Presentiamo on-line la trascrizione della conferenza tenuta presso il Centro Culturale L’Areopago, in collaborazione con l’Associazione Guido Sacchi-Il piacere d’imparare, il 25 novembre 2005 dal prof.Paolo Di Giovine, ordinario di Glottologia e Linguistica presso l’Università degli Studi-La Sapienza di Roma e dalla prof.ssa Marianna Pozza, docente di Linguistica delle società dell’Università della Tuscia. Le due relazioni conservano il carattere di testi trascritti dalla viva voce degli autori.
L’Areopago
Prof.ssa MARIANNA POZZA
    
  Buona sera a tutti. Innanzitutto vorrei ringraziare Paola, Danilo e Cinzia per 
  l’opportunità che ci hanno dato di essere qui stasera; per quanto 
  poi riguarda specificatamente me, posso dire che è davvero un onore essere 
  qui. Non si tratta della classica frase di circostanza che si dice in genere 
  in queste occasioni, ma di qualcosa di profondamente sentito. Colgo anche l’occasione 
  per esprimere veramente tutta la mia ammirazione per quello che Paola, Danilo 
  e Cinzia stanno facendo per questa Associazione e per tutti coloro che la sostengono. 
  Credo che i frutti di questo lavoro, di questa passione e di questo entusiasmo 
  - che nascono da un grande dolore - si incomincino a vedere, e si siano in realtà 
  già visti nei mesi precedenti attraverso le conferenze, la premiazione, 
  l’entusiasmo delle persone che ruotano attorno all’Associazione. 
  Alcuni di noi, alcuni di voi, tutti coloro che hanno avuto modo di ascoltare 
  le conferenze degli scorsi mesi, chissà, una volta tornati a casa, avranno 
  rispolverato dalla libreria “Guerra e pace” di Tolstoj, oppure la 
  “Recherche” di Proust o “I fiori del male” di Baudelaire 
  con l’intento di rileggerli: per qualcuno sarà rimasto solo un 
  proposito, per altri sarà,s invece, diventato realtà. Quello che 
  tuttavia è importante dire è che se soltanto in uno di noi si 
  è instillata una piccola goccia di curiosità, dopo una conferenza 
  del genere, vuol dire che a partire da questo lavoro si è ottenuto un 
  grande frutto. E’ stato inoltre molto bello aver partecipato tutti insieme, 
  numerosissimi, alla premiazione in Campidoglio dei finalisti di questa prima 
  edizione del Premio, lo scorso Settembre. 
    
     Prima di iniziare vorrei dire soltanto una cosa: non credo che sarei in grado, questa sera, di
    ricordare Guido. No, non ne sarei proprio capace. Tuttavia ci tengo a dire una cosa, e
    cioè che questa Associazione ricalca perfettamente, aderendovi, a quello che era il suo
    spirito di insegnante e di persona che amava il sapere. Per essere un bravo insegnante e per
    poter trasmettere agli altri, agli alunni, a delle persone, a dei ragazzi l’amore, la
    voglia di imparare, non basta sapere, non basta avere una cultura - che nel caso di Guido era
    comunque immensa - ma bisogna anche “saper fare” e “saper essere”.
    Guido era tutte queste cose, sapeva trasmettere e affascinare le persone con cui parlava: tutti
    coloro che hanno avuto l’opportunità di ascoltarlo, o gli ascoltatori di una
    conferenza su “Perché leggere i classici” o i ragazzi che hanno avuto (al
    Democrito) il privilegio di averlo per un anno come insegnante, gli studenti
    dell’Università o anche gli amici con cui Guido aveva modo di parlare un po’
    di tutto, credo fermamente possano essere considerati dei privilegiati, perché hanno in
    sé - in eredità - questo piccolo germe, questo seme di conoscenza. A volte basta
    poco per instillare la curiosità intellettuale, chiedendosi il perché e il
    funzionamento delle cose, e, quindi, per conoscere. Questa è la cosa più bella,
    ed è una caratteristica, una dote che Guido aveva e che era totalmente innata: sapeva
    proprio incantare le persone, da questo punto di vista.
    
    
     Detto ciò, cominciamo ad affrontare una tematica che spero risulterà per voi
    interessante, e che mi auguro non vi annoierà, se non altro perché, in un certo
    senso, si tratta di un ambito che forse per i più può risultare più
    distante rispetto agli studi letterari in genere: cercheremo di affrontare un argomento
    linguistico nel modo più interessante possibile, e parleremo quindi del rapporto fra la
    parola detta, (la parola orale) e la parola scritta, e di come, dunque, la parola si
    concretizza nella scrittura. La scienza che si occupa di studiare e di analizzare la lingua
    è per l’appunto la linguistica che, un po’ come fanno in un certo senso i
    chirurghi sui pazienti sul tavolo operatorio, si occupa di analizzare le parole, le frasi, la
    struttura della lingua, sezionandola e poi ricostruendola per trovare una ragione al suo
    interno. Il termine “glottologia”, più specifico, deriva dal greco
    “glossa” che vuol dire lingua, e studia la lingua nella sua evoluzione nel tempo e
    nello spazio, le parole e il loro sviluppo, il cambiamento del loro significato, le modifiche
    che le consonanti, le vocali possono subire e paragona, mettendo a confronto, diverse lingue
    classiche fra di loro per scovarne differenze e somiglianze, al fine, anche, di risalire alle
    forme originarie più antiche delle parole stesse.
    
    
     “Comunicare” vuol dire “mettere in comune”, quindi avere un patrimonio
    da trasmettersi l’un l’altro, e, affinché ci sia comunicazione è
    necessario che ci sia ovviamente qualcuno che emetta un messaggio - un emittente - e un
    destinatario che ascolti ciò che viene emesso dall’emittente. C’è poi
    il messaggio, che viene appunto a rappresentare ciò che viene messo in comune fra i due.
    E’ chiaro che il rapporto fra la parola detta e la parola scritta non è un
    rapporto biunivoco, cioè non è possibile una totale traduzione della parola detta
    nella scrittura e viceversa. Quando noi parliamo, infatti, la parola è per così
    dire “evanescente”: ad esempio, io sto pronunciando delle parole che voi
    ricorderete grazie alla vostra memoria a breve termine (quella dei prossimi secondi o al
    massimo minuti). Magari le ricorderete (spero...) anche una volta tornati a casa, sotto forma,
    grosso modo, di “sintesi” di ciò che sarà stato detto. La parola
    è, come dice Omero, “alata”. Vola, e quindi scompare nel momento in cui
    viene pronunciata, è qualcosa che non si può toccare, qualcosa di intangibile e
    come tale, ovviamente, si perde, mentre invece la scrittura permette una cristallizzazione, una
    fissazione della parola su un supporto che può essere poi riguardato, riosservato nel
    tempo.
    
    
     La parola, e precisamente la parola detta, la parola parlata (l’oralità) è
    prioritaria rispetto allo scritto: innanzitutto perché la scrittura è stata
    inventata successivamente rispetto all’oralità e quindi a livello cronologico
    l’uomo prima ha prima imparato a parlare e solo successivamente, in séguito alla
    grande invenzione che è stata la scrittura, ha imparato a scrivere. Si è trattato
    di una grande rivoluzione. La parola parlata, inoltre, risulta prioritaria rispetto allo
    scritto perché, in genere, le culture scritte sono state anche precedentemente parlate,
    mentre non necessariamente le culture orali sono dotate di una scrittura (pensiamo, che so,
    alle culture aborigene, nelle quali i parlanti locali comunicano oralmente senza aver poi a
    disposizione una scrittura, non fissando a livello scrittorio ciò che dicono).
    
    
     E soprattutto, da un punto di vista più intuitivo, si impara prima a parlare e poi si
    impara a scrivere; tra l’altro si impara a parlare in genere nei primi tre anni di
    età, ascoltando, e quindi imparando attraverso l’ascolto. Si impara a scrivere se
    si viene istruiti a farlo, quindi sui banchi di scuola o comunque sulla scrivania di casa, ma
    si deve essere comunque istruiti affinché possa essere possibile fare questo. La
    scrittura, quindi, prevede un insegnamento, un indottrinamento.
    
    
     Inoltre la parola detta è più spontanea, tant’è che il parlare
    è, in un certo senso, un qualcosa che prosegue quella che è la nostra naturale
    respirazione; l’energia che noi impieghiamo per parlare non è, come dire,
    un’energia “potente”, ma è abbastanza semplice, è abbastanza
    naturale e, tra l’altro, l’apparato fonatorio e l’apparato respiratorio hanno
    degli elementi in comune molto importanti. Secondo alcuni studiosi addirittura l’homo
    “habilis” e l’homo “erectus” (stiamo parlando di periodi molto
    molto antichi, risalenti a circa tre milioni di anni fa), sarebbero stati dotati di una forma
    embrionale di linguaggio; è chiaro non si trattava di un vero e proprio linguaggio, ma a
    livello embrionale probabilmente una comunicazione di un certo tipo esisteva. Questo si sarebbe
    sviluppato più avanti con l’homo “sapiens”, da cui discendiamo noi
    stessi, e, con il passare del tempo, la comunicazione orale si è sviluppata anche per
    quello che riguardava la poesia, che, in una prima fase della sua esistenza fu trasmessa
    oralmente.
    
