Riguardo all’altro nome di Aslan, vorrei davvero che fossi tu ad
    indovinare. C’è mai stato qualcuno in questo nostro mondo che: 1) giunse nello
    stesso periodo di Babbo Natale; 2) disse di essere il figlio del Grande Imperatore; 3) per la
    colpa di qualcun altro diede se stesso a degli uomini cattivi che lo derisero e lo uccisero; 4)
    tornò in vita; 5) viene alle volte chiamato l’Agnello (vedi la conclusione del
    Veliero)? Davvero non sai il Suo nome in questo mondo? Pensaci su e fammi sapere la tua
    risposta!
    
     Così C.S.Lewis, autore dei tre volumi de Le cronache di Narnia da un episodio dei quali
    è tratto il film di A.Adamson in questi giorni sugli schermi, rispondeva ad Hila, una
    bambina americana lettrice delle sue fiabe[1]. La decisione di dare vita ad una allegoria di Cristo, nella
    sua creazione di fantasia, è evidente. Il leone Aslan è figura di Cristo che
    vince il gelo e la morte del mondo offrendo se stesso alla morte per la salvezza di uno dei
    bambini protagonisti della fiaba, Edmund, colpevole di tradimento, e risorge a vita nuova, per
    essere con i suoi nella battaglia finale contro la Strega Bianca e le forze maligne che la
    accompagnano.
     Meno noto è che proprio la riflessione sul significato del sacrificio di Cristo,
    ripresentato dalla figura di Aslan, sia all’origine della conversione al cristianesimo
    dell’autore inglese.
     Così egli stesso racconta ad Arthur Greeves la notte decisiva della sua vita - il 19
    settembre 1931 - nella quale, fino alle 4.00 del mattino, si trovò a discutere con
    H.Dyson[2] e con J.R.R.Tolkien,
    l’autore de Il Signore degli anelli, della realtà della morte in croce di Cristo,
    finendo per esserne conquistato[3]:
    
     Quello che mi ha trattenuto (perlomeno durante l’anno passato, all’incirca) non
    è stata tanto una difficoltà a credere, ma piuttosto a sapere cosa la dottrina
    volesse significare: non puoi credere a una cosa mentre ignori cosa questa sia.
    La mia difficoltà era la Dottrina della Redenzione nella sua interezza, in che modo la
    vita e morte di Cristo “avessero salvato” o “spalancato la salvezza”
    per il mondo. Capivo come una salvezza miracolosa potesse essere necessaria: uno può
    vedere dall’esperienza di tutti i giorni come il peccato (per esempio nel caso di un
    alcolizzato) possa portare l’uomo a un punto tale che egli sia destinato a raggiungere
    l’Inferno (la completa degradazione e miseria) in questa vita, a meno che un qualche
    aiuto o sforzo non semplicemente naturale prenda l’iniziativa. E potevo bene immaginare
    un mondo intero nella stessa condizione, e in maniera simile la necessità di un
    miracolo. Quello che non riuscivo a capire era come la vita e la morte di Qualcun Altro
    (chiunque questi fosse) duemila anni fa potesse aiutare noi adesso – se non nella misura
    in cui poteva esserci utile il suo esempio. E la questione dell’esempio, sebbene tanto
    vera e importante, non è il cristianesimo: proprio al centro del cristianesimo, nei
    Vangeli e in san Paolo, trovi qualcosa di completamente diverso e misterioso, espresso in
    quelle frasi di cui io mi sono fatto gioco così spesso (“propiziazione”,
    “sacrificio”, “il sangue dell’Agnello”), espressioni che riuscivo
    a interpretare solo in modi che mi parevano o sciocchi o scandalosi.
     Ora, quello che Dyson e Tolkien mi hanno mostrato era questo: che se io incontro
    l’idea del sacrificio in un racconto pagano questa non mi crea alcun problema: anzi, che
    se mi trovo davanti un dio che si sacrifica, ne sono attratto e misteriosamente commosso:
    ancora, che l’idea del dio che muore e risorge (Balder, Adone, Bacco) mi colpisce
    così tanto a condizione che io la trovi ovunque tranne che nei Vangeli. La
    ragione è che nei racconti pagani io sono stato preparato a percepire il mito nella sua
    profondità e suggestione di significati oltre ogni mia capacità di comprensione,
    anche se poi nella freddezza della prosa io non riesco a dire “cosa significhi”.
    Ora la storia di Cristo è semplicemente un mito vero: un mito che agisce su di noi come
    gli altri, ma con la tremenda differenza che questo è davvero avvenuto.
    [...]
     Cioè, le storie pagane sono Dio che esprime Se stesso attraverso la mente dei poeti,
    facendo uso delle immagini che vi ha trovato, mentre il cristianesimo è Dio che esprime
    Se stesso attraverso quello che chiamiamo “realtà”. Perciò è
    vero, non essendo una “descrizione” di Dio (cosa che una mente finita non potrebbe
    racchiudere) ma la via attraverso cui Dio sceglie di mostrarsi alle nostre facoltà. Le
    “dottrine” che tiriamo fuori dal vero mito sono certamente meno vere di questo:
    traducono in concetti e idee quello che Dio ha già espresso in un linguaggio più
    adeguato, la vera incarnazione, crocifissione e resurrezione. E’ sufficiente tutto questo
    per credere al cristianesimo? In ogni caso adesso sono certo che: A) in un certo senso, questo
    è il metodo con cui il cristianesimo deve essere avvicinato, così come mi accosto
    agli altri miti; B) fattore più importante e ricco di significato, sono quasi
    certo che sia tutto accaduto per davvero.
    
