Il Cristo Capo cosmico e la Chiesa suo Corpo


Indice


( I ) Lettera ai Colossesi

1. Destinatari e circostanze

a. Storia della città e sua collocazione geografica

Colosse si trova nella valle del fiume Lico, affluente del Meandro, nella Frigia del sud, in Asia Minore. Nel sec. iv a.C. era una città di un certo rilievo, trovandosi sulla strada commerciale che congiungeva l’occidente con l’oriente. Gli storici greci dei secoli v-iv definiscono ‘grande’ la città di Colosse: «Oltrepassando una città dei Frigi chiamata Anawa e un lago da cui si trae sale, (Serse) giunse a Colosse, grande città di Frigia, dove il fiume Lico scompare precipitando in una voragine, e poi, ricomparendo ad una distanza di cinque stadi, sbocca anch’esso nel Meandro», (Erodoto, Storie, 7,30); «Superato il Meandro, Ciro continua la marcia attraverso la Frigia (…), arriva a Colosse, grande città, fiorente, con molti abitanti» (Senofonte, Anabasi, 1,2,6). Poi la città era decaduta per lo spostamento delle vie di comunicazione e la fondazione più a valle delle città di Laodicea e di Gerapoli. – Nel 129 a.C., con gran parte della Frigia e con altre regioni, Colosse divenne parte della provincia romana di Asia, gravitando sulla città di Efeso, distante 180 km circa.

b. La comunità cristiana di Colosse

La comunità non era stata fondata da Paolo, bensì da Epafra (1,7), (abbreviazione di Epafrodito, ma da un Epafrodito probabilmente diverso da quello nominato in Fil 2,25; 4,18). Epafra era comunque collaboratore di Paolo (cf. 1,7: «… come avete appreso da Epafra, nostro caro compagno nel ministero, che è fedele servitore di Cristo al posto nostro / υπερ ημων»), così che Paolo considera la chiesa di Colosse una chiesa ‘paolina’ e non ha esitazione alcuna ad intervenire nella sua vita. – La comunità era composta di pagano-cristiani (cf. 1,21: «Voi un tempo eravate stranieri e nemici», cf. anche 1,27; 2,11-13), ed era organizzata attorno almeno a due chiese-domestiche, quella di Ninfa nominata in 4,15, e quella di Filemone menzionata in Flm 2. La comunità colossese era in stretti rapporti con quelle di Laodicea (cf. lo scambio delle lettere che Paolo chiede alle due chiese in 4,16) e di Gerapoli (4,13), anch’esse fondate da Epafra e mai visitate da Paolo: cf. «… quale dura lotta io devo sostenere per voi, per quelli di Laodicea e per tutti coloro che non mi hanno mai visto di persona», 2,1.

c. Circostanze in cui fu scritta la lettera

Quando scrive ai Colossesi, Paolo è in carcere (4,3.10.18). Epafra gli ha fatto visita per informarlo sulla situazione della comunità colossese (1,4, e 1,8). Paolo allora scrive la lettera soprattutto per difendere la comunità dall’eresia che la minaccia, e affida la lettera a Tichico (4,7-8) e Onesimo (4,9).

2. Contenuto della lettera e divisione

Nella lettera si intrecciano parti epistolari e di argomentazione retorica (secondo Aletti 1993, it 1994), come segue: Prescritto epistolare (1,1-2), esordio che si conclude con la partitio o annuncio delle parti (1,3-23), probatio in tre argomentazioni (1,24-2,5; 2,6-23; 3,1-4,1), peroratio (4,2-6), e conclusione epistolare (4,7-18).

Prescritto epistolare (1,1-2)

Ringraziamento e ‘prayer report’ con funzione di esordio e di partitio (1,3-23)

L’esordio termina con una frase che introduce i temi di tutta la lettera. In termini retorici questo si chiama “partitio”. In pratica, dopo avere affermato il primato del Cristo nell’inno (1,15-20), nei vv. 1,21-23 Paolo parla dei tre argomenti che nella lettera svilupperà in ordine inverso:

  1. La chiamata dei Colossesi alla santità (vv. 21-22): «… anche voi eravate stranieri e nemici con la mente intenta alle opere cattive che facevate, ma ora egli vi ha riconciliati per mezzo della morte del suo corpo di carne, per presentarvi santi, immacolati e irreprensibili al suo cospetto…». Nella lettera lo sviluppo di questo tema sarà contenuto in 3,1-4,1.
  2. La necessità per i Colossesi di essere fedeli al Vangelo ricevuto (v. 23a-b): «… purché restiate fondati e fermi nella fede e non vi lasciate allontanare dalla speranza promessa nel Vangelo che avete ascoltato il quale è stato annunziato ad ogni creatura sotto il cielo». Nella lettera lo sviluppo di questo tema sarà contenuto in 2,6-23.
  3. La diakonìa che Paolo ha ricevuto di annunciatore del Vangelo o, come è detto in 1,26.27; 2,2; 4,3, del μυστηριον (v. 23b): «… Vangelo di cui io, Paolo, sono diventato ministro». Nella lettera questo tema sarà sviluppato per primo in 1,24-2,5.

Prima prova: La lotta di Paolo per il Vangelo (1,24-2,5)

1,24-2,3: Dopo gli anticipi cristologici dell’esordio, ci si aspetterebbe che Paolo parli del Cristo, e invece Paolo sorprendentemente parla delle sue fatiche apostoliche: egli soffre nella sua carne e lotta, per annunciare ad ogni uomo il mystèrion

Tutto questo ha una funzione retorica: le sofferenze e le lotte di Paolo sono come una prova tratta dai fatti (= narratio). Provano quanto grande sia il valore del Vangelo che Paolo annuncia: «Se Paolo sostiene una tale lotta, se passa attraverso tali tribolazioni, non è forse perché ne va del Vangelo e della sua capacità di strutturare l’esistenza dei suoi destinatari?

2,4-5: poi, «viene detto qual è l’urgenza della lotta di Paolo: perché a Colosse la verità del Vangelo è minacciata» (ALETTI, Colossesi, 119).

Seconda argomentazione: i Colossesi devono essere fedeli al Vangelo (2,6-23)

[Con la seconda argomentazione, dunque, Paolo cerca di affrontare l’alternativa davanti alla quale si trovano i Colossesi, e di orientare la loro scelta nel senso di restare fedeli al Vangelo ricevuto. Il punto in discussione è a chi o a che cosa sentirsi legato e sottomesso: agli elementi del mondo (probabilmente i cibi e le bevande di cui si parla al v. 2,16.21), o al Cristo? lui che ha la pienezza e la comunica ai credenti, così che essi, da lui già fatti risorgere, in lui hanno già ricevuto tutto così che non hanno bisogno di dedicarsi ad alcuna di quelle pratiche ascetiche o cultuali che vengono loro suggerite, né di sentirsi soggetti alle Potenze.]

Terza argomentazione: L’adesione al Cristo va espressa in tutta l’esistenza (3,1-4,6)

Dopo aver detto ai Colossesi che devono respingere le pressione dei maestri eterodossi, Paolo estende l’esortazione a tutte le dimensioni dell’esistenza cristiana: il motivo è che il Cristo ha invaso e coinvolto tutta la vita cristiana. L’ ουν che introduce la parte esortativa anche qui rivela il collegamento che c’è tra il credere e il vivere. Non è solo questione di derivazione (ciò che si crede determina il come si vive), ma anche di inevitabile irradiazione: nel modo di vivere non può non manifestarsi ciò che si è ricevuto e ciò che si è diventati.

Conclusione epistolare: Notizie e saluti (4,7-18)

Notizie su Tichico e Onesimo (4,7-9) probabilmente latori della lettera; saluti dei collaboratori di Paolo: Aristarco, Marco, Gesù Giusto, Epafra, Luca, Dema (4,7-14); saluti di Paolo ai Laodicesi con cui i Colossesi devono scambiarsi le relative lettere e messaggio per Archippo (4,15-17). Saluto autografo (4,18a) e augurio finale (4,18b).

3. Lettura di testi

a. «Completo le sofferenze del Cristo nella mia carne» (Col 1,24)

Per molte versioni e commentatori Col 1,24 sembra affermare che le sofferenze affrontate dal Cristo per la Chiesa siano incomplete e che Paolo debba aggiungere ad esse qualche cosa. Cf. la versione CEI («… completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo», e di “The Jerusalem Bible” (London 1967): «It makes me happy … in my own body to do what I can to make up all that has still to be undergone by Christ for the sake of his body, the Church». – Per Aletti la chiave di soluzione è nella fedeltà all’ordine delle parole del testo greco: bisogna dunque collegare sia «nella mia carne / εν τη σαρκι μου», sia «per la chiesa» sempre con le sofferenze di Paolo. In altre parole, nel versetto che dice: ανταπληρω τα υστερηματα των θλιψεων του Χριστου εν τη σαρκι μου υπερ του σωματος αυτου ο εστιν η εκκλησια, le sofferenze incomplete sono quelle che Paolo soffre, e che egli soffre nella sua carne. In altre parole ancora, l’interpretazione di Aletti chiede di intendere il του Χριστου come un genitivo aggettivale: il genitivo non è un genitivo soggettivo (Le sofferenze che Cristo soffre), ma le sofferenze cristologiche: simili a quelle del Cristo, sofferente per lui, con la forza che egli comunica ogni giorno a Paolo.
«Le sofferenze del Cristo sono oramai finite: Col insiste troppo sulla pienezza, sulla supremazia totale e attuale del Cristo glorificato, al quale non manca niente, per poterla dimenticare. Non dice né che il Cristo non abbia compiuto tutto ciò che doveva compiere, né che non abbia sofferto abbastanza, così che l’apostolo debba portare a compimento le sofferenze redentrici per la chiesa, perché allora la mediazione del Cristo non sarebbe perfetta, mentre la lettera continuamente dire il contrario. Ciò che ancora manca, ciò che Paolo deve condurre a termine, è il proprio itinerario, che egli chiama “tribolazioni del Cristo nella mia carne”, e che riproduce quello del Cristo, nel suo modo di vivere e di soffrire mediante e per l’annuncio del vangelo e per la Chiesa (…). L’apostolo non intende dire che egli aggiunge qualcos’altro all’opera mediatrice e salvifica del Cristo, perché tutta la lettera ricorda ai Colossesi che c’è un solo mediatore» (ALETTI, Colossesi, 122)

b. L’adorazione degli angeli e la ricerca di visioni (Col 2,18)

μηδεις υμας καταβραβευετω θελων εν ταπεινοφροσυνη και θρεσκεια των αγγελων α εωρακεν εμβατευωνPoiché i termini βραβευς e βραβειον, imparentati con κατα-βραβευειν significano “arbitro” e rispettivamente “premio assegnato dall’arbitro”, si deve pensare che quello di Col 2,18 sia un contesto di rivalità: alcuni credenti, come se fossero i giudici in materia di vita cristiana e come se si trattasse di una gara, giudicano gli altri inferiori in base alla pratica o alla non-pratica di certe regole alimentari e cultuali. – Pur professando di cercare l’umiltà (εν ταπεινοφροσυνη), contemporaneamente e contraddittoriamente, quelle persone vanno in cerca di (θελων εν) qualcosa che invece li distingue e li dovrebbe mettere al di sopra degli altri. Una prima cosa di cui andavano in cerca era la θρεσκεια των αγγελων.
Nell’espressione “θρεσκεια των αγγελων” si usava intendere il genitivo θρεσκεια των αγγελων come un genitivo oggettivo (adorazione degli angeli, nel senso di adorazione data agli angeli), ma che molti ora si orientano ad intendere come genitivo soggettivo (adorazione che gli angeli in cielo rendono a Dio). «L’espressione indica qui, molto probabilmente, che non si tratta di un culto reso agli angeli (Col avrebbe usato allora i termini “potenze” “autorità”), ma dell’adorazione di Dio da parte dei suoi angeli. Certo, molti commentatori pensano il contrario, per esempio E. Lohse, F.F. Bruce, E. Schweizer. Ma per un numero crescente di esegeti, per esempio F.O. Francis, W.A. Weeks, A.J. Blandstra, T.G. Sappington, l’espressione non rimanda a un culto in onore degli angeli, non attestato nel giudaismo e nelle comunità cristiane dell’epoca, ma piuttosto a quello reso dagli angeli stessi davanti a Dio e contemplato dai visionari di Colosse» (ALETTI, Colossesi, 168, che, circa il desiderio di partecipare al culto reso dagli angeli a Dio, in nota cita Apoc Sofonia, 4QSirSabb, Apoc Abramo 17; 1QH 11,13; Asc. Isaia 7,37; 8,17; 9,28.31.33 9,34.37.42).
L’espressione α εωρακεν εμβατευων veniva interpretata come se parlasse dei riti di iniziazione delle religioni misteriche (= «… le cose che ha visto al momento della sua iniziazione»), ma ora si tende a interpretarla in senso visionario-apocalittico come se dicesse: «… continuando a scrutare / compiacendosi delle cose che ha veduto nelle sue pretese visioni».
«Col 2 mostra che queste pratiche dovevano costituire, secondo i maestri colossesi, un mezzo indispensabile per avere delle visioni, - in altri termini per essere ammessi al santuario celeste e partecipare al culto reso dagli angeli. Questo viaggio verso il cielo doveva a sua volta essere considerato come primizia della salvezza. Non si spiega altrimenti l’accentuazione posta da Col sull’essere-con-Cristo di ogni battezzato fin d’ora e senza visione, precisamente per dire il contrario di ciò che dicevano i maestri colossesi. Se abbiamo già ricevuto tutto in Cristo, perché abbandonarsi a pratiche che si ritiene favoriscano e preparino la comunione con Dio, ma che in realtà negano gli effetti già presenti della mediazione del Cristo?» (ALETTI, Colossesi, 180-181)