    
     Pensiamo per esempio all’antica India, ai territori del sub-continente indiano, dove
    circa tremila anni fa, quindi nel secondo millennio avanti Cristo, cominciò a
    svilupparsi una cultura che avrebbe poi dato origine a tutta una serie di scritti in una lingua
    molto antica e ben organizzata che è il “sanscrito” che, dal punto di vista
    linguistico è fondamentale, insieme al latino e al greco, nella comparazione di queste
    lingue originarie. Per l’appunto in India, grande importanza aveva ovviamente
    l’aspetto religioso, per cui ci sono stati tramandati dei testi, chiamati
    “Veda”, (termine che significa “conoscenza”, quindi
    “sapienza”).Queste raccolte di testi religiosi - che altro non erano che raccolte
    di inni sacri - dovevano essere ripetute in modo rituale e continuo nelle occasioni, per
    l’appunto, religiose.
    
    
     Per secoli, per millenni, sono stati tramandati oralmente fino alla fissazione che sarebbe
    avvenuta agli albori dell’era cristiana. Questo è molto importante perché
    fa capire come non solo la tecnica mnemonica fosse chiaramente molto sviluppata: era necessario
    imparare a memoria, ricordare anche dei passi molto lunghi, un po’ come si tendono a
    ricordare le preghiere in modo rituale. La cosa importante è che questi testi erano
    trasmessi oralmente anche perché avevano un valore, per così dire eterno,
    increato. Era come se fossero - per chi appunto li pronunciava - un qualcosa di rivelato, una
    sorta di autorivelazione, e per questo dovevano rimanere orali per essere, in un certo senso,
    anche astratti, un qualcosa che non poteva avere una fissazione stabile, cosa che sarebbe
    avvenuta in un secondo momento.
    
    
     Era importante che fossero ricordati a memoria perché si riteneva che il rito avesse
    effettivamente efficacia solo se tutti questi passaggi rituali venivano pronunciati nel modo
    corretto. Immaginate quindi un sacerdote che in un determinato momento, tenendo una coppa
    riempita con una determinata sostanza, doveva pronunciare in quel preciso istante, in quel
    modo, con quel ritmo e quella tonalità quella determinata formula affinché il
    sacrificio avesse effettivamente efficacia. Se si fosse dimenticato qualche cosa o avesse preso
    una “papera”, se così possiamo dire, il rito probabilmente non avrebbe avuto
    la stessa efficacia e la divinità non sarebbe stata soddisfatta da questo punto di
    vista. Quindi pensate che per secoli, nell’ambito religioso, questi inni sacri
    dell’antica India venivano continuamente ripetuti a memoria e poi soltanto in un secondo
    momento sarebbero stati fissati.
    
    
     Se ci riflettete è la stessa cosa che avvenne con la Grecia antica. Sapete che
    l’Iliade e l’Odissea sono i due grandi pilastri della letteratura occidentale e che
    la critica ha a lungo disquisito sull’esistenza o meno di Omero: ci si è chiesti
    se Omero fosse in realtà esistito, se Omero sia l’autore dell’Iliade e
    dell’Odissea o soltanto di parti di esse, se effettivamente fosse esistita una sola
    persona capace di comporre dei poemi di così grande mole, e così via, tanto che
    gli studiosi si sono fatti molte domande al proposito. La cosa anche in questo caso
    interessante, però, è che appunto a partire dall’ottavo secolo avanti
    Cristo, quando i poemi omerici cominciarono ad essere trasmessi oralmente, questi venivano
    trasmessi in contesti per così dire “collettivi”. Nel senso: quando
    l’aedo, appunto il cantore, cantava di fronte ad un pubblico questi poemi, cantava in un
    contesto “globale”, in cui l’ascolto rivestiva un ruolo fondamentale: si
    può parlare infatti di una società di tipo, oltre che orale, anche
    “aurale” perché appunto l’orecchio, l’udito avevano
    un’importanza enorme. Ascoltare la ripetizione delle vicissitudini di Achille o di
    Odisseo nel suo ritorno in patria, era un qualcosa che non era solo interessante dal punto di
    vista, per così dire, della vicenda, non era tanto “importante” cosa
    accadeva ad Odisseo o cosa accadeva ad Achille, quanto il fatto che questi poemi trasmettevano
    una cultura generale, trasmettevano tutta una serie di sedimentazioni che nel corso dei secoli
    si erano sviluppate, per insegnare a vivere, all’interno della comunità, secondo
    tutta una serie di regole comuni.
    
    
     Il fatto che nei poemi omerici, per esempio, ci fossero le descrizioni di come doveva avvenire
    un matrimonio, quali dovevano essere i procedimenti per la vestizione di un guerriero o come
    dovesse svolgersi un funerale, i giochi funebri in onore di un morto, ecc. testimonia che
    questi erano tutti elementi di un patrimonio collettivo che venivano imparati proprio
    attraverso l’ascolto. Gli aedi erano dei cantori e componevano, per poi cantare,
    ciò che dovevano trasmettere: in un certo senso, anche se ovviamente il paragone
    è totalmente azzardato e anacronistico, possiamo dire, potrebbero essere paragonati ai
    nostri attuali cantautori, a coloro, cioè, che scrivono una canzone e poi la cantano.
    E’ chiaro che non possiamo paragonare, ovviamente, Claudio Baglioni ad Omero...Cerchiamo
    però di immaginare che colui che scriveva un’opera e che poteva poi
    automaticamente cantarla oralmente, raccontarla attraverso la semplice parola agli altri, aveva
    un grandissimo dono: quello di entrare in sintonia con tutto il pubblico che l’ascoltava.
    Potrebbe sembrarci forse abbastanza banale; mentre in realtà si veniva a creare una
    sorta di empatia, una sorta di emozionalità collettiva fra colui che parlava, che era
    l’aedo, il cantore, e gli ascoltatori. Spesso infatti accadeva che quando la parola detta
    veniva pronunciata, questo avvenisse in occasioni particolari e magari quando la
    collettività era riunita per un’occasione specifica e quindi ci si sentiva parte
    integrante di un sistema, ci si sentiva un nucleo, un gruppo, in grado di condividere stati
    d’animo e conoscenza. L’udito aveva perciò un’importanza fondamentale
    nell’ascolto della parola.
    
    
     La parola detta, per l’appunto, è una parola che, come ricordato in apertura,
    è evanescente, e vola, scompare nel momento in cui viene pronunciata in modo tale che, a
    meno che non ci sia un registratore, come in questo caso, o una videocamera o qualcuno che
    prenda appunti, scompare totalmente. Per fare un esempio potrei ricordare Cratilo - un seguace
    di Eraclito - che sosteneva che era impossibile bagnarsi due volte nello stesso fiume: questa
    metafora è molto interessante perché possiamo associarla bene al discorso della
    parola. Cratilo sosteneva che se una persona si immerge in un fiume, l’acqua che
    scorrerà sulla sua pelle sarà diversa da quella che scorrerà un secondo
    dopo, ci saranno, tanto per fare un esempio, altri organismi che scorreranno tra i flutti,
    oppure in quel momento, che so, potrà passare un pesce, ci sarà magari un ramo,
    in acqua, la persona sarà diversa, “invecchiata”, anche di un secondo, si
    sarà abituata meglio alla temperatura dell’acqua. Tutto, sostanzialmente,
    sarà diverso. Quindi lo scorrere di quel fiume, in quel determinato istante, sarà
    diverso rispetto al suo scorrere di qualche minuto prima. E lo stesso ragionamento può
    esser fatto nel caso della parola detta. Se io adesso, per esempio, imparassi a memoria il
    discorso che sto facendo a voi questa sera, e lo ripetessi domani o tra un’ora a qualcun
    altro, le mie espressioni facciali sarebbero diverse, il mio modo di gesticolare, pur rimanendo
    nel complesso lo stesso, risulterà associato a diversi momenti del mio eloquio, il mio
    uditorio sarebbe diverso, magari prenderei una “papera” di un tipo adesso, e una
    “papera” di un altro tipo tra poco. Anche l’intonazione delle parole sarebbe
    differente, mentre invece, quando abbiamo a che fare con un testo scritto, abbiamo di fronte,
    tutto sommato, qualcosa di esterno a noi, che noi osserviamo, dall’esterno, su un
    supporto ed è come dire un po’ più elaborato, decodificato dal nostro
    cervello, mentre fondamentalmente la parola ascoltata e la parola detta cambiano in
    continuazione.
    