     Fino a quella notte Lewis si era sì accostato al cristianesimo, trovandolo
    l’unica visione “non noiosa” del mondo, ma non ne aveva ancora preso in seria
    considerazione la possibile verità[4].
    
     Il testo fantastico de Le cronache di Narnia, nell’episodio Il leone, la strega e
    l’armadio[5], ci presenta
    la legge della giustizia, stabilita dal grande Imperatore – fuor di metafora, da Dio -
    per la quale chi ha fatto il male (in questo caso Edmund, uno dei quattro fratelli, che
    più volte per ottenere piccoli vantaggi o per aver salva la vita ha tradito i suoi
    fratelli) è responsabile delle conseguenze di morte che ha generato:
    
  – Tu hai un traditore qui, Aslan – cominciò a dire la strega. 
  Naturalmente tutti sapevano che alludeva a Edmund, ma il ragazzo, dopo tutto 
  quello che aveva passato e dopo il colloquio della mattina con Aslan, non ci 
  pensava più: guardava il grande leone senza curarsi di quel che diceva 
  la Strega Bianca.
  – Ebbene, quel traditore non ti ha recato nessuna offesa – obiettò 
  Aslan.
  – Hai dimenticato la Grande Magia?
  – Diciamo che l’ho dimenticata – rispose gravemente il leone.
  – Parlamene tu.
  – Devo parlartene io? – chiese la strega con voce stridula. –
  – Devo ripeterti quello che è scritto là, sulla Tavola di Pietra? 
  Devo farti ricordare che proprio su quella tavola sono scritte le stesse cose 
  che la spada ha inciso profondamente nella roccia infuocata della Collina Segreta? 
  E anche quello che è inciso sullo scettro dell’imperatore d’Oltremare? 
  Sai bene qual è l’incantesimo che l’imperatore ha gettato 
  su Narnia fin dall’inizio dei tempi. Sai bene che ogni traditore mi appartiene, 
  è mio per legge. Ogni tradimento mi dà diritto a un’uccisione!
  – Ah, capisco! – esclamò il castoro, con tono ironico. 
  – Quella là crede di essere la regina e invece funziona da boia 
  per conto dell’imperatore d’Oltremare. Capisco... capisco...
  – Buono, buono, mio caro castoro – disse Aslan, e fece sentire un ringhio 
  soffocato.
  – Quell’essere umano mi appartiene – continuò imperterrita 
  la strega. – Ho diritto a confiscargli la vita, a prendermi il suo sangue.
  – E vieni a prendertelo, allora! – esclamò il toro con la testa 
  d’uomo: la sa voce assomigliava a un profondo muggito.
  – Imbecille! – replicò la strega con un sorriso che era quasi 
  una smorfia crudele. – Credi dunque che il tuo padrone possa togliermi 
  i miei diritti con l’uso della forza? Lo sa bene, lui, cosa stabilisce 
  la Grande Magia: se non avrò il sangue di quel traditore, Narnia 
  sarà distrutta dall’acqua e dal fuoco! Questo dice la Grande Magia!
  – E’ vero – mormorò Aslan. – Non posso negarlo.
  – Oh, Aslan! – esclamò Susan, e poi, avvicinando le labbra all’orecchio 
  di Aslan, sussurrò: – Non possiamo permetterlo. Voglio dire che tu non 
  lo permetterai, vero? Non si può far nulla per rompere l’incantesimo? 
  Voglio dire, tu non puoi fare qualcosa contro la Grande Magia?
  – Qualcosa contro quello che l’imperatore ha stabilito dall’inizio 
  dei tempi? – chiese Aslan volgendo verso la fanciulla uno sguardo lievemente 
  accigliato.
    
