«Deus caritas est»: un invito alla lettura. Presentazione di S.Ecc. mons. Carlo Caffarra e due testi introduttori di Papa Benedetto XVI (il Discorso ai partecipanti del convegno promosso da Cor unum e la Lettera di presentazione scritta per Famiglia cristiana) (tpfs*)

Per introdurre alla lettura della prima enciclica di Papa Benedetto XVI, Deus caritas, est, ripresentiamo on-line, sul nostro sito, l’intervento tenuto nella cattedrale di S.Giovanni in Laterano in Roma il 23 febbraio 2006 dall’arcivescovo di Bologna, S.Ecc.mons. Carlo Caffarra, unitamente ai due testi di Papa Benedetto XVI cui mons.Caffarra fa riferimento più volte. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare una lettura on-line dei testi proposti.

L’Areopago


Indice


«Deus caritas est»: invito alla lettura di S.Ecc.mons. Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna (Basilica di S. Giovanni in Laterano, 23 febbraio 2006)

Il compito di introdurci ad una lettura intelligente della lettera enciclica «Deus caritas est» ci è stato facilitato dall’autore stesso. Il Santo Padre ha spiegato la sua lettera, o meglio ha dato le chiavi interpretative del suo testo. In due occasioni: scrivendo una “lettera ai lettori e lettrici” allegata al n° 6/2006 di Famiglia Cristiana e nel discorso fatto ai partecipanti all’Incontro promosso dal Pontificio Consiglio «Cor unum» il 23 gennaio scorso. È alla luce di questi due testi, soprattutto il secondo, che cercherò di svolgere le riflessioni seguenti.