    
     A ciò che noi diciamo e che abbiamo fin qui definito parola detta, vengono associati
    tutta una serie di elementi importanti come la gestualità, l’intonazione, le
    espressioni facciali, tutta una serie di ripetizioni, di richiami,propri, per l’appunto,
    del canale “orale”, piuttosto che di quello scritto; esistono infatti diverse
    scienze che si occupano, tra le altre cose, di analizzare il rapporto fra colui che parla e
    l’uditorio. Possiamo citare la paralinguistica, la cinetica, la prossemica, che studiano
    i movimenti e i gesti che facciamo attraverso il nostro corpo, nel momento in cui parliamo, o
    che prestano attenzione alla velocità dell’eloquio e all’intonazione. La
    prossemica, ad esempio, è la scienza che studia come l’individuo si pone nello
    spazio nel momento in cui parla, nel momento in cui comunica. Questa scienza distingue diversi
    tipi di distanze comunicative: esiste una distanza che in genere si chiama
    “intima”, e che si verifica quando fra i due interlocutori che comunicano oralmente
    c’è una distanza che va dagli 0 ai 45 cm. E’ chiaro che, dato che una
    distanza di 45 cm. può considerarsi piuttosto esigua, si può associare a una
    situazione linguistica che abbia come protagonisti, ad esempio, due innamorati o una mamma e un
    bambino che si sussurrano delle parole sottovoce, o comunque due interlocutori in confidenza
    reciproca. In questa situazione il tono di voce sarà più sommesso, più
    sussurrato, e ci sarà un’intesa maggiore attraverso i gesti, attraverso tutta una
    serie di altri aspetti che vanno al di là della semplice lingua.
    
    
     Esiste poi una distanza definita “personale”, che va dai 45 cm. - più o
    meno - ad un metro e 20, che in genere si instaura fra persone che comunicano
    “normalmente”, in una situazione “standard”, di conoscenza anche di
    tipo “sommario”. La distanza chiamata “sociale” è quella che
    prevede una vicinanza, tra gli interlocutori, fissata fra un metro e 20 e 3 metri e 60 circa,
    che è quella, riscontrabile qui tra noi questa sera, che si realizza, ad esempio, nel
    caso in cui ci si trovi in un’aula di scuola, o all’università o a una
    conferenza: in questo caso il tono della voce risulterà un po’ più alto,
    l’oratore dovrebbe cercare di parlare un po’ più lentamente, si
    cercherà di avvalersi di frequenti ripetizioni affinché il messaggio venga
    recepito più chiaramente dagli ascoltatori, e così via. Infine esiste una
    distanza “pubblica”, che supera i tre metri e 60 ed è tipica dei comizi,
    delle conferenze ad alto livello, a livello pubblico, in cui chiaramente è necessaria la
    presenza del microfono, o di eventuali supporti audiovisivi, utili alla ricezione chiara del
    messaggio.
    
    
     Potete quindi notare che, anche a seconda della “distanza comunicativa” e dei
    rapporti interpersonali che si stabiliscono fra chi parla e chi ascolta, subentrano tutta una
    serie di aspetti di natura “psicologica” e “sociale” molto
    interessanti.
    
    
     Nel caso della tradizione orale, come dicevamo prima, e quindi nel caso di Omero, dobbiamo
    pensare che l’Iliade e l’Odissea erano fondamentalmente imparate a memoria: si
    tratta di poemi che furono creati oralmente e furono trasmessi oralmente per secoli, fino poi
    ad essere fissati, abbiamo detto, su un supporto che “restava”, un supporto di tipo
    “materiale”, in grado di archiviare le parole poetiche. Tutti immaginiamo che
    imparare a memoria queste migliaia di versi era molto molto complicato: pur essendo vero che
    non tutti sapevano sicuramente a memoria i poemi omerici, è altrettanto vero che chi li
    cantava doveva possedere delle tecniche mnemoniche per poterli ricordare. Sono stati condotti
    diversi studi, intorno ai primi decenni del 1900, ad opera, fra gli altri, di studiosi come
    Milman Parry, che si occupò di studiare quelle che furono considerate delle cosiddette
    “mnemo-tecniche”, ovverosia le tecniche per imparare a memoria i poemi di corposa
    lunghezza. Milman Parry si recò anche nelle zone della ex Jugoslavia e andò a
    studiare la vita e le tradizioni dei “guslari”, cantori nomadi abituati ad imparare
    a memoria una quantità notevole di versi. Fu notato un fatto piuttosto importante, nella
    “recitazione” dei poemi ad opera dei guslari: ad esempio, furono messi in luce
    delle sequenze narrative che fungevano da “appiglio”, e che risultavano ricorrenti
    nello sviluppo della trama. Il nucleo centrale del racconto doveva essere fisso; quindi, in
    genere, non risultava tanto importante la scansione cronologica dei fatti, quanto piuttosto che
    si partisse da un nucleo centrale, per esempio l’ira di Achille nell’Iliade, il
    ritorno di Odisseo ad Itaca nell’Odissea, e che, attorno a questo nucleo, si costruisse
    tutto il resto del racconto. Era poi importante che ci fossero degli elementi che potessero
    fungere, per così dire, da “riempitivi”.
    
    
     Voi sapete forse che l’Iliade e l’Odissea sono state composte appunto in un metro
    chiamato “esametro”, caratterizzato da una certa musicalità, quindi da un
    ritmo musicale ripetitivo che faceva sì che le parole potessero essere anche ricordate
    piuttosto bene: pensate a quando dobbiamo ricordarci le parole di una canzone che non
    ascoltiamo da tanto tempo: a volte basta che ci torni in mente la melodia, grazie alla quale ci
    è più facile ricordare la rima o le parole che ci mancano. La stessa cosa poteva
    avvenire nel caso dell’Iliade e dell’Odissea, o comunque nei poemi epici in
    generale; grazie appunto al fatto che i versi avevano un determinato ritmo, e sapendo che in
    alcuni punti ci si aspettava la presenza di determinate parole, determinati
    “epiteti” (gli epiteti sono degli aggettivi che si aggregavano, si univano al nome
    del personaggio che doveva essere qualificato, pensate alle classiche espressioni
    “Achille dal piè veloce”, “Odisseo dal multiforme ingegno”,
    “Aurora dalle dita di rosa”, ecc.), era possibile, al cantore, avere dei
    “punti di riferimento” mnemonici per “risvegliare” la propria memoria.
    Questi epiteti, questi aggettivi che andavano a qualificare il personaggio erano importanti
    perché spesso riempivano il verso laddove mancava quel qualcosa perché il verso
    potesse risultare completo, e quindi essere ricordato nella sua interezza. Erano poi presenti
    delle espressioni cosiddette “formulari”: per esempio, se si doveva raccontare che,
    ad un certo punto dello svolgimento dei fatti, un personaggio si trovava a fare un certo
    discorso, o iniziava a parlare, il cantore aveva a disposizione diverse strutture, che potevano
    essere di diverso tipo, come, che so: “egli disse questa cosa”, “sostenne
    questo”, “a un certo punto disse”, “proruppe dicendo”, e
    così via, ossia avvalersi di un costrutto formato da un preciso numero di sillabe che
    rientrava perfettamente nella “economia strutturale” del verso stesso, e che veniva
    selezionato a seconda del numero di sillabe che era necessario coprire per completare il verso.
    
    
     Abbiamo già avuto modo di ricordare quale grande importanza rivestisse l’udito in
    questo tipo di fruizione orale del testo. Contestualmente un ruolo fondamentale era quello
    svolto dalla “concretezza” dei riferimenti testuali, cioè il fatto che
    nell’oralità, nella trasmissione culturale orale, si tramandavano elementi
    concreti, elementi della vita reale, elementi non astratti, metafisici, estranei, ma elementi
    concreti che la collettività sentiva come propri.
    
    
     Rispetto allo scritto, quindi, le differenze che stiamo cominciando a notare sono: la parola
    orale, quindi la parola detta fa ricorso e si appiglia prevalentemente all’udito, quindi
    all’ascolto, all’orecchio, mentre la parola scritta, in genere, si avvale invece
    della vista e la vista risulta essere un po’ “distanziatrice” rispetto
    all’udito, perché per vedere qualcosa, specialmente poi se si tratta di qualcosa
    di scritto, ci troviamo di fronte a un supporto materiale a noi esterno, che possiamo scegliere
    di decodificare nel momento che preferiamo, mentre l’udito è più
    globalizzante, riempie di più l’uditorio ed è più complesso rispetto
    alla semplice vista. Nel linguaggio parlato, nel linguaggio orale, quale era per
    l’appunto quello dell’epica omerica, in genere le frasi erano strutturate in modo
    “paratattico”, quindi c’erano delle frasi coordinate tra loro in modo
    più o meno semplice, allo scopo di evitare una complessa subordinazione, di più
    difficile interpretazione, cosa che invece la scrittura può più liberamente
    permettersi: in quest’ultimo caso, in effetti, abbiamo la possibilità di tornare
    indietro, di rileggere quello che non abbiamo capito, reinterpretare nuovamente un passaggio
    non del tutto chiaro alla luce del contesto subito successivo, ecc.
    