     Aslan si ritira per un incontro a tu per tu con la Strega Bianca. Al termine del loro
    colloquio non spiega ai fratelli ed al suo esercito radunato ciò che avverrà, ma
    tutti avvertono che qualcosa di grande sta per accadere:
    
     E la discussione tra il leone e la strega continuava. Finalmente si udì la voce di
    Aslan che disse:
     – Tranquillizzatevi, va tutto bene. Ho sistemato la faccenda. La strega rinuncia ai suoi
    diritti sul sangue di vostro fratello. Allora si udì uno strano suono, come se tutti,
    che fino a quel momento non avevano osato neanche respirare, ora tirassero insieme un gran
    sospiro di sollievo. La Strega Bianca se ne stava andando: aveva sul volto un’espressione
    di gioia feroce. A un certo punto si fermò e voltandosi disse:
     – E come faccio a essere certa che manterrai la promessa?
     – Raaauuug – ruggì il leone, e fece l’atto di alzarsi dal trono dove
    stava seduto.
     La Strega Bianca restò a guardarlo un attimo, sbalordita. Poi Aslan spalancò
    maggiormente la bocca, lei si raccolse la gonna tra le mani e fuggì a gambe
    levate.
    
     Solo le due sorelline seguono il leone, nella notte, fino al luogo nel quale si rivela il
    segreto del colloquio fra Aslan e la Strega Bianca. Susan e Lucy, vedendo il leone che si fa
    legare e porre sull’altare, sulla Tavola di pietra, senza reagire, capiscono che Aslan ha
    offerto la sua vita in cambio di quella di Edmund. Le due bambine assistono così alla
    sua terribile morte, offerta in sacrificio:
Eppure, se il leone avesse voluto, una sola zampata poteva significare la
    morte dei suoi assalitori. Non reagì, invece, neanche quando i suoi nemici cominciarono
    a stringere i nodi, tirando le corde così forte che esse sembravano sul punto di
    segargli la pelle; poi lo trascinarono verso la Tavola di Pietra.
  – Basta, ora – comandò la strega. – Dobbiamo sistemargli 
  la criniera, prima di tutto!
     Dalla folla dei suoi seguaci si levò un altro coro di risatacce volgari. Un orco si
    fece avanti: teneva in mano un paio di forbici e, zac-zac-zac, cominciò a tagliare ampie
    ciocche di peli dorati. Quand’ebbe finito, e sul terreno si ammassava il resto della
    lunga criniera, l’orco si tirò da parte. Le due ragazzine poterono allora vedere,
    sempre nascoste tra i cespugli, che il povero Aslan sembrava ben diverso da prima. Anche i
    nemici si accorsero della differenza.
  – Be’, dopo tutto non è che un gattone! – gridò 
  uno.
  – E noi avevamo tanta paura di quello là! – esclamò un 
  altro. Tutti si misero a sbeffeggiarlo con frasi idiote, come: “Micio, 
  micio... quanti topolini hai acchiappato oggi?” oppure: “Vuoi un 
  po’ di latte nel piattino, micetto?”
  – Oh... come possono fare una cosa simile! – mormorò Lucy mentre 
  le lacrime le rigavano il volto. – Sono dei bruti, delle belve! Ora che 
  avevano superato il primo momento di sorpresa, Lucy e Susan si accorgevano che, 
  così tosato, Aslan sembrava anche più bello, più coraggioso, 
  più paziente che mai.
    