1.[Verità di Dio – verità dell’uomo – verità dell’amore].
Inizio da un testo di K. Wojtyla desunto dalla sua opera drammatica La bottega dell’orefice: «Non esiste nulla che più dell’amore occupi sulla superficie della vita umana più spazio, e non esiste nulla che più dell’amore sia sconosciuto e misterioso. Divergenza tra quello che si trova sulla superficie e quello che è il mistero dell’amore ecco la fonte del dramma. Questo è uno dei grandi drammi dell’esistenza umana»[1].
L’Enciclica di cui stiamo parlando entra in questo “grande dramma dell’esistenza umana”, perché l’uomo non viva più nella “divergenza”, e come “dilacerato” fra “quello che si trova sulla superficie” e quello che è “il mistero dell’amore”. Necessità di uscire da questa divergenza e lacerazione, poiché al capolinea di questo cammino «l’uomo stesso diventa merce» [5, cpv 3[2]], e – aggiungiamo noi – la proposta educativa si riduce ad essere inevitabilmente una “pedagogia profilattica” , come ha detto un grande giornalista[3].
Il segno della condizione drammatica della persona umana in relazione all’amore è sinteticamente descritto nel discorso al «Cor unum» nel modo seguente. «La parola «amore» oggi è così sciupata, così consumata e abusata che quasi si teme di lasciarla affiorare sulle proprie labbra»[4]. Anzi, nell’Enciclica si prospetta perfino la probabilità che al termine “amore” «annettiamo accezioni del tutto differenti» [2.1]. La confusione della lingua, l’equivocità dei termini è il segno che qualcosa di grave è accaduto nella persona. «Eppure» continua il Santo Padre «è una parola primordiale, espressione della realtà primordiale; noi non possiamo semplicemente abbandonarla, ma dobbiamo riprenderla, purificarla e riportarla al suo splendore originario, perché possa illuminare la nostra vita e portarla sulla retta via. È stata questa consapevolezza che mi ha indotto a scegliere l’amore come tema della mia prima Enciclica». È questo il testo più capace, mi sembra, di introdurci nella profondità del testo pontificio.
Mi si perdoni il riferimento personale. Durante una Visita pastorale un giovane mi chiese [mi avevano domandato di riflettere con loro sulla presenza del male nella storia e nella loro persona]: “ma qual è il fondo della realtà? Con quale nome lo dobbiamo chiamare?”. Anche il Santo Padre parla di “realtà primordiale”, e del nome con cui esprimerla. Egli dice che la parola che esprime la “realtà primordiale” è amore. Ne deriva che se l’uomo smarrisce il vero senso di questa parola, ha smarrito semplicemente la realtà, poiché non ne comprende più il senso ultimo. Ne deriva quindi anche che «noi non possiamo semplicemente abbandonarla, ma dobbiamo… riportarla al suo splendore originario». È un lavoro che presuppone la fatica di una “ripresa” e di una “purificazione” [cfr. 4, cpv 2; 5, cpv 1 e 3]. È quanto si propone di fare, ci ha confidato, il Santo Padre colla sua prima Enciclica: che lo splendore originario dell’amore possa illuminare la nostra vita e portarla sulla retta via.
Non finisco di stupirmi di fronte a questa decisione del Santo Padre, e di ammirare la coincidenza in essa di semplicità, di coraggio, di vicinanza all’uomo. Infatti su tutta la vicenda della «realtà primordiale» e della sua espressione “tutta la modernità vi ha redatto un verbale di delusione; ci basti la storia della letteratura, del cinema, della canzone, senza menzionare i filosofi”[5]. Benedetto XVI la rimette all’ordine del giorno, innanzitutto inducendoci al lavoro del pensiero sopra di essa, tanto necessario questo lavoro quanto e più che … arrivare alla fine del mese.
Tuttavia “ridare splendore alla parola originaria” non è possibile senza “visione della realtà originaria”: dice con verità la parola amore solo chi ha visto la realtà dell’amore. Ma non in un modo qualsiasi: ha visto in modo tale da trasformarsi in essa. Il vicario di Cristo – e vedremo, solo lui alla fine poteva farlo – vuole prenderci per mano in questo “itinerarium mentis in amorem”. Un altro aveva compiuto questo itinerario, ed il Santo Padre lo ricorda esplicitamente colle seguenti parole: «Volevo tentare di esprimere per il nostro tempo e per la nostra esistenza qualcosa di quello che Dante nella sua visione ha ricapitolato in modo audace»[6]. Il testo dantesco dice: ma per la vista che s’avvalorava/ in me guardando, una sola parvenza,/ mutandom’io, a me si travagliava[7]. Cioè: a causa della visione che, mentre il poeta guardava, acquistava sempre maggiore potenza, l’unica realtà divina si trasformava ai suoi occhi, perché il poeta stesso cambiava [a causa di quella visione]. Il Santo Padre vuole aiutarci a vivere un’esperienza simile: la fede nell’Amore che è Dio diventa una visione-comprensione che ci trasforma.
