Introduzione alla figura e all’opera di Paolo

«La chiesa di Dio che è pellegrina a Smirne alla chiesa di Dio che è pellegrina a Filomelio e a tutte le comunità della santa Chiesa universale, ovunque siano: pietà, pace e amore di Dio Padre e del Signore nostro Gesù Cristo vi siano moltiplicati… Fu Gaio a trascrivere quanto si legge fin qui dalla copia di Ireneo, discepolo di Policarpo, col quale egli aveva dimestichezza. Io, Socrate, ho a mia volta riprodotto, a Corinto, la copia di Gaio. La grazia sia con tutti voi. Ed io, Pionio, ho esteso un nuovo apografo del materiale manoscritto precedente. Dopo che avevo cercato a lungo quelle carte, mi fu dato rinvenirle per rivelazione del beato Policarpo, come narrerò qui di seguito, ed io le raccolsi insieme che erano ormai quasi polverizzate dal tempo, nella speranza che il Signore Gesù Cristo raccolga anche me fra gli eletti suoi nel regno celeste. A Lui sia gloria insieme col Padre e con lo Spirito Santo per i secoli dei secoli. Amen».

dal Martirio di san Policarpo, Prescritto e 22,2-3


Indice


I. La complessità di Paolo

«[Paolo] appartiene a tre mondi e a tre culture: ebraica, greca e romana, e tuttavia emerge da ciascuna di esse con il vigore della sua individualità, e trova un punto di riferimento soltanto nella persona di Cristo. (…) Questa comunicazione viva e personale con Cristo gli ha dato la possibilità di uscire dalle culture alle quali apparteneva senza rinnegarle» (P. ROSSANO, «Introduzione generale», in IDEM, a cura di, Le Lettere di S. Paolo, 9).
J. Jeremias in uno scritto brevissimo (= Per comprendere la teologia dell’apostolo Paolo, Brescia 1973) esprime in modo incisivo quella che è la convinzione comune, che cioè non Tarso, città dove è nato, non Gerusalemme, dove è stato educato, non Antiochia di Siria, dove è stato coinvolto nel movimento cristiano in modo decisivo,- riescono a spiegare Paolo, la sua opera e il suo pensiero. Ma soltanto Damasco. Su tutte le componenti della personalità di Paolo (ellenismo, giudaismo, chiesa primitiva), domina dunque l’evento di Damasco, solitamente detto ‘conversione’.

1. La componente ellenistica

a. Tarso, città ellenistica, e patria di Paolo

Al tempo di Paolo, Tarso era capoluogo della provincia romana di Cilicia, con circa 300.000 abitanti. Senofonte la dice una città ricca e molto popolosa: «[Nella loro marcia, i soldati di Ciro] avanzano per la pianura, senza sosta. Giungono a Tarso, città ricca e molto popolosa della Cilicia: la città racchiude la reggia del re di Cilicia, ed è percorsa dal fiume Cidno», (Anabasi I, 2,23). La posizione della città era favorevole sia per l’agricoltura, sia per il commercio: era infatti al punto d’incontro delle vie di comunicazione da Ovest (Efeso, Smirne, Pergamo, Mileto, città della costa egea) a Est (Siria, Palestina), e dal Mediterraneo verso Nord attraverso il passo delle “porte cilicie” che permetteva di valicare la catena montuosa del Tauro. Tra l’altro Tarso era un centro di formazione greca, essendo per esempio sede di scuole filosofiche e di retorica.
Anche se Paolo non vi ha frequentato la scuola ellenistica ma quella della numerosa colonia di giudei, Paolo ha appreso molto bene il greco comune (= κοινη διαλεκτος) tanto che molti ritengono che il greco fosse la sua lingua materna. Di fatto egli cita pochissime volte la Bibbia ebraica (2 volte) e quasi sempre la traduzione greca della Lxx (34 citazioni esatte, 36 con qualche variazione, 10 con variazioni sensibili). La morale paolina, poi, ha qualche punto in comune con quella dei filosofi stoici (in maggioranza, in quel tempo, anche a Tarso), ma da essi potrebbe essere stato influenzato da adulto. Paolo fa uso della diatriba (= metodo dialogico di insegnamento usato nelle scuole filosofiche degli Stoici e dei Cinici), delle figure della retorica e, come s’è visto, della sua dispositio. Paolo infine è creativo nell’uso della lingua greca: egli crea dei neologismi, soprattutto servendosi di preposizioni che esprimono la partecipazione al mistero di Cristo; cf. per esempio: «Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti con lui (συν-εταφημεν) nella morte…» (Rm 6,4); «… coeredi (συγ-κληρονομοι) di Cristo se soffriamo con (συμ-πασχομεν) lui affinché anche siamo conglorificati (συν-δοξασθωμεν)» (Rm 8,17).

b. Le immagini e metafore usate da Paolo

Il fatto di essere nato in una grande città ellenistica ha segnato Paolo. A differenza di Gesù, non gli viene spontaneo prendere le sue immagini dalla natura o dalla vita dei campi. «Egli non vede la natura inanimata se non nelle sue relazioni con l’uomo: il suo regno è la psicologia» (F. PRAT, La teologia, I, 15); Paolo «è un introverso per il quale la vera realtà è quella interiore, spirituale» (ROSSANO, Le lettere, 24).
Così egli ricava le sue immagini, non dalla natura ma dalla vita dell’uomo (nascere, morire, generare) o dalle attività sportive (lo stadio, il pugilato, la corsa, il premio, la corona; cf. 1Tess 2,1-2; 1Cor 9,24-27; Gal 2,2; 5,7; Fil 2,16; 3,12-14; 4,1; Rm 9,16), commerciali (il dare, l’avere, il guadagno, il comperare, il riscattare; cf. Fil 4,15-18; Flm 17; 1Cor 6,20; 2Cor 2,17; Gal 3,6.13; 4,5; Rm 1,27; 7,14), militari (corazza, guerra, pace, armi; cf. 1Tess 5,8 2Cor 2,14; 6,7; 10,3.4; 11,8, Rm 13,12); o dalla vita urbana (teatro, corteo per la visita dell’imperatore, i tribunali, i templi).

c. Sostanziale estraneità di Paolo all’ellenismo

Nonostante tutto questo, Paolo non fa mai riferimento alle città ellenistiche e ai loro monumenti i cui ruderi noi guardiamo con ammirazione, e un solo libro profano ha lasciato il segno nelle sue lettere: prendendola dalla commedia Taide di Menandro (sec. iii a.C.) in 1Cor 15,33 cita la sentenza: «Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi». Cf. anche la citazione dagli Oracoli di Epimenide in Tt 1,12, e di Arato di Soli e Cleante di Asso in At 17,28. Il pensiero paolino circa l’uomo non è quello greco, basato sul dualismo antropologico: «L’antropologia [unitaria] di Paolo è la prova che egli non è un ellenista, ma un ebreo al cento per cento» (L. CERFAUX, Il cristiano nella teologia di S. Paolo, 23).

2. La componente giudaica, rabbinico-farisaica

a. Formazione e identità israelitica

Da sempre, comunque, si è discusso a riguardo di Paolo se egli sia ebreo o piuttosto ellenista. Lo dice già la battaglia condotta contro di lui dai giudaizzanti che lo ritenevano troppo ellenizzato, nemico della tradizione giudaica. Nel secolo scorso la scuola neotestamentaria di Tübingen (fondata da F.C. Baur, 1860) lo riteneva rappresentante del partito ellenista-universalista contro il partito petrino-gerosolimitano legato al giudaismo. Lo stesso hanno fatto gli studiosi del comparatismo delle religioni, per esempio A. Deißmann, W. Bousset ecc., e in questo secolo R. Bultmann. «Ma dalla formazione culturale di Paolo non si può annullare la complessità: Paolo è un giudeo che scrive in greco, che cita la Bibbia greca della Lxx più che il testo ebraico. La sua origine giudaica non si può certo negare, e tuttavia bisogna tenere in conto le molteplici relazioni di Paolo con l’ellenismo. Per questo è sbagliato e scolastico il dilemma delle due opposte scuole esegetiche, tra il Paolo giudeo (Cf. J.-M. Lagrange, S. Lyonnet, ecc.) e quello greco (Cf. R. Bultmann, L. Cerfaux, ecc.). Paolo, come molti giudei della diaspora, appartiene al giudaismo ricco anche di influssi ellenistici (cf. E.P. Sanders, M. Hengel). La sua formazione non è molto diversa da quella del grande giudeo di Alessandria, Filone, né da quella del più importante storico giudeo romanizzato, Giuseppe Flavio», (PITTA, in Bibbia Piemme, 2661).
Paolo, comunque, rivendica ripetutamente un’identità di israelita: «Io sono israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino» (Rm 11,1); «…circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, quanto alla Legge, fariseo» (Fil 3,5; cf. anche 2Cor 11,22 ecc.), e sempre più gli studiosi mettono in luce l’eredità giudaica, anche se non esclusiva, in Paolo: «La maggior parte della sua teologia (= dottrina su Dio) e della sua antropologia (= dottrina sull’uomo) rivela chiaramente il suo sfondo ebraico» (J. FITZMYER, «Teologia paolina», in Grande Commentario Biblico [Jerome Biblical Commentary], 1868); «Tarso è la sua patria civile dove riceve la lingua ellenica che lo fa in certo modo cittadino dell’universo; ma Gerusalemme è la patria dell’anima sua. Verso Gerusalemme egli convergerà sempre» (PRAT, La teologia, I, 19)
Essendo stato circonciso scrupolosamente all’ottavo giorno, deve poi essere stato avviato già a Tarso non alle scuole ellenistiche, ma a quella della colonia ebraica che fin dal 171 a.C. aveva potuto costituirsi come tribù (φυλη), con il diritto di organizzare la propria vita e il proprio culto autonomo. Dalle scuole ebraiche erano esclusi i libri pagani e l’unico testo era la Bibbia – a Tarso nella traduzione greca della Lxx. Per la scuola superiore, in At 22,3 Paolo afferma di essere stato educato a Gerusalemme «ai piedi di Gamaliele, nelle più rigide norme della Legge»: Gamaliele il vecchio, nipote di Rabbi Hillel, guidò una scuola rabbinica tra il 25 e il 50 d.C.

