venire a capo del terrore, cioè della forza opposta al diritto e separata dalla morale, con il solo mezzo della forza.

Certamente la difesa del diritto può e deve, in alcune circostanze, far ricorso a una forza commisurata. Un pacifismo assoluto, che neghi al diritto l’uso di qualunque mezzo coercitivo, si risolverebbe in una capitolazione davanti all’iniquità, ne sanzionerebbe la presa del potere e abbandonerebbe il mondo al diktat della violenza. Ma per evitare che la forza del diritto si trasformi essa stessa in iniquità, è necessario sottometterla a criteri rigorosi e riconoscibili come tali da parte di tutti.

Essa deve interrogarsi sulle cause del terrore, il quale spesso trova la sua scaturigine in una situazione di ingiustizia alla quale non vengono opposte misure efficaci. Soprattutto è importante in queste situazioni rinnovare costantemente un’offerta di perdono, al fine di spezzare la spirale della violenza.

Là dove, infatti, viene applicata senza quartiere la regola dell’ “occhio per occhio”, non c’è via d’uscita dalla violenza. Sono necessari gesti d’umanità che, rompendo con la violenza, cerchino nell’altro l’uomo e lo richiamino alla sua umanità, anche dove ciò appaia a prima vista come una perdita di tempo.

E’ urgente l’avvento di un vero ius gentium libero da egemonie preponderanti e capace di interventi adeguati: solo così apparirà chiaro che in gioco è la protezione del diritto comune, del diritto di tutti, anche di coloro che stanno, come si suol dire, dall’altra parte della barricata.

Nella Seconda guerra mondiale è stato il verificarsi di questa condizione a risultare convincente e a portare a una vera pace tra le forze antagoniste. Non si operò, infatti, per il rafforzamento di un diritto particolare ma per il ristabilimento della libertà e del vero diritto, per tutti, anche se indubbiamente non si riuscì a impedire la nascita di nuove strutture egemoniche...

Ma nell’attuale scontro tra le grandi democrazie e il terrore di matrice islamica entrano in gioco questioni le cui radici sono ancor più profonde. Sembra di assistere oggi allo scontro tra due grandi sistemi culturali i quali sono caratterizzati in verità da forme molto diverse di potenza e di orientamento morale: l’Occidente e l’Islam.

E tuttavia, che cos’è l’Occidente? E che cos’è l’Islam? Entrambi sono mondi polimorfi, e sono mondi anche interagenti. In questo senso è dunque un errore opporre globalmente Occidente e Islam. C’è chi tuttavia tende ad approfondire ulteriormente questa opposizione, interpretandola come scontro tra la ragione illuminata e una forma di religione fondamentalista e fanatica. Si tratterebbe dunque di abbattere prima di tutto il fondamentalismo in tutte le sue forme e di promuovere la vittoria della ragione per lasciare campo libero a forme illuminate di religione.

E’ vero che, in questo caso, il rapporto tra la ragione e la religione è di un’importanza decisiva, che la ricerca di un giusto rapporto è il fulcro dei nostri sforzi in materia di pace. Parafrasando un’affermazione di Hans Kung, direi che nessuna pace può esserci nel mondo senza l’autentica pace tra ragione e fede, perché senza la pace tra la ragione e la religione le sorgenti della morale e del diritto si esauriscono.

Per chiarire il senso di questa affermazione vorrei formulare il medesimo pensiero in chiave negativa: esistono le patologie della religione - sono sotto i nostri occhi ed esistono le patologie della ragione anch’esse ben visibili. Entrambe le patologie costituiscono pericoli mortali per la pace e, oserei dire, per l’umanità intera.
(dal discorso per il 60° anniversario dello sbarco alleato in Normandia, tenuto il 4 giugno 2004)

Le teologie della liberazione

A ben guardare, due anni sembrano aver segnato gli ultimi decenni del secolo appena trascorso: il 1968 e il 1989. Il 1968 è legato all’emergere di una nuova generazione, che non solo giudicò inadeguata, piena di ingiustizia, piena di egoismo e di brama di possesso, l’opera di ricostruzione del dopoguerra, ma che guardò all’intero svolgimento della storia, a partire dall’epoca del trionfo del cristianesimo, come a un errore e a un insuccesso. Desiderosi di migliorare la storia, di creare un mondo di libertà, di uguaglianza e di giustizia, questi giovani si convinsero di aver trovato la strada migliore nella grande corrente del pensiero marxista. L’anno 1989 segnò il sorprendente crollo dei regimi socialisti in Europa, che lasciarono dietro di sé un triste strascico di terre distrutte e di anime distrutte. E, tuttavia, chi pensava che l’ora del messaggio cristiano sarebbe nuovamente scoccata si è illuso: sebbene il numero dei cristiani credenti nel mondo non sia modesto, in questo momento storico il cristianesimo non è riuscito a porsi distintamente come un’alternativa epocale. La ‘dottrina di salvezza’ marxista, in sostanza, era nata, nelle sue numerose versioni variamente strumentate, come unica visione del mondo scientifica corredata di motivazione etica e adatta ad accompagnare l’umanità nel futuro. Di qui il suo difficile congedo, anche dopo il trauma del 1989. Basti pensare a quanto contenuta è stata la discussione sugli orrori dei gulag comunisti, a quanto inascoltata è rimasta la voce di Solženicyn: di tutto questo non si parla. A imporre il silenzio è una sorta di pudore. Persino al sanguinario regime di Pol Pot si accenna soltanto occasionalmente, en passant. Ma è rimasto il disinganno, accanto a una profonda confusione. Nessuno oggi crede più alle grandi promesse morali. E proprio in questi termini era stato inteso il marxismo: una corrente che auspicava giustizia per tutti, l’avvento della pace, l’abolizione degli ingiustificati rapporti di predominio dell’uomo sull’uomo e via dicendo. Per questi nobili scopi si pensò di dover rinunciare ai principi etici e di poter utilizzare il terrore come strumento del bene. Da quando, anche solo per un momento, sono affiorate in superficie, visibili a tutti, le rovine dell’umanità prodotte da quest’idea, la gente preferisce rifugiarsi nella pragmatica o professare pubblicamente il dispregio per l’etica. Un tragico esempio è quello della Colombia, dove all’insegna del marxismo è stata intrapresa in passato una lotta per la liberazione dei piccoli agricoltori, soffocati dai grandi capitalisti. Al suo posto oggi è rimasta una repubblica di ribelli sottratti al potere statale, che vive apertamente del traffico illecito di droga e non cerca per questo giustificazioni morali, soprattutto perché, soddisfacendo la domanda dei paesi ricchi, riesce a sfamare un popolo che altrimenti faticherebbe a trovare un suo posto nell’ordine economico mondiale...