Da dove iniziare dunque questo itinerario? Qual è il suo punto di partenza? Qualcuno potrebbe rispondere immediatamente: dall’ascolto della parola di Dio circa l’amore. Questa non mi sembra la risposta di Benedetto XVI. Egli infatti inizia da una riflessione sull’eros, e scrive fin dall’inizio: «Anche se il tema di questa Enciclica si concentra sulla questione della comprensione e della prassi dell’amore nella Sacra Scrittura e nella Tradizione della Chiesa, non possiamo semplicemente prescindere dal significato che questa parola possiede nelle varie culture e nel linguaggio odierno» [2, cpv 1]. Questa indicazione del cammino da percorrere è dovuto al fatto che «la fede biblica non costruisce un mondo parallelo o un mondo contrapposto rispetto a quell’originario fenomeno umano che è l’amore, ma accetta tutto l’uomo intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla, dischiudendogli al contempo nuove dimensioni» [8, cpv un.]. Fra eros, inteso come l’originario fenomeno dell’amore, ed agape, intesa come la comprensione biblica dell’amore, non c’è parallelismo né ancor meno contrapposizione. È un rapporto di integrazione che comporta purificazione ed elevazione. L’annuncio ed il dono dell’agape è novità, ma al contempo è risposta, imprevista ed imprevedibile certo, ad una domanda che dimora dentro l’eros. Il titolo della prima parte ora risulta chiaro in tutta la sua portata semantica: L’unità dell’amore nella creazione e nella storia della salvezza.
Ho proposto poco sopra di pensare l’unità fra eros ed agape nella figura dell’integrazione. Prima di procedere vorrei dire brevemente che cosa intendo per unità di integrazione, e quindi per integrazione fra eros e agape.
L’integrazione suppone una pluralità di elementi [nel nostro caso: eros-agape]: per questo l’unità derivante dall’integrazione non è un’unità semplice. Gli elementi o parti sono messe in relazione fra loro secondo un rapporto di sub-ordinazione/sovra-ordinazione, fondato su un ordine obiettivo gerarchico. La subordinazione della parte inferiore non ne distrugge il dinamismo, ma al contrario lo esalta, facendolo essere in modo superiore.
Quando l’eros è integrato nell’agape, viene come ad essere impregnato dall’Amore e dal suo valore proprio; informatone come dall’interno, l’eros realizza il suo dinamismo proprio e porta a maturazione piena quanto ha in sé come germoglio. La differenza anche essenziale non è opposizione.
«È una relazione analoga a quella tra moralità naturale e soprannaturale. La moralità soprannaturale cristiana, la santità, è qualcosa di qualitativamente nuovo rispetto a quella semplicemente naturale, qualcosa che la supera in modo incomparabile; non forma però alcun contrasto con la moralità naturale, ma la compie e la trasfigura. È così anche qui. In ogni amore naturale – anche nel più imperfetto – nell’amore come tale, sta un certo riflesso della carità, una certa immagine, un “germoglio”, che tende ad un compimento, che questo amore non può mai raggiungere in base alle proprie forze, ma esige secondo il suo spirito proprio»[8].
L’agape non avvelena l’eros facendolo morire [3, cpv un.], ma lo eleva e lo realizza pienamente[9].
Ma qual è la vera novità dell’agape? È questa domanda il “cuore” dell’Enciclica.
Nel già citato discorso al Pont. Cons. «Cor unum» il Santo Padre dice: «… in questa Enciclica, i temi “Dio”, “Cristo” e “Amore” sono fusi insieme come guida centrale della fede cristiana».
Le novità che l’agape dischiude all’uomo sono due: la nuova immagine di Dio [9-10]; la nuova immagine dell’uomo [11]. La novità dell’immagine di Dio è che viene rivelato con parole e fatti un Dio che ama; la novità dell’immagine dell’uomo è che questi viene reso capace di amare secondo la misura di Dio [cfr. 11, cpv 2].
Questa novità raggiunge la sua pienezza espressiva e pratica in Cristo [eucaristicamente sempre presente nella sua Chiesa]. In Lui l’amore di Dio per l’uomo si compie; in Lui l’uomo, reso partecipe della Sua vita, diventa capace di amare come Cristo ha amato [cfr. tutto il n. 17] . È in Cristo che l’uomo conosce che Dio lo ama ed è in Lui e da Lui che riceve la capacità di corrispondere a questo Amore, di lasciarsi travolgere da questa corrente divina, divenendo capace di amare ogni uomo. È immergendosi nel cuore di Cristo, che l’uomo entra nell’Amore: nella corrente profonda che muove “il sole e l’altre stelle”. Quanto più mi avvicino al sole tanto più ne resto illuminato e scaldato e divento capace io stesso di illuminare e scaldare.
Ricordate il testo di K. Wojtyla da cui siamo partiti. La divergenza fra “quello che si trova sulla superficie e quello che è il mistero dell’amore”, è superata poiché dall’Eucarestia nella Chiesa noi siamo collocati dentro al Mistero.
A ragione S. Gregorio di Nissa scrisse che la forza del cristianesimo è nella «tradizione della divina mistagogia» [cfr n. 18, cpv un.][10].