b. Metodi esegetici

Segno dell’educazione rabbinica di Paolo sono i metodi esegetici da lui praticati. Come i rabbini, per esempio Paolo si serve della prova a fortiori: «Sta scritto nella Legge di Mosè: ‘Non metterai la museruola al bue che trebbia’. Forse Dio si dà pensiero dei buoi?… Certamente fu scritto per noi» (1Cor 9,9-10). Altri metodi rabbinici impiegati da Paolo sono l’analogia, il senso conseguente, l’analisi, l’uso del contesto, dei luoghi paralleli. E si serve della regola chiamata gezerah-shawa:, quella per cui due testi biblici possono essere spiegati l’uno con l’altro se hanno in comune un termine (ALETTI, Comment Dieu, 100, nota 2, e passim).
Ancora come i rabbini Paolo cerca il senso tipico: «Adamo è τυπος di colui che doveva venire» (Rm 5,14; cf. anche 1Cor 15,22.45.49). E gli Israeliti nel deserto erano ‘tipo’ della chiesa: «Ora ciò [= il passaggio del mare? /la morte degli idolatri?] avvenne come esempio (τυποι) per noi», (1Cor 10,6); «Tutte queste cose accaddero a loro come esempio (τυπικως), e sono state scritte per ammonimento nostro», (1Cor 10,11). – Come i rabbini Paolo ha usato il senso accomodatizio: «Fino ad oggi quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto», (2Cor 3,15-16): nell’AT-Lxx è Mosè che ritorna a parlare al Signore (ηνικα δ αν εισπορευετο Μωυσης εναντι κυριω λαλειν αυτω, Es 34,34), mentre in 2Cor sono gli israeliti che si convertiranno (ηνικα δε εαν επιστρεψη προς κυριον) alla fede nel Signore Gesù. – In Paolo «la formula ‘come-sta-scritto’ non indica sempre un’argomentazione propriamente detta» (PRAT, La teologia, I, 23); «l’uso che Paolo fa dell’AT non si accorda con le nostre moderne idee di citazione della Scrittura, ma è conforme al modo ebraico a lui contemporaneo e deve essere accettato come tale» (FITZMYER, «Teologia paolina», 1868).

c. Appartenenza alla corrente farisea

In Fil 3,5-6 Paolo dice di se stesso: «Quanto alla Legge, fariseo; quanto a zelo, persecutore della chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge». All’interno del giudaismo Paolo dunque scelse la corrente farisea, dalla pratica religiosa severa, e a quel tempo non ancora chiusa e aggressiva come si fece dopo la fine della nazione nel 70.
Probabilmente Paolo si era dedicato alla missione giudaica fra i pagani ai quali chiedeva la circoncisione. Cf. Gal 5,11: «Quanto a me, fratelli, se io predico ancora (ετι) la circoncisione, perché sono tuttora perseguitato?». Di qui si comprende come da fariseo rigorista perseguitasse i cristiani come Stefano (At 7,58; 9,1ss ecc.), aperti all’ellenismo che erano in posizione critica verso la Legge e rigettavano tempio e circoncisione.

3. La componente protocristiana

a. Paolo e Gesù

Interessato soprattutto al Cristo glorioso, Paolo fa continuamente riferimento alla sua Pasqua. Tuttavia L. Cerfaux rivendica una sostanziale continuità tra il Gesù storico e Paolo, soprattutto a riguardo della critica alla Legge, al fariseismo, ai sacrifici e al particolarismo giudaico (CERFAUX, Il cristiano, 15-21).
Di Gesù, Paolo cita qualche rara parola: sulla sorte dei morti alla parusìa (1Tess 4,15), sul matrimonio indissolubile (1Cor 7,10), sul sostentamento degli evangelizzatori (1Cor 9,14). Altre volte, come in 1Cor 13,2; Rm 12,14; 13,9; 16,19 ecc., si avvicina alle formulazioni sinottiche delle parole del Signore. Dell’esistenza storica di Gesù conosce la nascita da stirpe davidica (Rm 1,3), da donna (Gal 4,4), e la sottomissione alla Legge (Gal 4,4). Conosce i Dodici e Kefa (1Cor 15,5 ecc.), la cena nella notte della consegna (1Cor 11,23), la croce (Gal 3,1 ecc.) e la sepoltura (1Cor 15,4),- ma non parla né dei miracoli di Gesù, né delle parabole, né delle controversie coi giudei, né dell’annuncio del Regno. L’impressione che si ha è che abbia avuto interesse non a ciò che era temporaneo (miracoli, insegnamenti), ma alla identità messianica di Gesù e alla soteriologia (liberazione dalla Legge, croce e Pasqua).

b. Paolo e la tradizione primitiva

Nonostante rivendichi una completa autonomia dagli apostoli circa il Vangelo che annuncia (Gal 1-2), in realtà Paolo attinge dalla tradizione. Invocazioni aramaiche come Maranatha (1Cor 16,22) e Abba (Gal 4,6; Rm 8,15) non possono venire se non dalle comunità palestinesi (cf. Mc 14,36 per Abba). Lo stesso è da dire circa inni quasi certamente pre-paolini (Fil 2,6-11, ecc.), schemi catechetici (1Tess 1,9-10; 1Cor 15,3-7; Rm 10,9), materiali etico-esortativi e liturgici (1Cor 11,23-25), dossologie (2Cor 1,3; Gal 1,5 ecc.).
Paolo talvolta parla esplicitamente di tradizioni (παραδοσεις) che ha ricevuto e che trasmette: «Vi lodo perché conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse» (1Cor 11,2); «Io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso» (1Cor 11,23); «Vi ho trasmesso dunque quello che anch’io ho ricevuto» (1Cor 15,3). In 1Cor 11,16 si richiama alle consuetudini delle chiese: «Se qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine (συνηθεια) e neanche le chiese di Dio». Nonostante la sua grande creatività teologica, Paolo riprende le formule di fede e i titoli cristologici in uso nelle chiese prima di lui: «Nessuno può professare la sua fede dicendo: “Gesù è Κυριος”, se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1Cor 12,3); «Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore-Κυριος e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (Rm 10,9).
Paolo riconosce il ruolo insostituibile di Pietro, dei Dodici, di tutti gli apostoli e delle chiese, di cui sono colonne e rappresentanti, nonostante debba talvolta difendere da essi la sua autonomia o sottoporre a critica i loro comportamenti (Gal 1-2). In Gal 2,2ss dice di aver voluto confrontare il suo Vangelo con le autorità di Gerusalemme per evitare che il suo apostolato sia una corsa vana: «Andai a Gerusalemme, esposi alle persone più ragguardevoli il Vangelo che io predico tra i pagani, per non trovarmi nel rischio di correre [= nel futuro] o di aver corso [= nel passato] invano (εις κενον)». – «È impossibile scindere Paolo dal cristianesimo primitivo» (L. CERFAUX, Il cristiano, 21). Ma «qualunque cosa Paolo abbia ereditato dal suo retroterra ebraico, dai suoi contatti con l’ellenismo, e qualunque cosa abbia tratto successivamente dalla tradizione della chiesa primitiva e dalla propria esperienza missionaria, – tutto fu trasformato in maniera unica dalla sua comprensione del mistero di Cristo, acquisita sulla via di Damasco» (FITZMYER, «Teologia paolina», 1871).

II. L’evento di Damasco

Siamo informati su quello che accadde a Damasco: (a) da brevissimi accenni dello stesso Paolo nelle sue lettere (1Cor 9,1ss; 15,8ss; 2Cor 4,6; Gal 1,15-16; Fil 3,12ss); (b) da testi che si trovano in lettere considerate di solito deuteropoaoline (Ef 3,1-12; 1Tm 1,12-16); (c) dai tre racconti lucani in At 9,1-22 (narrazione dello scrittore, 22 vv.), At 22,6-11 (autodifesa di Paolo nell’episodio dell’arresto a Gerusalemme, 18 vv.), At 26,12-18 (autodifesa di Paolo davanti al re Agrippa, 10 vv.).