Nella determinazione del ruolo del cristianesimo nella storia ha influito soprattutto l’idea di un nuovo rapporto tra chiesa e mondo. Se negli anni Trenta Romano Guardini aveva coniato (giustamente) l’espressione «distinzione di ciò che è cristiano» (Unterscheidung des Christlichen), oggi tale distinzione sembrerebbe aver perso la sua importanza in favore, piuttosto, del superamento delle distinzioni, dell’avvicinarsi al mondo, del coinvolgersi nel mondo. Quanto rapidamente queste idee potessero uscire dalla cerchia dei discorsi ecclesiastici accademici e acquisire un taglio più pratico cominciò a essere evidente già nel 1968, all’epoca delle barricate parigine, quando si celebrava un’eucaristia della rivoluzione e, con essa, si sperimentava un nuovo connubio tra chiesa e mondo all’insegna della rivoluzione, in attesa di tempi migliori. La partecipazione in prima linea di comunità studentesche cattoliche ed evangeliche ai movimenti rivoluzionari nelle università europee ed extraeuropee non fece che confermare tale tendenza.
Il bagliore di questa nuova conversione di idee in prassi, di questa nuova fusione di impulso cristiano e di azione politica a livello mondiale fu particolarmente vivido in America Latina. Per oltre un decennio la teologia della liberazione sembrò indicare alla fede la nuova direzione da prendere per tornare ad essere incisiva nel mondo, in quanto al mondo nuovamente congiunta grazie alle nuove conoscenze e alle nuove direttive dell’epoca. Che i paesi latinoamericani fossero spaventosamente contrassegnati da repressione, da una dominazione iniqua, dalla concentrazione della proprietà e del potere nelle mani di pochi e dallo sfruttamento dei poveri è un fatto indiscusso, tanto indiscusso da ingenerare un bisogno di intervento. E, poiché questi paesi erano nella maggior parte cattolici, non poteva esserci dubbio circa le responsabilità della chiesa e la necessità da parte della fede di affermarsi come strumento di giustizia. Ma in che modo? Sembrava, a quell’epoca, che l’unica strada percorribile fosse il marxismo. Sembrava che Marx avesse assunto il ruolo che nel XIII secolo aveva ricoperto il pensiero aristotelico, una filosofia precristiana (ossia ‘pagana’) da battezzare per riavvicinare l’una all’altra fede e ragione e per porle in un rapporto corretto. Chi, tuttavia, accoglieva Marx (o le varianti del pensiero neomarxista) come rappresentante della ragione universale non aderiva semplicemente a una filosofia, a una visione dell’origine e del senso dell’esistenza, bensì e soprattutto a una prassi. Perché questa filosofia è sostanzialmente una ‘prassi’, che crea innanzitutto ‘verità’, non la presuppone. Chi fa di Marx un filosofo della teologia accetta anche il primato della politica e dell’economia, elevandole al ruolo di forze effettive di salvezza (o di non-salvezza, se male utilizzate): in quest’ottica il riscatto dell’uomo avviene per il tramite della politica e dell’economia, in seno alle quali prende corpo il futuro. Il primato di prassi e politica significava, innanzitutto, l’impossibilità di includere Dio nella categoria del ‘pratico’: la ‘realtà’ che bisognava riconoscere era soltanto quella materiale dell’accadere storico, che era necessario penetrare e indirizzare verso il giusto obiettivo, trasformandolo con gli strumenti appositamente creati allo scopo, senza escludere, al bisogno, la violenza. In quest’ottica diventava necessario accantonare il discorso di Dio, estraneo all’ambito del pratico e alla sfera della realtà, per avere la libertà di realizzare gli obiettivi più importanti. Rimaneva l’immagine di Gesù, che ormai, non più colto come il Cristo, veniva considerato come l’incarnazione di tutti i sofferenti e gli oppressi, un loro portavoce che chiamava alla rivoluzione e a grandi cambiamenti. La novità, nel complesso, era che il progetto di riforma del mondo, che in Marx è pensato in senso non soltanto ateistico, ma anche antireligioso, si riempiva ora di entusiasmo religioso e poggiava su fondamenti religiosi: una Bibbia (soprattutto l’Antico Testamento) riletta in una nuova chiave e una liturgia celebrata come pre-compimento simbolico della rivoluzione e come preparazione alla stessa.
Bisogna riconoscerlo: il cristianesimo, con questa curiosa sintesi, riapprodava nel mondo, proponendosi come messaggio ‘epocale’. Non fa meraviglia che gli stati socialisti simpatizzassero per questo movimento. Più sorprendente, al contrario, è il fatto che anche nei paesi cosiddetti ‘capitalisti’ l’opinione pubblica mostrasse un debole per la teologia della liberazione, che dai suoi oppositori era invece additata come un peccato contro il genere umano e la natura umana; in realtà, ovviamente, nessuno auspicava di vedere applicate le indicazioni pratiche di questa teologia, poiché un ordine sociale giusto sembrava già essere stato raggiunto. Non si può negare, tuttavia, che nelle varie teologie della liberazione vi fossero anche molte idee veramente degne di considerazione. Tutti questi progetti, però, dovevano rinunciare a porsi come forma epocale di sintesi di cristianesimo e mondo nel momento in cui la fede cedeva alla politica il ruolo di forza salvifica. È vero che l’uomo, come dice Aristotele, è un «essere politico», ma è altrettanto certo che l’uomo non può essere ridotto alla politica e all’economia. A mio avviso, il problema reale e più profondo delle teologie della liberazione è la perdita effettiva dell’idea di Dio, che ovviamente (come si è accennato) ha anche determinato un cambiamento fondamentale dell’immagine di Cristo. Non che si sia negata l’esistenza di Dio, per carità. Semplicemente, si è cessato di riferirsi a Dio per la ‘realtà’ a cui ci si doveva rivolgere. Dio, cioè, ha perso la sua funzione. A questo punto viene da chiedersi con un certo stupore: Questo accadeva soltanto nella teologia della liberazione? Oppure essa ha potuto giudicare la questione di Dio come non pratica per il futuro progetto di riforma del mondo semplicemente perché la cristianità da tempo così pensava o, addirittura, così viveva, senza pensarci e senza accorgersi? La coscienza cristiana non si è forse, senza accorgersi, rassegnata all’idea che la fede in Dio fosse un fatto soggettivo, ristretto alla sfera del privato e non estensibile alle attività comuni della vita pubblica, in cui ci si doveva inserire per poter collaborare, «etsi Deus non daretur» (nel caso in cui Dio non esistesse)? Non si doveva trovare una strada percorribile anche nel caso in cui Dio non fosse esistito? La conseguenza naturale fu che, di fatto, al momento del passaggio della fede dallo spazio chiuso del religioso all’ambito pubblico e generale non fu riconosciuta a Dio alcuna funzione, ma si tese ad accantonarlo dov’era prima: nella sfera privata, intima, riguardante soltanto il singolo individuo. Perciò, lasciando Dio come Dio senza funzione, e tanto più che spesso si era abusato del suo nome, non era necessaria una particolare noncuranza nei suoi confronti né opporgli un rifiuto consapevole. La fede sarebbe uscita veramente dal ghetto soltanto se avesse portato nella sfera pubblica ciò che le è proprio, il Dio che giudica e soffre, il Dio che pone all’uomo limiti e criteri; il Dio da cui prende vita e a cui ritorna ciascuno di noi. Più che mai, invece, questo Dio è rimasto di fatto relegato nel ghetto dell’inservibilità.
In realtà, Dio è ‘pratico’; non è un mero corollario teorico a una determinata visione del mondo, un’idea a cui ricorrere per trovare conforto o appiglio o, semplicemente, un concetto che si possa ignorare.
(dalla nuova prefazione dell’aprile 2000, “Ieri, oggi, domani”, del card. Joseph Ratzinger a Introduzione al cristianesimo, J.Ratzinger, Queriniana, Brescia, 2000)