2.[Caritas e mondo contemporaneo].
Vorrei ora fare alcune riflessioni di invito alla lettura della seconda parte dell’Enciclica.
Parto da un nodo di domande: che significato ha questa Enciclica per l’uomo occidentale? Quale bisogno suo proprio essa intercetta? Come si pone dentro al nostro quotidiano groviglio?
Nel più volte citato discorso al Pont. Cons. «Cor unum» il Santo Padre ci aiuta a rispondere e quindi a leggere la seconda parte: «In un’epoca nella quale l’ostilità e l’avidità sono diventate superpotenze, un’epoca nella quale assistiamo all’abuso della religione fino all’apoteosi dell’odio, la sola razionalità neutra non è in grado di proteggerci. Abbiamo bisogno del Dio vivente, che ci ha amati fino alla morte».
È qui indicato una condizione di grave pericolo per l’umanità di ogni uomo; siamo messi in guardia dal ritenere che la sola razionalità neutra possa salvarci; viene individuato il vero ultimo bisogno di cui l’uomo soffre in questa condizione: bisogno del Dio vivente.
Vorrei brevemente riprendere questo pensiero, iniziando dalla considerazione di ciò che il Santo Padre chiama «razionalità neutra», potenza incapace da sola di proteggerci.
Per razionalità neutra intendo un uso della nostra ragione caratterizzato da due proprietà: neutralità perché riduce l’esercizio della ragione alla soluzione tecnica dei problemi esautorandola della sua capacità di interrogare il mistero; neutralità perché espunge dal suo ambito la domanda ultima del soggetto. Mi spiego con un esempio.
Se mi ammalo gravemente, è inevitabile che mi faccia una domanda: perché è accaduto? In realtà questa domanda ha due significati profondamente diversi. Essa può domandare quali sono state le cause che spiegano l’insorgere nel mio organismo di quel fenomeno morboso in ordine a scegliere la terapia che la scienza ritiene più efficace. Ma la domanda ha anche un altro significato poiché chiede che senso ha nella mia vita la sofferenza, e non raramente questa domanda conduce l’uomo dentro ad un orizzonte che pone in questione il senso dell’intero.
Non è tanto difficile comprendere che l’esercizio della ragione messo in atto nel rispondere al primo senso della domanda è profondamente diverso dal secondo. Nel primo è un esercizio, diciamo, spersonalizzato: la diagnosi è fatta in larga misura perfino da macchine. La malattia è un problema da risolvere. Nel secondo caso esercito la mia ragione in una modalità nella quale la mia soggettività è profondamente coinvolta così come quella delle persone cui mi rivolgo. La malattia cessa di essere un problema da risolvere e diventa un mistero da de-cifrare. Chiamiamo la prima una “razionalità neutra”.
E siamo così – penso – alla domanda di fondo che costituisce il nodo del nostro quotidiano assillo: la vita, alla fine, è solo un «problema da risolvere» o è anche e soprattutto «un mistero da decifrare»? e quando e come è dato all’uomo di scoprire e dire questa cifra? sono da ritenersi, queste, domande cui è impossibile rispondere con verità o falsità? sono il segno di chi non è stato ancora consolato dalla luce benefica del sole della scienza? oppure aveva ragione il poeta che più di ogni altro sentì il peso di queste domande, a scrivere: «Omai disprezza/ Te, la natura, il brutto/ Poter che, ascoso, a comun danno impera, / e l’infinita vanità del tutto» [G. Leopardi, A se stesso]?
Il Santo Padre dice che il bisogno ultimo dell’uomo è di incontrare il Dio vivente che ci ha amati fino a morire; il bisogno che Dio si faccia compagnia dell’uomo. Ma come questo può accadere dentro alla nostra drammatica quotidianità? La seconda parte dell’Enciclica risponde a questa domanda. La risposta è: facendo accadere, dentro alla storia dell’uomo, quel Mistero di cui la prima parte dell’Enciclica parla: la comunione nell’amore che, compiendo l’eros, è la partecipazione dell’amore con cui Dio ama in Cristo ogni uomo.
Un pensiero di Berdjaev può aiutarci a comprendere la seconda parte dell’Enciclica. Egli ritiene che quanto più la persona umana «si universalizza nella comunione, in un amore che deve essere contemporaneamente erotico ed agapico, desiderio di Dio e compassione per coloro che Dio sembra abbandonare, più essa si rivela unica. Questa unità del particolare e dell’universale è il mistero stesso della Trinità che si rivela in Cristo, poiché l’uomo è chiamato a divenire, nella libertà dello spirito, un esistenza cristologica»[11].
Il Mistero è decifrato, la “realtà primordiale” è espressa quando Cristo vive colla sua carità nell’uomo e nelle relazioni che l’uomo costruisce con l’uomo: «se vedi la carità, vedi la Trinità». Cristo ha trasportato nel nostro mondo il mistero del dono personale, trinitario.
Questo avvenimento che brevemente e come balbettando ho cercato di descrivere è la Chiesa. Esiste una certa identità fra Chiesa ed agape [cfr. 20-22: praticare l’amore … appartiene alla sua essenza tanto quanto il servizio dei sacramenti e l’annuncio del Vangelo].
Questa visione non poteva non incontrare una questione: ma l’uomo nella sua ricerca di “protezione della sua dignità” non ha “inventato” lo Stato? Che ne è di questa realtà? Quale il suo senso? Ma non mi resta più il tempo per offrire le chiavi di lettura di questa tematica ampiamente presente nella seconda parte dell’Enciclica [cfr. soprattutto n° 28].
Mi limito ad una sola conclusione e concludo. Nella sintesi, vissuta dalle persone, di eros ed agape risiede la forza costruttiva della società umana. Per questo motivo i cristiani sono chiamati ad esserne luce e lievito. Gli uomini costruiscono il sociale creando strutture di vario tipo: politiche, giuridiche, economiche ecc. La Chiesa non deve sostituire una società ad un’altra. Ha il compito di “animarla” [in senso etimologico-reale], personalizzandola: trasformando la società di individui in società di persone.