4. L’eresia colossese

a. I maestri colossesi e il compromesso

L’eresia che stava infiltrandosi nella chiesa di Colosse non è descritta nella lettera ed è quindi da dedurre dalla risposta di Paolo: cosa difficile perché, fra l’altro, tra quelli che si possono chiamare i “maestri colossesi” e la nostra lettera ci sono le mediazioni di Epafra (potrebbe aver inteso il fenomeno a modo suo) e di Paolo: tra l’altro non si sa se nella lettera Paolo usi la terminologia della setta o una sua terminologia. – Quello dei maestri di Colosse sembra essere stato un tentativo non di sostituire il Vangelo di Cristo, ma di integrarlo con elementi giudaici (la lettera infatti parla di celebrazione di sabati e feste, 2,16; e di circoncisione, 2,11) e, secondo parecchi commentatori, anche con elementi pagani. Si trattava dunque di un movimento sincretistico, probabilmente esteso anche al di là della cittadina di Colosse.

b. Dottrina e prassi dei maestri colossesi

L’eresia aveva una sua dottrina anche se di essa si riesce a ricostruire poco sia per la scarsezza dei dati forniti dalla lettera, sia per la difficoltà dei testi che ad essa sembrano alludere. Sembra che secondo essa la mediazione tra Dio, il cosmo e il mondo umano fosse condizionata da Potenze, Principati, ecc. Esseri celesti superiori all’uomo avevano in quell’insegnamento un ruolo importante forse nell’introdurre all’adorazione celeste e nel far conoscere i disegni divini, nel farli eseguire, e nel punire i trasgressori. Non si comprenderebbe altrimenti il modo in cui Col 1,15-20 e Col 2,9.15 sottolineano il primato del Cristo a scapito degli esseri celesti. – È chiaro che l’autore di Col ha percepito i pericoli di una tale dottrina per la cristologia e di conseguenza per la soteriologia. Non si può, a partire da Col, dire se i maestri dichiarassero il Cristo inferiore alle potenze o, al contrario, lo ponessero al di sopra. Si può pensare che, anche dopo la resurrezione, il Cristo avesse una gloria inferiore alla loro, perché gloria di un uomo, di un essere corporeo, e perché le potenze spirituali erano da sempre davanti al trono divino. O potevano magari ammettere il primato del Cristo, ma lasciare agli Esseri celesti un potere residuo, senza rendersi conto che ciò intaccava la mediazione salvifica del Cristo» (ALETTI, Colossesi, 179-180).
I maestri colossesi insegnavano, poi, una prassi ascetica e cultuale che, secondo loro, consentiva negativamente di neutralizzare la minaccia rappresentata dal giudizio attuato da quelle Potenze, e positivamente di entrare in comunione con loro e con il loro culto celeste, attraverso visioni. A tutto questo erano finalizzati riti di purificazione, osservanze di tabù («… perché lasciarvi imporre comandamenti come: ‘Non prendere!’, ‘Non gustare!’, ‘Non toccare!’» (2,21), o astinenze («Nessuno vi condanni più in fatto di cibo o di bevanda…»), o festività («…o riguardo a feste, noviluni e a sabati», 2,16). I termini con cui Paolo chiama queste cose sono: φιλοσοφια, 2,8 (= speculazioni dogmatiche); θρησκεια των αγγελων 2,18 (= culto degli angeli); α εορακεν εμβατευων 2,18 (= esperienze estatiche?); εν αφειδια σωματος, 2,23 (= austerità corporale).

c. Lo sfondo culturale della dottrina colossese

Quando si cerca di delineare i contorni della dottrina combattuta in Col cominciano le difficoltà: il carattere generico ed ellittico del vocabolario rende difficile stabilire l’origine e la natura della “filosofia” colossese.

«L’ambiente vitale delle pratiche ascetiche e del culto degli angeli di cui parla Col 2 è chiaramente giudaico, e più probabilmente apocalittico. Ciò non significa che i maestri fossero di origine giudaica o cristiani giudaizzanti, anzitutto perché in Col è del tutto assente la problematica della legge» Cf. ALETTI, Colossesi 16-22; 179-181.

5. La risposta di Paolo

a. La risposta critica di Paolo

La dottrina dei maestri colossesi portava, in pratica, a negare il ruolo unico del Cristo sia nella creazione che nella redenzione. Non bastava affermare che egli era il più grande dei mediatori, e bisognava invece rivendicare, insieme al primato, anche l’unicità. – Ma, anzitutto Paolo sottopone a critica la dottrina e la prassi dei sincretisti: si tratta di insegnamenti umani (2,8.22) che porterebbero i Colossesi indietro («…come se viveste ancora nel mondo», 2,20) e che non servono se non a soddisfare la carne (= l’uomo non redento) (2,23). In ogni caso si tratta di cose destinate a scomparire (2,22): sono l’ombra, mentre solo il Cristo è la realtà (2,17).

b. La risposta costruttiva di Paolo

Paolo, poi, afferma con fermezza che la pienezza della divinità non è da spartire tra molti mediatori, ma è tutta nel Cristo. Cf. 1,19: «Piacque a Dio di fare abitare in lui tutta la pienezza (πληρωμα)»; e 2,9: «È nel Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità». Gli Angeli e le Potenze sono stati da Lui vinti, privati della loro forza e portati dietro di sé, nel suo corteo trionfale, come principi ridotti in servitù (2,15), e di essi ora Egli è il Capo (κεφαλη, 2,10).
Paolo dunque afferma l’assoluta unicità del Cristo. Come preesistente, il Cristo è mediatore della creazione (1,15-16); come crocefisso, risorto e glorificato è autore, attraverso il suo sangue, di riconciliazione (1,20) e redenzione universale: per tutto, per quello che è sulla terra e per quello che è nei cieli (1,20). Egli è dunque Capo del cosmo (2,10) e della chiesa suo corpo (1,18.24). Da un tale Capo «tutto il corpo riceve sostentamento e coesione», (2,19). Coloro che sono stati circoncisi con la circoncisione fatta non da mano umana e che sono morti con il Cristo nel battesimo, sono stati liberati dalle Potenze (2,11.12; 2,20). Ora dunque non debbono sottomettersi a quelle Potenze, ma restare stretti al Cristo, loro capo (2,18-19).

c. La significativa variazione nell’insegnamento escatologico di Col

Per Col chi nel battesimo è morto con il Cristo, con lui è anche già risorto (2,12). E chi è risorto con il Cristo non pensa alle cose della terra, ma a quelle «di lassù» (3,1-3). – In queste affermazioni di Col devono essere notate due particolarità: (a) la formulazione spaziale dell’escatologia (‘quaggiù’ significa ‘non-escatologico’; ‘lassù’ significa ‘escatologico’), più che temporale (‘questo tempo’ = non-escatologico; il tempo che sarà inaugurato dalla parusìa = escatologico); (b) la sottolineatura del ‘già’, più che quella del ‘non ancora’. Secondo altre lettere paoline infatti il credente per ora partecipa totalmente solo alla morte del Cristo. In Rm 6,3, per esempio, il battezzato è soltanto morto con Cristo, non anche “già” risorto, se non nella dimensione etica, dovendo camminare in novità di vita.
La differenza tra Col secondo cui il battezzato è “già” risorto con Cristo mentre per Rm 6 non lo è ancora, è richiesta dalla logica del discorso: contro chi va in cerca di visioni e di liturgie celesti, all’Autore di Col conviene appunto accentuare il “già”, per dire che il battezzato ha tutto nel Cristo e non ha bisogno di andare in cerca di surrogati. Per il resto, «chiaramente l’autore non intende dire che i credenti hanno già il corpo glorioso che la resurrezione assicurerà loro alla fine dei tempi; d’altra parte anche Col distingue tra il “già” e la manifestazione finale dove i credenti saranno nella gloria con il loro salvatore» (ALETTI, Colossesi, 150)

6. Non αποκαλυψις, non ευαγγελιον, ma μυστηριον

a. Non ευαγγελιον, non αποκαλυψις

Ciò che colpisce è la ripetizione in Col 2-4 del termine μυστηριον che sostituisce, sembra senza alcuna ragione, quello di Vangelo che ricorreva in 1,5 e 1,23. – Tra l’altro per la notificazione del ‘mistero’ viene usato il verbo φανεροω (manifestare) e non il vocabolario della rivelazione (αποκαλυπτω, αποκαλυψις), che invece ricorre nel parallelo di Ef 3,3.5 («… per rivelazione / κατα αποκαλυψιν, mi è stato fatto conoscere il mistero di cui più sopra vi ho scritto brevemente (…). Questo mistero non è stato fatto conoscere agli uomini delle precedenti generazioni come al presente è stato rivelato / απεκαλυφθη, ai suoi santi apostoli e profeti ecc.»). Dopotutto, senza rivelazione, nessuno può conoscere i misteri divini. – Probabilmente αποκαλυψις è un termine evitato perché i maestri colossesi inducevano a desiderare le visioni e le rivelazioni, e la lettera vuole dimostrare che le visioni sono inutili, poiché al momento del battesimo i credenti hanno già ricevuto tutto (ALETTI, Colossesi, 119, 125-126).

b. Non ευαγγελιον ma μυστηριον

Gli elementi che configurano il mistero sono: i. la manifestazione a Paolo (e agli altri apostoli); ii. l’annuncio che comporta un lungo processo perché è fatto di esortazioni e di istruzioni (…); iii. l’oggetto dell’annuncio che è il Cristo e non una verità astratta; iv. l’universalità dei destinatari senza riserve né discriminazioni, anche se il mistero è annunciato soprattutto ai non-giudei,; v. il fine salvifico detto in termini di perfezionamento (per rendere perfetto…), e vi. un elemento sorprendente: fino a Gesù ad alcuni era tenuto nascosto, ora invece è rivolto a tutti i popoli.
Il mistero, non solo è annunciato alle nazioni che non lo attendevano, ma resterà tra di loro come le rivelazioni anticotestamentarie erano rimaste in Israele. Col adopera il linguaggio che per il futuro e per un pagano viene usato in Dan 2,29-30: «O re [= Nabucodonosor], i pensieri che ti sono venuti in mente riguardano il futuro e Colui che svela i misteri (μυστηρια) ha voluto svelarti ciò che dovrà avvenire. Se a me è stato svelato questo mistero (το μυστηριον τουτο), non è perché ecc.». Mentre però per Dan 2 la manifestazione dei misteri è attesa per il futuro, in Col mistero designa la morte in croce del Cristo e la sua resurrezione, che sono nel passato. Poi come in Rm 11,25; 1Cor 2,1.7; 4,1; 13,2; 14,2; 15,51, “mistero” è rivelazione di ciò che non è stato annunciato dai profeti, né consegnato nelle Scritture. E questo si applica precisamente all’inatteso disegno di Dio che ora viene rivelato: le nazioni sono destinatarie del Vangelo senza che debbano diventare membra di Israele. Un tale Vangelo non è screditato per il fatto di non essere predetto nelle Scritture, perché la Scrittura stessa, con la parola del profeta Daniele, riconosceva che non avrebbe annunciato tutto quello che riguarda la fine dei tempi, (adattamento da ALETTI, Colossesi, 135, 137).