Problemi di politica internazionale

L’impegno per la verità è l’anima della giustizia. Chi è impegnato per la verità non può non rifiutare la legge del più forte, che vive di menzogna e che a livello nazionale ed internazionale ha tante volte segnato di tragedie la storia dell’uomo. La menzogna si ammanta spesso di un’apparenza di verità, ma in realtà è sempre selettiva e tendenziosa, egoisticamente rivolta a strumentalizzare l’uomo e, in definitiva a sopraffarlo. Sistemi politici del passato, ma non solo del passato, ne sono un’amara esemplificazione. Sul versante opposto si collocano la verità e la veracità, che portano all’incontro dell’altro, al suo riconoscimento ed all’intesa: per quello splendore che le è proprio lo splendor veritatis la verità non può non diffondersi; e l’amore del vero è, per suo intrinseco dinamismo, tutto rivolto alla comprensione imparziale ed equanime ed alla condivisione, nonostante qualsiasi difficoltà.
La vostra esperienza di diplomatici non può non confermare che, anche nei rapporti internazionali, la ricerca della verità riesce ad individuare le diversità fin nelle più sottili sfumature, e le relative esigenze, e per ciò stesso anche i limiti da rispettare e da non oltrepassare, nella tutela di ogni legittimo interesse delle parti. Questa medesima ricerca della verità vi porta al contempo ad affermare con forza ciò che vi è di comune, di appartenente alla medesima natura delle persone, di ogni popolo e di ogni cultura, e che dev’essere parimenti rispettato. E quando questi aspetti, distinti e complementari la diversità e l’uguaglianza sono conosciuti e riconosciuti, allora i problemi possono risolversi ed i dissidi ricomporsi secondo giustizia, e sono possibili intese profonde e durevoli, mentre quando uno di essi viene misconosciuto o non tenuto nel debito conto, è allora che subentra l’incomprensione, lo scontro, la tentazione della violenza e della sopraffazione.
Quasi con evidenza esemplare tali considerazioni mi sembrano applicabili in quel punto nevralgico della scena mondiale, che resta la Terra Santa. In essa lo Stato d’Israele deve poter sussistere pacificamente in conformità alle norme del diritto internazionale; in essa, parimenti, il Popolo palestinese deve poter sviluppare serenamente le proprie istituzioni democratiche per un avvenire libero e prospero...

Il secondo enunciato che vorrei proporre suona: l’impegno per la verità dà fondamento e vigore al diritto di libertà. La grandezza unica dell’essere umano ha la sua ultima radice in questo: l’uomo può conoscere la verità. E l’uomo la vuole conoscere. Ma la verità può essere raggiunta solo nella libertà. Ciò vale per tutte le verità, come appare dalla storia delle scienze; ma è vero in maniera eminente per le verità in cui è in giuoco l’uomo stesso in quanto tale, le verità dello spirito: quelle che riguardano il bene ed il male, le grandi mete e prospettive di vita, il rapporto con Dio. Perché esse non si possono attingere senza che ne derivino profondi riflessi sulla conduzione della propria vita. Ed una volta liberamente fatte proprie, hanno poi bisogno di spazi di libertà per poter essere vissute secondo tutte le dimensioni della vita umana.
È qui che si inserisce naturalmente l’attività di ogni Stato, così come l’attività diplomatica inter-statale. Negli odierni sviluppi del diritto internazionale si avverte con crescente sensibilità che nessun Governo può dispensarsi dal compito di garantire ai propri cittadini adeguate condizioni di libertà, senza pregiudicare per ciò stesso la propria credibilità come interlocutore nelle questioni internazionali. E ciò è giusto: perché nella tutela dei diritti inerenti alla persona in quanto tale, internazionalmente garantiti, non si può non riservare una valutazione prioritaria allo spazio dato ai diritti di libertà all’interno dei singoli Stati, sia nella vita pubblica come in quella privata, sia nei rapporti economici come in quelli politici, in quelli culturali come in quelli religiosi.
A questo proposito vi è ben noto, Signore e Signori Ambasciatori, come l’attività della diplomazia della Santa Sede sia per natura sua rivolta a promuovere, tra i vari ambiti in cui la libertà deve realizzarsi, l’aspetto della libertà di religione. Purtroppo in alcuni Stati, anche tra quelli che pure possono vantare tradizioni culturali plurisecolari, essa, lungi dall’essere garantita, è anzi gravemente violata, in particolare nei confronti delle minoranze. In merito vorrei solo ricordare quanto stabilito con grande chiarezza nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. I diritti fondamentali dell’uomo sono i medesimi sotto tutte le latitudini; e tra di essi un posto di primo piano deve essere riconosciuto al diritto di libertà di religione, perché riguarda il rapporto umano più importante, il rapporto con Dio. A tutti i responsabili della vita delle Nazioni vorrei dire: se non temete la verità, non potete temere la libertà! La Santa Sede, nel chiedere per la Chiesa Cattolica, ovunque, condizioni di vera libertà, le chiede parimenti per tutti.

Vorrei venire ad un terzo enunciato: l’impegno per la verità apre la via al perdono ed alla riconciliazione. Alla necessaria connessione tra l’impegno per la verità e la pace si solleva un’obiezione: le convinzioni diverse sulla verità danno luogo a tensioni, ad incomprensioni, a dispute, tanto più forti quanto più profonde sono le convinzioni stesse. Nel corso della storia esse hanno dato luogo anche a violente contrapposizioni, a conflitti sociali e politici e addirittura a guerre di religione. È vero, e non lo si può negare; ma ciò è sempre avvenuto per una serie di cause concomitanti, poco o nulla aventi a che fare con la verità e la religione, e sempre comunque perché ci si volle avvalere di mezzi in realtà non conciliabili con il puro impegno per la verità né con il rispetto della libertà richiesta dalla verità. Per quanto poi riguarda specificamente la Chiesa Cattolica, in quanto anche da parte di suoi membri e di sue istituzioni sono stati compiuti gravi errori in passato, essa li condanna, e non ha esitato a chiedere perdono. Lo esige l’impegno per la verità.
La richiesta di perdono, e la concessione del perdono, parimenti dovuta perché per tutti vale il monito di Nostro Signore: chi è senza peccato scagli la prima pietra! (cfr. Giovanni 8, 7) sono elementi indispensabili per la pace. La memoria ne resta purificata, il cuore rasserenato, e si fa limpido lo sguardo su ciò che la verità esige per sviluppare pensieri di pace. Non posso non ricordare le parole luminose di Giovanni Paolo II: “Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono”. Io le ripeto, umilmente e con profondo amore, ai responsabili delle Nazioni, in particolare di quelle dove più brucianti sono le ferite fisiche e morali dei conflitti e più impellente il bisogno di pace.