Conclusione
Mi si consenta di concludere con un testo di K.Wojtyla desunto dal dramma Fratello del nostro Dio.
Un personaggio si trova di fronte ad un quadro di Cristo Ecce homo e dice:

Sei tuttavia terribilmente diverso da Colui che sei.
Ti sei affaticato molto per ognuno di loro.
Ti sei stancato mortalmente.
Ti hanno distrutto totalmente.
Ciò si chiama Carità

Eppure sei rimasto bello,
Il più bello dei figli dell’uomo.
Una bellezza simile non si è mai ripetuta.
O, come difficile è questa bellezza, come difficile!
Tale bellezza si chiama Carità.[12]

È la bellezza del dono di sé che può anche implicare affaticarsi molto per ognuno, stancarsi mortalmente, perfino distruggersi [«se il grano di frumento…»].
È il bisogno di poter vedere questa bellezza il più profondo bisogno dell’uomo di oggi: vista che «s’avvalora» mentre l’uomo guarda, e lo muta interiormente.
L’Enciclica Deus caritas est è la risposta a questo bisogno dell’uomo.


Perché ho scelto l'amore come tema della mia prima enciclica” di Benedetto XVI (Discorso del 23 gennaio 2006 di Papa Benedetto XVI ai partecipanti ad un incontro internazionale promosso in Vaticano dal Pontificio Consiglio “Cor Unum”).

L’escursione cosmica in cui Dante nella sua “Divina Commedia” vuole coinvolgere il lettore finisce davanti alla luce perenne che è Dio stesso, davanti a quella luce che al contempo è “l'amor che move il sole e l'altre stelle” (Par. XXXIII, v. 145). Luce e amore sono una sola cosa. Sono la primordiale potenza creatrice che muove l'universo.

Se queste parole del Paradiso di Dante lasciano trasparire il pensiero di Aristotele, che vedeva nell'eros la potenza che muove il mondo, lo sguardo di Dante tuttavia scorge una cosa totalmente nuova ed inimmaginabile per il filosofo greco.

Non soltanto che la luce eterna si presenta in tre cerchi ai quali egli si rivolge con quei densi versi che conosciamo: “O luce etterna che sola in te sidi, / sola t'intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi!” (Par., XXXIII, vv. 124-126).

In realtà, ancora più sconvolgente di questa rivelazione di Dio come cerchio trinitario di conoscenza e amore è la percezione di un volto umano – il volto di Gesù Cristo – che a Dante appare nel cerchio centrale della Luce.

Dio, Luce infinita il cui mistero incommensurabile il filosofo greco aveva intuito, questo Dio ha un volto umano e – possiamo aggiungere – un cuore umano.

In questa visione di Dante si mostra, da una parte, la continuità tra la fede cristiana in Dio e la ricerca sviluppata dalla ragione e dal mondo delle religioni. Al contempo, però, appare anche la novità che supera ogni ricerca umana – la novità che solo Dio stesso poteva rivelarci: la novità di un amore che ha spinto Dio ad assumere un volto umano, anzi ad assumere carne e sangue, l'intero essere umano.

L'eros di Dio non è soltanto una forza cosmica primordiale. È amore che ha creato l'uomo e si china verso di lui, come si è chinato il Buon Samaritano verso l'uomo ferito e derubato, giacente al margine della strada che scendeva da Gerusalemme a Gerico.