    
     Nell’ambito della parola detta, invece, rientrano tutta quella serie di aspetti citati
    poco fa, come la gestualità, l’espressione, i riempitivi, l’intonazione, gli
    intercalari, e così via, tutti elementi che servono a colui che parla per cercare di
    accattivarsi la benevolenza del pubblico o far capire meglio quello che intende dire.
    
    
     Chiaramente quando poi fu inventata la scrittura e soprattutto quando la scrittura
    cominciò ad essere utilizzata in letteratura, in poesia, in filosofia, questo
    rappresentò all’inizio un po’ una “rivoluzione” vera e propria,
    specialmente per i filosofi, che erano abituati a ragionare, pensare, trasmettere il patrimonio
    culturale in un modo orale, non in un modo scritto: In effetti, per esempio, Platone, vissuto
    nel V secolo a. C., allievo di Socrate, in un dialogo che è citato nel vostro opuscolo
    cui tra poco daremo un’occhiata, critica la scrittura, ponendosi nei suoi confronti con
    un atteggiamento piuttosto deciso, perché la considera come qualcosa che non ci
    può rispondere, qualcosa che è inerte, che si trova lì, che noi possiamo
    leggere, possiamo vedere, ma alla quale, in sostanza, non possiamo chiedere nulla, che non
    può rispondere alle nostre domande, dalla quale non possiamo aspettarci qualcosa di
    più. Queste riflessioni Platone le fa in uno dei suoi dialoghi più famosi, il
    “Fedro” che, proprio in quanto scritto in forma dialogica, rappresenta un genere
    letterario un po’ diverso rispetto all’epica o rispetto, che so, a un trattato
    storico o a un romanzo: il dialogo, infatti, già di per sé è una forma
    letteraria molto particolare perché presuppone dei personaggi che si parlano secondo un
    ritmo, una tempistica piuttosto simile a quella del “tempo reale”, l’assenza
    di formule ed espressioni verbali che introducano i vari discorsi, come “disse”,
    “rispose” e via dicendo, etc. Un po’ come nel caso del teatro, abbiamo a che
    fare con dei “botta e risposta” che fanno avvicinare tale genere letterario,
    più degli altri, al linguaggio parlato.
    
    
     Inviterei ora Giulia Bottaro a leggere il passo che c’è nell’opuscolo a
    pagina 6, in cui Platone critica questo nuovo sistema di scrittura, facendo parlare Socrate, il
    protagonista della maggior parte dei suoi dialoghi.
    
    
     Dal Fedro di Platone
    
    
     “Socrate: Ho udito, dunque, che nei pressi di Naucrati d'Egitto c’era uno degli
    antichi dèi locali, di nome Theuth, al quale apparteneva anche l’uccello sacro
    chiamato Ibis. Fu appunto questo dio a inventare il numero e il calcolo, la geometria e
    l’astronomia e, ancora , il gioco del tavoliere e quello dei dadi , e soprattutto la
    scrittura. Regnava a quel tempo su tutto l' Egitto Thamus, che risiedeva nella grande
    città dell’ Alto Egitto che i Greci chiamano Tebe e il cui dio chiamano Ammone.
    Recatosi al cospetto del faraone, Theuth gli mostrò le sue arti e disse che occorreva
    diffonderle tra gli altri Egizi. Quello allora lo interrogò su quali fossero le
    utilità di ciascun'arte, e mentre Theuth gliele spiegava, il faraone criticava una cosa,
    ne lodava un' altra, a seconda che gli paresse detta bene o male. Si dice che Thamus abbia
    espresso a Theuth molte osservazioni sia pro sia contro ciascuna arte, ma riferirle sarebbe
    troppo lungo. Quando Theuth venne alla scrittura disse: “Questa conoscenza, o faraone,
    renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare: è stata
    infatti inventata come medicina per la memoria e per la sapienza". Ma quello rispose:
    "Ingegnosissimo Theuth, c' è chi è capace di dar vita alle arti, e chi invece di
    giudicare quale danno e quale vantaggio comportano per chi se ne avvarrà. E ora tu,
    padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di ciò che essa è
    in grado di fare. Questa infatti produrrà dimenticanza nelle anime di chi l'avrà
    appresa, perché non fa esercitare la memoria. Infatti, facendo affidamento sulla
    scrittura, essi trarranno i ricordi dall’esterno, da segni estranei, e non
    dall’interno, da se stessi. Dunque non hai inventato una medicina per la memoria, ma per
    richiamare alla memoria. Ai discepoli tu procuri una parvenza di sapienza, non la vera
    sapienza: divenuti, infatti, grazie a te, ascoltatori di molte cose senza bisogno di
    insegnamento, crederanno di essere molto dotti, mentre saranno per lo più ignoranti e
    difficili da trattare, in quanto divenuti saccenti invece che sapienti (...)
    
     C’è un aspetto strano che in realtà accomuna scrittura e pittura. Le
    immagini dipinte ti stanno davanti come se fossero vive, ma se chiedi loro qualcosa, tacciono
    solennemente. Lo stesso vale pure per i discorsi: potresti avere l’impressione che
    parlino, quasi abbiano la capacità di pensare, ma se chiedi loro qualcuno dei concetti
    che hanno espresso, con l’intenzione di capirlo, essi danno una sola risposta e sempre la
    stessa. Una volta che sia stato scritto poi, ogni discorso circola ovunque, allo stesso modo
    fra chi capisce, come pure fra chi non ha nulla a che fare e non sa a chi deve parlare e a chi
    no. E se è maltrattato e offeso ingiustamente ha sempre bisogno dell’aiuto
    dell’autore, perché non è capace né di difendersi né di
    aiutarsi da solo”.
    
    
     Dunque, come vedete, nel passo che ci è stato appena letto da Giulia, attraverso le
    parole di Socrate, è Platone che sta ovviamente parlando, sta criticando la scrittura
    considerandola un qualcosa di inerte, qualcosa che non risponde, qualcosa di simile a un quadro
    che noi possiamo solo guardare, a un’opera scultorea noi possiamo ammirare, di cui
    possiamo fruire con tutti noi stessi, ma con la quale, tuttavia, non possiamo comunicare, non
    potendogli “porre domande”. Ora è vero che potrebbe sembrare anche una
    contraddizione il fatto che Platone critichi tanto la scrittura, ma poi di questa si avvalga
    per scrivere i propri dialoghi. In realtà si aprirebbe un discorso troppo lungo per
    poter essere affrontato questa sera, ma sicuramente questa critica di Platone è una
    critica in genere verso un tipo di insegnamento dottrinale che è diverso rispetto a
    quello a cui era abituato, quello, cioè, del continuo dialogo, continuo inserimento del
    dubbio nell’altro, affinché l’altro potesse giungere alla conoscenza, quindi
    un continuo entrare in contatto con l’interlocutore per giungere alla verità. Si
    tratta quindi di una forma di polemica che usa la scrittura per polemizzare contro
    qualcos’altro, di più grande. Certo è che la scrittura viene considerata
    qualcosa che assomiglia a una medicina, utile per richiamare la memoria, e quindi qualcosa che,
    tutto sommato, non aiuta la memoria ad attivarsi e ad esercitarsi, quanto ne causa
    irrimediabilmente la perdita, proprio perché ci abituerà ad avere qualcosa di
    fronte a cui possiamo appigliarci quando dimentichiamo le cose.
    
    
     Dal punto di vista letterario, oltre ai romanzi o ai saggi, alle guide turistiche, o a un
    certo tipo di testi scritti, che sembrerebbero avere un rapporto oggettivo con la lingua o la
    scrittura, ci sono dei testi, invece, che sono mimetici del parlato, come i dialoghi, le
    poesie, i testi teatrali, cioè tutti quei testi che, pur essendo ovviamente scritti,
    cercano di rappresentare il più da vicino possibile la lingua parlata. Questi possono
    essere in parte anche i testi dialogici che, per l’appunto, presentano questi
    “botta e risposta” tra i personaggi senza che ci siano necessariamente, come detto
    poc’anzi, verbi che stanno a spiegare ogni volta chi sia a parlare. Pensiamo poi ai testi
    teatrali che sono sì scritti, ma per poi essere rappresentati sulla scena e che sono
    caratterizzati, per loro natura, da una tipologia strutturale diversa da quella che potremmo
    riscontrare in un romanzo. Allo stesso modo la poesia, da questo punto di vista, risulta molto
    evocativa, perché, in quanto micro-testo in cui si devono comunicare tutta una serie di
    sensazioni ed emozioni e si deve cercare di lasciare spazio all’autore di rappresentare e
    di dare la sua interpretazione del reale, sono i testi che spesso presentano una serie di
    elementi che possono far pensare al parlato e soprattutto, più che al parlato, evocare
    quelle che sono le situazioni circostanti, il mondo che ci circonda, attraverso un mezzo come
    quello della scrittura.
    