1. Dalle lettere di Paolo

a. 1Corinzi 9,1-18

In 1Cor 8 Paolo scrive di essere pronto ad astenersi dal mangiare carne in eterno, per riguardo a qualsiasi fratello cristiano. Ma tale rinuncia alla libertà poteva essere facilmente criticata dagli avversari Corinzi che potevano obiettare: «Se non ha autorità e libertà, Paolo non è apostolo!». Paolo previene questa possibile obiezione con quattro domande retoriche (1Cor 9,1), tutte introdotte dalle particelle interrogative ου / ουκ / ουχι, che lasciano in attesa di una riposta affermativa:

  1. «ουκ ειμι ελευθερος; - Non sono forse libero, io?». Il senso della domanda è che Paolo è libero come ogni cristiano; in particolare, come ogni apostolo, è libero di farsi mantenere economicamente.
  2. «ουκ ειμι αποστολος; - Non sono io forse un apostolo?». Per dare fondamento a questa sua pretesa (di essere apostolo), Paolo si richiama all’evento di Damasco, nella terza domanda retorica:
  3. «ουχι Ιησουν τον κυριον ημων εορακα; - Non ho io forse visto Gesù, Signore nostro?». Nell’ultima domanda Paolo aggiunge una seconda prova della sua apostolicità, che è la sua stessa opera:
  4. «ου τον εργον μου υμεις εστε εν κυριω; - E non siete voi la mia opera nel Signore?». Nel contesto seguente poi Paolo rivendica con molti argomenti di avere i diritti dell’apostolo: (a) Ogni lavoratore (soldato, vignaiolo, pastore, aratore, trebbiatore) vive del suo lavoro; (b) Anche la Legge mosaica chiede che il bue mangi del suo lavoro, per cui a fortiori l’apostolo ha quel diritto; (c) Il Signore stesso ha detto che chi annuncia il Vangelo, da quell’annuncio ha diritto di trarre il sostentamento. Paolo poi fornisce i motivi per cui non si avvale di quel diritto: perché egli non vuole porre ostacoli al Vangelo; e perché annuncia il Vangelo non di sua volontà, ma, come gli antichi profeti (Amos 3,8; Ger 1,6; 20,7-9), per necessità: non può resistere o sottrarsi all’azione di Dio in lui.

Insieme con la fondazione delle chiese, dunque, l’avere visto il Signore a Damasco è fondamento dell’apostolicità di Paolo: l’evento di Damasco è l’investitura apostolica di Paolo e l’opera missionaria ne è la comprova.

b. 1Corinzi 15,1-11

Il problema che Paolo discuterà sino alla fine del lungo capitolo xv è esposto in 15,12: «Se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste resurrezione dei morti?». Infatti come gli altri apostoli, così anche Paolo («Sia io che loro, così predichiamo», 15,11) annuncia un Vangelo incentrato su: Morte-Sepoltura di Gesù e Resurrezione-Apparizioni (1Cor 15,3-3-8). Nell’elenco dei destinatari delle apparizioni del Risorto, Paolo mette anche se stesso: «… apparve (1) a Kefa, e (2) ai Dodici; in seguito apparve (3) a più di 500 fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti; inoltre apparve (4) a Giacomo, e quindi (5) a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me (= 6) come a un aborto». Anche qui l’evento di Damasco è per Paolo investitura apostolica, nonostante che egli occupi l’ultimo posto nell’elenco dei destinatari delle apparizioni, anzi nonostante sia indegno di quel titolo perché ha perseguitato la chiesa (15, 11).
In conclusione, in 1Cor 15: (a) l’evento di Damasco più che visione, è apparizione (Paolo è passivo, mentre in 1Cor 9 era attivo: «Io ho visto il Signore»); (b) la teofania è fondamento dell’apostolicità, e - elemento nuovo - (c) la cristofania è χαρις-grazia: è l’iniziativa gratuita e misericordiosa di Dio che da un persecutore trae un apostolo travolgente. Colui che tra gli apostoli è il feto abortivo, in virtù della grazia che ha ricevuto e assecondato, è colui che per il Vangelo si è affaticato più di tutti (15,10).

c. 2Corinzi 4,6

In questo testo Paolo sembra rispondere all’accusa di annunciare un Vangelo oscuro («E se il nostro Vangelo rimane velato, lo è per coloro che si perdono», 4,3), e dice che il rifiuto del Vangelo non dipende da lui, ma dal fatto che il dio di questo mondo [= Satana], limitatamente a questo mondo, ha il potere di accecare, cosicché nel Cristo, ‘icona’ di Dio, non tutti vedono risplendere lo splendore della gloria divina (4,,4).
La manifestazione di tale gloria è descritta con le parole con cui in Gen 1 si parla della creazione della luce: «E il Dio che disse: ‘rifulga la luce dalle tenebre’, lui rifulse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria divina» (4,6). Se ‘i cuori’ in cui Dio ha portato la luce è una espressione che indica il cuore di Paolo (e non anche di tutti quelli che credono al Vangelo), allora qui si ha un altro accenno a Damasco, e l’evento di Damasco è come una seconda creazione della luce. È un far passare Paolo dalle tenebre alla luce che Dio ha fatto brillare per gli uomini nel Cristo.

d. Galati 1,11-16

Secondo le accuse dei suoi avversari Paolo predicherebbe la libertà per i pagani dalla Legge mosaica “per piacere agli uomini”: «È forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio? [Come è possibile pensare che] io cerchi di piacere agli uomini? Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo!» (Gal 1,10).
Paolo replica anzitutto negando di avere facilitato e addomesticato il Vangelo («il Vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo - ουκ εστιν κατα ανθρωπον», v. 11) e nega di averlo ricevuto da uomini, o in particolare dalla catechesi [di qualche comunità] (v. 12a). Prima di Damasco infatti era accanito persecutore della chiesa [e quindi di certo non era catecumeno] (vv. 13-14). Dopo Damasco si è recato in Arabia senza salire a Gerusalemme per incontrare gli Apostoli vv. 16b-17. Egli ha ricevuto il Vangelo per rivelazione (= δι’ αποκαλυψεως). – A Dio infatti è piaciuto rivelargli il suo Figlio (ευδοκησεν αποκαλυψαι τον υιον αυτου εν εμοι) avendolo a questo selezionato fin dal seno della madre (αφορισας με εκ κοιλιας μητρος μου) e chiamato per grazia (και καλεσας δια της χαριτος αυτου). Tutto questo in vista dell’annuncio evangelico ai pagani (εν τοις εθνεσιν). In Gal 2,7-8 Paolo espliciterà il carattere particolare di questa sua missione mettendo a confronto il suo mandato ai gentili con quello di Pietro ai circoncisi.
E allora l’evento di Damasco in Gal 1 è: (a) “apocalisse”, “rivelazione” a Paolo del Figlio, quale centro assoluto della storia salvifica (Gal 1,16a); (b) è apocalisse dell’Evangelo o buona notizia che riguarda Gesù, e che Paolo ha ricevuto non dagli uomini ma direttamente da Dio (v. 12); (c) è chiamata all’apostolato totalmente gratuita (δια χαριτος, v. 15b) e in nulla meritata; (d) è chiamata all’apostolato dei pagani, come quella di Pietro è chiamata all’apostolato dei circoncisi (2,8); (e) è chiamata profetica perché descritta con le parole della vocazione di Geremia (Ger 1,5: «Prima di formarti nel seno materno ti conoscevo…; ti ho stabilito profeta delle nazioni»), o del servo di Adonay (Is 49,1: «Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunciato ecc.»).

e. Filippesi 3,2-14

Nella serena lettera ai Filippesi [cf. le 15 ricorrenze di χαρα /gioia, χαιρειν e συγχαιρειν /gioire], il cap. 3 è, invece, duramente polemico contro missionari probabilmente cristiani, sostenitori della circoncisione. In due repliche contro di loro Paolo inserisce due allusioni a Damasco: αλλα…ηγεμαι ζημιαν (3,7); εφ ω και κατελημφθην (3,12).
La prima volta Paolo si confronta con il loro vanto: «Se qualcuno ritiene di potere confidare nella carne, io più di lui» (3,4). Paolo allora elenca prima tre motivi di vanto ereditati dalla nascita: egli è (i) circonciso l’ottavo giorno; (ii) Israelita della tribù di Beniamino; (iii) Ebreo da ebrei [= fedele alla cultura, alla lingua, allo stile di vita]; e poi tre motivi di vanto conquistati personalmente: (iv) quanto alla Legge, fariseo (= osservanza radicale della Legge), (v) quanto allo zelo, persecutore, (vi) quanto alla giustizia, irreprensibile. – All’inizio del v. 7 c’è un «ma (= αλλα…)» che segna la svolta del ragionamento, e che è una allusione all’evento di Damasco: «Ma quello che poteva essere per me un guadagno, a motivo di Cristo (= δια τον Χριστον), l’ho considerato una perdita (ηγεμαι ζημιαν)». Quel rovesciamento di valori è avvenuto a Damasco. La contrapposizione di guadagno e perdita dice che a Damasco si è operato un capovolgimento di giudizio circa i privilegi storici e morali del giudaismo. –Passando a parlare del presente, Paolo conferma quella mutazione di prospettiva e la rafforza dicendo di considerare come perdita (ζημια) e sterco (σκυβαλα) non solo i privilegi del giudaismo, ma ogni cosa (παντα), di fronte alla conoscenza superiore /sublime di Gesù Cristo (v. 8). Ora Paolo, lasciando perdere ogni altro valore, cerca di conquistare il Cristo, di esperimentare la potenza della sua resurrezione, e la comunione alle sue sofferenze «con la speranza di giungere alla resurrezione dai morti».
Con queste parole Paolo è passato a parlare del futuro, e al secondo confronto coi suoi avversari. Sembra di poter ricavare dal testo di Fil che essi si considerassero già perfetti, pienamente salvati e partecipi della resurrezione di Cristo. Paolo, servendosi dell’immagine della corsa nello stadio, dice di sé invece di essere ancora impegnato nella corsa: «Non però che io abbia già conquistato il premio o che sia oramai arrivato alla perfezione. Solo mi sforzo di correre per conquistarlo». E aggiunge il secondo riferimento a Damasco scrivendo: «…perché anch’io sono stato conquistato dal Cristo (… κατελημφθην υπο Χριστου)» (v. 12).
In conclusione, in Fil 3 Damasco per Paolo: (a) è conversione, perché è capovolgimento di valori e di scelte morali. Per questo i Filippesi, che possono essere disorientati da un insegnamento nuovo e da modelli di vita sbagliati come quelli introdotti dagli avversari di Paolo, hanno un esempio nell’apostolo. Egli infatti sente il bisogno di invitarli alla sua imitazione: «Fratelli, fatevi miei imitatori, e guardate a quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi» (v. 17); (b) Il cambiamento di vita in Paolo è avvenuto a motivo del Cristo (δια τον Χριστον, v. 7) e a motivo della sublimità della conoscenza di Gesù Cristo (v. 8). L’espressione significa probabilmente, come in Gal 1, la rivelazione del Cristo a Paolo per apocalisse. Dunque Damasco è conoscenza (data gratuitamente e poi lentamente assimilata) del Cristo quale valore assoluto che relativizza i privilegi di Israele e tutto; (c) Per Paolo Damasco significa infine essere stato afferrato e conquistato dal Cristo, per cui ora, a sua volta, egli cerca di conquistare lui e la resurrezione.