La parola "amore" oggi è così sciupata, così consumata e abusata che quasi si teme di lasciarla affiorare sulle proprie labbra.

Eppure è una parola primordiale, espressione della realtà primordiale; noi non possiamo semplicemente abbandonarla, ma dobbiamo riprenderla, purificarla e riportarla al suo splendore originario, perché possa illuminare la nostra vita e portarla sulla retta via.

È stata questa consapevolezza che mi ha indotto a scegliere l'amore come tema della mia prima enciclica.

Volevo tentare di esprimere per il nostro tempo e per la nostra esistenza qualcosa di quello che Dante nella sua visione ha ricapitolato in modo audace. Egli narra di una “vista” che “s'avvalorava” mentre egli guardava e lo mutava interiormente (cfr Par., XXXIII, vv. 112-114).

Si tratta proprio di questo: che la fede diventi una visione-comprensione che ci trasforma. Era mio desiderio di dare risalto alla centralità della fede in Dio – in quel Dio che ha assunto un volto umano e un cuore umano.

La fede non è una teoria che si può far propria o anche accantonare. È una cosa molto concreta: è il criterio che decide del nostro stile di vita.

In un'epoca nella quale l'ostilità e l'avidità sono diventate superpotenze, un'epoca nella quale assistiamo all'abuso della religione fino all'apoteosi dell'odio, la sola razionalità neutra non è in grado di proteggerci. Abbiamo bisogno del Dio vivente, che ci ha amati fino alla morte.

Così, in questa Enciclica, i temi “Dio”, “Cristo” e “amore” sono fusi insieme come guida centrale della fede cristiana. Volevo mostrare l'umanità della fede, di cui fa parte l'eros – il “sì” dell'uomo alla sua corporeità creata da Dio, un “sì” che nel matrimonio indissolubile tra uomo e donna trova la sua forma radicata nella creazione.

E lì avviene anche che l'eros si trasforma in agape – che l'amore per l'altro non cerca più se stesso, ma diventa preoccupazione per l'altro, disposizione al sacrificio per lui e apertura anche al dono di una nuova vita umana. L'agape cristiana, l'amore per il prossimo nella sequela di Cristo non è qualcosa di estraneo, posto accanto o addirittura contro l'eros; anzi, nel sacrificio che Cristo ha fatto di sé per l'uomo ha trovato una nuova dimensione che, nella storia della dedizione caritatevole dei cristiani ai poveri e ai sofferenti, si è sviluppata sempre di più.

Una prima lettura dell'enciclica potrebbe forse suscitare l'impressione che essa si spezzi in due parti tra loro poco collegate: una prima parte teorica, che parla dell'essenza dell'amore, e una seconda che tratta della carità ecclesiale, delle organizzazioni caritative.

A me però interessava proprio l'unità dei due temi che, solo se visti come un'unica cosa, sono compresi bene.

Dapprima occorreva trattare dell'essenza dell'amore come si presenta a noi nella luce della testimonianza biblica. Partendo dall'immagine cristiana di Dio, bisognava mostrare come l'uomo è creato per amare e come questo amore, che inizialmente appare soprattutto come eros tra uomo e donna, deve poi interiormente trasformarsi in agape, in dono di sé all'altro – e ciò proprio per rispondere alla vera natura dell'eros.

Su questa base si doveva poi chiarire che l'essenza dell'amore di Dio e del prossimo descritto nella Bibbia è il centro dell'esistenza cristiana, è il frutto della fede.

Successivamente, però, in una seconda parte bisognava evidenziare che l'atto totalmente personale dell'agape non può mai restare una cosa solamente individuale, ma che deve invece diventare anche un atto essenziale della Chiesa come comunità: abbisogna cioè anche della forma istituzionale che s'esprime nell'agire comunitario della Chiesa.

L'organizzazione ecclesiale della carità non è una forma di assistenza sociale che s'aggiunge casualmente alla realtà della Chiesa, un'iniziativa che si potrebbe lasciare anche ad altri. Essa fa parte invece della natura della Chiesa.

Come al Logos divino corrisponde l'annuncio umano, la parola della fede, così all'agape che è Dio deve corrispondere l'agape della Chiesa, la sua attività caritativa.