    Se tutti deridono l’impotenza di Aslan che non si ribella, non così avviene per
    Susan e Lucy.
     Vedendolo morire così, le bambine comprendono di trovarsi dinanzi ad un evento che
    supera tutto ciò che finora hanno visto in vita[6].
    
  – Vigliacchi! Vigliacchi! – singhiozzava Susan. – Hanno paura 
  di lui anche adesso! Quando questa operazione fu compiuta (e Aslan era un unico 
  ammasso di corde!) sulla folla cadde un profondo silenzio.
    
    La Strega Bianca, regina del male, prima di spezzare la vita del leone Aslan, pronuncia la sua
    terribile condanna. E’ l’ultima illusione del male che, togliendo di mezzo Cristo,
    sa che, con la sua fine, anche l’uomo è perduto. E’ straordinario lo scambio
    di parole del testo evangelico: il Cristo sembra “non aver potuto salvare gli
    altri”, oltre che se stesso!
    
  – E allora? Chi ha vinto? E tu, pazzo, credi che con questo salverai quel 
  traditore? Io ti ucciderò al posto so, come era nel nostro patto: così 
  la Grande Magia sarà rispettata. Ma quando tu sarai morto, chi mi impedirà 
  di uccidere anche lui? Chi lo strapperà dalle mie mani, allora? Mi hai 
  consegnato, e per sempre, tutto il paese di Narnia. Hai perso la tua vita, ma 
  non hai salvato quella di lui. Capiscilo finalmente e muori nella disperazione! 
  Le due sorelline non videro il momento preciso in cui la malvagia strega vibrò 
  il colpo. Non avrebbero mai potuto sopportare un simile spettacolo: perciò 
  si coprirono gli occhi con le mani.
    
    Quando tutti hanno abbandonato la scena, per precipitarsi a sconfiggere l’uomo nella
    grande battaglia e quando anche le bambine stanno per abbandonare il luogo della morte di
    Aslan, il sepolcro, ecco la meraviglia della resurrezione:
    
  – Oh, Aslan! – esclamarono entrambe fissandolo impaurite e contente 
  al tempo stesso. – Non eri morto, allora, caro Aslan?
  – chiese Lucy.
  – Non lo sono più – rispose il leone.
  – Non sei... non sei un... – domandò Susan con voce tremante. 
  Non sapeva decidersi a dire la parola “fantasma”. Aslan si avvicinò, 
  piegò un poco la testa e le diede una leccatina sulla fronte. Susan sentì 
  il calore del suo fiato e quella specie di profumo che sembrava diffuso intorno 
  a lui.
  – Ti sembro un fantasma? – chiese Aslan.
  – Oh, no! Sei vivo, sei vivo! – gridò Lucy, e tutt’e due 
  si lanciarono verso di lui, ripresero ad abbracciarlo e accarezzarlo e coprirlo 
  di baci.
  – Ma cosa significa tutto questo? – chiese Susan quando si furono un 
  po’ calmate. Aslan rispose:
  – Significa che la Strega Bianca conosce la Grande Magia, ma ce n’è 
  un’altra, più grande ancora, che lei non conosce. Le sue nozioni 
  risalgono all’alba dei tempi: ma se lei potesse penetrare nelle tenebre 
  profonde e nell’assoluta immobilità che erano prima dell’alba 
  dei tempi, vedrebbe che c’è una magia più grande, un incantesimo 
  diverso. E saprebbe così che, quando al posto di un traditore viene immolata 
  una vittima innocente e volontaria, la Tavola di Pietra si spezza e al sorgere 
  del sole la morte stessa torna indietro!
  – Oh, è meraviglioso! – esclamò Lucy battendo le mani 
  e saltando dalla gioia. – E ora, come ti senti, Aslan?
  – Sento che mi ritornano le forze e, bambine mie, prendetemi se vi 
  riesce!
    