f. Efesini 3,1-12

Le affermazioni di Ef 3 circa Damasco sono: (1) A Paolo è stato dato il ministero della grazia (tre ricorrenze di χαρις): Paolo è strumento di Dio; (2) quel ministero gli è stato dato per rivelazione (κατα αποκαλυψιν, v. 3); in quella rivelazione gli è stato fatto conoscere il mistero di Cristo (τον μυστηριον του Χριστου, vv. 3); (3) Nei secoli passati il ‘mistero’ è rimasto nascosto nella mente di Dio, non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni, ma ora (νυν, v. 5), al presente, viene manifestato ai santi e ai profeti [non al solo Paolo]; (4) Contenuto del ‘mistero’ è che i non-israeliti (τα εθνη) in Cristo, attraverso l’annuncio evangelico, ricevono l’eredità come gli israeliti (ειναι τα εθνη συγκληρονομα), la concorporeità (συσσωμα), la promessa (συμμετοχα της επαγγελιας). Ogni disparità storico-salvifica e ogni separazione è tolta.

g. 1Timoteo 1,11b-17

Il pensiero si sviluppa per associazione di idee secondo lo schema A (tema dell’apostolato), A+B (tema dell’apostolato, tema della misericordia), B (tema della misericordia):

A

a Paolo sono stati affidati il Vangelo e l’apostolato (v. 11b)

A+B

Paolo è stato ritenuto degno dell’apostolato (A), non perché lo meritasse, ma per misericordia e grazia (B), (vv. 12-14)

B

nel suo essere oggetto di misericordia (B), Paolo è esempio per tutti i peccatori chiamati alla fede (15-17).

In un inno di rendimento di grazie, dunque, Paolo riconosce di avere avuto solo demeriti, in quanto era bestemmiatore, persecutore, violento (v. 13): il primo dei peccatori! (v. 15). L’unica sua attenuante, come per i crocefissori di Gesù, è stata l’ignoranza (v. 13). È dunque solo per misericordia e per grazia che è stato stimato degno del ministero (διακονια), della forza per attuarlo (ενδυναμωσαντι με, v. 12), della fede (verso Dio) e dell’agape (verso le chiese) (v. 14).
Paolo poi inserisce il suo caso personale nel quadro di tutta la storia della redenzione. Introducendola colla formula solenne: «Questa parola è sicura», richiama infatti un’affermazione della catechesi o della liturgia: «Il Cristo è venuto per salvare i peccatori…». In questo quadro Paolo è il primo (πρωτος) dei peccatori, il primo a cui il Cristo ha mostrato la sua bontà, perché fosse la prova o esempio vivente (υποτυπωσις) per tutti i peccatori chiamati alla vita eterna.
In 1Tm 1, dunque, l’evento di Damasco è: (a) chiamata alla diakonia del Vangelo nonostante i peccati di Paolo; (b) è quindi chiamata per pura grazia (v. 14) e misericordia (vv. 13.16); (c) Damasco fa di Paolo un tipo esemplare per tutti i peccatori. È da notare che 1Tm (d) non parla delle circostanze (visione, Damasco) in cui si rivelò per Paolo la misericordia; (e) né Paolo è mandato ai pagani, ma è costituito modello esemplare dei peccatori, chiamati alla vita eterna; (f) in tal modo sia la figura di Paolo come anche l’evento di Damasco sono moralizzati e messi al servizio della parenesi. La vocazione di Paolo rilevante per la storia della salvezza, è divenuta esemplare vocazione alla santità.

2. Le tre narrazioni degli Atti degli Apostoli

Gli elementi che entrano in composizione nei tre racconti sono:

  1. una notizia sull’attività di Paolo come persecutore dei cristiani (At 9: «… chiese le lettere di autorizzazione per incatenare i seguaci ecc.»; At 22: «… perseguitai a morte…; ricevetti le lettere per…»; At 26: «… ho ricevuto l’autorizzazione per..; ho votato le condanne a morte..; torturavo e costringevo alla bestemmia»). → Da un racconto all’altro il tema di Paolo persecutore è in crescendo.
  2. il racconto della cristofania (At 9: luce, caduta di Paolo, dialogo con il Cristo, con rimprovero al persecutore, autopresentazione del Cristo e comando di entrare in città; Paolo condotto in città, dove resta cieco per tre giorni e per tre giorni digiuna; - At 22: grande luce anche se a mezzogiorno, caduta di Paolo, dialogo con il Cristo, con rimprovero al persecutore e comando di entrare in città, Paolo condotto a Damasco; - At 26: la luce più forte del sole, caduta di tutti, dialogo con il Cristo con rimprovero al persecutore, con proverbio “del pungolo”, autopresentazione del Cristo, costituzione di Paolo come ministro e testimone e invio ai pagani). → Da un racconto all’altro è in crescendo l’insistenza sulla luce della visione, in At 9 si insiste sulla cecità (di tre giorni), in At 26 si insiste sul discorso del Cristo, che è un discorso di invio ai pagani.
  3. il racconto dell’incontro con Anania in Damasco (At 9: visione di Anania circa Paolo, visione di Paolo circa Anania, obiezione di Anania circa il persecutore, risposta: «Paolo è strumento eletto per i popoli e per Israele», incontro di Anania e Paolo, guarigione dalla cecità e battesimo di Paolo; - At 22: (nulla sulle due visioni parallele), Anania cerca Paolo, guarigione della cecità, Paolo definito da Anania come ‘testimone’, battesimo; - At 26: nulla). → Da un racconto all’altro l’episodio del mediatore, cioè di Anania, è in diminuendo e le sue parole sono poste direttamente sulle labbra del Cristo.
  4. la notizia di una visione di Paolo nel tempio (At 9: nulla; - At 22: dopo il ritorno a Gerusalemme, visione, invio ai pagani; - At 26: nulla). → Presente solo in At 22, la visione ha il compito di consacrare Paolo come evangelizzatore dei pagani.
  5. una conclusione narrativa (At 9: inizio dell’attività apostolica di Paolo, meraviglia per il cambiamento improvviso di lui; - At 22: nulla; - At 26: Paolo afferma di non aver potuto disobbedire alla visione celeste)

In sintesi: nei tre racconti di Atti ci sono importanti conferme ai testi paolini: trasformazione di un persecutore, cristofania espressa in termini di luce sconvolgente e di voce. Altri elementi sono invece caratteristici di Atti: nel primo racconto ha grande rilievo l’episodio di Anania; nel secondo ha un certo rilievo la visione nel tempio: è dal Cristo e dalla città di Gerusalemme che Paolo è inviato in missione; nel terzo scompare l’incontro con Anania, a favore di un invio ai pagani immediato, sulla strada. – A parte i particolari narrativi (luogo, ora, nomi di Anania e Giuda, Damasco e la sua Via Diritta), e a parte particolari provenienti dalla tradizione siriana (Damasco si trova in Siria) e comprensibili in una monografia storica come il libro degli Atti, l’evento di Damasco in tutti e tre i racconti è dunque trasformazione di un persecutore in apostolo dei pagani: tutta l’importanza di Damasco per Lc è nell’invio di Paolo ai pagani.
Più in particolare, per Atti: (a) l’evento di Damasco non è una apparizione pasquale (cf. At 13,31-33) e Paolo non è costituito apostolo, bensì testimone-μαρτυς (22,15; 26,16); (b) Paolo non ha avuto una rivelazione diretta - il terzo racconto è una abbreviazione -, bensì indiretta attraverso la mediazione di Anania e delle chiese; (c) L’attività evangelizzatrice di Paolo non fu iniziativa umana: come Pietro in At 10-11, così Paolo a partire da Damasco fu guidato da Dio: «È inutile recalcitrare contro il pungolo»; (d) L’invio ai pagani, infine, non è in contrasto con l’AT, ma con esso è in continuità: in At 13,47 viene citato esplicitamente il testo di Is 49,6, e l’«aprire i loro occhi perché si convertano dalle tenebre alla luce» di At 26,18 richiama Is 42,7.16; (e) L’invio ai pagani è in continuità anche con i Dodici e con la chiesa-madre di Gerusalemme, perché Paolo succede nel ruolo di testimone-μαρτυς ai Dodici, che tali erano stati costituiti dallo stesso Gesù (At 1,8).