    
     Ci sono delle poesie, che fra poco leggeremo sempre grazie a Giulia (nel caso specifico ne
    sono state scelte due, una di Montale, l’altra di Pascoli), che risultano essere molto
    evocative dal punto di vista dello stile. Gli autori, cioè, hanno scelto delle parole
    che potessero il più possibile far riferimento ad elementi della natura circostante,
    quindi potessero essere delle parole in grado di evocare dei rumori della natura: in genere
    queste parole si chiamano parole “onomatopeiche”. Pensiamo a quando usiamo delle
    parole come “scricchiolare”, “sgranocchiare”, “tintinnio”,
    etc. Sono tutte parole che in un certo senso è come se avessero in sé, ci
    trasmettessero la sensazione del rumore che in effetti si produce quando sgranocchiamo un pezzo
    di pane o ascoltiamo il suono proveniente da un campanello; ancora, pensiamo anche alla
    riproduzione di alcuni versi di animali come “chicchirichì”,
    “coccodè”, che cercano di riprodurre il più fedelmente possibile i
    suoni della natura. Questo tentativo di trasporre in un testo scritto tutta una serie di
    elementi “esterni”, funzionali a far comprendere appieno le sensazioni
    dell’io lirico, avviene spesso in modo specifico e voluto proprio in alcune poesie,
    quando l’autore, pur riuscendo a mantenere l’autenticità delle sensazioni,
    facendole apparire spontanee, vere, riesce, sapientemente, attraverso il ricorso e la sequenza
    di determinate vocali o di determinate consonanti, a darci l’idea di quello che si trova
    intorno a noi, di quella che è la nostra realtà esterna. Chiamerei a questo punto
    nuovamente Giulia a leggerci le due poesie che sono state inserite nell’opuscolo a pagina
    5.
    
    
     Meriggiare pallido e assorto, Eugenio Montale
    
    
     Meriggiare pallido e assorto
    
     presso un rovente muro d'orto,
    
     ascoltare tra i pruni e gli sterpi
    
     schiocchi di merli, frusci di serpi.
    
    
     Nelle crepe del suolo o su la veccia
    
     spiar le file di rosse formiche
    
     ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
    
     a sommo di minuscole biche.
    
    
     Osservare tra frondi il palpitare
    
     lontano di scaglie di mare
    
     mentre si levano tremuli scricchi
    
     di cicale dai calvi picchi.
    
    
     E andando nel sole che abbaglia
    
     sentire con triste meraviglia
    
     com'è tutta la vita e il suo travaglio
    
     in questo seguitare una muraglia
    
     che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
    
    
    
     Notte di vento, G. Pascoli
    
    
     Allora sentii che non c'era,
    
     che non ci sarebbe mai più...
    
     La tenebra vidi più nera,
    
     più lugubre udii la bufera...
    
     uuh...uuuh...uuuh...
    
     Venìa come un volo di spetri,
    
     gridando ad ogni émpito più:
    
     un fragile squillo di vetri
    
     seguiva quelli ululi tetri...
    
     uuh...uuuh...uuuh...
    
     Oh! solo nell'ombra che porta
    
     quei gridi... (chi passa laggiù?)
    
     Oh! solo nell'ombra già morta
    
     per sempre... (chi batte alla porta?)
    
     uuh...uuuh...uuuh..
    
    
     Allora, vedete, nella bella interpretazione delle due poesie che ci ha regalato Giulia, e in
    particolar modo in quella di Pascoli, in “Notte di vento”, si percepisce come sia
    importante il valore della parola e tutti i suoni che sono stati scelti appositamente
    dall’autore per evocare, rappresentare, trasmetterci determinate sensazioni. E’
    chiaro che le avremmo provate allo stesso modo se avessimo letto mentalmente ciò che ci
    trovavamo di fronte, ma sicuramente ascoltarli letti ad alta voce ci provoca un effetto
    diverso, perché sentiamo, percepiamo più chiaramente il corpo fonico della
    parola. In “Meriggiare pallido e assorto” notiamo come una serie di termini come
    “sterpi”, “frusci”, “serpi”, risultino particolarmente
    evocativi: il fatto che siano state scelte delle vibranti o delle sibilanti ha lo scopo di
    darci l’idea di questo strisciare delle serpi, dei serpenti, che si trovano in questa
    natura secca ed essiccata dai raggi del sole. Anche in “Notte di vento”, forse
    ancor più che nel testo montaliano, si nota in maniera piuttosto evidente il valore
    simbolico delle vocali o delle parole stesse. Pensate al ritornello, in cui si evoca il rumore
    della bufera e del vento attraverso una vocale chiusa come la “u”. Se ci pensate
    è come una sorta di evocazione di un linguaggio orale: in un testo scritto come una
    poesia viene rappresentato un suono della natura, o comunque un suono che potrebbe essere
    riprodotto da un essere umano, da Giulia come ha fatto poco prima, aiutato dai puntini di
    sospensione che ci danno l’idea di questa lentezza, di questo passaggio graduale di
    questa bufera; o il fatto che ci siano le parentesi con tutti questi punti interrogativi, il
    fatto che Pascoli immagini di notare un’ombra in questo buio e ricordi alcuni fatti della
    sua infanzia chiedendosi “chi passa laggiù, chi batte alla porta?”... Queste
    domande fra le parentesi sono tutti espedienti tipici di un linguaggio parlato, o
    caratteristici di un linguaggio parlato che compaiono specificamente in un testo scritto.
    
    
     Come elemento tipico del parlato c’è sicuramente anche quello caratteristico di
    una serie di linguaggi, che normalmente vengono detti “gerghi”. Pensate a quanto il
    linguaggio giovanile o il linguaggio di alcuni settori specifici, come per esempio il
    linguaggio della malavita, o il linguaggio dei carcerati, siano dei linguaggi che restano
    soltanto orali, e che cioè difficilmente possono essere scritti; quelli che vengono
    definiti “gerghi” sono dei linguaggi utilizzati da un contesto stretto di persone
    che hanno condiviso un ambiente con delle caratteristiche simili e che si sentono parte
    integrante di tale piccolo ambiente. Il termine “gergo”, infatti, deriva
    dall’antico francese “jargon” che vuol dire gorgheggiare. Il gorgheggiare
    degli uccelli è per l’appunto un qualcosa di incomprensibile e il fatto che spesso
    il linguaggio dei giovani possa essere considerato un gergo è importante perché
    si tratta di un linguaggio tipico di un microcosmo di giovani, che adottano delle strategie
    comunicative di diverso tipo rispetto a quelle della lingua standard degli adulti, sia per non
    essere compresi (esigenza di segretezza) che per fare forza comune (esigenza di aggregazione),
    per sentirsi un gruppo compatto e spesso anche per sdrammatizzare sulle cose.
    
    
     Nel caso dei gerghi, parlate che restano orali, un’importanza fondamentale è
    quella rivestita dal rapporto con la lingua standard: pensiamo a quando i ragazzi tendono ad
    abbreviare le parole (professore diventa “prof”, ragazzi diventa
    “raga”, ecc.), oppure all’uso dei cosiddetti “forestierismi”,
    ossia di parole provenienti dalla lingua inglese (o da altre) che vengono utilizzate e per
    così dire “italianizzate”, adattate alla nostra lingua (come per esempio il
    termine “flesciare”; l’espressione “ho flesciato”, nel senso ho
    avuto un flash, ho avuto un abbaglio, quindi un improvviso choc). Oppure spesso i giovani fanno
    uso di metafore tipiche della lingua standard (“quella donna è un canotto”,
    nel senso che è “rifatta”, risultando “gonfia” come un canotto),
    o ricorrono a veri e propri “tecnicismi”: pensiamo al classico termine
    “rimorchiare” (che però è un tecnicismo perché deriva
    ovviamente dal rimorchiare dei TIR), o alla definizione di una persona come
    “amorfa”: anche questo è un tecnicismo perché il termine amorfo
    deriva dal greco “morphé” che vuol dire forma, e quindi chi è amorfo
    e qualcuno privo di una forma precisa e quindi di conseguenza considerato un po’ diverso,
    strano.
    