7. Autenticità, tempo e luogo di composizione

a. L’autenticità di Col: argomentazioni

L’autenticità della lettera fu negata la prima volta da E. Mayerhoff nel 1838 che vi trovò una teologia non-paolina e una battaglia contro eresie del sec. ii d.C., e ora molti sono gli autori secondo i quali Col non è stata scritta da Paolo.
Argomenti contro l’autenticità sono anzitutto il vocabolario non-paolino: molti termini di Col non sono mai usati altrove da Paolo, mentre mancano termini caratteristici di Paolo come ‘giustizia’, ‘giustificazione’, ‘Legge’, ‘libertà’, ‘salvezza’, ‘vanto’, ‘rivelazione’ ecc. W.G. Kümmel, però, fa notare che questo accade anche in altre lettere certamente autentiche. In secondo luogo, sarebbe contro l’autenticità lo stile non-paolino: frasi lunghe, ridonanti, scritte in stile liturgico; cumulo di genitivi, molte frasi relative, infinitive, participiali; molti sinonimi. – Altrettanto è da dire della teologia che, anch’essa sarebbe non-paolina. L’argomento più forte è quello dell’ampiezza cosmica del ruolo del Cristo: in Col il Cristo non solo ha redento gli uomini, ma ha vinto anche le Potenze cosmiche, e del cosmo è divenuto capo. La chiesa, poi, in Col è quasi esclusivamente pensata come chiesa universale (e non più come comunità locale), ed è definita come corpo del Cristo-Capo. L’escatologia, infine, come si è visto, non è più pensata come futura bensì come presenziale (= chi è battezzato è già morto e risorto con il Cristo, 2,12); e non è pensata come escatologia temporale, bensì spaziale («… cercate le cose di lassù, non quelle della terra», 3,1ss).

b. L’argomento ambivalente del terremoto

Dagli Annali di Tacito (14, 27,1), secondo cui un terremoto nel 60-61 d.C. distrusse la vicina Laodicea («In quello stesso anno una delle città famose dell’Asia, Laodicea, distrutta dal terremoto, non ebbe bisogno del nostro aiuto [= di Roma], ma si risollevò coi propri mezzi»), si può concludere che anche Colosse sia stata distrutta nel 60-61. E poiché Plinio il Vecchio, descrivendo verso il 70 la valle del Lico non menziona Colosse, se ne può concludere che la città non fu ricostruita subito. – «Questo terremoto è stato utilizzato dalla critica in direzioni opposte, sia per provare l’autenticità di Col, perché allora Paolo dovette scriverla prima della distruzione della città, sia per sostenere il carattere pseudeprigrafico, perché indirizzare una lettera come se venisse da Paolo a una comunità già scomparsa, che non poteva quindi protestare contro la non autenticità, costituisce il metodo migliore per accreditare una lettera come autentica. Potendo, quindi, essere usato nei due sensi, l’argomento del terremoto non è decisivo» (ALETTI, Colossesi, 15). Tuttavia, se l’argomento del terremoto ha valore (non necessariamente fu distrutta anche Colosse dal terremoto che distrusse Laodicea), è a favore dell’autenticità con più naturalezza che non per la tesi della non autenticità.

c. Prima soluzione: Col non autentica

Non Paolo, ma un discepolo di Paolo ha scritto Col, per combattere una nuova dottrina che si stava diffondendo in epoca successiva alla morte di Paolo. Quel discepolo si è richiamato all’autorità di Paolo e ha preso dalla lettera a Filemone i nomi di Epafra, Aristarco, Marco, Luca, Dema, e soprattutto quelli di Archippo (cf. Col 4,17, con Flm 2) e di Onesimo (cf. Col 4,9, con Flm 12).

d. Seconda soluzione: autenticità parziale di Col

Una reale lettera di Paolo sarebbe stata rielaborata più tardi in funzione antieretica ad opera per esempio dell’autore tardivo della lettera agli Efesini, la quale infatti ha molti versetti in comune con quella ai Colossesi. Oppure Paolo avrebbe incaricato di scrivere la lettera un segretario il quale ha segnato la lettera col suo proprio stile, il suo vocabolario preferito, la sua teologia. In quest’ultimo caso la lettera sarebbe contemporanea a Paolo e da lui ispirata e voluta.

e. Terza soluzione: Col è autentica

Il linguaggio non sarebbe non-paolino, ma rivelerebbe il tentativo fatto da Paolo di combattere gli eretici con le loro stesse armi e il loro stesso linguaggio. L’eresia colossese avrebbe costituito per Paolo uno stimolo per indagare ulteriormente il mistero di Cristo e della chiesa, e questo spiegherebbe l’evoluzione teologica di Col rispetto alle altre lettere. D’altra parte nelle altre lettere ci sono le premesse per gli sviluppi di Col, sia nel campo cristologico (ruolo cosmico del Cristo in 1Cor 8,6; Fil 2,9-11; menzione delle Potenze cosmiche in Gal 4,3.9, e 1Cor 2,8), sia nel campo ecclesiologico (la chiesa è detta ‘corpo’ in Rm 12,4s, 1Cor 12,12ss; ‘corpo di Cristo’ in 1Cor 12,27), sia nel campo escatologico (anche in Col c’è escatologia futura, cf. 3,4: «Quando il Cristo si manifesterà, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria»; e quindi c’è escatologia temporale e non solo spaziale).
A favore della paolinicità di Col sta per esempio la strategia retorica di Col: i problemi della comunità cui viene rivolta la lettera sono bensì affrontati, ma l’Autore tende ad allargare la prospettiva del discorso, per sottrarre la discussione al contingente, per dare una risposta totalizzante, sottraendosi alla pura polemica e approfittando per proporre una catechesi positiva. «Paolo si preoccupa poco di sviluppare e di entrare nella mentalità di coloro che professano idee da lui giudicate nocive (…). Descrive in modo abbastanza sfumato o schematizzato l’errore che stigmatizza (…). L’apostolo cerca sempre di ampliare il dibattito, perché le sue osservazioni possano applicarsi a parecchie situazioni e ambienti di vita. Dunque a livello retorico, l’ipotesi pseudepigrafica resta fragile per Col, dove il modo di ragionare è tipicamente paolino» «L’incapacità in cui si trovano i critici di ricostruire esattamente lo sfondo religioso e culturale dell’errore dipende meno dalla loro mancanza di sagacia che dal modo in cui procede l’autore, il quale amplia il campo delle sue osservazioni perché possano valere in situazioni diverse. È per motivi retorici che l’autore resta discreto sull’origine o l’ambiente dell’errore che combatte»; «La maniera in cui l’autore amplia senza sosta i problemi per renderli universali spiega anche perché sia difficile ed esegeticamente poco interessante ricostruire con esattezza l’ambiente vitale dell’‘eresia’ nata o trapianta a Colosse» (ALETTI, Colossesi, 177, 179, e 231)
Una variante di questa opinione è quella secondo cui, prima di scrivere una lettera, Paolo ne discuteva la disposizione e il contenuto con i suoi collaboratori. Poi magari affidava a qualcuno il compito di farne la stesura (E. Schweizer, W.H. Ollrog, J.-N. Aletti). La novità di situazioni e di problemi posti dalla chiesa di Colosse da una parte, e l’ipotesi di un’elaborazione collettiva di Col dall’altra, spiegherebbero gli elementi nuovi ed inconsueti della lettera. «Essendosi evoluta in questi ultimi anni la nostra comprensione dell’autenticità, si può non solo affermare che la lettera è paolina ma che, molto probabilmente, è di Paolo» (ALETTI, Colossesi, 234)

f. Tempo e luogo di composizione

Siccome Paolo dice di essere in catene (4,3.18) si pone il problema della città in cui Paolo era carcerato quando scrisse (La questione accomuna le quattro lettere ‘della prigionia’ che sono: Col, Fil, Flm, Ef). – Per Col si sono fatte, come per Fil, le ipotesi di Cesarea di Palestina (data = 58-60, e di Roma (data = 61-63): per tali due città l’argomento principale in contrario è quello della lontananza da Colosse per cui non si spiegano bene i viaggi fatti o quelli messi in programma. Si è fatta, infine, l’ipotesi di Efeso, con le difficoltà che una prigionia efesina non è documentata, e che Col è troppo diversa da 1-2 Cor, da Rm, e da Gal che furono scritte appunto da Efeso.
Se si accetta la non-autenticità di Col, la prigionia di Paolo sarebbe fittizia e non sarebbe quindi da spiegare. La data dovrebbe essere posta tra 80 e 100 d.C., prima della composizione della lettera agli Efesini.

Indicazioni bibliografiche per Col

Commentari
E. LOHMEYER (1928), C. MASSON (1950), M. DIBELIUS - H. GREEVEN (31953), P. BENOIT (1959), F. MUSSNER (1966), N. HUGEDÉ (1968), E. LOHSE (1971, it 1979), J. ERNST (1974), E. SCHWEIZER (1976), G.B. CAIRD (1976), H. CONZELMANN (1976), J. GNILKA (1980), A. LINDEMANN (1983), F.F-. BRUCE (1984), R. FABRIS (21990), M.J. HARRIS (1991), J.-N. ALETTI (1993, it 1994).

Monografie

( II ) Lettera a Filemone

1. Destinatario o destinatari della lettera

a. L’ipotesi di J. Knox (1935)

J. Knox (Philemon among the Letters of Paul, Chicago 1935), seguito per esempio da H. Greeven (Theologische Literaturzeitung 1954, 373-378), P. Harrison (Anglican Theological Review, 1950, 268-274), S. Winter (New Testament Studies 1987, 1-15), e soprattutto da L. Cope (Biblical Research 1985, 45-50), ha sostenuto che destinatario della lettera è l’Archippo menzionato al v. 2 e in Col 4,17. – Cope ripropone la tesi di Knox in questi termini: «In favor of Philemon (= come padrone di Onesimo) is the natural presumption that the first person mentioned in the address is the subject of the content of the letter. That is the only foundation for the Philemon hypothesis. In favor of Archippus, however, stand three factors. Grammatically, Archippus is the correct antecedent for the singular pronoun “you”; and no other indication suggestions a reason for suspension of the rule. Second, the connection with Col 4,17-17 suggests that not only the company with Paul, but also now the Colossians know of a diakonia that Archippus is called to perform. In the only other reference to Archippus that we know of, Philemon, there is a barely veiled request for the freeing of Onesimus. And finally, the situation presupposed in Philemon is that the letter is to be read to the house church by the beloved fellow worker, Philemon. It is at least more likely that Archippus owns that house, and some slaves, than that one of Paul’s fellow Christian worker does». Interessante è quanto Cope aggiunge: «If the slave owner were Philemon, nothing keeps Philemon from destroying the letter and punishing Onesimus. Only if the letter to Philemon is read to the slave owner’s house church and is also read to the Colossians, is the pressure effectively raised» (COPE, «On Rethinking the Philemon-Colossians Connection», 47).

b. L’ipotesi tradizionale: il destinatario è Filemone

La lettura più ovvia della lettera però vuole che proprietario dello schiavo Onesimo sia Filemone. L’origine colossese di Filemone si ricava dal fatto che Archippo (Flm 2) è di Colosse, essendo menzionato in Col 4,17, e dal fatto che di Onesimo, personaggio centrale della lettera (Flm 11), si dice in Col 4,9: «… che è dei vostri», e dal fatto che, in Flm 23, Paolo manda saluti a Filemone da parte di Epafra, nominato in Col come principale collaboratore di Paolo a Colosse. Come colossese, Filemone potrebbe essere sconosciuto di persona a Paolo (cf. Col 2,1), ma è possibile che gli sia noto perché potrebbe essere stato convertito alla fede da Paolo a Efeso. – Nella casa di Filemone si raduna la comunità locale (v. 2). Poiché la lettera, oltre che a Flm, è indirizzata anche a quella comunità, e poiché Paolo dice a Filemone che potrebbe far uso della sua autorità apostolica anche se non lo fa (v. 8), anche questa lettera non è privata, ma ecclesiale-apostolica. Quanto ad Appia (o Apfia) e Archippo, fin dall’antichità sono stati ritenuti moglie e figlio di Filemone (così pensava Teodoro di Mopsuestia), ma tale rapporto non è dimostrabile.
Di particolare interesse è il collegamento tra questa lettera e Col: in tutte e due le lettere sono menzionati: Epafra, Aristarco, Marco, Luca, Dema, Archippo e Onesimo. Se Col è autentica, bisogna concludere che Col e Flm sono state scritte insieme e mandate a Colosse attraverso Tichico e Onesimo, come è detto in Col 4,7-10.

2. Divisione e contenuto

a. La questione di Onesimo e la divisione della lettera

Prescritto (vv. 1-3)

Ringraziamento (vv. 4-7)

Paolo ringrazia Dio per la fede e la carità di Filemone che sono stati a lui di conforto.

Paolo, Onesimo e Filemone (vv. 8-21)

La questione di Onesimo di cui tratta la lettera è duplice:

  1. Onesimo in passato ha recato un danno (αδικεω), per cui ora gli è debitore (οφειλεω) a Filemone, suo padrone (v. 18). A questo riguardo Paolo si impegna a risarcire Filemone di tasca sua, al posto di Onesimo (v. 18-19).
  2. Onesimo fu separato (v. 15, εχωρισθη = aoristo passivo, dunque evento non continuato ma unico) da Filemone.

Soluzione prospettata da Paolo, e suoi programmi: Onesimo da qualche tempo si trova presso Paolo, e Paolo lo ha conquistato alla fede. Pur potendo trattenere Onesimo per la propria utilità, Paolo lo rimanda però a Filemone. Egli lo deve accogliere non più come schiavo, ma come suo (= di Paolo) cuore (σπλαγχνα, = viscere di amore), e come fratello nel Signore (v. 16).

Poi, Paolo, che è in carcere (vv. 1.9.10.13), evidentemente convinto di esser presto liberato, prenota un alloggio in casa di Filemone: «Preparami un alloggio perché spero, grazie alle vostre preghiere, di esservi restituito», (v. 22).