3. L’evento di Damasco, sintesi

  1. «Nessuno può mettere in dubbio che Paolo sulla strada di Damasco abbia vissuto una esperienza religiosa determinante. Esperienza naturale per gli uni, soprannaturale per gli altri. Per il non-credente la spiegazione del fenomeno si trova in una crisi sia intellettuale, sia morale di Saulo (…). Per il credente la conversione viene da un intervento diretto di Gesù glorificato» (B. RIGAUX, Saint Paul et ses lettres, 65).
  2. Gli interpreti si chiedono se, prima di Damasco, c’è stata una preparazione per quel rivolgimento così radicale, e se è stata una preparazione negativa (= crisi interiore per la insoddisfazione esperimentata nel praticare la Legge), o una preparazione positiva (= fascino esercitato su Paolo dai cristiani che perseguitava,- o dal messaggio cristiano incentrato sulla Resurrezione). – Una preparazione è ipotizzabile, ma una spiegazione psicologica di Damasco non è sufficiente.
  3. Essendo una esperienza essenzialmente mistica, l’evento di Damasco non è oggettivabile, esprimibile: cf. 2Cor 12,2-4 dove Paolo dice di non aver parole per esprimere l’esperienza mistica nella quale è stato rapito fino al terzo cielo. Questo è ancora più vero se lo si considera dal versante divino: ciò che è successo a Damasco è indicibile perché partecipa del mistero di Dio. Per parlarne, Paolo e l’autore di Atti hanno fatto ricorso soprattutto al linguaggio biblico, con il vantaggio ulteriore di poter collocare quell’evento nel quadro della storia della salvezza. Di fatto, Paolo non ne fa la cronaca e nessuna delle sue allusioni, a volte di una sola parola, ci permette di rispondere alle molte domande sulle circostanze: dove? a che ora? in che modo? in compagnia di chi? e dopo? Nessun nome: il nome della città di Damasco lo si deve ricavare da Gal 1,17 dove Paolo dice: «E poi ritornai a Damasco». Eppure dell’accaduto si era fatto un gran parlare (Gal 1,22-23!; At 9,21).
  4. Paolo tornava di continuo all’incontro di Damasco come alla sorgente inesauribile del suo apostolato. Nei testi che ci ha lasciato, egli scrive a distanza di circa 20 anni, per cui dobbiamo mettere in conto che in essi sia oramai incorporato l’arricchimento teologico venuto dalla sua ventennale riflessione. Il contesto poi, che spesso è polemico, comporta una selezione di certi aspetti, l’enfasi su di essi, e il silenzio su altri. Damasco, comunque, fu l’evento che divise la vita di Paolo in due parti. Paolo stesso parla di quello che era prima e di quello che fu poi: dunque Damasco ha una assoluta centralità nella esistenza e nella teologia di Paolo.
  5. Di volta in volta Paolo parla utilizzando il linguaggio: (a) della vocazione profetica; (b) della creazione della luce; (c) delle teofanie; (d) dell’apocalisse o rivelazione escatologica; (e) della conquista militare o della vittoria sportiva; (f) della conversione o cambiamento nella scala dei valori.
  6. Nei testi di Paolo l’insistenza sulla conversione morale, in ogni caso, non è così forte come nella nostra catechesi e come nel nostro calendario liturgico. A Damasco Paolo non è un peccatore che ritrova i sentieri del bene: di sé stesso lui diceva infatti: «Quanto alla giustizia, quella che viene dalla Legge, irreprensibile!» (Fil 3,6). Non è neanche una conversione da una religione a un’altra: «Egli non considerava il cristianesimo come una religione nuova, distinta dal giudaismo: Paolo resta ebreo di razza e di religione» (L. CERFAUX, «La vocation de Saint Paul», in Euntes Docete 14, 1961, 4). Paolo considera Damasco come il momento in cui la sua fede giunge a maturazione e pienezza, e, se i giudei non accetteranno di passare attraverso la stessa maturazione messianica, saranno essi che rinnegheranno di fatto la loro religione: «Saranno essi a ‘convertirsi’ o meglio a ‘pervertirsi’» L. CERFAUX, «La vocation de Saint Paul», 5; «Più che un convertito, Paolo fu un chiamato», PITTA, in Bibbia Piemme, 2662); «Paolo più che al cristianesimo si convertì al Cristo», cf. H.G. WOOD, «The Conversion of St Paul», in New Testament Studies 1 (1954-1955), 279. Cf. infine il titolo di K. STENDAHL, «Call Rather than Conversion», in IDEM, Paul among Jews and Gentiles and Other Essays (Philadelphia, PA, 1989), 7-23
  7. In ogni caso quella di Damasco non fu un’esperienza privata, ma di rilevanza storico-salvifica. La definizione più comprensiva che Paolo ha dato è quella di rivelazione (αποκαλυψις) del Figlio (Gal 1,16), e del Vangelo (1,12).

4. Paolo destinatario e mediatore di apocalisse

a. Paolo destinatario di Apocalisse-rivelazione

Paolo è in continuità, come tutto il NT, col giudaismo, secondo cui Dio sostituirà questo mondo o eóne (αιων = tempo, epoca) con il mondo escatologico (εσχατος = ultimo, finale). In questo schema di pensiero αποκαλυψις è rivelazione e instaurazione del mondo nuovo.
Questo avverrà con pienezza solo alla parusìa gloriosa del Cristo (1Cor 1,7; 2Tess 1,7), ma il Cristo Risorto è già l’èschaton: la resurrezione l’ha infatti costituito Figlio di Dio secondo lo Spirito di santificazione (Rm 1,4), e Signore. Per questo già ora l’annuncio del Vangelo che riguarda Gesù è rivelazione che giustifica e salva (Rm 1,16-17). E a Damasco è piaciuto a Dio (tema dell’ ευδοκια) di rivelare a Paolo l’èschaton, il mondo nuovo che sostituirà quello attuale, nel suo Figlio. Così, pur essendo ancora nella carne e nel sangue, Paolo ha conosciuto il Cristo, ma non secondo la carne («D’ora in poi noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e se anche abbiamo conosciuto il Cristo secondo la carne [= mentre lo perseguitava?], ora non lo conosciamo più così!», 2Cor 5,16). La sublimità di tale conoscenza del Cristo ha annullato ogni vanto secondo la carne (Fil 3,7-8), e Paolo considera perdita e sterco i privilegi del giudaismo e ogni cosa (παντα).
Paolo è stato selezionato (αφωρισμενος) fin dal seno di sua madre come Geremia e come il Servo di Adonay. Ma, a differenza di loro, egli è profeta messianico, dei tempi escatologici, dell’economia pneumatica (2Cor 3-4). Paolo è profeta dell’ora decisiva in cui si è chiusa l’attesa e in cui si è realizzata la rivelazione definitiva. Questa vocazione è avvenuta mediante una teofania (1Cor 9: «Non ho forse visto il Signore, io?»), e più precisamente in una apparizione pasquale (1Cor 15: «Per ultimo è apparso a me, come a un aborto») che ha fatto di Paolo un apostolo della nuova economia salvifica. Per il titolo e la funzione di apostolo non è sufficiente la sequela del Gesù terrestre (cf. Giuda), e neppure essa è necessaria (cf. Giacomo fratello del Signore, Barnaba ecc.). Indispensabile è la visione del Signore Risorto, inizio dell’èschaton.

b. Paolo, mediatore della rivelazione escatologica per i gentili

La rivelazione di Damasco, che ha introdotto Paolo nella realtà messianico-escatologica, di essa lo ha fatto mediatore e Apostolo. Con la sua attività missionaria (= predicazione, battesimo, eucaristia, lettere ecc.) e per la potenza dello Spirito, egli introduce i suoi uditori che credono, nell’epoca e nella realtà escatologica. È così che nell’annuncio evangelico si rivela la giustizia (salvifica) di Dio (Rm 1,16-17). – Paolo condivide con quelli che erano Apostoli prima di lui il compito dell’evangelizzazione, ma egli è stato selezionato e messo a parte per una evangelizzazione particolare, quella delle genti. Mondo giudaico e mondo non-giudaico debbono incontrarsi. I pagani debbono abbandonare gli idoli (1Tess 1,9) ma non il loro stato: non devono dunque aderire alle pratiche giudaiche, perché lo Spirito trasformante si riceve senza di esse, con la fede.
Portando all’obbedienza della fede (Rm 1,5), egli introduce i credenti nella realtà escatologica inaugurata dalla resurrezione, li fa partecipare alla vita ‘in Cristo’, ‘nello Spirito’, mettendoli in corsa per conquistare il Cristo e la resurrezione (Fil 3).

c. Due precisazioni

  1. L’invio ai gentili avvenne a Damasco o fu successivo? Poiché da Damasco alle spedizioni missionarie tra i pagani Paolo lasciò passare molti anni (dai 10 ai 15), bisogna concludere che solo successivamente si verificarono le condizioni o si evidenziarono i motivi per quell’impresa, tra cui la progressiva constatazione che il giudaismo si opponeva al Vangelo e che i pagani invece ad esso si aprivano: due fenomeni che Paolo non aveva messo in conto in quella misura. Si trattò comunque di una esplicitazione del valore salvifico universale della Pasqua che Paolo aveva conosciuto per la prima volta nella rivelazione di Damasco. – «Non è proibito pensare che la certezza d’essere chiamato ad annunciare il Vangelo ai pagani non abbia avuto all’inizio tutta la chiarezza che ebbe in seguito nelle concrete condizioni di quella predicazione. (…) Una maturazione in questo senso è verosimile, come è verosimile che Paolo abbia ricevuto al riguardo l’influenza dei capi della comunità di Antiochia», LEGASSE, Paolo, 72
  2. A Damasco Paolo ricevette tutto il Vangelo “in rivelazione”, oppure ci fu una evoluzione e un approfondimento nel suo pensiero e nella sua teologia? È evidente che nella rivelazione del Figlio c’è il germe di tutto, ma Paolo ebbe altre rivelazioni (cf. per esempio Gal 2,2; At 26,16). Egli stesso, poi, rimanda a tradizioni che ha ricevuto (1Cor 11,23; 15,3), e nelle lettere più antiche sono assenti quei temi che diventeranno centrali nelle successive. Ci fu dunque un condizionamento su Paolo sia delle chiese, sia delle regioni e delle culture da lui evangelizzate.