Questa attività, oltre al primo significato molto concreto dell'aiutare il prossimo, possiede essenzialmente anche quello del comunicare agli altri l'amore di Dio, che noi stessi abbiamo ricevuto. Essa deve rendere in qualche modo visibile il Dio vivente. Dio e Cristo nell'organizzazione caritativa non devono essere parole estranee; esse in realtà indicano la fonte originaria della carità ecclesiale. La forza della Caritas dipende dalla forza della fede di tutti i membri e collaboratori.

Lo spettacolo dell'uomo sofferente tocca il nostro cuore. Ma l'impegno caritativo ha un senso che va ben oltre la semplice filantropia. È Dio stesso che ci spinge nel nostro intimo ad alleviare la miseria. Così, in definitiva, è lui stesso che noi portiamo nel mondo sofferente.

Quanto più consapevolmente e chiaramente lo portiamo come dono, tanto più efficacemente il nostro amore cambierà il mondo e risveglierà la speranza – una speranza che va al di là della morte e solo così è vera speranza per l'uomo.


Care lettrici e lettori di Famiglia Cristiana...”, presentazione della “Deus caritas est” scritta dal Papa Benedetto XVI per il numero 6/2006 di Famiglia Cristiana

Care lettrici e lettori di Famiglia cristiana,
sono lieto che Famiglia Cristiana vi invii a casa il testo della mia enciclica e dia a me la possibilità di accompagnarla con poche parole che vogliono facilitare l’accostamento alla lettura.
All’inizio, infatti, il testo può apparire un po’ difficile e teorico. Quando, però, ci si inoltra nella lettura risulta evidente che io ho solo voluto rispondere a un paio di domande molto concrete per la vita cristiana.
La prima domanda è la seguente: si può davvero amare Dio? E ancora: l’amore può essere imposto? Non è un sentimento che abbiamo o non abbiamo?
La risposta alla prima domanda è: sì, possiamo amare Dio, dato che Egli non è rimasto in una distanza irraggiungibile, ma è entrato ed entra nella nostra vita. Viene verso di noi, verso ciascuno di noi, nei sacramenti attraverso i quali opera nella nostra esistenza; con la fede della Chiesa, attraverso la quale si rivolge a noi; facendoci incontrare uomini, che sono da lui toccati, e trasmettono la sua luce; con le disposizioni attraverso le quali interviene nella nostra vita; con i segni della creazione, che ci ha donato. Egli non ci ha solo offerto l’amore, bensì lo ha vissuto per primo e bussa in tanti modi al nostro cuore per suscitare il nostro amore di risposta. L’amore non è solo un sentimento, vi appartengono anche la volontà e l’intelligenza. Con la sua parola, Dio si rivolge alla nostra intelligenza, alla nostra volontà e al nostro sentimento di modo che possiamo imparare ad amarlo “con tutto il cuore e tutta l’anima”. L’amore, infatti, non lo troviamo già bello e pronto, ma cresce; per così dire noi possiamo impararlo lentamente in modo che sempre più esso abbracci tutte le nostre forze e ci apra la strada per una vita retta.
La seconda domanda è la seguente: possiamo davvero amare il “prossimo”, che ci è estraneo o addirittura antipatico?
Sì, lo possiamo, se siamo amici di Dio. Se siamo amici di Cristo e in questo modo ci diventa sempre più chiaro che egli ci ha amato e ci ama, benché spesso noi distogliamo da lui il nostro sguardo e viviamo seguendo altri orientamenti. Se però la sua amicizia diventerà, a poco a poco, per noi importante e incisiva, allora cominceremo a voler bene a coloro ai quali lui vuole bene e che hanno bisogno del mio aiuto. Egli vuole che noi diventiamo amici dei suoi amici e noi lo possiamo se gli siamo interiormente vicini.
Da ultimo vi è la domanda: con i suoi comandamenti e i suoi divieti la Chiesa non ci rende amara la gioia dell’eros, dell’essere amati, che ci spinge all’altro e vuole diventare unione?
Nell’enciclica ho cercato di dimostrare che la promessa più profonda dell’eros può maturare solo quando non cerchiamo di afferrare la felicità repentina. Al contrario troviamo insieme la pazienza di scoprire sempre più l’altro nel profondo, nella totalità di corpo e anima, di modo che da ultimo la felicità dell’altro diventi più importante della mia. Allora non si vuole più solo prendere, ma donare e proprio in questa liberazione dall’io l’uomo trova sé stesso e diviene colmo di gioia. Nell’enciclica parlo di un percorso di purificazioni e maturazioni necessario perché la vera promessa dell’eros possa adempiersi. Il linguaggio della tradizione l’ha chiamato “educazione alla castità”, che, da ultimo, non significa altro che l’apprendimento dell’amore intero nella pazienza della crescita e della maturazione.