Saluti per Filemone da parte dei collaboratori, (vv. 23-24)

Augurio finale, (v. 25)

Tutta la lettera è autografa, (v. 19)

b. Suddivisioni proposte in base alla retorica antica

F.F. CHURCH, «Rhetorical Structure» (1978), identifica come parti retoriche di Flm: Esordio (vv. 4-7), probatio (vv. 8-16); peroratio (vv. 17-22); e invece A. PITTA: (1995): Prescritto (vv. 1-3), Esordio (vv. 4-9); propositio (v. 10); probationes (vv. 11-18); peroratio (vv. 19-20), Postscritto (vv. 21-25).

3. Configurazione giuridica della ‘separazione’

a. Sei possibili ricostruzione della vicenda

B.M. Rapske (New Testament Studies 1991) elenca sei possibili ricostruzioni della vicenda di Onesimo nei confronti sia di Paolo che del suo padrone, ma è sufficiente riferire tre ipotesi.

  1. L’interpretazione tradizionale è quella della fuga: Onesimo avrebbe commesso il delitto dello schiavo ‘fugitivus’, dello schiavo cioè che fugge dalla casa del padrone per non tornare più. Se catturato, il ‘fugitivus’ poteva essere segnato con un marchio di fuoco sul volto, legato al collo o ai piedi con catene o collari di metallo, condannato alle miniere, castigato colla rottura delle gambe, crocefisso, dato in pasto a bestie feroci o pesci antropofagi (cf. J.M.G. Barclay, G. Scarpat). Paolo intercederebbe presso il padrone per evitare a Onesimo tali castighi. – Questa ipotesi non spiega bene il danno recato da Onesimo prima della fuga, né perché e come mai egli si sia incontrato con Paolo. Non sa spiegare come mai Onesimo e Paolo si siano incontrati per esempio K. Staab (p. 143), che deve ricorre alla “buona stella” di Onesimo: «… Sennonché un giorno, non sappiamo come, la sua buona stella lo portò nella casa dove l’apostolo stava in prigione». – Tra l’altro, trattenendo presso di sé un fugitivus per più di 20 giorni, Paolo si metterebbe contro la legge e quindi correrebbe il rischio di aggravare la sua posizione di persona sotto accusa e, comunque, di cittadino romano, perché chi proteggeva uno schiavo ‘fugitivus’ era considerato con un ladro (Is qui fugitivum celavit fur est). Nella lettera nulla lascia intravedere tale rischio, anzi, al contrario Paolo agisce in piena tranquillità dal momento che prenota un alloggio a casa di Filemone
  2. Una seconda interpretazione è quella dell’invio di Onesimo a Paolo. Onesimo non sarebbe fuggito, ma sarebbe stato inviato o da Filemone o dalla comunità colossese per assistere Paolo in carcere (J. Knox, Sara Winter, W. Schenk, F.F. Bruce). «The slave Onesimus is with Paul in prison because he was sent there by the individual addressed in the main body of the letter on behalf of the Colossae church; Onesimus did not run away», (S. Winter, p. 1). Questa ipotesi spiega bene come mai Onesimo abbia incontrato Paolo, ma non spiega il danno del v. 18 e soprattutto il fatto che il padrone lo considerasse αχρηστος (= inutile; cf. il gioco di parole tra αχρηστος = inutile, e ονησιμος = utile, del v. 11): non si manda ad aiutare Paolo un buono-a-nulla e un non credente!

La terza ipotesi è quella dell’“amicus domini”.

b. L’ipotesi dell’amicus domini (P. Lampe 1985)

Per questa terza ipotesi, Onesimo è fuggito ma nella sua intenzione e anche per la legge romana non è un ‘fugitivus’. È fuggito in cerca di un protettore (= ‘amicus domini’, ‘amico del padrone’) che lo aiuti a tornare e a essere ri-accettato senza essere sottoposto alle sanzioni prevedibili per il danno recato al padrone. In altre parole Onesimo, dopo aver fatto un grave torto al padrone, temendo di essere punito, è ricorso a Paolo perché, in qualità di ‘amico del padrone’, interceda a suo favore. Quanto al danno economico, Paolo dice che pagherà lui di sua tasca; quanto poi alla richiesta di Onesimo che Paolo faccia da intermediario tra lui e il suo padrone, Paolo la accetta in pieno e di fatto con la lettera che scrive si mette in quel ruolo, esercitando a favore di Onesimo la sua autorità e autorevolezza. Questo costume giuridico è attestato nel sec. i d.C. per esempio dal giurista Proculo il quale scrive: «Qui ad amicum domini deprecaturus confugit non est fugitivus - Non è fugitivus chi ricorre a un amico e lo prega di far da mediatore presso il suo padrone».
L’ipotesi dell’ “amico del padrone” spiega in modo soddisfacente sia il danno di cui parla il v. 18, sia la ‘separazione’ di cui parla il v. 15, sia l’incontro, ricercato da Onesimo fin dal principio, tra lui e Paolo. – L’ipotesi dell’«amicus domini» è stata fatta da P. LAMPE, «Keine Sklavenflucht des Onesimus», in Zeitschrift für die Neutestamentliche Wissenschaft 76 (1985), 135-137; ed è stata accolta prontamente per esempio da: B.M. RAPSKE, «The prisoner Paul in the eyes of Onesimus», in New Testament Studies 37 (1991), 187-203; S.S. BARTCHY, «Philemon, Epistle to», in Anchor Bible Dictionary, V, 305-310.

4. Tempo e luogo di composizione

Siccome Paolo è in carcere, e siccome Flm non può non essere messa in rapporto con Col, la lettera può essere stata scritta a Cesarea, o Roma. Le ragioni contrarie a queste soluzioni sono le solite: Cesarea e Roma sono troppo lontane; Paolo prenota un alloggio! e, per quanto riguarda Roma, egli rinuncerebbe al viaggio in Spagna. – Resta l’ipotesi di Efeso, che non è distante da Colosse (solo 180 Km), ma non è documentata alcuna prigionia efesina, e Col dovrebbe essere posteriore a 1-2 Cor, Rm, Gal.

5. Paolo e la schiavitù

Alcuni autori (Overbeck, 1875; Kehnscherper, 1957; Schulz, 1972, ecc.) rimproverano a Paolo di non avere lottato per l’abolizione della schiavitù. – L’accusa probabilmente ha senso solo per noi: per i tempi di Paolo era anacronistica, come oggi sarebbe impossibile pensare di abolire il lavoro dipendente che pone il lavoratore al di sotto del datore di lavoro. Per altri, Paolo attendeva come imminente la parusìa: di conseguenza non ha molto senso per lui fare progetti per rabberciare questo mondo che non ha futuro. Ma, soprattutto, Paolo è interessato non a discutere-riformare-abolire la schiavitù, bensì a costruire la ‘fratellanza nel Signore’: «… non più però come schiavo, ma molto più che schiavo: come un fratello carissimo in primo luogo a me. Ma quanto più a te, sia come uomo, sia come fratello nel Signore», (v. 16). – La fratellanza cristiana non abolisce i legami giuridici, e tuttavia nella casa cristiana di Filemone cambia realmente i rapporti anche sociali. Cf. Gal 3,28: «… non c’è più schiavo né libero».

6. Autenticità, valore letterario

«Che alla critica sia venuto in mente di mettere in questione l’autenticità di queste ingenue righe, dimostra soltanto che proprio essa (= la critica) non è autentica» (E. REUSS, 61887, citato da KUSS, Paolo, 272, nota 316). – Flm è «Un chef d’oeuvre de la littérature universelle», (P. Benoit, in DBSuppl); «One of the most skilful letters even written», (J. Knox); «A gem unique», (P.N. Harrison); «Infinitely precious», (R.H. Lightfoot).

Indicazioni bibliografiche per Flm

Commentari
P. BENOIT (1959), H.M. CARSON (1960), E. LOHSE (1968, it 1979), J. ERNST (1974), P. STUHLMACHER (1975), G. FRIEDRICH (141976), G.B. CAIRD (1976), R. LEHMANN (1978), A. SUHL (1981), J. GNILKA (1982), J.F. COLLANGE (1987), M. SORDI (1987), A. PITTA (1995).

Monografie

( III ) Lettera agli Efesini

1. Il molteplice enigma di Ef

La lettera agli Efesini è stata definita “il più grande documento ecumenico del NT”, “il documento ecumenico per eccellenza” (G. JOHNSTON, «Ephesians, letter to the», in IDB, II, Nashville, TN, 1962, 108, 111). È infatti la lettera del muro abbattuto: «Egli [= il Cristo] è la nostra pace, lui che ha fatto dei due un (popolo) solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo» (2,14). È per questo che la lettera, «in tempi di crescente dialogo ecumenico, non corre rischi di essere dimenticata» (G. Johnston, 112). Efesini è in ogni caso uno dei maggiori documenti del NT, soprattutto per la sua ecclesiologia, e uno studioso protestante a ragione lamenta che la teologia protestante abbia oscurato Ef mettendo eccessiva enfasi sulle lettere ai Galati e ai Romani (M. BARTH, Ephesians, I, Garden City, NY, 1974, 3). – Ma, come è noto, non è per nulla accertato a chi sia rivolto il discorso ecumenico del muro abbattuto.

a. Il titolo “Agli Efesini” e l’indirizzo interno “… in Efeso”

L’intestazione “(Lettera) agli Efesini, Προς Εφεσιους” non è dell’autore bensì di coloro che, tra il primo e il secondo secolo, riunirono in raccolte omogenee gli scritti del NT e, per distinguere un rotolo dall’altro nei loro scaffali, scrissero sul dorso esterno dei rotoli i titoli appropriati. L’intestazione “Agli Efesini” è in tutti i manoscritti che contengono la lettera, il più antico dei quali è il papiro 46 (= P46, circa 200 d.C.) ma, ancora prima di quella data, il canone Muratoriano (180 d.C.), Ireneo (180 d.C.), e Tertulliano (200 d.C.) ecc., sono convinti della destinazione efesina della lettera.
Se la tradizione ecclesiastica più antica cui possiamo risalire ritiene che questa lettera sia destinata a Efeso, il testo stesso della lettera è molto più problematico. L’indicazione locale “in Efeso, εν Εφεσω” nel testo del prescritto manca in tutti i manoscritti fino al sec. iv: manca per esempio nel P46, nei codici maiuscoli Vaticano e Sinaitico (sec. iv), e manca poi in Tertulliano, Origene, e in Basilio il quale dice esplicitamente: «Così ci hanno trasmesso i nostri antecessori e così abbiamo trovato nei manoscritti antichi» (PG 29, 612-613). “In Efeso” si trova invece nella grande maggioranza dei manoscritti più recenti, in particolare nel codice alessandrino (sec. v, conservato a Londra), nel codice D (sec. vi, conservato a Parigi), nei codici maiuscoli F, G, 0278, nei minuscoli 33, 1881…, nelle versioni latine, siriache, copte, e poi in Giovanni Crisostomo (PG 62, 9), ecc.
L’indirizzo, dunque, così come compare nei manoscritti più antichi della lettera, dice stranamente e in modo sgrammaticato: «… ai santi che sono e fedeli… ». Si è cercato di emendare il testo in vario modo, sostituendo o inserendo per esempio: «… agli Ionii» (W.C. Shearer, 1882); «… ai Laodicesi» (A. von Harnack, 1910); «… ai santi di Asia» (R.A. Batey, 1963); «… ai santi che sono in Gerapoli e in Laodicea» (A. van Roon, 1974), «… in Colosse» (N.A. Dahl, 1951). Si è pensato anche che Ef sia una lettera circolare mandata a più chiese e che le prime copie avessero uno spazio bianco dopo l’espressione «ai santi che sono…», per aggiungere questo o quel nome delle alcune località a cui la lettera sarebbe stata destinata.

b. La scarsità di elementi epistolari

I problemi di Ef non si fermano qui, perché tutta la lettera è per esempio caratterizzata dalla atemporalità: si presenta cioè come un documento non legato ad alcuna precisa situazione o chiesa, come invece ci si aspetterebbe da una lettera e come avviene nelle altre lettere dell’epistolario paolino.
Le notizie epistolari in Ef si riducono solo a due: (i) Paolo è in carcere (3,1; 4,1; 6,20). Manca però qualsiasi informazione che assomigli a quelle delle altre lettere della prigionia: nella lettera a Filemone per esempio Paolo chiede che gli si prepari una stanza perché ha fiducia di essere rimesso presto in libertà (Fm 22), e nella lettera ai Filippesi parla del pretorio in cui si trova in detenzione, parla dei fratelli che si sono sentiti incoraggiati dalle sue catene per diffondere il Vangelo, dell’incertezza sull’esito del processo per cui non sa se potrà rivedere i Filippesi, ecc. (Fil 1,12-26); (ii) Tichico è latore della lettera. Ma i vv. che lo riguardano, sorprendentemente ricalcano alla lettera Col 4,7-8.