Un ultimo enunciato vorrei proporvi, Signore e Signori Ambasciatori: l’impegno per la pace apre a nuove speranze. È quasi una logica conclusione di quanto ho cercato di illustrare finora. Perché l’uomo è capace di verità! Lo è sui grandi problemi dell’essere, come sui grandi problemi dell’agire: nella sfera individuale e nei rapporti sociali, a livello di un popolo come dell’umanità intera. La pace, alla quale tale suo impegno può e deve portarlo, non è solo il silenzio delle armi; è, ben più, una pace, che favorisce il formarsi di nuovi dinamismi nei rapporti internazionali, dinamismi che a loro volta si trasformano in fattori di mantenimento della pace stessa. Ed essi sono tali solo se rispondenti alla verità dell’uomo e della sua dignità. E per questo non si può dire pace, là dove l’uomo non ha nemmeno l’indispensabile per vivere in dignità. Penso qui alle turbe sterminate di popolazioni che soffrono la fame. Non è pace, la loro, anche se non sono in guerra: della guerra, anzi, esse sono vittime inermi. Alla mente si affacciano spontaneamente anche le immagini sconvolgenti dei grandi campi di profughi o di rifugiati - in diverse parti del mondo - raccolti in condizioni di fortuna, per scampare a sorte peggiore, ma di tutto bisognosi. Non sono questi esseri umani nostri fratelli e sorelle? Non sono i loro bambini venuti al mondo con le stesse legittime attese di felicità degli altri? Il pensiero va anche a tutti coloro che condizioni di vita non degne spingono ad emigrare, lontano dal loro Paese e dai loro cari, nella speranza di una vita più umana. Né possiamo dimenticare la piaga del traffico di persone, che resta una vergogna del nostro tempo.
Di fronte a queste “emergenze umanitarie”, così come ad altri drammatici problemi dell’uomo, molte persone di buona volontà, diverse istituzioni internazionali ed organizzazioni non governative non sono rimaste inerti. Ma si richiede un accresciuto sforzo congiunto delle Diplomazie per individuare nella verità, e superare con coraggio e generosità, gli ostacoli che tuttora si frappongono a soluzioni efficaci e degne dell’uomo. E verità vuole che nessuno degli Stati prosperi si sottragga alle proprie responsabilità ed al dovere di aiuto, attingendo con maggiore generosità alle proprie risorse. Sulla base di dati statistici disponibili si può affermare che meno della metà delle immense somme globalmente destinate agli armamenti sarebbe più che sufficiente per togliere stabilmente dall’indigenza lo sterminato esercito dei poveri. La coscienza umana ne è interpellata. Alle popolazioni che vivono sotto la soglia della povertà, più a causa di situazioni dipendenti dai rapporti internazionali politici, commerciali e culturali, che non a motivo di circostanze incontrollabili, il nostro comune impegno nella verità può e deve dare nuova speranza.
(dal discorso di Benedetto XVI al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede tenuto il lunedì, 9 gennaio 2006)


Sin dagli inizi dell'Illuminismo, la fede nel progresso ha sempre messo da parte l'escatologia cristiana, finendo di fatto per sostituirla completamente.
La promessa di felicità non è più legata all'aldilà, bensì a questo mondo.
Emblematico della tendenza dell'uomo moderno è l'atteggiamento di Albert Camus, il quale alle parole di Cristo "il mio regno non è di questo mondo" oppone con risolutezza l'affermazione "il mio regno è di questo mondo".

Nel XIX secolo, la fede nel progresso era ancora un generico ottimismo che si aspettava dalla marcia trionfale delle scienze un progressivo miglioramento della condizione del mondo e l'approssimarsi, sempre più incalzante, di una specie di paradiso; nel XX secolo, questa stessa fede ha assunto una connotazione politica.
Da una parte, ci sono stati i sistemi di orientamento marxista che promettevano all'uomo di raggiungere il regno desiderato tramite la politica proposta dalla loro ideologia: un tentativo che è fallito in maniera clamorosa.
Dall'altra, ci sono i tentativi di costruire il futuro attingendo, in maniera più o meno profonda, alle fonti delle tradizioni liberali.

Questi tentativi stanno assumendo una configurazione sempre più definita, che va sotto il nome di Nuovo Ordine Mondiale; trovano espressione sempre più evidente nell'ONU e nelle sue Conferenze internazionali, in particolare quelle del Cairo e di Pechino, che nelle loro proposte di vie per arrivare a condizioni di vita diverse, lasciano trasparire una vera e propria filosofia dell'uomo nuovo e del mondo nuovo.

Una filosofia di questo tipo non ha più la carica utopica che caratterizzava il sogno marxista; essa è al contrario molto realistica, in quanto fissa i limiti del benessere, ricercato a partire dai limiti dei mezzi disponibili per raggiungerlo e raccomanda, per esempio, senza per questo cercare di giustificarsi, di non preoccuparsi della cura di coloro che non sono più produttivi o che non possono più sperare in una determinata qualità della vita.
Questa filosofia, inoltre, non si aspetta più che gli uomini, abituatisi oramai alla ricchezza e al benessere, siano pronti a fare i sacrifici necessari per raggiungere un benessere generale, bensì propone delle strategie per ridurre il numero dei commensali alla tavola dell'umanità, affinché non venga intaccata la pretesa felicità che taluni hanno raggiunto.

La peculiarità di questa nuova antropologia, che dovrebbe costituire la base del Nuovo Ordine Mondiale, diventa palese soprattutto nell'immagine della donna, nell'ideologia dell' "Women's empowerment", nata dalla conferenza di Pechino.
Scopo di questa ideologia è l'autorealizzazione della donna: principali ostacoli che si frappongono tra lei e la sua autorealizzazione sono però la famiglia e la maternità. Per questo, la donna deve essere liberata, in modo particolare, da ciò che la caratterizza, vale a dire dalla sua specificità femminile. Quest'ultima viene chiamata ad annullarsi di fronte ad una "Gender equity and equality", di fronte ad un essere umano indistinto ed uniforme, nella vita del quale la sessualità non ha altro senso se non quello di una droga voluttuosa, di cui sì può far uso senza alcun criterio.