    Aslan è realmente morto. Non si è trattato di una morte apparente. Ma la sua vita
    di risorto è altrettanto reale. C’è un orizzonte più grande della
    Grande Magia della giustizia, c’è la presenza originaria di Dio e della sua
    bontà e misericordia, ciò che la Strega Bianca ignora, non volendo amare e
    credere.
    
    In un’altra opera, Il cristianesimo così com’è[7], che C.S.Lewis scrisse per esporre la
    fede cristiana a chi non la conosce, il nostro autore si sofferma a presentare estesamente il
    significato della morte redentrice di Cristo, al cuore dell’esperienza cristiana della
    vita:
    
    Ci viene detto che Cristo è stato ucciso per noi, che la sua morte ha redento i
    nostri peccati, e che morendo Egli ha reso impotente la morte stessa. Questa è la
    formula. Questo è il cristianesimo, ed è questo ciò che dev’essere
    creduto. Qualsiasi nostra teoria su come la morte di Cristo abbia operato tutto ciò
    è, a mio parere, affatto secondaria; è solo un disegno, uno schema da lasciare da
    parte se non ci aiuta, e da non confondere, anche se ci aiuta, con la cosa essenziale. Alcune
    di queste teorie, nondimeno, meritano di essere considerate. La più nota è
    (che)... abbiamo ottenuto il perdono perché Cristo si è offerto di essere punito
    al posto nostro. Apparentemente, è una teoria assurda. Se Dio era disposta a perdonarci,
    perché mai non l’ha fatto? Che senso c’era a punire, invece, un innocente?
    Io non ne vedo alcuno, se pensiamo a una punizione in senso giudiziario. D’altra parte,
    se pensiamo a un debito, è molto sensato che una persona provvista di mezzi lo paghi a
    nome di chi non ne ha. O ancora, se all’espressione “pagare la penale” non
    attribuiamo il significato di subire un castigo, ma quello più generale di “far
    fronte a un impegno” o di “saldare un conto”, è esperienza comune che
    quando uno si è messo in qualche impiccio, il disturbo di tirarlo fuori tocchi di solito
    a un buon amico. Ebbene, in quale “impiccio” si era messo l’uomo? Aveva
    cercato di agire per conto proprio, di comportarsi come se appartenesse a se stesso. In altri
    termini, l’uomo caduto non è soltanto una creatura imperfetta che ha bisogno di
    migliorarsi: è un ribelle che deve deporre le armi. Deporre le armi, arrendersi,
    chiedere scusa, capire che ci si è messi su una strada sbagliata ed essere pronti a
    ricominciare la vita dalle fondamenta: è questo l’unico modo di uscire dal nostro
    “impiccio”. Questa operazione di resa – questo fare macchina indietro a tutta
    forza – è ciò che il cristianesimo chiama pentimento. Ora, il pentimento
    non è un gioco da ragazzi. E’ una cosa molto più ardua che cospargersi il
    capo di cenere. Vuol dire disimparare tutta la presunzione e la caparbietà cui da
    migliaia d’anni siamo avvezzi. Vuol dire uccidere una parte di sé, subire una
    specie di morte. In realtà per pentirsi occorre essere persone buone davvero. E qui
    viene l’intoppo. Solo una persona cattiva ha bisogno di pentirsi: e solo una persona
    buona può pentirsi perfettamente. Peggiori siamo, più abbiamo bisogno di
    pentirci, e meno ne siamo capaci. La sola persona che potrebbe farlo perfettamente sarebbe una
    persona perfetta – e non ne avrebbe bisogno. Badate bene: questo pentimento, questo
    volontario sottomettersi all’umiliazione e a una specie di morte, non è qualcosa
    che Dio esige da noi prima di riaccoglierci, e da cui potrebbe esimerci se volesse; è
    semplicemente una descrizione di ciò in cui consiste l’atto di tornare a Lui. Se
    chiedi a Dio di riaccoglierti senza questo atto, Gli chiedi in realtà di lasciarti