c. La relazione di Ef con la lettera ai Colossesi

Un ulteriore elemento che complica lo studio della lettera agli Efesini, è proprio la sua somiglianza a volte anche verbale con quella ai Colossesi: «La parentela letteraria tra Ef e Col è grandissima: un terzo delle parole di Col si ritrova in Ef; 73 vv. di Ef su 115 sono in Col; soltanto Ef 2,6-9; 4,5-13; 5,29-33 non hanno parallelo in Col», M. CARREZ, «La lettera agli Efesini», in A. George - P. Grelot, ed., Introduzione al NT, III, Roma 1978 (Paris 1977), 155.
Eppure si possono elencare molte differenze teologiche tra le due lettere. Per esempio: (i) il “mistero” in Col è rivelato ai santi (1,26) e ha come contenuto il Cristo, ricapitolazione del cosmo (1,27b-28), mentre in Ef è rivelato solo ad apostoli e profeti (3,5) e ha come contenuto l’unico uomo nuovo in Cristo, fatto di giudei e gentili (3,6); (ii) la chiesa, poi, in Col è radicata e fondata in Cristo (2,7), mentre in Ef lo è sugli apostoli e sui profeti (2,20); e, infine, (iii) il ‘munus’ apostolico di Paolo in Col è di annunciare il Vangelo ai pagani (1,27), mentre in Ef è quello di annunciare l’unificazione nel Cristo di giudei e gentili (3,2-12). – La dipendenza, probabilmente indiretta, tra le due lettere è dunque innegabile, e tuttavia esse sembrano essere non-contemporanee.

d. Il dilemma su cui ci sono solo congetture

Per tutti questi risvolti misteriosi di Ef, almeno tre commentatori hanno significativamente messo nei loro titoli l’espressione: “Il dilemma / enigma, di Ef”, cf. H.J. CADBURY, «The Dilemma of Ephesians», in NTS 5 (1958-1959), 91-102; J.H. ROBERTS, «The Enigma of Ephesians», in Neotestamentica 27 (1993), 93-106; M.-E. BOISMARD, L’énigme de la Lettre aux Ephésiens, Paris 1999. Uno di essi poi aggiunge che «il dilemma di Ef è un problema [su cui] uno ha poca speranza di gettare nuova luce», mentre un ulteriore interprete scrive a sua volta: «Gli studiosi accatastano congetture su congetture» (H.J. Cadbury, 91, e, rispettivamente, V.P. FURNISH, «Ephesians, Letter to the», in ADB, II, New York 1992, 109.)

2. Stile, contenuto e divisione

a. Lo stile della lettera

La lettera è scritta in uno stile solenne e ornato. Le frasi sono di lunghezza insolita: la benedizione iniziale è fatta di un solo interminabile periodo di 12 versetti in cui trovano posto ben 17 proposizioni (1,3-14; ma cf. per esempio anche 4,11-16): molte sono le frasi relative (1,6.7.8; 2,2.3), participiali (2,14-16; 4,18-19), o infinitive (4,22-24). L’autore ama accumulare sinonimi, espressioni tautologiche, aggettivi, o costruire catene di genitivi: «… il piano della sua volontà» (1,11); «.. uno spirito di sapienza e di rivelazione nella conoscenza di lui, essendo gli occhi della vostra mente stati illuminati per conoscere…» (1,17-18); «… la grandezza della sua potenza … secondo l’energia del potere della sua forza» (1,19); «… noi tutti una volta vivevamo nelle passioni della carne, seguendo le brame del corpo e della mente» (2,3); «… lo spirito della vostra mente» (4,23); «rafforzatevi nella forza della sua potenza» (6,10). – Il pensiero si sviluppa lentamente in lunghe frasi che procedono appesantite da parentesi e da pleonasmi davanti ai quali il lettore non sa se ha letto bene o capito male: «… è un’esposizione d’andamento maestoso, un fiume dai calmi meandri, piuttosto che un torrente impetuoso» (J. HUBY, L’epistola agli Efesini, 125). Anche i sostenitori dell’autenticità della lettera riconoscono che lo stile di Ef è insolito per Paolo.

b. Divisione e riassunto della lettera

La divisione della lettera non offre particolari difficoltà, essendo ben evidenti e ben rimarcati le parti di cui si compone: il prescritto, una lunga benedizione iniziale, poi la parte dottrinale e, infine, quella esortativa, cui fanno seguito le poche notizie finali e i saluti.

Prescritto (1,1-2)

Mittente: Paolo [Nessun collaboratore viene menzionato, né qui né altrove]
Destinatari: i santi e fedeli [“In Efeso” manca nei manoscritti dei primi secoli]
Augurio: grazia e pace.

Benedizione (1,3-14)

La benedizione è divisa in due parti dalla formula: «... tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (v. 10); ognuna delle due parti è divisa dalla formula: «... a lode della sua gloria» (vv. 6; 12; 14).
Formula iniziale (1,3).
Prima strofa: l’elezione e la predestinazione (vv. 4-6). Dio ci ha eletti in Cristo e ci ha predestinati a essere figli «a lode e gloria della sua grazia».
Seconda strofa: l’universale ricapitolazione in Cristo (vv. 7-10). Nel Cristo abbiamo la redenzione che è realizzazione del mistero, «il disegno, cioè, di ricapitolare in Cristo (= Cristo capo cosmico) tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra».
Terza strofa: la chiamata dei giudei in Cristo (vv. 11-12). Nel Cristo sono chiamati i giudei che per primi hanno avuto la speranza messianica, «a lode della sua gloria».
Quarta strofa: la chiamata dei pagani in Cristo (vv. 13-14). I pagani hanno accolto l’annuncio, hanno creduto, e sono stati illuminati [nel battesimo]. Tutti, giudei e pagani, sono «a lode della sua gloria».

I. Parte dottrinale (1,15-3,21)

A. RENDIMENTO DI GRAZIE (1,15-23)

Paolo rende grazie per la fede e l’amore dei suoi interlocutori (vv. 15-16)
Paolo passa poi a intercedere per i destinatari (vv. 17-19): chiede che Dio dia loro la conoscenza della propria chiamata, per cui evoca:
La signoria del Risorto (vv. 20-22): Dio lo ha fatto risorgere da morte, lo ha insediato alla sua destra, e lo ha costituito sopra tutte le cose, capo delle Potenze cosmiche, del cosmo e della Chiesa
La chiesa, corpo del Cristo (v. 23) «la quale è il suo corpo e pienezza».

B. SALVATI PER GRAZIA E NON DALLE PROPRIE OPERE (2,1-10)

Passato di morte di pagani e giudei (vv. 1-3): i gentili un tempo erano morti, soggetti al peccato, al principe delle potenze dell’aria (vv. 1-2), ma anche i giudei erano ribelli e meritevoli dell’ira, come gli altri (v. 3)
Intervento di Dio nel Cristo (vv. 4-7): Dio tutti ha fatto rivivere in Cristo, e con Lui ha già fatto sedere tutti nei cieli
La gratuità della salvezza (vv. 8-10): tutto è grazia, tutto è dato per la fede, non per le opere «perché nessuno possa vantarsene», e tutti sono stati creati in Gesù «per [produrre] le opere buone» (2,10). Con l’insistenza su ‘tutti’ si prepara il discorso sull’unica Chiesa, di 2,11-20.

C. RICONCILIATI IN CRISTO, NOSTRA PACE (2,11-22)

Il passato di marginalità degli etnico-cristiani (vv. 11-12): i pagani un tempo erano senza Messia, esclusi dalla cittadinanza d’Israele e dalla promessa, senza speranza messianica, e senza Dio, ma il Cristo ha compiuto la riconciliazione
«Egli è la nostra pace avendo abbattuto il muro» (vv. 13-18): ma ora in Cristo Gesù, da lontani che erano, sono diventati vicini perché, abbattendo il muro di divisione, annullando cioè la Legge fatta di precetti, da due popoli egli ha fatto un solo popolo, un solo uomo nuovo, e per lui tutti hanno accesso al Padre in un solo Spirito
La nuova situazione degli etnico-cristiani (vv. 19-22): è così che i pagani non sono più stranieri o ospiti, ma sono edificati insieme coi giudei sul fondamento degli apostoli «per essere tempio santo nel Signore» [= tema e testo centrale della lettera: l’unità di pagani e giudei nella Chiesa].

D. IL MUNUS APOSTOLICO DI PAOLO (3,1-21)

Paolo, il carcerato per le genti (v. 1) [la frase è lasciata in sospeso]
Paolo, apostolo delle genti, e il “mistero” (vv. 2-12): a Paolo, l’infimo fra tutti i santi, per rivelazione (= a Damasco) è stato fatto conoscere il mistero «… che, cioè, i gentili sono chiamati in Cristo Gesù a essere partecipi della promessa per mezzo del Vangelo». Quel mistero era nascosto da secoli nella mente di Dio e ora, attraverso il servizio apostolico di Paolo, risplende agli occhi di tutti e soprattutto alle potenze celesti
Paolo prega per i destinatari (vv. 13-19) [la frase lasciata in sospeso in 3,1, è ripresa]: l’Apostolo prega per la crescita dell’uomo nuovo nei destinatari, perché essi possano conoscere la vastità incommensurabile dell’amore di Cristo.
Dossologia (vv. 20-21), che conclude la prima parte della lettera.

II. Parte esortativa (4,1-6,20)

A. VIVERE L’UNITÀ NELL’ACCOGLIENZA VICENDEVOLE (4,1-16)

Accogliersi a vicenda (vv. 1-6): Paolo esorta i suoi lettori a comportarsi secondo la loro vocazione col conservare l’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace, accogliendosi a vicenda. Poi elenca, come motivazione fondante, sette realtà che sono “uniche” e sono dunque fondamento e motivo di unità perché sono in comune (tra giudeo-cristiani e pagano-cristiani): un solo corpo, un solo Spirito, una sola speranza, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio, Padre di tutti.
Anche i ministeri sono al servizio dell’unità (vv. 7-16): apostoli, profeti, evangelisti, pastori e maestri sono al servizio dei credenti (letteralmente: dei santi) così che ognuno contribuisca all’edificazione dell’unico corpo di Cristo (fatto di giudeo-cristiani e di pagano-cristiani) affinché tutti insieme si raggiunga l’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio

B. DALL’UOMO VECCHIO ALL’UOMO NUOVO (4,17-5,2)

Stile di vita dei pagani (vv. 17-19): Paolo esorta a non comportarsi più come i pagani, i quali «si sono abbandonati a ogni dissolutezza commettendo ogni sorta di impurità con avidità insaziabile» (cf. Rm 1).
«Deporre l’uomo vecchio, rivestire l’uomo nuovo» (vv. 20-24): Paolo esorta a deporre l’uomo vecchio che si corrompe dietro le passioni ingannatrici, e a rivestire invece l’uomo nuovo (cf. Col 3,9-10)
Cosa è conveniente o sconveniente per i santi (vv. 4,25-5,5): esortazioni circa menzogna, ira, furti, parole cattive, asprezza, sdegno, e maldicenza, e soprattutto esortazione a non contristare lo Spirito (v. 30).

C. VIVERE COME FIGLI DELLA LUCE (5,6-20)

Prendere le distanze dai figli della disobbedienza (vv. 6-8a), e dalle loro vuote parole. Piuttosto – dice Paolo –:
«Camminate come figli della luce» (vv. 8b-14), non partecipando alle opere infruttuose delle tenebre, ma contestandole perché, «se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore». Lo dice anche “il grido del risveglio” (= un frammento di inno battesimale?).
Invito alla saggezza e a lodare del Signore (vv. 15-20), con inni, salmi e cantici (cf. Col 3,16).

D. CODICE DI COMPORTAMENTO IN FAMIGLIA (5,21-6,9)

Esortazione alla sottomissione vicendevole (5,21)
Esortazione a mogli e mariti (5,22-33) che si conclude con il famoso testo sul matrimonio quale grande mistero in riferimento a(ll’amore di) Cristo per la Chiesa (5,32-33).
Esortazione a figli e padri (6,1-4)
Esortazione a schiavi e padroni (6,5-9)

E. LA LOTTA E LE ARMI DEL CRISTIANO (6,10-20)

La battaglia del cristiano (vv. 10-13): il cristiano ha bisogno della “panoplìa (= armatura completa) di Dio”, perché la nostra battaglia non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male
Le armi del cristiano (vv. 14-17): (i) cintura è la verità; (ii) corazza è la giustizia; (iii) calzatura è lo zelo apostolico; (iv) scudo è la fede; (v) elmo è la salvezza, e (vi) spada è la parola di Dio
Esortazione alla preghiera incessante (6,18-20) (da molti considerata come la settima arma della ‘panoplìa’) e alla preghiera per l’Apostolo e per la sua missione.

Notizie e saluti finali (6,21-24)

Notizie epistolari: il compito affidato a Tichico (6,21-22, cf. Col 4,7-8)
e augurio finale di pace e grazia (6,23-24).