    
     I gerghi rappresentano quindi una testimonianza molto importante per quel che riguarda la
    lingua orale perché restano tipici del linguaggio parlato: è difficile che
    possano essere scritti se non ovviamente attraverso l’invio di SMS o di simili strumenti
    di comunicazione “immediata”: si tratta in effetti di un sottocodice linguistico,
    non certo di tipo letterario.
    
    
     Lascerei ora la parola al Prof. Di Giovine, prima però leggerei molto velocemente,
    praticamente alla velocità della luce, un passo che troviamo nel nostro opuscolo alle
    pagine 12 e 13. Si tratta di una divertente invenzione di Achille Campanile, scrittore di testi
    in genere umoristici, che ha immaginato una sorta di discorso fra due antichi egiziani che per
    l’appunto comunicavano attraverso i geroglifici, immaginando che un innamorato abbia
    voluto scrivere una lettera d’amore ad una ragazza per tentare di conquistarla e che
    questa ragazza abbia frainteso tutto leggendo i geroglifici in modo completamente diverso
    rispetto a quanto voluto dal giovane. Questo passo è interessante sia perché
    credo possa risultare abbastanza divertente, ma anche perché fa capire come
    effettivamente una lettura di un’immagine, di un disegno, di un simbolo, possa prestarsi
    a diverse interpretazioni, diversamente dalla scrittura alfabetica, quindi dalla scrittura a
    cui siamo abituati, e che, in linea di massima, a parte qualche caso di equivoci non è
    difficilmente interpretabile.
    
    
     Allora, senza leggere l’introduzione - altrimenti perderemmo troppo tempo - vediamo
    direttamente come il nostro egiziano Ramesse decide di scrivere questa lettera d’amore
    nei confronti della fanciulla che ha visto un giorno passare da quelle parti. Le dirò,
    fece, soave fanciulla e disegnò …..
    
    
     Prof. PAOLO DI GIOVINE
    
     Probabilmente molti di voi immagineranno che io, magari abituato a parlare davanti ad un
    pubblico, mi senta tutt’altro che emozionato, e invece non è così. Per due
    ragioni. Prima di tutto per l’occasione, perché anch’io ho avuto occasione e
    modo - per troppo breve tempo! - di conoscere Guido, e un po’ anche perché,
    insieme alla collega che ha parlato prima di me, Marianna, mi sento anch’io in qualche
    modo responsabile di rendere digeribile una disciplina che potrebbe apparire,
    dall’esterno, piuttosto oscura, poco permeabile alla comprensione: mi piacerebbe invece
    che dopo questa chiacchierata qualcuno di voi avesse curiosità di approfondire
    ulteriormente che cosa sia la “linguistica”.
    
    
     Vengo all’argomento che in qualche modo mi sono ritagliato, quando abbiamo diviso la
    conferenza strutturandola in due parti, e in particolare vorrei parlare della scrittura. Quel
    momento della introduzione della scrittura che è molto importante da un punto di vista
    anche storico, perché segna il confine tra preistoria e storia: la preistoria per
    convenzione è tutto ciò che precede la prima documentazione scritta in ciascuna
    delle società evolute nel corso del tempo. Dunque è proprio il criterio della
    scrittura, della documentazione scritta, a costituire il discrimine tra i due momenti:
    preistoria, prima del primo documento scritto, storia, successivamente. La scrittura, noi
    comunemente immaginiamo che incominci con la creazione dell’alfabeto che, nella nozione
    vulgata, nella nozione comune giunse in Grecia portato dai Fenici. In realtà nasce molto
    prima.
    
    
     Intanto, che cosa dobbiamo intendere per scrittura in senso stretto? Naturalmente i primi tipi
    di scrittura sono dei disegni, e tuttavia quando il disegno deve essere interpretato e non
    letto siamo ancora in presenza di un messaggio globale che non può essere definito in
    senso stretto “scrittura”. In questo caso convenzionalmente si usa il termine di
    “pre-scrittura”, vale a dire una comunicazione nella quale il disegno convoglia
    complessivamente l’intero messaggio, non è articolabile in parti successive, non
    ci sono disegni singoli per ogni concetto, ma è un’indicazione globale da
    interpretare, non da leggere. Un esempio, credo abbastanza divertente, di pre-scrittura
    è quello che trovate a pagina 8 del fascicolo, la cosiddetta “Lettera
    d’amore Yukaghira”. Naturalmente una lettera d’amore susciterebbe attese di
    trovare cuoricini magari infranti da qualche freccia, e invece nulla di questo, anzi si tratta
    in realtà di un messaggio abbastanza oscuro, poco chiaro, che non sarebbe stato
    interpretabile se non fosse stata fornita l’autentica lettura, l’autentica
    interpretazione ancor più che lettura, da parte di coloro che l’avevano creato.
    Yukaghira fa riferimento ad una popolazione della Siberia orientale, e questo documento risale
    ad un periodo piuttosto recente: sembra strano parlare di pre-scrittura non in rifierimento a
    una lontana preistoria, molti millenni prima dell’era cristiana. In realtà questo
    documento risale alla metà dell’’800 ed è stato pubblicato nel 1895
    da uno studioso russo di nome Shargorodskij, pubblicato ed interpretato. E’ talmente
    singolare, che molti ne hanno messo in dubbio l’autenticità, anche se in
    realtà sembrerebbe ormai acclarata la effettiva autenticità di questo testo.
    
    
     Nella figura notate immediatamente degli alberi: gli alberi in una zona siberiana
    rappresentano un elemento fondamentale, e, per una metafora che è facilmente intuibile,
    rappresentano anche forme di vita e nel caso nostro individui. Naturalmente ci possiamo
    domandare quali siano gli uomini e quali le donne, nel caso specifico, perché si tratta
    di alberi piuttosto amorfi, non hanno particolarità molto evidenti. Non badate
    naturalmente né alle lettere maiuscole ai piedi degli alberi, né ai segni che
    convenzionalmente indicano il genere maschile o femminile: sono naturalmente segni esplicativi
    apposti nell’edizione. Le donne sono caratterizzate da dei puntini che sono qui indicati
    per comodità con la lettera “r” minuscola, sul lato destro dei due alberi
    qui etichettati con A e C. I puntini indicano convenzionalmente che si tratta di individui
    femminili, di donne, gli altri due, B e D, sono uomini,. Il messaggio è opera
    dell’albero, cioè della donna A, e qui appare l’aspetto più
    interessante della rappresentazione grafica, perché è un modo originale di cercar
    di veicolare, di comunicare un qualcosa. Naturalmente ci si può chiedere perché
    nasca questo messaggio. Perché si tratta di una società - in questi casi si parla
    di società etniche - nella quale alle donne è proibito parlare direttamente agli
    uomini che non siano naturalmente il proprio consorte. E A è una donna che è
    rimasta sola, come vedete dal fatto che la cornice la inquadra, una cornice doppia che la
    inquadra isolatamente: manda un messaggio che è indicato con “a” minuscolo,
    il ghirigoro che torna indietro, un messaggio che non ha ascolto. Infatti, la linea torna
    indietro verso colui che precedentemente viveva con lei, che è B, e che era legato a lei
    da questo anello, “b” minuscolo, che vedete spezzato ed è spezzato dalla
    linea, indicata con “c” minuscolo, che collega C e B. C è, come dire, la
    nuova “fiamma” di B., la persona con la quale adesso l’ex-marito di A vive.
    La donna indicata con A chiede al marito di ritornare da lei e pone una condizione, anche
    questa molto singolare nella rappresentazione: vedete le due figure più piccole, i due
    alberelli E, che sono i bambini, ma bambini potenziali, perché sono fuori della cornice
    triplice che unisce C e B. Il messaggio si dovrebbe interpretare in questo modo: io sono
    disposta a riaccoglierti purché tu non abbia bambini dalla tua seconda donna. Ovviamente
    ci sono altri elementi in questa cosiddetta “lettera d’amore” yukaghira, per
    esempio, le linee oblique indicate con “k” nella parte superiore della figura A
    indicano il dolore, la sofferenza di A per essere stata abbandonata. Un ultimo elemento da
    sottolineare è indicato con “p” nella figura C, la seconda donna, e sono i
    puntini di lato, al di sotto dei puntini che indicano che si tratta di una donna: essi fanno
    riferimento al fatto che è una donna straniera, e quindi il messaggio potrebbe esser di
    diffidare degli stranieri perché portano guai... neanche a dirlo, è una battuta.
    
    
     Notate, da questo esempio di prescrittura, come un messaggio estremamente complesso -
    sembrerebbe quasi la trama di una telenovela - venga convogliato da un disegno complessivo, che
    va interpretato globalmente e non può esser letto; certo ci si potrebbe scrivere su un
    racconto, ma è comunque un messaggio complessivo.
    