    tornare senza tornare. Non è possibile. Benissimo, dunque: dobbiamo compiere questo
    atto. Ma la stessa cattiveria che ce lo rende necessario, ci rende incapaci di compierlo.
    Possiamo farlo se Dio ci aiuta? Sì, ma che cosa intendiamo parlando di aiuto divino?
    Intendiamo che Dio mette in noi, per così dire, un poco di Sé. Dio ci presta un
    poco del Suo raziocinio, ed è così che noi pensiamo; mette in noi un poco del Suo
    amore, ed è così che ci amiamo l’un l’altro. Quando insegni a
    scrivere a un bambino, gli reggi la mano mentre forma le lettere: il bambino, cioè,
    forma le lettere perché le formi tu. Noi amiamo e ragioniamo perché Dio ama e
    ragiona e ci regge la mano mentre lo facciamo. Se non fossimo caduti, tutto sarebbe facile. Ma
    adesso, sfortunatamente, abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio per fare qualcosa che Dio,
    nella Sua natura, non fa mai: arrenderci, soffrire, sottometterci, morire. Nulla, nella natura
    di Dio, corrisponde a questo processo. Sicché proprio quella strada per la quale
    soprattutto ci è ora indispensabile la guida di Dio è una strada che Dio, nella
    Sua natura, non ha mai percorso. Dio può spartire soltanto ciò che ha: e questo,
    nella Sua natura, non c’è. Ma supponiamo che Dio diventi uomo: supponiamo che la
    nostra natura umana, che può soffrire e morire, si amalgami con la natura di Dio in
    un’unica persona: allora questa persona potrebbe aiutarci. Potrebbe rinunciare alla Sua
    volontà, e soffrire e morire, perché è un uomo; e potrebbe farlo
    perfettamente perché è Dio. Voi e io possiamo compiere questo processo soltanto
    se Dio lo compie in noi; ma Dio può compierlo soltanto se diventa uomo. I nostri
    tentativi volti a questo morire possono andare a segno soltanto se noi uomini condividiamo il
    morire di Dio, così come il nostro pensiero può sussistere soltanto perché
    è una goccia del mare della Sua intelligenza: ma noi non possiamo condividere il morire
    di Dio se Dio non muore: ed Egli può morire soltanto essendo uomo. E’ in questo
    senso che Egli paga il nostro debito, e patisce per noi ciò che a Lui, in quanto Dio,
    non è affatto necessario patire. Ho sentito certuni obiettare che se Gesù era Dio
    oltre che uomo, le Sue sofferenze e la Sua morte perdono, ai loro occhi, ogni valore,
    “perché per Lui deve essere stato facilissimo”. Altri potrà (a buon
    diritto) biasimare la sgarbata ingratitudine di questa obiezione; io sono stupefatto
    dall’incomprensione che essa rivela. In un certo senso, naturalmente, chi la fa non ha
    torto. Anzi, si mostra fin troppo moderato. La perfetta sottomissione, la perfetta sofferenza,
    la perfetta morte non solo furono più facili a Gesù perché Egli era Dio:
    furono possibili soltanto perché Egli era Dio. Ma questo è un motivo ben strano
    per non accettarle. Il maestro può tracciare le lettere per il bambino in quanto
    è adulto e sa scrivere. Questo, naturalmente, gli rende le cose più facili, ma
    è soltanto grazie a questa facilità che egli può aiutare l’allievo.
    Se il bambino rifiutasse il suo aiuto perché “per gli adulti è
    facile”, e aspettasse di imparare a scrivere da un coetaneo che non sa scrivere nemmeno
    lui (e quindi non ha un vantaggio “sleale”), non farebbe molta strada. Se io sto
    annegando in un fiume vorticoso, un uomo che ha un piede sulla riva può tendermi una
    mano e salvarmi la vita. Dovrei gridargli (tra un rantolo e l’altro): “No, non
    è giusto! Hai un vantaggio... stai con un piede sulla riva”? Quel vantaggio
    – chiamatelo “sleale”, se volete – è la sola cosa che gli
    permette di essermi utile. Da chi cercheremo aiuto se non da chi è più forte di
    noi?
    