3. Una lettera non a una sola chiesa

a. Improbabile la destinazione a una sola chiesa

La lettura di Ef mette di fronte alla netta impressione che essa anzitutto non possa essere destinata ai cristiani di Efeso. Infatti: (i) Paolo, fondatore della comunità efesina e attivo in essa per circa tre anni (At 20,31, cf. anche 19,10), non conosce per conoscenza diretta i suoi interlocutori (cf. Ef 1,15 e 4,21); (ii) Paolo non è conosciuto dai destinatari della lettera, tanto è vero che deve spiegare loro per la prima volta di essere apostolo dei gentili (cf. Ef 3,2-4); (iii) mentre da At 18-20 risulta che la comunità efesina era mista, composta di giudeo-cristiani e di gentili, Ef è un documento diretto esclusivamente a cristiani provenienti dal paganesimo: in molto testi l’autore usa un “voi” che significa “voi, provenienti dal paganesimo”, e un “noi” che significa “io, scrivente, e quanti come me sono provenienti dal giudaismo” (cf. 2,1-3.11-12.17; 3,1).
Il fatto che l’autore si rivolga a interlocutori etnico-cristiani esclude non soltanto la destinazione efesina, ma anche una destinazione ad altre chiese singole, perché Paolo cominciava l’evangelizzazione dalla sinagoga e, di conseguenza, tutte le chiese paoline non erano mai costituite di soli etnico-cristiani. Come si esclude la sola Efeso, così bisogna escludere la sola Colosse o la sola Laodicea (così nell’antichità Marcione, e tra i moderni J.-J. Wettstein, 1752; J.B. Lightfoot, 1875; A. von Harnack, 1910, 1926 Huby, 151947; Ch. Masson, 1953; H.K. Moulton, 1963), ed è troppo poco forse anche parlare di sole 2 chiese, come quelle di Gerapoli e Laodicea (A. van Roon, 1974). La lettera dev’essere stata indirizzata, invece, agli etnico-cristiani delle chiese di tutta una regione.

b. Forse una lettera enciclica

Vanno probabilmente molto vicino al vero, dunque, i molti che ritengono Ef una lettera circolare, destinata a molte chiese (Così Teodoro Beza, 1598; J.-M. Lagrange, 1929; H. Schlier, 1930; G. Ricciotti, 1949) e coloro che ipotizzano per il prescritto epistolare la formula «… ai santi che sono pagani e fedeli» (A. KIENE, «Der Epheserbrief», in ThStKrit 1869, 316). Più che col dativo del nome (τοις ουσιν εθνεσιν), però, la formula dev’essere stata costruita con uno εκ di provenienza e il genitivo: «… ai santi provenienti dalle genti – τοις ουσιν εξ εθνων». Tra l’altro, come molti fanno osservare, l’ipotesi della lettera a più chiese spiegherebbe perché essa sia così povera di elementi epistolari e di notizie personali, e perché abbia il tono e il contenuto di un trattato più che di una vera lettera. Il contenuto della lettera suggerisce di ricostruire la vicenda, sia dell’intestazione esterna sia dell’indirizzo interno, come segue:
(i) nell’indirizzo interno della lettera doveva essere scritto: «… a coloro che sono etnici e credenti», con il significato di: «ai credenti [che provengono] dagli etnici»; (ii) gli editori dell’epistolario paolino avrebbero dovuto intitolare la lettera «Agli etnico-cristiani, προς εθνικους», così come nell’intestazione di un altro documento neotestamentario scrissero “Agli Ebrei, προς εβραιους”; (iii) e invece – probabilmente – addirittura tolsero quell’indicazione anche dal prescritto interno, e scrissero sul dorso esterno del rotolo “Agli Efesini”, forse per uniformare la titolatura di questo documento con quella degli altri scritti paolini; (vi) più tardi il tardivo rimando a Efeso fu trasferito dal titolo esterno anche nel testo del prescritto, ed è così che poi l’inesatta destinazione efesina è divenuta convenzionale nei secoli; (v) non è per nulla impossibile che Efeso sia stata tra le chiese destinatarie, ma certamente non lo fu da sola e, se proprio lo fu, lo fu soltanto per quanto riguardava la sua componente etnico-cristiana.

4. Ipotesi sulle circostanze della composizione

a. Scarsità di dati epistolari e ipotesi proposte

In tutto lo scritto non compare nessun elemento che configuri una situazione epistolare, e cioè non si trova alcun accenno a problemi legati a persone, a gruppi, a un luogo o a una comunità. La situazione è atemporale e scolastica, e la lettera è impersonale, generica, distaccata. Sembra scritta «nella Terra di nessuno» (K.M. FISCHER, Tendenz und Absicht des Epheserbriefes, Göttingen 1973, 202) e tuttavia, per una sua più adeguata comprensione bisogna mettersi in cerca delle circostanze della sua origine.
L’esortazione a rivestirsi dell’armatura di Dio che si trova in Ef 5,10-19 ha suggerito a P. Beatrice l’ipotesi che i destinatari della lettera si trovassero in forte contrasto e tensione con i giudaizzanti: la lettera combatterebbe il loro tentativo di restaurare i precetti della Legge e rialzare il muro divisorio e l’inimicizia. Anche A. Lindemann ricostruisce la situazione che ha provocato la lettera partendo dall’invito a indossare l’armatura di Dio: il contesto storico sarebbe quello della persecuzione di Domiziano in Asia Minore intorno all’anno 96 d.C. Infine, R. Penna ritiene che il motivo di fondo di Ef sia nel tema dell’“uomo nuovo” (2,15 e 4,24). Poiché la lettera non fa riferimento ad alcun oppositore e non è all’orizzonte alcuna dottrina eretica, e poiché invece spesso si ripete la contrapposizione tra “una volta” e “ora invece”, la lettera sarebbe stata scritta per scongiurare il rischio a cui erano esposti i destinatari, di essere totalmente riassorbiti nello stile pagano della vita.
Questi tentativi non spiegano a pieno le affermazioni sul Cristo pacificatore di etnico-cristiani e giudeo-cristiani, né la contrapposizione tra “noi” e “voi” che circonda quelle affermazioni, né il fatto che anche la parte esortativa prolunga il tema dell’unità e dell’accoglienza vicendevole.

b. Una situazione di tensione e di distanza psicologica

Tutta la lettera è scritta in tono pacato e irenico. Eppure, per chi è in cerca di indizi circa la situazione che provocò la stesura della lettera, non possono passare inosservati alcuni sintomi di tensione: una tensione che doveva esistere tra i giudeo-cristiani dei quali l’autore dice di far parte, e gli etnico-cristiani cui scrive.

  1. In 2,11 per esempio, scrivendo: «Voi pagani, detti “prepuzio” da quelli che si dicono “circoncisione” nella carne per mano di uomo ecc.», sembra rispecchiare uno scambio di frecciate tra le due componenti della chiesa. L’autore sembra dire cioè che i giudeo-cristiani consideravano impuri gli etnico-cristiani perché non erano circoncisi e, subito dopo, sembra accogliere e riproporre la replica irritata degli etnico-cristiani, quando ammette che, se si è circoncisi nella carne, quella circoncisione è manufatta e non è necessariamente una circoncisione anche del cuore (cf. Rm 2,29 ecc.).
  2. In 2,1-3 dopo avere scritto «E voi (= etnico-cristiani), che eravate morti per i vostri peccati ecc.», l’autore scrive: «Ma anche tutti noi (= giudeo-cristiani),… eravamo figli d’ira, come gli altri». Soprattutto in quello “anche noi come gli altri”, l’autore sembra accogliere un’altra replica risentita degli etnico-cristiani: stanchi di sentirsi dire di essere nati e cresciuti nell’impurità e nel peccato, essi ribatterebbero che i giudei hanno bensì la Legge, ma non la osservano (cf. il “figli di disobbedienza” del v. 2), esponendosi così anch’essi come gli altri, all’ira di Dio: dopotutto era quanto Paolo aveva scritto ai Romani (Rm 2-3).
  3. Non fa meraviglia allora che in 2,14-16 l’autore parli di “muro interposto - μεσοτοιχον”, e poi di “separazione - φραγμος”, e poi ben due volte di “inimicizia - εχθρα”, giungendo perfino a dire che quell’inimicizia doveva essere “uccisa – αποκτεινας την εχθραν”. È ben vero che l’autore sta parlando della situazione anteriore all’intervento riconciliatore del Cristo, ma l’impressione che lasciano sia la parte dottrinale sia quella esortativa, è che nel tempo della stesura della lettera ci fosse urgente bisogno non solo di enunciati teologici, ma anche di un riavvicinamento sul piano pratico tra quei due tronconi della chiesa.

c. Le possibili critiche dell’autore agli etnico-cristiani

Oltre alle repliche irritate degli etnico-cristiani, forse si possono individuare anche alcune riserve dell’autore nei loro confronti, anch’esse espresse in modo sempre indiretto e mai aspro. In questo modo:

  1. Mantenendosi sul piano teologico, l’autore ricorda agli etnico-cristiani che “anch’essi, και υμεις” hanno udito l’annuncio evangelico (1,13), che anche a loro, che erano lontani, è stata annunciata la pace come a chi già era vicino (2,17), che oramai anch’essi sono “con-cittadini, co-eredi, con-corporati, con-partecipi” (2,19; 3,6), e poi ancora che “anch’essi” vengono edificati come dimora divina (2,22), evidentemente come i giudeo-cristiani ed insieme con loro. Di conseguenza, essi non devono sentirsi (ma l’autore vuol dire: non devono “comportarsi come!”) stranieri, ospiti, o lontani. Insomma, è come se l’autore avvertisse negli etnico-cristiani la tendenza a un certo separatismo, cui cerca di far fronte con l’esortazione a vivere in concreto l’unità: di fatto invita all’accoglienza vicendevole (4,2), allo sforzo per mantenere l’unità nella pace (4,3), che sono unità e pace tra i due gruppi (tra giudeo-cristiani e etnico-cristiani), e non tra i singoli etnico-cristiani cui scrive.
  2. In secondo luogo, l’autore sembra preoccupato della condotta di vita di coloro a cui scrive. Ricorrendo più volte allo schema “una volta…, ma ora - ποτε..., νυνι δε” (2,2.3.11.13; 5,8), ricorda anzitutto che il battesimo non solo ha cambiato il loro essere di una volta, ma esige anche il cambiamento del loro agire. Nella parte esortativa introduce poi, addirittura con una formula di giuramento, l’esplicito invito a non vivere più paganamente: «Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore (λεγω και μαρτυρομαι εν κυριω): non comportatevi più come pagani…» (4,17), e subito dopo insinua qualche dubbio circa la loro coerenza nel deporre l’uomo vecchio e nel rivestire l’uomo nuovo: «Ma voi non così avete imparato a conoscere il Cristo [= così da vivere ancora come i pagani], se proprio gli avete dato ascolto (!) e in lui siete stati istruiti secondo la verità che è in Gesù, per la quale dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima… Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo muovo ecc.» (4,20-24). E poi ripete lo stesso invito con le immagini della tenebra e della luce, dicendo loro: «Un tempo eravate tenebra, ma ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce… e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto contestatele apertamente, poiché di quanto viene fatto da costoro in segreto è vergognoso perfino parlare» (5,8-12).
  3. Un’ulteriore riserva sembra poter essere quella dell’attivismo e della superficialità. Mentre in Gal e Rm Paolo dice ai giudeo-cristiani che non possono conquistarsi la giustificazione con le “opere della Legge”, in Ef l’autore dice invece agli etnico-cristiani (!) che la salvezza non viene dalle “opere” (non quelle della Legge, perché gli etnico-cristiani non osservano la legge mosaica), e dice che Dio nel Cristo ci ha predisposti a compiere le “opere buone” (2,8-10). Tutto il discorso risulta essere molto poco logico, a meno che le “opere” del v. 9 (da distinguere dalle “opere buone” del v. 10) non si debbano appunto intendere come un attivismo dispersivo e superficiale. Che l’autore ritenga superficiale la preparazione di coloro a cui scrive, lo si può ricavare dall’insistenza con cui dice di pregare perché Dio conceda loro conoscenza, sapienza ecc. (1,17-19; 3,14-19; cf. anche 5,15-17), e dal fatto che ripetutamente parli di necessità di crescita (1,17ss; 3,16ss; 4,13-19; 4,17-24, ecc.), e che desideri i suoi interlocutori etnico-cristiani più “radicati e fondati” (3,17), e più capaci di stupirsi per tutte le dimensioni (“la larghezza e lunghezza e altezza e profondità”) dell’opera di Dio in Cristo (3,18).
  4. Insomma, è come se nelle comunità destinatarie di questa lettera i giudeo-cristiani in qualche modo avessero precedentemente cercato di tenere le distanze dagli “impuri” etnico-cristiani, come Pietro e Barnaba facevano ad Antiochia di Siria secondo Gal 2,11-16. Ed è come se, visto l’inquietante risultato di due chiese parallele, la parte giudeo-cristiana lanciasse con questa lettera l’appello a un riavvicinamento, soprattutto perché gli etnico-cristiani, a loro volta, probabilmente avevano approfondito il solco di divisione, invece che fare qualcosa per colmarlo.