Nella paura della maternità che si è impadronita di una gran parte dei nostri contemporanei entra sicuramente in gioco anche qualcosa di ancora più profondo: l'altro è sempre, in fin dei conti, un antagonista che ci priva di una parte di vita, una minaccia per il nostro io e per il nostro libero sviluppo.

Al giorno d'oggi, non esiste più una "filosofia dell'amore", bensì solamente una "filosofia dell'egoismo".
Il fatto che ognuno di noi possa arricchirsi semplicemente nel dono di se stesso, che possa ritrovarsi proprio a partire dall'altro e attraverso l'essere per l'altro, tutto ciò viene rifiutato come un'illusione idealista. E’ proprio in questo che l'uomo viene ingannato. In effetti, nel momento in cui gli viene sconsigliato di amare, gli viene sconsigliato, in ultima analisi, di essere uomo...

È a questo punto che deve emergere chiaramente ciò che di positivo il cristiano può offrire nella lotta per la storia futura.
Non è infatti sufficiente che egli opponga l'escatologia all'ideologia che è alla base delle costruzioni "postmoderne" dell'avvenire.
È ovvio che deve fare anche questo, e deve farlo in maniera risoluta: a questo riguardo, infatti, la voce dei cristiani si è fatta negli ultimi decenni sicuramente troppo debole e troppo timida.
L'uomo, nella sua vita terrena, è "una canna al vento" che rimane priva di significato se distoglie lo sguardo dalla vita eterna.
Lo stesso vale per la storia nel complesso.
In questo senso, il richiamo alla vita eterna, se fatto in maniera corretta, non si presenta mai come una fuga. Esso da semplicemente all'esistenza terrena la sua responsabilità, la sua grandezza e la sua dignità. Tuttavia, queste ripercussioni sul "significato della vita terrena" devono essere articolate.

E' chiaro che la storia non deve mai essere semplicemente ridotta al silenzio: non è possibile, non è permesso ridurre al silenzio la libertà. E’ l'illusione delle utopie.

Non si può imporre al domani modelli di oggi, che domani saranno i modelli di ieri.
È tuttavia necessario gettare le basi di un cammino verso il futuro, di un superamento comune delle nuove sfide lanciate dalla storia.
(dalla prefazione del card. J.Ratzinger a M. Schooyans, Nuovo disordine mondiale. La grande trappola per ridurre il numero dei commensali alla tavola dell’umanità, Edizioni San Paolo 2000)

Congregazione per la Dottrina della Fede. Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica

I. Un insegnamento costante

1. L'impegno del cristiano nel mondo in duemila anni di storia si è espresso seguendo percorsi diversi. Uno è stato attuato nella partecipazione all'azione politica: i cristiani, affermava uno scrittore ecclesiastico dei primi secoli, «partecipano alla vita pubblica come cittadini». La Chiesa venera tra i suoi Santi numerosi uomini e donne che hanno servito Dio mediante il loro generoso impegno nelle attività politiche e di governo. Tra di essi, S.Tommaso Moro, proclamato Patrono dei Governanti e dei Politici, seppe testimoniare fino al martirio la «dignità inalienabile della coscienza». Pur sottoposto a varie forme di pressione psicologica, rifiutò ogni compromesso, e senza abbandonare «la costante fedeltà all'autorità e alle istituzioni legittime» che lo distinse, affermò con la sua vita e con la sua morte che «l'uomo non si può separare da Dio, né la politica dalla morale».
Le attuali società democratiche, nelle quali lodevolmente tutti sono resi partecipi della gestione della cosa pubblica in un clima di vera libertà, richiedono nuove e più ampie forme di partecipazione alla vita pubblica da parte dei cittadini, cristiani e non cristiani. In effetti, tutti possono contribuire attraverso il voto all'elezione dei legislatori e dei governanti e, anche in altri modi, alla formazione degli orientamenti politici e delle scelte legislative che a loro avviso giovano maggiormente al bene comune. La vita in un sistema politico democratico non potrebbe svolgersi proficuamente senza l'attivo, responsabile e generoso coinvolgimento da parte di tutti, «sia pure con diversità e complementarità di forme, livelli, compiti e responsabilità».
Mediante l'adempimento dei comuni doveri civili, «guidati dalla coscienza cristiana», in conformità ai valori che con essa sono congruenti, i fedeli laici svolgono anche il compito loro proprio di animare cristianamente l'ordine temporale, rispettandone la natura e la legittima autonomia, e cooperando con gli altri cittadini secondo la specifica competenza e sotto la propria responsabilità. Conseguenza di questo fondamentale insegnamento del Concilio Vaticano II è che «i fedeli laici non possono affatto abdicare alla partecipazione alla “politica”, ossia alla molteplice e varia azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune», che comprende la promozione e la difesa di beni, quali l'ordine pubblico e la pace, la libertà e l'uguaglianza, il rispetto della vita umana e dell'ambiente, la giustizia, la solidarietà, ecc.
La presente Nota non ha la pretesa di riproporre l'intero insegnamento della Chiesa in materia, riassunto peraltro nelle sue linee essenziali nel catechismo della Chiesa Cattolica, ma intende soltanto richiamare alcuni principi propri della coscienza cristiana che ispirano l'impegno sociale e politico dei cattolici nelle società democratiche. E ciò perché in questi ultimi tempi, spesso per l'incalzare degli eventi, sono emersi orientamenti ambigui e posizioni discutibili, che rendono opportuna la chiarificazione di aspetti e dimensioni importanti della tematica in questione.