* * *

Nella seconda parte si parla della carità, il servizio d’amore comunitario della Chiesa per tutti coloro che soffrono nel corpo o nell’anima e hanno bisogno del dono dell’amore.

Qui si presentano anzitutto due domande: la Chiesa non può lasciare questo servizio alle altre organizzazioni filantropiche che si formano in molti modi?

Ecco la risposta: no, la Chiesa non lo può fare. Essa deve praticare l’amore per il prossimo anche come comunità, altrimenti annuncia il Dio dell’amore in modo incompleto e insufficiente.

La seconda domanda: non bisognerebbe piuttosto tendere a un ordine della giustizia in cui non vi sono più i bisognosi e per questo la carità diventa superflua?

Ecco la risposta: indubbiamente il fine della politica è creare un giusto ordinamento della società, in cui a ciascuno viene riconosciuto il suo e nessuno soffre di miseria. In questo senso, la giustizia è il vero scopo della politica, così come lo è la pace che non può esistere senza giustizia. Di sua natura la Chiesa non fa politica in prima persona, bensì rispetta l’autonomia dello Stato e del suo ordinamento. La ricerca di questo ordinamento della giustizia spetta alla ragione comune, così come la politica è interesse di tutti i cittadini. Spesso, però, la ragione è accecata da interessi e dalla volontà di potere. La fede serve a purificare la ragione, perché possa vedere e decidere correttamente. È compito allora della Chiesa di guarire la ragione e di rafforzare la volontà di bene. In questo senso – senza fare essa stessa politica – la Chiesa partecipa appassionatamente alla battaglia per la giustizia. Ai cristiani impegnati nelle professioni pubbliche spetta nell’agire politico di aprire sempre nuove strade alla giustizia.

Questa, però, è solo la prima metà della risposta alla nostra domanda. La seconda metà, che a me sta particolarmente a cuore nell’enciclica, dice: la giustizia non può mai rendere superfluo l’amore. Al di là della giustizia, l’uomo avrà sempre bisogno di amore, che solo dà un’anima alla giustizia. In un mondo talmente ferito come lo sperimentiamo ai nostri giorni, non c’è davvero bisogno di dimostrare quanto detto. Il mondo si aspetta la testimonianza dell’amore cristiano che ci viene ispirato dalla fede. Nel nostro mondo, spesso così buio, con questo amore brilla la luce di Dio.

31.1.2006 


Note

[1] In Tutte le opere letterarie, Bompiani ed., Milano 2001, pag. 821

[2] Quando non è detto, i numeri fra parentesi rimandano al testo pontificio e ai singoli capoversi (cpv).

[3] È da leggere la lettera inviata al quotidiano IL FOGLIO in data 4 febbraio u.s. sulla educazione.

[4] Cfr. L’O.R. 23-24 gennaio 2006, pag. 5

[5] G.B. Contri, in IL FOGLIO del 4-02-2006, pag. XII.

[6] Discoso al «Cor unum».

[7] Paradiso XXX III, 112-114

[8] D. von Hildebrand¸ Essenza dell’amore, Bompiani ed., Milano 2005, pag. 735.

[9] «Gli uomini sono spirituali grazie alla partecipazione dello Spirito, ma non grazie alla privazione ed eliminazione della carne» [S. Ireneo, adv, Haereses V, 6. A; SCh 153, pag. 74].

[10] Cfr. Contra Eunonium, GNO (ed. W. Jaeger), Berlin 1981, II, pag. 12-13.

[11] Cit. da card. T. Spidlik-M- Rupnik, Teologia pastorale. A partire dalla bellezza, Lipa, Roma 2005, pag. 155.

[12] In Tutte le opere letterarie, cit., pag. 689.


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