    
     In realtà questi esempi di prescrittura non hanno un seguito vero in forme di
    scrittura, mentre un altro tipo, ben più antico, di prescrittura è molto
    importante storicamente perché ha invece delle conseguenze fondamentali nella nascita
    della scrittura. Sono i cosiddetti “tokens”, termine inglese che potremmo tradurre
    con “gettoni”, i quali compaiono già a partire dal V millennio a.C., quindi
    tra il 5000 e il 4000 a.C., in Asia Minore, nel vicino Oriente, soprattutto in area
    mesopotamica ma non solo, e sono dei gettoni d’argilla che, come vedete nella figura a
    pag. 9 - sono le forme a sinistra di ciascuna delle due metà della figura -,
    rappresentano degli oggetti. Per esempio, il terzo a sinistra e dall’alto rappresenta un
    capo di bestiame, forse una pecora, un montone, non saprei dire esattamente, o ancora il
    secondo nella colonna di destra indica un’unità di misura di grano o granaglie,
    probabilmente, e del resto vedete la spiga (questa sì che è una spiga, non come
    quella di Achille Campanile!). Questi gettoni avevano una funzione sostanzialmente di tipo
    amministrativo, per registrare beni inventariati che venivano conservati, quindi ogni gettone
    corrispondeva a una data quantità di questi beni; questi gettoni venivano poi legati in
    una specie di collana, oppure custoditi dentro dei recipienti di terracotta e poi, quando si
    trattava di archiviare queste registrazioni, venivano chiusi e sigillati. Allora, una volta
    chiusi e sigillati i recipienti con dentro le figurine di terracotta, i “tokens”,
    chiaramente non si sarebbe più stati in grado di ricostruire il contenuto di questi
    recipienti di terracotta, quindi sull’esterno del recipiente venivano incise delle figure
    corrispondenti al contenuto dei recipienti stessi - le vedete, per ciascuna metà la
    colonna di destra, indica le figure incise, non più figure a tutto tondo, non più
    gettoni, ma figure graffiate sulla terracotta che ricordano esattamente quelli che sono i
    gettoni all’interno di questi vasi di terracotta, detti “bulle”. A questo
    punto si compie il passo fondamentale verso la scrittura, perché nel momento in cui
    sull’esterno del recipiente è rappresentato il contenuto che è
    all’interno, abbiamo la rappresentazione simbolica di ciò che non è
    più visibile: quindi non servirà più avere dei recipienti di terracotta
    con dentro i gettoni, ma i recipienti di raccolta si trasformeranno in tavolette di argilla,
    con delle indicazioni incise che avranno la funzione di richiamare simbolicamente dei concetti.
    Ecco il passo necessario perché nasca la scrittura.
    
    
     I gettoni, i “tokens”, non sono scrittura ma sono il punto di partenza per la
    scrittura, che nasce, e questo è un fatto sicuro, come “pittografia”,
    cioè come rappresentazione di figure che hanno un valore simbolico, indicano dei
    concetti, indicano, potremmo approssimativamente dire, delle cose reali (anche se in
    linguistica questo non sarebbe del tutto corretto, ma per capirci si può dire
    così). La pittografia si avvale di figure, poste opportunamente in sequenza, per fornire
    delle indicazioni di frasi complesse. Ciascuna figura, come dicevo, indica un concetto, e uno
    dei primi sistemi pittografici, e tra i più importanti, è proprio il geroglifico
    egiziano, quello su cui Achille Campanile si sbizzarrisce con tanta felice vena umoristica.
    Geroglifico egiziano che in realtà, ad onor del vero, non era solo pittografico, ma
    utilizzava anche dei sistemi misti, perché alcuni geroglifici venivano utilizzati anche
    per il loro valore fonetico, la sillaba iniziale della parola rappresentata, della parola
    corrispondente al concetto rappresentato.
    
    
     Comunque questo è un discorso un po’ complesso, che tutto sommato poi non
    aggiunge molto alla sostanza del problema. In realtà, è interessante invece
    osservare che il geroglifico ha anche delle varianti semplificate: il geroglifico si usava solo
    per i grandi monumenti e quindi lo troviamo nei templi e sulle pareti di roccia a livello di
    epigrafi. Per i testi meno solenni si usava lo “ieratico”, che è una forma
    stilizzata di geroglifico, e per i testi correnti il “demotico” che è una
    forma ulteriormente semplificata. Tra l’altro, la “Stele di Rosetta” che
    è stata qui rappresentata in fotografia e commentata a pagina 7, è un testo che
    presenta geroglifico e demotico oltre alla traduzione greca. E’ interessante, la Stele di
    Rosetta, perché fu rinvenuta e fu portata in Francia da Napoleone, durante la sua
    spedizione in Egitto, piuttosto infausta peraltro, e uno degli ufficiali di Napoleone,
    Champollion, ci si mise su di buzzo buono e riuscì per la prima volta a interpretare il
    geroglifico egiziano. La vicenda ha avuto tanta fortuna che il paese natale di Champollion,
    Figeac nella Francia meridionale, ha dedicato un’intera piazza alla stele di Rosetta. A
    Place de l’écriture, una riproduzione della Stele di Rosetta pavimenta la piazza,
    di dimensioni non molto grandi. E’ molto singolare e anche interessante, se qualcuno di
    voi avesse occasione di passare da quelle parti.
    
    
     Altri geroglifici importanti di derivazione probabilmente non direttamente egiziana, sono
    quelli dell’Anatolia: in particolare, il cosiddetto ittito geroglifico in realtà
    è scritto con un tipo di geroglifico che ha dei punti in comune ma è anche in
    parte diverso da quello egiziano. Trovate a pagina 10-11, in basso, alcuni di questi
    geroglifici propri dei sigilli anatolici, e l’aspetto singolare, per cui ho riportato
    questa figura, è dato dal fatto che il geroglifico permette di rappresentare un concetto
    o con la figura intera o con una sua parte significativa. Per convenzione si usa il nome latino
    in maiuscolo per indicare il concetto reso dal geroglifico, e dunque ad es. LEO, il leone,
    può essere rappresentato o con il leone intero oppure con la testa del leone; CERVUS, il
    cervo, può essere rappresentato con il cervo intero, con il suo scalpo oppure con un
    solo corno del cervo. E così via per altri animali, come la capra ecc.: nei due sigilli
    di fianco si osservano due diverse rappresentazioni in cui abbiamo, nel sigillo in alto, due
    teste di cervi, e nel sigilli in basso due cervi interi, senza che cambi il senso di questi
    geroglifici.
    
    
     Pittografia, quindi concetti direttamente evocati da disegni, da figure. In teoria la
    pittografia potremmo comprenderla anche senza conoscere la lingua cui fa riferimento,
    perché leggiamo la sequenza dei segni e quei disegni evocano dei concetti a prescindere
    dalle parole corrispondenti nella lingua cui fanno riferimento questi messaggi scritti.
    
    
     Un altro sistema pittografico che ha molta importanza, anche se non nella tradizione
    occidentale, è quello cinese. Come sapete, il sistema ideografico cinese è un
    sistema nel quale i segni, che sono alcune migliaia - nella fase più importante del
    segnario cinese arrivano ad alcune decine di migliaia -, corrispondono ciascuno ad un concetto.
    Il segnario cinese, tra l’altro, presenta la caratteristica di essere stilizzato,
    perché ormai non sono più individuabili i pittogrammi nel loro valore originario.
    In una rubrica che viene trasmessa la mattina presto sul terzo canale della RAI
    c’è un simpatico docente cinese che cerca di spiegare le varie origini dei segni
    cinesi complessi, però non è che mi persuada del tutto, devo dire la
    verità: in certi casi c’è più immaginazione, forse, che
    realtà. In ogni caso gli ideogrammi cinesi non sono più trasparenti, non si
    intravede più l’immagine dietro la stilizzazione, anche se comunque hanno sempre
    un valore pittografico: vanno di solito dall’alto verso il basso, quindi hanno un
    andamento verticale e si caratterizzano per un tratto un po’ arrotondato, perché
    venivano disegnati con l’inchiostro, inchiostro di china, naturalmente, su legno
    inizialmente, e poi su seta (dunque il materiale scrittorio influiva sulla modalità di
    scrittura).
    