II. Alcuni punti nodali nell'attuale dibattito culturale e politico

2. La società civile si trova oggi all'interno di un complesso processo culturale che mostra la fine di un'epoca e l'incertezza per la nuova che emerge all'orizzonte. Le grandi conquiste di cui si è spettatori provocano a verificare il positivo cammino che l'umanità ha compiuto nel progresso e nell'acquisizione di condizioni di vita più umane. La crescita di responsabilità nei confronti di Paesi ancora in via di sviluppo è certamente un segno di grande rilievo, che mostra la crescente sensibilità per il bene comune. Insieme a questo, comunque, non è possibile sottacere i gravi pericoli a cui alcune tendenze culturali vorrebbero orientare le legislazioni e, di conseguenza, i comportamenti delle future generazioni.
E’ oggi verificabile un certo relativismo culturale che offre evidenti segni di sé nella teorizzazione e difesa del pluralismo etico che sancisce la decadenza e la dissoluzione della ragione e dei principi della legge morale naturale. A seguito di questa tendenza non è inusuale, purtroppo, riscontrare in dichiarazioni pubbliche affermazioni in cui si sostiene che tale pluralismo etico è la condizione per la democrazia. Avviene così che, da una parte, i cittadini rivendicano per le proprie scelte morali la più completa autonomia mentre, dall'altra, i legislatori ritengono di rispettare tale libertà di scelta formulando leggi che prescindono dai principi dell'etica naturale per rimettersi alla sola condiscendenza verso certi orientamenti culturali o morali transitori, come se tutte le possibili concezioni della vita avessero uguale valore. Nel contempo, invocando ingannevolmente il valore della tolleranza, a una buona parte dei cittadini - e tra questi ai cattolici - si chiede di rinunciare a contribuire alla vita sociale e politica dei propri Paesi secondo la concezione della persona e del bene comune che loro ritengono umanamente vera e giusta, da attuare mediante i mezzi leciti che l'ordinamento giuridico democratico mette ugualmente a disposizione di tutti i membri della comunità politica. La storia del XX secolo basta a dimostrare che la ragione sta dalla parte di quei cittadini che ritengono del tutto falsa la tesi relativista secondo la quale non esiste una norma morale, radicata nella natura stessa dell'essere umano, al cui giudizio si deve sottoporre ogni concezione dell'uomo, del bene comune e dello Stato.
3. Questa concezione relativista del pluralismo nulla ha a che vedere con la legittima libertà dei cittadini cattolici di scegliere, tra le opinioni politiche compatibili con la fede e la legge morale naturale, quella che secondo il proprio criterio meglio si adegua alle esigenze del bene comune. La libertà politica non è né può essere fondata sull'idea relativista che tutte le concezioni sul bene dell'uomo hanno la stessa verità e lo stesso valore, ma sul fatto che le attività politiche mirano volta per volta alla realizzazione estremamente concreta del vero bene umano e sociale in un contesto storico, geografico, economico, tecnologico e culturale ben determinato. Dalla concretezza della realizzazione e dalla diversità delle circostanze scaturisce generalmente la pluralità di orientamenti e di soluzioni che debbono però essere moralmente accettabili. Non è compito della Chiesa formulare soluzioni concrete — e meno ancora soluzioni uniche — per questioni temporali che Dio ha lasciato al libero e responsabile giudizio di ciascuno, anche se è suo diritto e dovere pronunciare giudizi morali su realtà temporali quando ciò sia richiesto dalla fede o dalla legge morale. Se il cristiano è tenuto ad «ammettere la legittima molteplicità e diversità delle opzioni temporali», egli è ugualmente chiamato a dissentire da una concezione del pluralismo in chiave di relativismo morale, nociva per la stessa vita democratica, la quale ha bisogno di fondamenti veri e solidi, vale a dire, di principi etici che per la loro natura e per il loro ruolo di fondamento della vita sociale non sono “negoziabili”.
Sul piano della militanza politica concreta, occorre notare che il carattere contingente di alcune scelte in materia sociale, il fatto che spesso siano moralmente possibili diverse strategie per realizzare o garantire uno stesso valore sostanziale di fondo, la possibilità di interpretare in maniera diversa alcuni principi basilari della teoria politica, nonché la complessità tecnica di buona parte dei problemi politici, spiegano il fatto che generalmente vi possa essere una pluralità di partiti all'interno dei quali i cattolici possono scegliere di militare per esercitare - particolarmente attraverso la rappresentanza parlamentare - il loro diritto-dovere nella costruzione della vita civile del loro Paese. Questa ovvia constatazione non può essere confusa però con un indistinto pluralismo nella scelta dei principi morali e dei valori sostanziali a cui si fa riferimento. La legittima pluralità di opzioni temporali mantiene integra la matrice da cui proviene l'impegno dei cattolici nella politica e questa si richiama direttamente alla dottrina morale e sociale cristiana. È su questo insegnamento che i laici cattolici sono tenuti a confrontarsi sempre per poter avere certezza che la propria partecipazione alla vita politica sia segnata da una coerente responsabilità per le realtà temporali.
La Chiesa è consapevole che la via della democrazia se, da una parte, esprime al meglio la partecipazione diretta dei cittadini alle scelte politiche, dall'altra si rende possibile solo nella misura in cui trova alla sua base una retta concezione della persona. Su questo principio l'impegno dei cattolici non può cedere a compromesso alcuno, perché altrimenti verrebbero meno la testimonianza della fede cristiana nel mondo e la unità e coerenza interiori dei fedeli stessi. La struttura democratica su cui uno Stato moderno intende costruirsi sarebbe alquanto fragile se non ponesse come suo fondamento la centralità della persona. È il rispetto della persona, peraltro, a rendere possibile la partecipazione democratica. Come insegna il Concilio Vaticano II, la tutela «dei diritti della persona umana è condizione perché i cittadini, individualmente o in gruppo, possano partecipare attivamente alla vita e al governo della cosa pubblica».

4. A partire da qui si estende la complessa rete di problematiche attuali che non hanno avuto confronti con le tematiche dei secoli passati. La conquista scientifica, infatti, ha permesso di raggiungere obiettivi che scuotono la coscienza e impongono di trovare soluzioni capaci di rispettare in maniera coerente e solida i principi etici. Si assiste invece a tentativi legislativi che, incuranti delle conseguenze che derivano per l'esistenza e l'avvenire dei popoli nella formazione della cultura e dei comportamenti sociali, intendono frantumare l'intangibilità della vita umana. I cattolici, in questo frangente, hanno il diritto e il dovere di intervenire per richiamare al senso più profondo della vita e alla responsabilità che tutti possiedono dinanzi ad essa. Giovanni Paolo II, continuando il costante insegnamento della Chiesa, ha più volte ribadito che quanti sono impegnati direttamente nelle rappresentanze legislative hanno il «preciso obbligo di opporsi» ad ogni legge che risulti un attentato alla vita umana. Per essi, come per ogni cattolico, vige l'impossibilità di partecipare a campagne di opinione in favore di simili leggi né ad alcuno è consentito dare ad esse il suo appoggio con il proprio voto. Ciò non impedisce, come ha insegnato Giovanni Paolo II nella Lettera Enciclica Evangelium vitae a proposito del caso in cui non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge abortista già in vigore o messa al voto, che «un parlamentare, la cui personale assoluta opposizione all'aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica».
In questo contesto, è necessario aggiungere che la coscienza cristiana ben formata non permette a nessuno di favorire con il proprio voto l'attuazione di un programma politico o di una singola legge in cui i contenuti fondamentali della fede e della morale siano sovvertiti dalla presentazione di proposte alternative o contrarie a tali contenuti. Poiché la fede costituisce come un'unità inscindibile, non è logico l'isolamento di uno solo dei suoi contenuti a scapito della totalità della dottrina cattolica. L'impegno politico per un aspetto isolato della dottrina sociale della Chiesa non è sufficiente ad esaurire la responsabilità per il bene comune. Né il cattolico può pensare di delegare ad altri l'impegno che gli proviene dal vangelo di Gesù Cristo perché la verità sull'uomo e sul mondo possa essere annunciata e raggiunta.
Quando l'azione politica viene a confrontarsi con principi morali che non ammettono deroghe, eccezioni o compromesso alcuno, allora l'impegno dei cattolici si fa più evidente e carico di responsabilità. Dinanzi a queste esigenze etiche fondamentali e irrinunciabili, infatti, i credenti devono sapere che è in gioco l'essenza dell'ordine morale, che riguarda il bene integrale della persona. E' questo il caso delle leggi civili in materia di aborto e di eutanasia (da non confondersi con la rinuncia all'accanimento terapeutico, la quale è, anche moralmente, legittima), che devono tutelare il diritto primario alla vita a partire dal suo concepimento fino al suo termine naturale. Allo stesso modo occorre ribadire il dovere di rispettare e proteggere i diritti dell' embrione umano . Analogamente, devono essere salvaguardate la tutela e la promozione della famiglia, fondata sul matrimonio monogamico tra persone di sesso diverso e protetta nella sua unità e stabilità, a fronte delle moderne leggi sul divorzio: ad essa non possono essere giuridicamente equiparate in alcun modo altre forme di convivenza, né queste possono ricevere in quanto tali un riconoscimento legale. Così pure la garanzia della libertà di educazione ai genitori per i propri figli è un diritto inalienabile, riconosciuto tra l'altro nelle Dichiarazioni internazionali dei diritti umani. Alla stessa stregua, si deve pensare alla tutela sociale dei minori e alla liberazione delle vittime dalle moderne forme di schiavitù (si pensi ad esempio, alla droga e allo sfruttamento della prostituzione). Non può essere esente da questo elenco il diritto alla libertà religiosa e lo sviluppo per un' economia che sia al servizio della persona e del bene comune, nel rispetto della giustizia sociale, del principio di solidarietà umana e di quello di sussidiarietà, secondo il quale «i diritti delle persone, delle famiglie e dei gruppi, e il loro esercizio devono essere riconosciuti». Come non vedere, infine, in questa esemplificazione il grande tema della pace. Una visione irenica e ideologica tende, a volte, a secolarizzare il valore della pace mentre, in altri casi, si cede a un sommario giudizio etico dimenticando la complessità delle ragioni in questione. La pace è sempre «frutto della giustizia ed effetto della carità»; esige il rifiuto radicale e assoluto della violenza e del terrorismo e richiede un impegno costante e vigile da parte di chi ha la responsabilità politica.