    S.Tommaso d’Aquino aveva parlato[8] della redenzione dell’uomo mediante la passione di Cristo
    come realtà consona sia alla giustizia che alla misericordia di Dio. La morte in croce
    di Cristo, pur non necessaria secondo una “necessità di coazione”, è
    necessaria secondo il volere di Dio. L’Aquinate così presentava cinque aspetti di
    essa: il sacrificio di Cristo, dando all’uomo di conoscere quanto Dio lo ami, mostrandoci
    l’esempio perché “anche noi ne seguiamo le orme”, redimendoci dal
    peccato ma anche meritandoci la grazia giustificante e la beatitudine, insinuando in noi con
    più forza l’esigenza di conservarci immuni dal peccato ed, infine, rispettando la
    nostra natura di uomini poiché l’uomo Gesù, e non solo Dio, ha vinto la
    morte subendola, era più “conveniente”. “Conveniente” è
    uno straordinario termine teologico medioevale con il quale si indica ciò che è
    proprio dell’essere e dell’agire della Trinità, lo stile che è
    inconfondibilmente unico e appropriato dell’essere divino – era conveniente che
    fossimo liberati dalla passione di Cristo, piuttosto che dalla semplice volontà di
    Dio!
     C.S.Lewis ha avuto il coraggio di riavvicinare il suo ed il nostro tempo al grande mistero
    della redenzione umana avvenuta attraverso l’amore ed il dolore di Cristo stesso.
[1] Lettera del 3 giugno 1951, in C.S.Lewis, Prima che faccia notte. Racconti e scritti inediti, BUR Rizzoli, Milano, 2005, pagg.98-99.
[2] Professore di Letteratura Inglese all’Università di Reading, cristiano anglicano e futuro , membro degli “Inklings”, gli “Imbrattacarte” o gli “Scribacchini”, noti anche come i “cristiani di Oxford”, il circolo letterario che si riuniva il giovedì sera nelle stanze di Lewis al Magdalene College per discutere e leggere le novità che ognuno dei membri si trovava volta per volta a scrivere.
[3] Lettera del 18 ottobre 1931, in C.S.Lewis, Prima che faccia notte. Racconti e scritti inediti, BUR Rizzoli, Milano, 2005, pagg.88-90. I neretti sono dello stesso C.S.Lewis.
[4] L’avvicinarsi
    al cristianesimo è descritto retrospettivamente da C.S.Lewis, attraverso la crescente
    consapevolezza che la letteratura di ispirazione cristiana era quella che gli appariva
    più capace di leggere la profondità della problematica esistenziale della vita
    umana. Lewis così si esprimeva: “I cristiani hanno torto, ma tutti gli altri
    sono noiosi”, parafrasando una celebre frase della Chanson de Roland, "Paien unt
    tort et crestiens unt dreit", "I pagani hanno torto e i cristiani hanno ragione".
    Così scrive estesamente (in C.S.Lewis, Sorpreso dalla gioia. I primi anni della mia
    vita, Jaca Book, Milano, 2002, pagg,155-157) descrivendo il suo approccio alla letteratura a
    partire dal 1922:
     “Nell’estate del 1922 diedi gli ultimi esami. Poiché non c’erano
    cattedre di filosofia libere, o comunque nessuna che io potessi assumere, il mio paziente
    genitore mi offerse un quarto anno a Oxford, durante il quale studiai inglese, aggiungendo una
    seconda corda al mio archetto...
    Ero appena entrato alla facoltà di inglese, quando presi parte al corso di