d. Domande circa l’autore

L’autore, dunque, è un giudeo-cristiano che ammette alcune intemperanze di quelli della sua parte, ne rivendica però con molta delicatezza la priorità storico-salvifica («… noi che per primi abbiamo sperato nel Cristo», 1,12), e soprattutto vuole convincere gli etnico-cristiani, presenti trasversalmente nelle comunità paoline, a superare il loro risentimento e il loro distacco dalla controparte giudeo-cristiana. Le ipotesi circa l’autore della lettera e gli interrogativi che, date queste premesse, si possono sollevare, sono:

  1. L’ipotesi tradizionale: l’autore è Paolo, il quale ha scritto ad alcune comunità, fondate da lui o da qualche suo discepolo e collaboratore. Potrebbero essere le chiese dell’area efesina, o quelle della valle del Lico dove si trovano Colosse, Laodicea e Gerapoli. – Di poco diversa da questa è l’ipotesi, sostenuta per esempio da P. BENOIT, «Paul. Epître aux Ephésiens», DBSuppl., 210, secondo cui Paolo si sarebbe servito di un segretario: «… on ne voit d’autre moyen que d’admettre l’intervention littéraire assez forte d’un disciple secrétaire». – Gli interrogativi che quest’ipotesi solleva sono: perché lo stile di questa lettera è diverso da quello delle altre certamente scritte da Paolo? È possibile che Paolo si trovi a difendere i giudeo-cristiani, lui che ha sempre difeso invece gli etnico-cristiani? In quale data e circostanza si potrebbe collocare questo anomalo atteggiamento di Paolo? In altre parole, in quale epoca della sua biografia le due componenti della chiesa sono state già così divaricate tra loro e con le motivazioni che si sono viste? Ci fu mai nel corso della vita di Paolo un tempo in cui i diritti degli etnico-cristiani erano oramai del tutto fuori pericolo, così che l’Apostolo poté permettersi di essere critico nei loro confronti?
  2. L’autore non è Paolo, ma un suo ignoto (e grandissimo) discepolo. È l’ipotesi dei critici moderni a partire da Erasmo di Rotterdam (1619) che attirò l’attenzione sulla differenza di stile tra Ef e le altre lettere di Paolo, e da E. Evanson (1792) che per primo negò l’origine paolina della lettera. – I nomi che sono stati chiamati in causa per l’autore pseudepigrafico di Ef sono quelli di Onesimo (E.J. Goodspeed, 1933; P.N. Harrison, 1964), di Tichico (W.L. Knox, 1939; C.L. Mitton, 1951; G.H.P. Thompson, 1967), e di Luca (R.P. Martin, 1968). – Gli interrogativi che questa seconda ipotesi solleva sono: come negare a Paolo la capacità di cambiare stile da uno scritto ad un altro, di natura diversa e scopo diverso? Chi e con quale autorità, dopo la morte di Paolo, poteva prendere l’iniziativa di scrivere una lettera come se fosse scritta da Paolo? Gli interessati si sarebbero davvero lasciati convincere dall’uso, se non abuso, del nome dell’Apostolo, quando ben si sapeva che non c’era alcuna lettera scritta da Paolo per il loro problema e per la loro situazione? Data la profondità e sublimità del documento, «quale altro gigante dello spirito potrebbe avere prodotto Ef?», (G. JOHNSTON, «Ephesians, letter to the», 108, mentre riporta le ragioni a favore dell’attribuzione tradizionale); «Questo discepolo non si dovrebbe chiamare un secondo Paolo?» (H. SCHLIER, Lettera agli Efesini, Brescia 1965 (Düsseldorf 31962) 22).

e. Tempo e luogo di composizione

Il documento fu redatto dopo Col (pochi sostengono la priorità cronologica di Ef), e prima di Ignazio di Antiochia che sembra conoscerla: dunque prima del 110 d.C. È lontano il tempo in cui Paolo doveva combattere per l’ammissione dei gentili nella Chiesa senza circoncisione e senza legge mosaica (cf. Gal, Rm, Fil), o il tempo in cui Paolo vedeva la fede dei gentili come strumento per ingelosire i giudei (cf. Rm 9-11). Ora bisogna darsi da fare perché nessuna delle due componenti vada per conto suo, e bisogna ribadire con insistenza che si è tutti un solo corpo (2,16; 3,6; 4,4), che c’è un solo battesimo, e una sola fede (4,4-5). Se l’autore della lettera è Paolo, l’Apostolo dovrebbe averla scritta nei suoi ultimi anni. Se la lettera è di un discepolo, dev’essere datata agli ultimi due decenni del sec. i, all’epoca delle Pastorali, con le quali ha certi punti di contatto. – Probabilmente un tale documento si rese necessario in Asia: lo fanno pensare i contatti letterari e teologici con Col, la menzione di Tichico, originario dell’Asia (At 20,4) e collegato con Colosse (Col 4,7), con Efeso (2Tm 4,12), e infine la convinzione tradizionale che la lettera fosse indirizzata “agli Efesini”.

5. Ef nella storia dei primi secoli cristiani

a. La “questione giudaico-cristiana” nel sec. i

Quello dei rapporti tra le chiese provenienti dal giudaismo da una parte e dal paganesimo dall’altra, fu il problema più grave delle origini cristiane. Il cristianesimo non poteva essere la stessa e medesima cosa del giudaismo e, d’altra parte però, il giudaismo era la sua premessa: che cosa allora doveva continuare dall’uno nell’altro, e che cosa doveva essere lasciato cadere? In che modo i due tronconi dovevano convivere, e quali erano le legittime differenze che gli uni e gli altri potevano permettersi, pur costituendo una sola chiesa? Paolo contribuì in modo acuto e unico a porre il problema anche dal punto di vista teologico, e non solo dal punto di vista pratico della convivenza. Per gli Atti degli apostoli il problema sorge con la conversione di Cornelio (At 10-11) e poi esplode alla conclusione del primo viaggio missionario, provocando l’assemblea apostolica di Gerusalemme (At 15). La lettera ai Galati sembra porre posteriormente a quell’assemblea lo scontro tra Paolo e Pietro ad Antiochia di Siria (Gal 2,11ss) e, comunque, insieme con la lettera ai Romani e con quella ai Filippesi, discute le ragioni degli etnico-cristiani contro la pretesa dei giudaizzanti di imporre loro la circoncisione e l’osservanza della Legge.
Al di fuori del paolinismo, il vangelo di Matteo difende la perdurante validità del tempio (Mt 23,16-22) e della legge mosaica di cui nessuno iota o apice cadrà e della quale bisogna osservare anche il più piccolo dei comandamenti (5,17-20), mentre, sempre da posizione giudeo-cristiana, la lettera di Giacomo difende con forza il valore delle opere senza le quali la fede sarebbe morta (2,14-26). Sull’altra sponda, nella lettera agli Ebrei si documenta in modo preciso e puntiglioso la superiorità della nuova alleanza sull’antica, mentre nelle lettere Pastorali si avverte una diffusa idiosincrasia nei confronti delle interminabili genealogie (1Tm 1,4), dei miti giudaici (1Tm 1,4; Tt 1,14; 3,9), e degli insegnamenti eterodossi di stampo giudaico: «Soprattutto tra quelli che provengono dalla circoncisione, vi sono molti spiriti insubordinati, chiacchieroni e ingannatori. A questi tali bisogna chiudere la bocca ecc.» (Tt 1,10-11).

b. La controversia da Marcione a Costantino

Agli inizi del sec. ii la lettera di Barnaba (cap. 9) e Ignazio nella lettera agli smirnioti (3,2-3) polemizzano contro le usanze dei giudeo-cristiani, così come alla fine del secolo farà la lettera a Diogneto (cap. 4). Nel “Dialogo con Trifone”, a metà del secolo, Giustino si batte perché i giudeo-cristiani non impongano agli etnico-cristiani quelle prescrizioni che erano date ai giudei “per la loro durezza di cuore”, ma lo fa dopo avere detto che essi sbagliano nel giudicare peccaminose le pratiche giudaiche: «Vi sono degli etnico-cristiani che giudicano peccaminosa l’osservanza di molte prescrizioni della legge mosaica. Questi tali non parlano né prendono cibo con i giudeo-cristiani, e per parte mia io non li approvo. Ma non approvo nemmeno i giudeo-cristiani che fanno altrettanto con gli etnico-cristiani» (Dial. 47,1-2). Il punto più acuto di crisi si ebbe con Marcione, venuto dal Ponto a Roma intorno al 140: egli rifiutava in blocco l’AT e mutilava il NT di ciò che gli sembrava troppo filo-giudaico, perché era contrario ad ogni tentativo teso ad armonizzare la tradizione giudaica con quella cristiana, che riteneva un’impresa impossibile. Dopo che nel 144 ebbe esposto pubblicamente ai presbiteri romani le sue convinzioni fortemente anti-giudaiche, fu espulso dal seno della chiesa di Roma.
Un altro terreno di scontro tra i due tronconi della chiesa fu quello della data della Pasqua con tutte le conseguenze che comportava – soprattutto nelle comunità miste – per il ciclo delle feste cristiane che in quel tempo era in formazione: l’alternativa era tra la data fissa del 14 di Nisan come volevano i giudeo-cristiani, e la data mobile della prima domenica dopo il plenilunio primaverile, come volevano gli etnico-cristiani. Per risolvere la controversia si ricorse a papa Vittore (189-199 d.C.) e si celebrarono sinodi, ma per esempio a quello importante di Cesarea di Palestina (195 d.C.) non parteciparono i vescovi giudeo-cristiani. La forte divergenza non fu superata e il problema si ripropose al concilio di Nicea (325 d.C.) nel quale fu decisa la celebrazione domenicale della Pasqua ma ancora una volta senza efficacia, se è vero che nel sinodo tenutosi ad Antiochia nel 341 fu necessario scomunicare chi celebrava la pasqua quartodecimana e digiunava insieme con i giudei (PG 137, 182.C; 1276.C).
La chiesa giudeo-cristiana ebbe dunque una sua vita autonoma e parallela, soprattutto in Palestina fino a Costantino, restando fedele a uno stretto radicamento nell’AT, all’osservanza della Legge, alla pratica della circoncisione, e avendo poi una propria teologia, una propria gerarchia, e una propria liturgia. Con Costantino la grande chiesa etnico-cristiana invase la Palestina, spossessò e sostituì i giudeo-cristiani in casa loro, e ne avviò l’estinzione che si ebbe nel sec. vi. Il segno più evidente di questa conquista fu la sostituzione delle grotte mistiche e delle chiese-sinagoga dei giudeo-cristiani con le basiliche costantiniane e bizantine: a Betlemme con la basilica della Natività, a Gerusalemme con la basilica del Santo Sepolcro e quella dell’Eleona sul Monte degli ulivi, a Nazaret con il convento e la basilica in cui fu incorporata la grotta dell’annunciazione, a Cafarnao con la chiesa ottagonale costruita sulla casa venerata, probabilmente di Pietro.

c. La collocazione di Ef nella “questione giudaica”

La misteriosa lettera del muro abbattuto si colloca all’interno di queste drammatiche origini cristiane. (Per una succinta storia della chiesa giudeo-cristiana cf. L. RANDELLINI, La chiesa dei giudeo-cristiani, Brescia 1968) Il suo intento era quello di arrestare la divaricazione crescente tra le due parti. Già durante l’esistenza di Paolo o, nel suo nome, dopo di lui, Ef dice infatti che i credenti da Israele e quelli dal paganesimo, conciliati in un solo corpo dal Cristo, devono ora nella pratica «accogliersi a vicenda nell’agape» (4,2).
Il tentativo di conciliazione non riuscì, ma ha dato alla cristianità il manifesto dell’unità della chiesa e della ricostituzione dell’unità, quando essa viene infranta.

Indicazioni bibliografiche per Ef

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M. DIBELIUS - H. GREEVEN (1953), F.W. BEARE - T.A.O. WEDEL (1953), E.J. GOODSPEED (1956), P. BENOIT (1959), K. STAAB (1959, it 1961), J.A. ALLAN (1959), H. SCHLIER (21962, it 1965, ingl 1969), M. ZERWICK (1962, it 1965), H. CONZELMANN (1962, it 1980), J. CAMBIER (1966, it 1968), J. GNILKA (1971), M. BARTH (1974), J. ERNST (1974, it 1986), C. L MITTON (1976), G.B. CAIRD (1976), F.F. BRUCE (1984), R. FABRIS (21990), R. SCHNACKENBURG (1982); R. PENNA (1988).