III. Principi della dottrina cattolica su laicità e pluralismo

5. Di fronte a queste problematiche, se è lecito pensare all'utilizzo di una pluralità di metodologie, che rispecchiano sensibilità e culture differenti, nessun fedele tuttavia può appellarsi al principio del pluralismo e dell'autonomia dei laici in politica, favorendo soluzioni che compromettano o che attenuino la salvaguardia delle esigenze etiche fondamentali per il bene comune della società. Non si tratta di per sé di «valori confessionali», poiché tali esigenze etiche sono radicate nell'essere umano e appartengono alla legge morale naturale. Esse non esigono in chi le difende la professione di fede cristiana, anche se la dottrina della Chiesa le conferma e le tutela sempre e dovunque come servizio disinteressato alla verità sull'uomo e al bene comune delle società civili. D'altronde, non si può negare che la politica debba anche riferirsi a principi che sono dotati di valore assoluto proprio perché sono al servizio della dignità della persona e del vero progresso umano.

6. Il richiamo che spesso viene fatto in riferimento alla “laicità” che dovrebbe guidare l'impegno dei cattolici, richiede una chiarificazione non solo terminologica. La promozione secondo coscienza del bene comune della società politica nulla ha a che vedere con il “confessionalismo” o l'intolleranza religiosa. Per la dottrina morale cattolica la laicità intesa come autonomia della sfera civile e politica da quella religiosa ed ecclesiastica - ma non da quella morale - è un valore acquisito e riconosciuto dalla Chiesa e appartiene al patrimonio di civiltà che è stato raggiunto. Giovanni Paolo II ha più volte messo in guardia contro i pericoli derivanti da qualsiasi confusione tra la sfera religiosa e la sfera politica. «Assai delicate sono le situazioni in cui una norma specificamente religiosa diventa, o tende a diventare, legge dello Stato, senza che si tenga in debito conto la distinzione tra le competenze della religione e quelle della società politica. Identificare la legge religiosa con quella civile può effettivamente soffocare la libertà religiosa e, persino, limitare o negare altri inalienabili diritti umani». Tutti i fedeli sono ben consapevoli che gli atti specificamente religiosi (professione della fede, adempimento degli atti di culto e dei Sacramenti, dottrine teologiche, comunicazioni reciproche tra le autorità religiose e i fedeli, ecc.) restano fuori dalle competenze dello Stato, il quale né deve intromettersi né può in modo alcuno esigerli o impedirli, salve esigenze fondate di ordine pubblico. Il riconoscimento dei diritti civili e politici e l'erogazione dei pubblici servizi non possono restare condizionati a convinzioni o prestazioni di natura religiosa da parte dei cittadini.
Questione completamente diversa è il diritto-dovere dei cittadini cattolici, come di tutti gli altri cittadini, di cercare sinceramente la verità e di promuovere e difendere con mezzi leciti le verità morali riguardanti la vita sociale, la giustizia, la libertà, il rispetto della vita e degli altri diritti della persona. Il fatto che alcune di queste verità siano anche insegnate dalla Chiesa non diminuisce la legittimità civile e la “laicità” dell'impegno di coloro che in esse si riconoscono, indipendentemente dal ruolo che la ricerca razionale e la conferma procedente dalla fede abbiano svolto nel loro riconoscimento da parte di ogni singolo cittadino. La “laicità”, infatti, indica in primo luogo l'atteggiamento di chi rispetta le verità che scaturiscono dalla conoscenza naturale sull'uomo che vive in società, anche se tali verità siano nello stesso tempo insegnate da una religione specifica, poiché la verità è una. Sarebbe un errore confondere la giusta autonomia che i cattolici in politica debbono assumere con la rivendicazione di un principio che prescinde dall'insegnamento morale e sociale della Chiesa.
Con il suo intervento in questo ambito, il Magistero della Chiesa non vuole esercitare un potere politico né eliminare la libertà d'opinione dei cattolici su questioni contingenti. Esso intende invece — come è suo proprio compito — istruire e illuminare la coscienza dei fedeli, soprattutto di quanti si dedicano all'impegno nella vita politica, perché il loro agire sia sempre al servizio della promozione integrale della persona e del bene comune. L'insegnamento sociale della Chiesa non è un'intromissione nel governo dei singoli Paesi. Pone certamente un dovere morale di coerenza per i fedeli laici, interiore alla loro coscienza, che è unica e unitaria. «Nella loro esistenza non possono esserci due vite parallele: da una parte, la vita cosiddetta “spirituale”, con i suoi valori e con le sue esigenze; e dall'altra, la vita cosiddetta “secolare”, ossia la vita di famiglia, di lavoro, dei rapporti sociali, dell'impegno politico e della cultura. Il tralcio, radicato nella vite che è Cristo, porta i suoi frutti in ogni settore dell'attività e dell'esistenza. Infatti, tutti i vari campi della vita laicale rientrano nel disegno di Dio, che li vuole come “luogo storico” del rivelarsi e del realizzarsi dell'amore di Gesù Cristo a gloria del Padre e a servizio dei fratelli. Ogni attività, ogni situazione, ogni impegno concreto — come, ad esempio, la competenza e la solidarietà nel lavoro, l'amore e la dedizione nella famiglia e nell'educazione dei figli, il servizio sociale e politico, la proposta della verità nell'ambito della cultura — sono occasioni provvidenziali per un “continuo esercizio della fede, della speranza e della carità”». Vivere ed agire politicamente in conformità alla propria coscienza non è un succube adagiarsi su posizioni estranee all'impegno politico o su una forma di confessionalismo, ma l'espressione con cui i cristiani offrono il loro coerente apporto perché attraverso la politica si instauri un ordinamento sociale più giusto e coerente con la dignità della persona umana.
Nelle società democratiche tutte le proposte sono discusse e vagliate liberamente. Coloro che in nome del rispetto della coscienza individuale volessero vedere nel dovere morale dei cristiani di essere coerenti con la propria coscienza un segno per squalificarli politicamente, negando loro la legittimità di agire in politica coerentemente alle proprie convinzioni riguardanti il bene comune, incorrerebbero in una forma di intollerante laicismo. In questa prospettiva, infatti, si vuole negare non solo ogni rilevanza politica e culturale della fede cristiana, ma perfino la stessa possibilità di un'etica naturale. Se così fosse, si aprirebbe la strada ad un'anarchia morale che non potrebbe mai identificarsi con nessuna forma di legittimo pluralismo. La sopraffazione del più forte sul debole sarebbe la conseguenza ovvia di questa impostazione. La marginalizzazione del Cristianesimo, d'altronde, non potrebbe giovare al futuro progettuale di una società e alla concordia tra i popoli, ed anzi insidierebbe gli stessi fondamenti spirituali e culturali della civiltà.