    
     Il passo successivo è costituito dal passaggio dalla pittografia a quella che noi
    chiamiamo “fonografia”, cioè alla resa della forma fonica, della sequenza di
    suoni che costituiscono le parole di una lingua. Quindi, non più il concetto nel suo
    insieme, ma la sequenza di suoni che costituiscono una determinata parola. Per vedere questo
    passaggio si può inizialmente dare un’occhiata alla figura in alto, sempre a pag.
    10-11, in cui viene rappresentata la pittografia di un uomo coricato, lo vedete in alto a
    sinistra, un uomo disteso, un po’ panciuto, ma questa è una stilizzazione - ho
    evitato di riprodurre la stilizzazione della donna perché è meno presentabile.
    L’uomo coricato viene poi stilizzato nel cuneiforme, che è la forma fonografica
    costituita da una sequenza di cunei, i quali riproducono più o meno la sequenza nel suo
    complesso, ma alterandola in parte e rendendola meno riconoscibile. Ora, qui si manifesta un
    passaggio molto importante: il cuneiforme è un tipo di scrittura che nasce
    nell’area mesopotamica e viene utilizzata in modo sistematico per la prima volta da
    Sumeri, popolazione che parlava una lingua né semitica, né indoeuropea, una
    lingua caratterizzata dalla presenza di parole monosillabiche, quasi tutte monosillabiche (come
    a dire che ogni parola era costituita da una sola sillaba). Allora, ogni segno che
    corrispondeva ad una parola, in realtà corrispondeva anche ad una sillaba, perché
    le parole erano costituite da una sola sillaba. Pertanto, il segno per uomo corrisponde alla
    forma fonica, quella che chiamiamo “significante” in linguistica, questa sillaba
    (LÚ) significava in sumerico “uomo”.
    
    
     La fase successiva dell’evoluzione è l’utilizzazione di questo segno non
    più per indicare uomo, ma per indicare la sillaba “lu” e quando lingue come
    l’assiro e il babilonese, che noi definiamo “accadico”, utilizzano questo
    sistema grafico numerico, lo utilizzano facendo valere ogni segno per il suo valore sillabico,
    cioè per il suo valore fonico, sequenza di suoni. E quindi quando in assiro-babilonese,
    in accadico, vengono utilizzati segni cuneiformi non vengono più utilizzati nel loro
    valore pittografico, ma vengono utilizzati nel loro valore sillabico, come segni che indicano
    una sillaba, rappresentano una sillaba. E’ il passo ulteriore: non più disegni che
    evocano una azione, ma elementi che vanno letti in base alla forma fonica delle varie lingue
    che le utilizzano e che sono utilizzabili teoricamente per qualunque lingua, quindi dei segni
    sillabici cuneiformi potrebbero in teoria essere utilizzati per qualunque lingua occidentale.
    
    
     Ultimo passaggio è quello dai sillabogrammi, cioè da segni sillabici, a segni
    alfabetici: quindi, come si vede, l’alfabeto è proprio l’ultima tappa
    dell’evoluzione della scrittura e questa avviene, secondo un sistema piuttosto complesso,
    in area semitica: sia l’assiro che il babilonese sono lingue semitiche orientali, mentre
    lo sviluppo avviene piuttosto nell’area semitica nord-occidentale di cui fa parte il
    fenicio. Nelle lingue semitiche le vocali hanno una funzione solo grammaticale, non lessicale,
    indicano cioè la natura grammaticale della parola, mentre il significato concettuale
    viene portato dalla struttura consonantica, dalle consonanti. Dato che ogni sillaba è
    costituita da almeno una consonante e una vocale, ecco che l’aspetto fondamentale di una
    sequenza di sillabe nelle lingue semitiche è dato, per così dire, “dallo
    scheletro consonantico”, sono le consonanti quelle che portano il valore lessicale e
    quindi le vocali poi si regolano un po’ di conseguenza in base alla natura grammaticale
    della parola (se è un nome, un verbo, una determinata forma verbale, una determinata
    forma nominale, il singolare, il plurale o un caso specifico). Quando le lingue semitiche
    utilizzano i sillabogrammi li utilizzano essenzialmente per la loro valenza consonantica, tanto
    è vero che nelle lingue semitiche si parla di radici “trilittere”,
    “bilittere”: è un fatto interessante, poiché si parla di lingue, ma
    si fa riferimento alle lettere.
    
    
     Le lettere dell’alfabeto fenicio vennero adattate in greco, ed erano tutte consonanti:
    attenzione, quindi, il greco adatta alcune consonanti superflue per il suo sistema, e le adatta
    come vocali. L’alfabeto greco occidentale da Cuma, colonia greca in Campania, viene
    adottato, attraverso gli Etruschi, a Roma, e quindi diviene l’alfabeto latino.
    
    
     Il percorso si conclude a questo punto, ma in realtà c’è tutta una serie
    di aspetti molto interessanti, in cui l’alfabeto non ha soltanto una funzione, come dire,
    utilitaristica, pratica, ma anche una funzione estetica: è l’esempio riportato a
    pag. 9 in basso, una iscrizione in caratteri arabi kufici. Sembra un disegno, e in
    realtà è invece un’iscrizione che significa “Dio sia lodato”,
    in arabo naturalmente, perché immagino che sia anche interessante sapere a che cosa
    corrisponde la forma in arabo: Al-amdu lillāh “la lode per Dio”. Sembra
    un disegno, e se uno non sapesse che è un’iscrizione potrebbe tranquillamente
    confondersi.
    
    
     Mi avvio alla conclusione perché mi pare che i tempi siano quasi conclusi - e forse
    anche la vostra pazienza -, per chiudere il cerchio e tornare al rapporto fra oralità e
    scrittura. Che sono due mondi separati, tanto è vero che abbiamo potuto parlarne
    dividendoci i compiti, ma non sono due monadi. Se c’è, come so che
    c’è, qualche filosofo in sala dico che ovviamente il richiamo a Leibnitz non
    è casuale: non sono due mondi separati, non comunicanti, ma in realtà si
    influenzano reciprocamente. Lo scritto influenza il parlato, così come il parlato
    influenza lo scritto, anche certe volte più di quanto noi stessi siamo in grado di
    accorgerci. Lo scritto influenza il parlato: questo sembra strano perché di solito
    avviene il contrario, invece succede per espressioni formulari che sono proprie della lingua
    scritta e che poi passano di peso nel parlato. Ma soprattutto per le sigle: le sigle sono una
    forma essenzialmente scritta, perché nello scritto è comodo risparmiare spazio,
    risparmiare fatica di scrivere per esteso tutte le parole di una sigla, tipo IVA invece di
    Imposta sul Valore Aggiunto e poi la forma scritta, l’abbreviazione, in una frase
    “non ho pagato l’IVA”, ormai è diventata una parola comune percepita
    senza nessuno stupore. Ci sono anche casi piuttosto divertenti, in cui le sigle vengono
    fraintese nel passaggio fra lo scritto, che di solito è colto o semicolto, e il parlato,
    che spesso può essere semicolto o non colto: tipo la sigla, il marchio su alcune
    attrezzature, giochi, macchinari, che spesso è citato come Marchio CEI, invece di CEE
    (naturalmente fa riferimento alla Comunità Economica Europea), e così sembra
    richiamare l’autorità episcopale, che sui giocattoli o altro non credo abbia alcun
    interesse di esprimere valutazioni.
    
    
     Ancora, un ultimo campo di influenza dello scritto sul parlato è il cosiddetto
    “burocratese”, che talvolta entra, penetra malignamente anche nella lingua scritta:
    uno dei casi, per esempio, che mi vengono in mente è “dazione”, che viene
    dal gergo giudiziario e che ho sentito più volte utilizzare nella lingua parlata.
    
    
     Naturalmente spesso è il contrario: spesso lo scritto è influenzato dal parlato,
    e questo lo vediamo in molti fenomeni, per esempio già nella totale o quasi totale
    perdita del congiuntivo nello scritto quotidiano, ancor più nella lingua della posta
    elettronica e, se andiamo ancora un gradino più sotto, nella lingua degli SMS già
    richiamata precedentemente. Insomma, lo scritto tende ad essere influenzato in modo
    inarrestabile, io direi che è difficile anche opporsi, non si tratta di essere puristi o
    non puristi. Sapete ci sono grandi polemiche riguardo a questo, ma bisogna osservare le cose
    con occhio storico: se un fatto deve avvenire, avverrà, c’è poco da fare.
    Si tratta di cercar di spiegarne le cause e vedere quali sono le modalità del fenomeno
    stesso.
    
    
     Insomma, per concludere con una battuta, parafrasando un titolo molto noto, un esempio di
    influenza del parlato sullo scritto, “io speriamo che me la sia cavata”.
    Grazie.
 Il progetto originario 
  del ciclo "Perché leggere i classici" di Guido Sacchi
  I fiori del male di Charles Baudelaire
  Manzoni: la storia, la morale, il racconto ne I Promessi 
  sposi e La colonna infame
  L´Eneide di Virgilio: la fatica della 
  civiltà 
    L´Orlando 
  Furioso di Ariosto: gli scherzi del desiderio 
  Anna Karenina di Tolstoj: disperazione e 
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  Guerra e pace di L.Tolstoj
  Paolo VI, Il signore dell'altissimo 
  canto: Dante Alighieri
  Le sacre scritture e la letteratura. 
  La bibbia, un libro da non perdere 
  Dante a settecento anni dal viaggio della 
  Commedia 
  Il cristianesimo di Dante
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