III. Elementi storico-biografici su Paolo

1. Le fonti

a. Le lettere di Paolo

Per ricostruire la storia e il pensiero di Paolo si hanno a disposizione dei documenti diretti, come non accade neanche per Gesù che non ha lasciato nulla di scritto. Su 27 scritti neotestamentari 13 portano il nome di Paolo, anche se solo 7 (Romani, 1-2 ai Corinzi, ai Galati, ai Filippesi, 1 ai Tessalonicesi e Filemone) sono oggi attribuiti a lui senza rilevante discussione. Dunque le lettere dello stesso Paolo sono la fonte principale su di lui: sono uno specchio su cui possiamo intravedere la sua fede, la sua passione apostolica, il suo sdegno, il suo affetto ecc. Nelle lettere «sentiamo, per così dire, il respiro dell’autore», (G. BORNKAMM, Paolo, Apostolo di Gesù Cristo, 20)
Bisogna anche dire però che le lettere di Paolo sono incomplete e parziali, in quanto per esempio sono testimonianza del solo decennio degli anni 50. E che non sono neutrali, oggettive, serene, ma sempre polemiche e aggressive: «La presentazione [che Paolo fa degli avversari] è di regola caratterizzata da toni sommari e forse anche ingiusti» (G. BARBAGLIO, Paolo, 15)

b. Il libro degli Atti degli Apostoli

Prima in modo saltuario (At 7,58-8,3; 9,1-30; 11,25-30; 12,25), poi senza interruzione, si interessa a Paolo il libro degli Atti che, dopo le lettere, è l’altra grande fonte di informazione su Paolo.
In passato si combinavano le lettere e gli Atti e si ricavava la ‘vita’ di Paolo. Tale metodo non è del tutto corretto. Anzitutto perché gli Atti non hanno uno scopo biografico-storico, ma sono stati scritti in circostanze nelle quali le battaglie combattute da Paolo erano già vinte e i risultati cosa acquisita. In secondo luogo, le notizie ricavabili dalle lettere non sempre si possono concordare con gli Atti nei particolari: cf. per esempio 2Cor 11,24ss: «Cinque volte dai giudei ho ricevuto i 39 colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe [= da autorità romane], una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli nelle città, pericoli nel deserto ecc.». Al momento in cui fu scritta la 2Cor, stando a ciò che si legge negli Atti, Paolo avrebbe subìto solo una lapidazione (At 14,19) e una flagellazione (16,22). Inoltre, gli Atti non dicono nulla circa i tre naufragi, i pericoli sui fiumi o nel deserto. – Dunque è diverso il valore di ciò che dicono le lettere da quello che si trova in Atti, e non si può fare del frettoloso concordismo: «Paragonando il libro degli Atti con le lettere autentiche di Paolo, si ha l’impressione di un fiume che lungo il suo corso abbia depositato molto materiale e ricevuto l’apporto di nuove fonti e di diversi affluenti» (G. BORNKAMM, Paolo, 14).
Questo è vero anche se, poi, «non c’è nessun autore moderno che non utilizzi qualche dato lucano per arricchire la sua lettura delle lettere», (CH. PERROT, in GEORGE-GRELOT, a cura di, Introduzione al NT, vol. 3, 11). «Le differenze [= tra il Paolo degli Atti e il Paolo delle lettere] non mettono affatto in questione il valore storico degli Atti. Senza dubbio, Luca ha raccolto anche molte notizie attendibili, di cui nessuna presentazione di Paolo può fare a meno» (G. BORNKAMM, Paolo, 16).

c. Le lettere Pastorali

Le lettere Pastorali ci informano sugli ultimi anni dell’esistenza di Paolo (presenza di Paolo a Creta, a Efeso, ecc., carcere duro a Roma, udienze del processo davanti al tribunale romano ecc.), ma quelle lettere sono da molti attribuite ad un discepolo di Paolo e le notizie che contengono sono interpretate in due modi del tutto diversi, come si vedrà nello studio delle Pastorali

d. Altri documenti dal primo al quarto secolo, e gli Apocrifi

Notizie sparse si trovano in 2Pt 3,15 circa l’opera di raccolta dell’epistolario paolino, in 1Clem 5,4-7 (= lista di sofferenze e arrivo di Paolo al confine dell’occidente) e nel Canone Muratoriano (= viaggio in Spagna) circa un viaggio di Paolo in Spagna, a conferma di Rm 15,24.28. In Tertulliano si ha la notizia della morte di Paolo per decapitazione e in Gaio, presbitero della chiesa di Roma intorno al 180 d.C., la notizia della sepoltura a via Ostiense (cf. in Eusebio, Storia Eccl. 2,25.7).
Gli apocrifi (= per esempio la lettera ai Laodicesi; la corrispondenza tra Paolo e Seneca; gli Atti di Pietro e Paolo del pseudo-Marcello; la Passione latina di Pietro e Paolo; la Passione di Paolo del pseudo-Lino; la Passione di Paolo del pseudo-Abdia; gli Atti di Paolo e Tecla [apocrifo lunghissimo: 3.600 vv. dei quali ne restano neanche la metà])- hanno uno scarsissimo valore storico. Per tutti cf. l’incredibile episodio del leone battezzato (Atti di Paolo, 6), la 3Corinzi (ibidem, 7), e il ritratto fisico di Paolo: «Finalmente [Onesiforo] scorse Paolo venire: piccolo di statura [derivato da 2Cor 10,10?], testa calva [derivato da At 18,18; 21,24?], gambe curve, corpo ben formato, sopracciglia congiunte, naso un po’ sporgente, pieno di bontà. Alle volte sembrava un uomo, alle volte aveva la faccia d’un angelo» (Atti di Paolo, II, 3).

e. Scritti giudaici e greco-romani

Gli scritti giudaici e greco-romani non contengono alcun riferimento a Paolo, anche se, insieme con l’archeologia, sono indispensabili per la conoscenza dell’ambiente di Paolo, e utili per la comprensione e interpretazione delle sue lettere e del suo pensiero.

f. Conclusione

Gli autori sono unanimi: quella di Paolo è la figura meglio conosciuta del NT; «la più afferrabile» (R. Bultmann), «la più chiara» (W. Wrede); Paolo è per noi «in piena luce» (G. Bornkamm); è «il personaggio più accessibile» (G. Barbaglio).
Lo schema dei tre viaggi missionari che si trova in Atti è accettabile in linea generale, ma sono legittime discussioni di dettaglio quando le lettere lo richiedono. Dagli Atti comunque ricaviamo molte e preziose informazioni assenti nelle lettere: il nome semitico di ‘Shaul’, la nascita a Tarso, l’educazione alla scuola di Gamaliele a Gerusalemme, la presenza all’uccisione di Stefano, Damasco come luogo della rivelazione, tre viaggi di evangelizzazione, arresto a Gerusalemme, appello al tribunale dell’imperatore, e arrivo a Roma.
La discussione più rilevante riguarda comunque le informazioni contenute nelle lettere della prigionia e nelle Pastorali a riguardo degli ultimi anni di Paolo, e riguarda l’attendibilità delle notizie che esse forniscono sul viaggio in Oriente e sulla seconda prigionia romana.

2. Cronologia paolina

a. Galati 1-2 e 2Corinzi 11,32-34

Testo fondamentale e prezioso è quello di Gal 1,11-2,14. I vv. 1,13-14 parlano del comportamento di Paolo nel giudaismo (= perseguita la chiesa, primeggia nello zelo, è fedele alle tradizioni); i vv 15-16 parlano della rivelazione (ovviamente quella di Damasco) e della missione ai gentili; il v. 17 parla del soggiorno di Paolo in Arabia (= territorio a sud di Damasco, regno dei Nabatei, con capitale Petra) e poi del ritorno a Damasco. – A questo punto si inserisce 2Cor 11,32-34, in cui Paolo dice: «A Damasco il governatore del re Areta [= Areta IV, re nabatéo negli anni 9-39 d.C.] montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra ecc.». Questa notizia è confermata da At 9,24-25.
Poi, secondo Gal 1,18-20, dopo 3 anni [dalla conversione? o dal ritorno a Damasco?], Paolo visita Kefa a Gerusalemme [= prima visita a Gerusalemme] e Giacomo fratello del Signore, trattenendosi a Gerusalemme per soli 15 giorni. Secondo Gal 1,21, Paolo va poi in Siria e Cilicia. – Secondo Gal 2,1-10, Paolo, dopo 14 anni [dalla conversione? o dalla prima visita?], Paolo va a Gerusalemme [= seconda visita] con Barnaba e l’incirconciso Tito. Là espone il suo Vangelo, e le tre “colonne” (= Giacomo, Kefa, e Giovanni) (a) gli stringono la mano in segno di approvazione, (b) dividono il campo di lavoro: a Pietro i circoncisi, a Paolo gli incirconcisi, (c) chiedono a Paolo e alle sue comunità di ricordarsi dei poveri di Gerusalemme.
Ad Antiochia di Siria, secondo Gal 2,11-14, Paolo rimprovera Pietro perché non si siede più a tavola con gli incirconcisi, costringendoli a osservare la Legge giudaica sulle purità alimentari, da cui invece sono stati resi liberi dal Cristo e dalla fede in lui.