IV. Considerazioni su aspetti particolari

7. È avvenuto in recenti circostanze che anche all'interno di alcune associazioni o organizzazioni di ispirazione cattolica, siano emersi orientamenti a sostegno di forze e movimenti politici che su questioni etiche fondamentali hanno espresso posizioni contrarie all'insegnamento morale e sociale della Chiesa. Tali scelte e condivisioni, essendo in contraddizione con principi basilari della coscienza cristiana, non sono compatibili con l'appartenenza ad associazioni o organizzazioni che si definiscono cattoliche. Analogamente, è da rilevare che alcune Riviste e Periodici cattolici in certi Paesi hanno orientato i lettori in occasione di scelte politiche in maniera ambigua e incoerente, equivocando sul senso dell'autonomia dei cattolici in politica e senza tenere in considerazione i principi a cui si è fatto riferimento.
La fede in Gesù Cristo che ha definito se stesso «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6) chiede ai cristiani lo sforzo per inoltrarsi con maggior impegno nella costruzione di una cultura che, ispirata al Vangelo, riproponga il patrimonio di valori e contenuti della Tradizione cattolica. La necessità di presentare in termini culturali moderni il frutto dell'eredità spirituale, intellettuale e morale del cattolicesimo appare oggi carico di un'urgenza non procrastinabile, anche per evitare il rischio di una diaspora culturale dei cattolici. Del resto lo spessore culturale raggiunto e la matura esperienza di impegno politico che i cattolici in diversi paesi hanno saputo sviluppare, specialmente nei decenni posteriori alla seconda guerra mondiale, non possono porli in alcun complesso di inferiorità nei confronti di altre proposte che la storia recente ha mostrato deboli o radicalmente fallimentari. È insufficiente e riduttivo pensare che l'impegno sociale dei cattolici possa limitarsi a una semplice trasformazione delle strutture, perché se alla base non vi è una cultura in grado di accogliere, giustificare e progettare le istanze che derivano dalla fede e dalla morale, le trasformazioni poggeranno sempre su fragili fondamenta.
La fede non ha mai preteso di imbrigliare in un rigido schema i contenuti socio-politici, consapevole che la dimensione storica in cui l'uomo vive impone di verificare la presenza di situazioni non perfette e spesso rapidamente mutevoli. Sotto questo aspetto sono da respingere quelle posizioni politiche e quei comportamenti che si ispirano a una visione utopistica la quale, capovolgendo la tradizione della fede biblica in una specie di profetismo senza Dio, strumentalizza il messaggio religioso, indirizzando la coscienza verso una speranza solo terrena che annulla o ridimensiona la tensione cristiana verso la vita eterna.
Nello stesso tempo, la Chiesa insegna che non esiste autentica libertà senza la verità. «Verità e libertà o si coniugano insieme o insieme miseramente periscono», ha scritto Giovanni Paolo II. In una società dove la verità non viene prospettata e non si cerca di raggiungerla, viene debilitata anche ogni forma di esercizio autentico di libertà, aprendo la via ad un libertinismo e individualismo, dannosi alla tutela del bene della persona e della società intera.

8. A questo proposito è bene ricordare una verità che non sempre oggi viene percepita o formulata esattamente nell'opinione pubblica corrente: il diritto alla libertà di coscienza e in special modo alla libertà religiosa, proclamato dalla Dichiarazione Dignitatis humanae del Concilio Vaticano II, si fonda sulla dignità ontologica della persona umana, e in nessun modo su di una inesistente uguaglianza tra le religioni e tra i sistemi culturali umani. In questa linea il Papa Paolo VI ha affermato che «il Concilio, in nessun modo, fonda questo diritto alla libertà religiosa sul fatto che tutte le religioni, e tutte le dottrine, anche erronee, avrebbero un valore più o meno uguale; lo fonda invece sulla dignità della persona umana, la quale esige di non essere sottoposta a costrizioni esteriori che tendono ad opprimere la coscienza nella ricerca della vera religione e nell'adesione ad essa». L'affermazione della libertà di coscienza e della libertà religiosa non contraddice quindi affatto la condanna dell'indifferentismo e del relativismo religioso da parte della dottrina cattolica, anzi con essa è pienamente coerente.

V. Conclusione

9. Gli orientamenti contenuti nella presenta Nota intendono illuminare uno dei più importanti aspetti dell'unità di vita del cristiano: la coerenza tra fede e vita, tra vangelo e cultura, richiamata dal Concilio Vaticano II. Esso esorta i fedeli a «compiere fedelmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo spirito del vangelo. Sbagliano coloro che, sapendo che qui noi non abbiamo una cittadinanza stabile ma che cerchiamo quella futura, pensano di poter per questo trascurare i propri doveri terreni, e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno». Siano desiderosi i fedeli «di poter esplicare tutte le loro attività terrene, unificando gli sforzi umani, domestici, professionali, scientifici e tecnici in una sola sintesi vitale insieme con i beni religiosi, sotto la cui altissima direzione tutto viene coordinato a gloria di Dio».

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