Monografie

( IV ) La Chiesa corpo del Cristo suo capo

a. Terminologia, ricorrenze e i tre significati di ‘corpo’

Il tema del “corpo di Cristo” compare già in 1Cor e Rm, ma soltanto in forma episodica, mentre in Col ed Ef tiene un posto centrale. – L’espressione “corpo di Cristo” si trova 6 volte, con o senza articolo; a queste ricorrenze vanno aggiunte 5 ricorrenze di σωμα con il possessivo “mio” e “suo”. Infine, la formula “un solo corpo” compare complessivamente 10 volte, come risulta da quanto segue:

το σωμα του Χριστου: 1Cor 10,16; 11,27; Rm 7,4; Col 2,17; Ef 4,12
σωμα Χριστου: 1Cor 12,27

τουτο μου εστιν το σωμα: 1Cor 11,24
σωμα αυτου: Fil 3,21; Col 1,24; Ef 1,23; 5,30

εν σωμα: 1Cor 6,15; 10,17,12,12.13.20; Rm 12,4.5; Col 3,15; Ef 2,16; 4,4

Le espressioni non hanno un senso univoco e di fatto parlano sia del corpo personale di Gesù, sia del suo corpo eucaristico, sia del suo corpo ecclesiale.

b. 1Cor 6, 12-20: i singoli credenti e il corpo personale del Cristo

Informato su casi di prostituzione che si verificavano nella comunità cristiana di Corinto, Paolo parla dell’uso del «corpo / σωμα» dei credenti nella loro legittima e non-legittima pratica sessuale. Poiché in 6,13b-14 è intercambiabile con «noi / ημεις», il «corpo / σωμα» è in qualche modo la persona del credente: «Il corpo non è per l’impudicizia ma per il Signore, e il Signore è per il corpo: Dio poi, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi / ημεις». Dal contesto poi si ricava che σωμα è la persona in quanto redenta e trasformata dal Cristo sia nella suo essere, sia nelle sue relazioni. Da tutto questo Paolo ricava le conseguenze sul piano etico che anche i suoi interlocutori dovrebbero trarre. Come ultima cosa Paolo richiama ciò che sta all’origine di tutto, sia della novità dell’essere cristiano, sia delle sue nuove relazioni, sia delle conseguenze etiche: con un linguaggio molto particolare, quello della compravendita degli schiavi, Paolo dice che i credenti nella Pasqua del Signore furono da lui “comperati a (giusto) prezzo” (v. 20).

  1. Il nuovo modo di essere. “Corpo / σωμα” è il nuovo modo di essere del credente. Paolo richiama ai corinzi quello che devono ben sapere di essere ora, dopo di essere giunti alla fede: «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo / μελη του Χριστου?» (v. 15); «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio?», (v. 19);
  2. Le nuove relazioni. «Corpo / σωμα» è il nuovo modo con cui il credente è in relazione sia con il Cristo, sia con gli altri credenti, sia con coloro che sono esterni alla comunità e non sono credenti. Il corpo è dunque la persona con tutto il fascio delle sue relazioni: è l’aspetto relazionale della persona. I credenti sono “di” Cristo: «… i vostri corpi sono membra di Cristo» (του, genitivo, v. 15, bis), e sono “per” lui: «… il corpo è per il Signore» (τω κυριω, dativo, v. 13). In particolare la comunione con il Cristo finalizza il corpo del credente alla resurrezione: «… il corpo è per il Signore, e il Signore è per il corpo. Dio poi, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza» (6,14).
  3. Le conseguenze. Se appartengono al Cristo come sue membra, i credenti non appartengono più a se stessi: «Non sapete che il vostro corpo è tempio ecc. e che … non appartenete a voi stessi?», (6,19). Se non appartengono più a sé stessi non possono più farsi dominare né da alcuna cosa né da alcuna persona: «Tutto mi è lecito, ma io non mi lascierò dominare (εξουσιαζομαι) da nulla» (6,12). Quella relazione con il Cristo è dunque così forte e così totalizzante che discrimina tutte le altre relazioni. La relazione tra uomo e donna nel matrimonio è una relazione “nel Signore”, così che il matrimonio è assunto e santificato dalla vita cristiana: «… il marito non credente viene reso santo dalla moglie credente e la moglie non credente dal marito credente: altrimenti i vostri figli sarebbero impuri, mentre invece sono santi» (7,14). La relazione con una prostituta invece è inconciliabile con quella che ha unito il credente al Cristo: «Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta? Non sia mai!», (6,15); «Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati … entreranno nel regno di Dio» (6,9). La comunione con il Cristo Risorto ha dunque trasformato ed elevato il credente, comportando conseguenze precise anche sul campo delle relazioni.
  4. Il punto di partenza e il fondamento di tutto è in un evento passato: la Pasqua del Signore. Paolo parlando di essa ricorre al vocabolario della compravendita: più in particolare con l’aoristo passivo di αγοραζω, (= andare nell’agorà per fare un acquisto): «… non appartenete a voi stessi. Infatti siete stati comperati (ηγορασθητε) a (giusto) prezzo».

In tutto questo:

  1. Il corpo del Cristo di cui il credente è membro è il corpo personale del Cristo,
  2. La chiesa non è ancora detta “corpo di Cristo”, ma è la comunità di coloro che non appartengono più a se stessi e che invece appartengono al Cristo come sue membra.

c. 1Cor 10,14-22; 11,23-26: la Chiesa, e il corpo sia personale che eucaristico del Cristo

Nelle parole dell’istituzione Gesù afferma l’identità del pane eucaristico con il suo corpo (σωμα) personale, che egli dà per gli uomini (11,24). In 10,17 Paolo afferma che, essendo unico il pane (eucaristico), noi (Paolo e i corinzi, e quindi qualunque chiesa domestica che celebri la cena) diventiamo un solo corpo ecclesiale (εν σωμα). – Qui il discorso della comunione (κοινωνια, cf. 10,16bis; μετεχειν 10,17.21; κοινωνος, 10,18.20) è ancora più esplicito. Ogni altare, dice Paolo, mette in comunione: questo era vero per gli Israeliti (v. 18), questo è vero anche per gli altari idolatrici che mettono in comunione non con gli idoli che sono nulla, bensì coi demoni (v. 19-20). Anche il pane e il calice della cena mettono in comunione con il corpo e con il sangue personali del Cristo (v. 16-21), e con gli altri credenti che partecipano dello stesso pane con i quali si diventa un solo corpo (v. 17). – In 1Cor 10-11 si diventa un solo corpo ecclesiale partecipando al corpo eucaristico del Cristo che mette in comunione con il corpo personale offerto per gli uomini nella Pasqua. «In questo contesto nasce l’originale definizione paolina della chiesa come “corpo” di Cristo», (E. Franco, p. 182).

d. 1Cor 12,12-27: membra diversificate del corpo del Cristo unite dallo Spirito

In 1Cor 12 il termine σωμα ricorre 18 volte e 13 volte invece il termine membro / μελος. Con questo vocabolario una terza volta nella stessa lettera Paolo torna dunque a parlare del corpo ecclesiale quando deve affrontare il problema di chi a Corinto soffriva del complesso di superiorità («Non può l’occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di te”, né la testa ai piedi: “Non ho bisogno di voi”», 12,21), e di chi soffriva invece del complesso di inferiorità («Se il piede dicesse; “Poiché io non sono mano, non appartengo al corpo ecc. E se l’orecchio dicesse: “Poiché io non sono occhio, non appartengo al corpo ecc.”», 12,15-16). Con il paragone del corpo (καθαπερ γαρ το σωμα κτλ) Paolo dice ai primi che è necessaria la distinzione delle membra e che essa viene da Dio, mentre agli altri dice che ciascun membro deve servire al bene di tutto l’unico corpo. – Artefice dell’unità nella diversità è lo Spirito alla cui effusione si partecipa mediante la partecipazione al battesimo, così che si è coinvolti nella edificazione dell’unico corpo: «In realtà noi tutti siano stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo») 12,13. – D’improvviso poi Paolo abbandona il paragone e, mettendo il verbo all’indicativo (εστε), passa a parlare della realtà, definendo i cristiani di Corinto con l’espressione “corpo di Cristo”: υμεις δε εστε σωμα Χριστου, (12,27). Paolo dice ai Corinzi: «Voi siete corpo [senza articolo] di Cristo», e non: «Voi siete il corpo di Cristo», perché la comunità corinzia non esaurisce la realtà ben più ampia del corpo di Cristo.
In 1Cor 12 il riferimento al corpo personale del Risorto è implicito nel tema dello Spirito, che è dono pasquale. Lo Spirito poi, diffuso in ogni membro, crea il corpo ecclesiale del Cristo.

e. Rm 12,4-6: il corpo ecclesiale esclude ogni rivalità

In Rm 12 Paolo si rivolge a chi si sopravvaluta, rischiando di disprezzare, di creare rivalità nella chiesa romana. Anche qui Paolo mostra come l’unica via percorribile è quella di tenere insieme la diversità delle funzioni e l’unità del corpo. Anche qui Paolo parte dal paragone del corpo («Come nel nostro corpo, che è unico, abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione…»), per poi parlare della realtà («… così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo, e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri. Abbiamo pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi», Rm 4-6). – Qui tuttavia il corpo di cui Paolo parla non è il corpo di Cristo: Paolo non dice che i credenti sono “corpo di Cristo”, ma che in lui formano un corpo. Quello che Paolo afferma dunque come realtà è la comunione ecclesiale, non il suo sussistere come corpo di Cristo.

f. Colossesi, Efesini: la Chiesa-corpo e il Cristo suo capo

Col ed Ef introducono nel tema teologico del corpo ecclesiale del Cristo termini e prospettive molto nuovi.

  1. Anzitutto, accanto all’immagine del corpo compaiono quelle dell’edificio (Ef 2,19-22; 4,16) o del tempio da edificare (Ef 2,19-22) o della sposa (5,25-27), immagini che aggiungono l’idea di crescita, di maturazione e, rispettivamente, di amore vicendevole tra chiesa e Cristo.
  2. La chiesa di cui si parla non è più la chiesa locale di Corinto o di Roma ma la chiesa che noi diremmo ‘universale’.
  3. La diversità che deve essere assunta nell’unità non è quella di individui o gruppi rivali della medesima comunità di Corinto o di Roma, ma sono i due grandi tronconi del cristianesimo primitivo: la componente giudeo-cristiana e la componente etnico-cristiana (Ef 3,6).
  4. La loro fusione in un solo corpo è opera di riconciliazione (ειρηνοποιησας κτλ, Ef 2,15b-16a) e di ricapitolazione (ανακεφαλαιωσασθαι, Ef 2,11) che ha addirittura dimensioni cosmiche e storico-salvifiche.
  5. Il rapporto tra la Chiesa e il Cristo sono detti con il rapporto corpo-capo (κεφαλη) e corpo-pienezza (πληρωμα). Il termine κεφαλη include due aspetti o relazioni: (a) in un corpo la testa è principio di coesione e di vita, (cf. Col 2,19; Ef 4,15); ma soprattutto (b) ‘capo’ significa origine e superiorità (cf. Col 1,18; 2,19; Ef 1,22); «Se il corpo si connette alla testa con un vincolo indissolubile, non si identifica tuttavia con essa».
  6. Nella ricapitolazione cristologica rientrerà non solo la Chiesa, ma rientreranno anche le potestà e i principati ecc. (Col 1,16; 2,10; Ef 1,21). – L’opera di ricapitolazione del Cristo-capo non è tanto l’opera redentrice dal peccato, ma molto più positivamente quella del piano creatore di Dio, da sempre incentrato sul Cristo. Questo tema è più volte presente negli scritti paolini: cf. per esempio 1Cor 3,21-23: «Tutto è vostro, voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio»; e 1Cor 15,24-28 «… poi sarà la fine, quando il Cristo consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza (…). E quando tutto sarà sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti». (Adattamento da E. FRANCO, «Chiesa come koin?nìa: Immagini, realtà, mistero», in Rivista Biblica 1996, 175-192).
  7. A questo nuovo ordine cosmico che avrà nel Cristo il suo capo viene fatto riferimento con il vocabolario della tàxis /ordine (υπο-τασσω, Ef 1,22; 5,24). «Ci troviamo qui di fronte allo sviluppo supremo di un pensiero essenziale di Paolo e delle espressioni da lui messe al servizio di esso. Unione sacramentale dei corpi dei cristiani al corpo risuscitato del Cristo; costituzione quindi di un corpo di Cristo che è la Chiesa, che lo costruisce senza posa; governo e vivificazione di questo Corpo da parte di Cristo concepito come Capo, anzitutto come capo che comanda ma anche come principio che nutre; estensione di questa influenza del Cristo a tutto l’universo che egli porta in sé insieme con la divinità di un pl?roma in cui tutto si concilia nell’unità (…). Una spiegazione costruttiva come questa non è forse la prova migliore che Col ed Ef sono ancora, anche se non del tutto, opera di Paolo, almeno del suo spirito e del suo cuore?», P. BENOIT, «Corpo, capo e Pleroma», 459-460.

Indicazioni bibliografiche per la chiesa-corpo di Cristo


Per altri articoli e studi del prof.Giancarlo Biguzzi o sulle lettere di S.Paolo presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici


[Introduzione all'epistolario paolino]