b. Le lettere ai Tessalonicesi e Filippesi

Secondo Fil 4,15-16 Paolo ha “cominciato” la predicazione del Vangelo a Filippi (1Tess 2,2), e a Tessalonica ha ricevuto aiuti finanziari dai Filippesi (Fil 2,25; 4,16); ad Atene ha mandato Timoteo ai Tessalonicesi (1Tess 3,1-2). – Da Corinto, Paolo scrive la 1Tess menzionando, dopo la Macedonia da cui se ne è andato (Fil 4,15), l’Acaia (1Tess 1,7.8). Gli Atti precisano che Paolo è stato 18 mesi a Corinto (At 18,11), capitale appunto della provincia romana d’Acaia.

c. 1-2Corinzi e Galati

Da una grande città dell’Asia (gli Atti dicono che quella città è Efeso, dove l’Apostolo si è fermato 2 anni; cf. At 19,10), Paolo ha tenuto i contatti con Corinto mediante lettere e visite (2Cor 12,14; 13,1-2), e forse con le chiese di Galazia (Gal 4,13) e di Filippi.

d. Romani e Atti

Nella sua terza visita a Corinto, mentre sta partendo per Gerusalemme per portarvi il denaro raccolto nella colletta, Paolo scrive la lettera ai Romani nella quale parla della sua intenzione e del suo progetto di andare in Spagna (Rm 15,24.28). Gli Atti coprono questo stesso periodo e aggiungono notizie sull’ultima visita di Paolo a Gerusalemme, sull’arresto, sul viaggio in catene, e sulla prigionia di due anni a Roma.

e. Confronto tra Lettere e Atti

Per il periodo del quale parlano sia le lettere che gli Atti, i problemi principali sono:
(a) Quale fu il rapporto di Paolo con la chiesa-madre di Gerusalemme? Nelle lettere figurano solo due viaggi (Gal 1,18; 2,1), mentre in Atti le visite sono quattro: cf. At 9,26-30 per il primo contatto; At 11,27-30 per portarvi una colletta; At 15,1ss per l’assemblea apostolica; At 18,22 tra secondo e terzo viaggio. «L’autore di Atti ha moltiplicato i contatti dell’Apostolo con la chiesa gerosolimitana per fini teologici» (G. BARBAGLIO, Paolo, 26), cioè per mostrare la continuità di Paolo con la chiesa degli Apostoli. (b) In particolare la seconda visita (Gal 2,1-10) sembra si debba identificare con la terza di Atti (At 15 = assemblea apostolica). Ma ci sono alcune differenze tra i due testi: menzione di Tito in Gal, centralità di Paolo in Gal, non-menzione del decreto conciliare in Gal ecc. (c) Atti concepisce l’attività di Paolo in termini di viaggi missionari (primo: in Cipro e Asia Centrale; secondo: in Macedonia e Acaia con centro a Corinto; terzo: in Asia con centro a Efeso), mentre Paolo, pur parlando di “viaggi innumerevoli” (… οδοιποριαις πολλακις, 2Cor 11,26), concepisce la sua attività in termini di soggiorno nei grandi centri urbani. (d) In ogni caso le notizie contenute in Atti, in particolare gli itinerari, la fondazione di chiese in Asia, Macedonia, Acaia, le visite a quelle chiese e le relazioni con esse, i nomi dei collaboratori ecc., sono in buon accordo con ciò che si può ricavare dalle lettere. (e) Per il viaggio da Corinto a Gerusalemme (o viaggio della colletta), e da Cesarea a Roma (o viaggio della prigionia), per l’arresto a Gerusalemme e le prigionie a Cesarea e Roma, dipendiamo esclusivamente da Atti, senza possibilità di confronto.

f. Le Pastorali, un viaggio in Oriente e una seconda prigionia romana

La più grande discussione tra i commentatori moderni riguarda ciò che è successo alla fine dei due anni di prigionia a Roma. Per molti Paolo è stato ucciso (nel 60 d.C. per G. Bornkamm; nel 58 per G. Barbaglio ecc.). Lo schema tradizionale invece, basato sulle lettere della prigionia (Fil Col Ef Flm) e sulle Pastorali, parla di liberazione di Paolo, di un viaggio in Oriente [e Spagna?], di un nuovo arresto e processo, chiuso con la decapitazione nel 64 o 67 d.C.
Il problema di fondo è che, se le Pastorali sono state scritte da Paolo, bisogna allora seguire lo schema tradizionale. Se invece sono state scritte da un discepolo dopo la sua morte, la domanda diventa: che tipo di informazioni ci trasmette il discepolo che ha scritto le Pastorali a nome di Paolo. «Un viaggio verso occidente [= Spagna] e Oriente [= Asia, Grecia], da porsi cronologicamente dopo At 28, sarebbe pensabile anche per chi rifiuta, per motivi interni, la diretta paolinità delle lettere Pastorali. L’ignoto Autore allora dovrebbe essere stato in possesso di notizie corrispondenti»; «Tutti i sostenitori di una pre-datazione della morte dell’Apostolo [da collocare alla fine di Atti] rivelano un notevole imbarazzo: le spiegazioni sono tutte logore e non sembrano confermare ciò che ipotizzano» (KUSS, Paolo, 20).
1Tm e Tito sono ambientate durante il viaggio in Oriente, e 2Tm in carcere, a Roma. Le visite di Paolo avrebbero toccato Creta («Per questo ti [= Tito] ho lasciato a Creta perché tu stabilisca presbiteri su ogni città», Tito 1,5); poi Mileto («Trofimo l’ho lasciato ammalato a Mileto», 2Tm 4,20); poi Efeso («Partendo per la Macedonia, ti raccomandai di rimanere in Efeso», 1Tm 1,3); poi Troade («Venendo, portami il mantello che ho lasciato a Troade in casa di Carpo e anche i libri, soprattutto le pergamene», 2Tm 4,13); poi la Macedonia (cf. sopra 1Tm 1,3); poi Corinto («Erasto è rimasto a Corinto», 2Tm 4,20); la prospettiva era di passare l’inverno a Nicopoli (in Epiro?) («Quando ti (= Tito, che era a Creta) avrò mandato Artema o Tichico, cerca di venire subito da me a Nicopoli perché ho deciso di passare l’inverno colà», Tito 3,12). – La 2Tim, che sarebbe scritta da Roma («Onesiforo, venuto a Roma, mi ha cercato con premura, finché mi ha trovato», 2Tm 1,17), parla di una prigionia dura (1,8.12.16; 2,9; 4,6.16), di una udienza processuale già avvenuta (4,16), dell’abbandono di molti discepoli (1,15; 4,10-16).

3. Collegamento con la cronologia assoluta (sincronismi)

a. I sincronismi delle Lettere e degli Atti

Nelle lettere l’unico sincronismo è quello di 2Cor 11,32-34 in cui si nomina Areta IV: «Un suo controllo, almeno parziale, della città damascena, peraltro inglobata nella provincia romana di Siria, appare ipotizzabile solo per il periodo 37-39, quando Areta ottenne il favore dell’imperatore Caligola», (G. BARBAGLIO, Paolo, 23).
Altri sincronismi sono forniti dagli Atti: a) la carestia “che si verificò sotto l’impero di Claudio” (11,28-30); b) l’editto di espulsione dei giudei da Roma emanato dall’imperatore Claudio (18,2); c) l’incontro di Paolo con il proconsole Sergio Paolo a Cipro (13,7); d) la sostituzione del procuratore Felice con Porcio Festo (24,27), e soprattutto e) l’incontro di Paolo con il proconsole (Lucio Giunio) Gallione a Corinto (18,12).

b. Il sincronismo di At 18,12

Una iscrizione trovata a Delfi nel 1905 che parla della presenza di Gallione a Corinto nel 51-52, consente di collocare la prima visita di Paolo a Corinto in quegli anni. In base a questa data si possono in qualche modo fissare le altre, calcolando all’indietro i 14 e 3 anni ecc. di cui Paolo parla in Gal 1-2.

4. Ipotesi cronologica tradizionale

IV. Questioni particolari

a. La data della nascita di Paolo

La nascita di Paolo va collocata nel primo decennio d.C. In At 7,58, alla lapidazione di Stefano (32/34 d.C.), Paolo è chiamato, νεανιας (= giovane, e a quel tempo uno era ritenuto giovane tra i 25-35 anni. In Flm 9 (55-61 d.C.?) egli si definisce πρεσβυτης, vecchio, e cioè, ancora secondo la stima dell’epoca, oltre i 50 anni.

b. Il doppio nome

Il nome che figura costantemente nelle lettere è Παυλος, nome latino grecizzato che significa ‘piccolo’. Negli Atti Paolo è chiamato anche Σαυλος /Shaul, evidentemente a partire dal nome del re Saul che era della tribù di Beniamino, come Paolo. Il doppio nome di Paolo rientra nella consuetudine degli orientali del tempo di aggiungere, al nome latino o greco, un nome orientale.

c. Il mestiere di σκηνοποιος

Il mestiere che Paolo esercitava non si può ricavare dalle sue lettere, perché egli vi si limita a dire che fa un lavoro manuale, ma si può ricavare da Atti. Secondo At 18,3 infatti Paolo si mette a lavorare nella bottega di Aquilàs e Priscilla: essi erano σκηνοποιοι e lui faceva lo stesso mestiere. Σκηνοποιος, che significa ‘fabbricatore di tende’, è stato interpretato come: (a) fabbricatore di tende con pelo di capre cilicie [= cilicio], dal momento che Paolo veniva da Tarso di Cilicia; (b) fabbricatore di tende con cuoio: tali tende erano usate dai soldati ed erano confezionate dalla corporazione professionale dei tabernacularii; (c) fabbricatore di tende per privati (= per stare al fresco nei cortili delle case, sulla spiaggia; per passare la notte nei luoghi delle manifestazioni sportive), o anche per uso pubblico: le strade di Roma e l’intero fòro romano nei mesi estivi erano ombreggiati con tali tende.

d. Possibili contatti con Qumran

«Non è improbabile che in questo periodo [= i tre anni di Damasco] Paolo abbia subìto l’influsso degli esseni che abitavano nella zona di Damasco», J.A. FITZMYER, «The Qumran Scrolls and the New Testament after Forty Years», in Revue de Qumran 13 (1988), 611-620; cf. anche H.-W. KUHN, «The Impact of the Qumran Scrolls on the Understanding of Paul», in D. DIMANT - U. RAPPAPORT, a cura di, The Dead Sea Scrolls. Forty Years of Research (Leiden - New York 1992), 327-337.

e. La malattia e la “spina nella carne”

La malattia: «A causa di una malattia del corpo vi annunziai la prima volta il Vangelo. E quella che nella mia carne era per voi una prova non l’avete disprezzata né respinta [= con lo sputo apotropaico = ουδε επτυσατε, non sputaste] …», (Gal 4,13-14). – La spina nella carne: «Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi…», (2Cor 12,7).
Nei due testi Paolo parla della stessa cosa? Parla di una malattia cronica? l’epilessia? una malattia agli occhi? la malaria? Data la resistenza fisica di Paolo a grandi difficoltà, l’inviato di Satana non può essere piuttosto un individuo o un gruppo di avversari che si oppone all’opera apostolica di Paolo? Cf. J.J. THIERRY, «Der Dorn im Fleische (2Kor. xii 7-9)», in Novum Testamentum 5 (1962), 301-310; J.W. MCCANT, «Paul’s Thorn of Rejected Apostleship», in New Testament Studies 34 (1988), 550-572

e. La cittadinanza romana

La città greco-romana non era un indifferenziato ammasso di cittadini come le nostre città occidentali, bensì era articolata in diversi gruppi dai legami etnico-religiosi. Le famiglie erano collegate in un clan (= γενος, gens), e i clan erano organizzati in fratrìe (= φρατριαι - nb: da φρατηρ viene brother). Alla fratrìa il bambino veniva iscritto alla prima assemblea pubblica che si teneva dopo la sua nascita. Infine le fratrìe erano organizzate in tribù (φυλαι) che erano unite nel culto degli stessi dèi: ad esse ci si iscriveva ai 18 anni.
Paolo era iscritto alla tribù giudaica (φυλη) di Tarso, ma aveva anche la cittadinanza romana (At 22,25-29), privilegio raro che non si sa come la sua famiglia abbia potuto ottenere.
Quanto ai cristiani, non potendo più partecipare al culto pagano della loro tribù (φυλη), perdevano la cittadinanza. Cf. Fil 3,20: «La nostra cittadinanza è nei cieli e di là aspettiamo come Salvatore Gesù». Cf. A. ROLLA, «La cittadinanza greco-romana e la cittadinanza celeste di Filippesi 3,20», in Studiorum paulinorum congressus internationalis catholicus 1961, II (Analecta Biblica 18; Romae 1963), 75-80.

V. Paolo e la missione

1. La missione escatologica ai gentili

In Rm 11,13 Paolo si definisce ‘apostolo dei gentili’, e in Rm 15,16 interpreta quel suo apostolato in termini di servizio sacerdotale: «Mi è stata concessa da parte di Dio la grazia di essere ministro (… με λειτουργον) di Gesù Cristo tra i pagani, esercitando l’ufficio sacro (…ιερουργουντα) del Vangelo di Dio perché i pagani divengano un’offerta (προσφορα) gradita, santificata dallo Spirito Santo». Questo è da intendere alla luce delle profezie escatologiche: cf. per esempio Is 56,6-7: «Gli stranieri (…) li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera: i loro olocausti e i loro sacrifici saliranno graditi sul mio altare, perché il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli». Dunque Paolo è apostolo dei gentili per portarli alla fede e offrirli a Dio come offerta a lui gradita.
Lo schema di pensiero dei profeti era: (a) restaurazione di Israele e della sua centralità; (b) pellegrinaggio dei popoli a Gerusalemme e loro offerta; (c) compimento escatologico. Per Paolo il tempo del compimento è giunto. Il Cristo ha salvato tutti i popoli, e la predicazione evangelica è potenza con cui Dio estende a tutti la salvezza, prima al Giudeo e poi al Greco (Rm 1,16). L’annuncio salvifico ai Giudei è riservato a Pietro e agli altri apostoli, mentre quello ai Greci è compito particolare di Paolo.
La missione sia ai Giudei che ai pagani è escatologica: i profeti l’avevano annunziata per i tempi finali. Gli apostoli e, a Damasco, anche Paolo, hanno visto il Signore glorioso. Dunque è imminente quel “giorno”: «La notte è avanzata, il giorno è vicino. (…) La nostra salvezza [finale] è più vicina ora di quando diventammo credenti», (Rm 13,12). Di qui l’urgenza della missione: bisogna che Paolo compia il suo incarico prima che il Signore ritorni.

2. La strategia missionaria di Paolo

Il mondo ellenistico era pieno di predicatori e propagandisti soprattutto religiosi, ma nessuno ha concepito e realizzato una missione in base a un piano strategico come ha fatto Paolo: «They wandered, Paul progressed (Gli altri vagavano, Paolo avanzava)», così scrive P. BOWERS, «Paul and Religious Propaganda in the First Century», in Novum Testamentum 4 (1980), 316-323.
Soprattutto a partire dall’esito a lui favorevole dell’assemblea apostolica, Paolo si dedicò all’evangelizzazione programmatica dell’Oriente (= da Gerusalemme all’Illirico); poi, intorno al 55/56, quando a Corinto scrive Rom, sposta l’obiettivo sull’Occidente, «non trovando più spazio in quelle regioni». Roma sarà stazione intermedia, da dove partire per la Spagna: «Da Gerusalemme e dintorni fino all’Illiria ho portato a termine la predicazione del Vangelo di Cristo. (…) Ora, non trovando più campo d’azione in queste regioni, e avendo già da parecchi anni un vivo desiderio di venire da voi, quando andrò in Spagna, spero, passando, di vedervi, e di essere aiutato da voi per recarmi in quella regione» (Rm 15,19ss).
Nello svolgimento dell’incarico missionario, Paolo vede se stesso nel ruolo di fondatore di chiese: «Mi sono fatto un punto d’onore di non annunziare il Vangelo se non dove non è giunto ancora il nome di Cristo per non costruire su un fondamento altrui» (Rm 15,20). Dopo la fondazione, pur continuando a seguire la vita delle chiese, spesso a distanza, non si sentiva responsabile della loro completa evangelizzazione: le chiese avrebbero prodotto evangelisti e missionari per il resto della regione.
Il rapporto tra le chiese era quello della comunione e condivisione (κοινωνια, κοινωνεω). Avendo ricevuto dalla chiesa-Madre di Gerusalemme i beni spirituali /…τοις πνευματικοις (Rm 15,27), le nuove chiese devono /οφειλεται εισιν, οφειλουσιν (Rm 15,27) condividere con essa i beni materiali /… εν τοις σαρκικοις, raccolti nella colletta.

3. Luoghi, strumenti, atteggiamenti della missione di Paolo

a. Luoghi e strumenti della missione

Raramente Paolo deve avere preso la parola nella piazza del mercato (αγορα), come avvenne secondo At 17,17, perché non aveva l’autorità di farsi ascoltare. Più frequentemente ha fatto uso della sinagoga (Atti, passim; 2Cor 11,24, dove parla dei 39 colpi che venivano inflitti dai giudei). In At 19,9s è detto che Paolo affittò per due anni la scuola di un certo Tiranno, a Efeso. Il codice D aggiunge «… dall’ora quinta alla decima». In 1Tess 2,9 Paolo dice di aver lavorato notte e giorno e annunziato il Vangelo: dunque ha evangelizzato anche nella bottega dove lavorava. Molte volte infine sia Atti che le lettere menzionano le case private come luogo di attività apostolica e di culto: cf. At 20,20; 17,5; 18,7 ecc.; 1Cor 16,19-20; Flm 2; Rm 16,5.23 ecc. Erano motivo d’incontro il comune mestiere o la comune nazionalità. Per questo Paolo deve avere preferito il luogo di lavoro e la sinagoga. Inoltre la casa privata non esponeva il Vangelo al giudizio superficiale e non controllabile dei passanti nella pubblica piazza, ma permetteva un uditorio scelto e preparato. Cf. S. K. STOWERS, «Social Status, Public Speaking and Private Teaching: The Circumstances of Paul’s Preaching Activity», in Novum Testamentum 26 (1984), 59-82; e G. BIGUZZI, Paolo Comunicatore, 37-43.
Rientravano nell’attività apostolica di Paolo: viaggi, lettere per prolungare e continuare il contatto, invio di collaboratori, e costituzione di responsabili locali.

b. Atteggiamenti di Paolo nella missione

Nelle lettere Paolo ci ha lasciato molte riflessioni sugli atteggiamenti del suo spirito circa il lavoro apostolico. Due esempi:

Indicazioni bibliografiche per la figura, le lettere e il pensiero di Paolo

Indicazioni bibliografiche per la concezione e l’attività missionaria di Paolo

Per l’evento di Damasco


Per altri articoli e studi del prof.Giancarlo Biguzzi o sulle lettere di S.Paolo presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici


[Introduzione all'epistolario paolino]