    discussione di George Gordon. E lì mi feci un nuovo amico. Le prime parole che
    pronunciò valsero a distinguerlo dagli altri dieci o dodici presenti; mi andò
    subito a genio,e questo, per di più, a un’età in cui le amicizie immediate
    della prima giovinezza andavano facendosi sempre più rare. Si chiamava Nevill Coghill.
    Scopersi subito con stupore che egli – senza dubbio il più intelligente e colto
    della classe – era cristiano e sovrannaturalista convinto...
     Tutti i libri cominciavano a rivoltarmisi contro. In effetti, dovevo essere stato cieco
    come un pipistrello per non avere colto da un pezzo la ridicola contraddizione tra la mia
    teoria esistenziale e le mie reali esperienze di lettore. George MacDonald aveva fatto per me
    più di qualunque altro scrittore; naturalmente, era un peccato ch’egli avesse il
    pallino del cristianesimo. Era valido a dispetto di esso. Chesterton aveva più
    senso di tutti gli altri moderni messi insieme; e indipendentemente dal suo cristianesimo.
    Johnson era uno dei pochi autori di cui sentivo di potermi fidare ciecamente; abbastanza
    stranamente, aveva lo stesso pallino. Per una curiosa coincidenza, lo avevano anche Spenser e
    Milton. Era possibile scoprire lo stesso paradosso anche tra gli autori antichi. I più
    religiosi (Platone, Eschilo, Virgilio) erano senza dubbio quelli cui potevo realmente
    attingere. D’altro canto, gli scrittori non afflitti dalla religione e che in teoria
    avrebbero avuto diritto alla mia più totale simpatia – Shaw e Wells e Mill e
    Gibbon e Voltaire – avevano tutti un’aria un po’ sparuta; quel sapore che da
    ragazzi chiamavamo “di latta”. Non che non mi piacessero. Erano tutti (specialmente
    Gibbon) divertenti; ma niente di più. In essi non sembrava esserci profondità.
    Erano troppo semplici. Nei loro libri, la ruvidezza e la densità della vita non
    trasparivano. Ora che leggevo più inglesi, il paradosso andava sempre più
    peggiorando. Il Dream of the Rood mi commosse profondamente; Langland ancora di più;
    Donne (per qualche tempo) mi inebriò; Thomas Browne mi soddisfece profondamente e
    durevolmente. Ma il più allarmante di tutti fu George Herbert. Ecco un uomo che mi
    sembrava eccellesse su tutti gli altri autori nell’illustrare la vera qualità
    della vita come realmente la viviamo di momento in momento; ma il pover’uomo,
    anziché farlo direttamente, insisteva nel rimeditarla attraverso ciò ch’io
    avrei ancora chiamato “la mitologia cristiana”. D’altro canto, la più
    parte degli autori che si potevano considerare precursori dell’illuminismo moderno mi
    sembravano robetta e mi annoiavano a morte. Di Bacon trovai che fosse (per dirla francamente)
    un solenne e presuntuoso somaro, della Restoration Comedy un unico immenso sbadiglio e, dopo
    essermi virilmente battuto per arrivare in fondo a Don Juan, scrissi sulla pagina finale:
    “Mai più”. I soli non-cristiani che mi parve conoscessero veramente tutto
    furono i romantici; ed erano in buona parte minacciosamente contagiati da qualcosa che
    somigliava alla religione, e a volte persino dal Cristianesimo. Il succo si poteva più o
    meno esprimere in una corruzione del grande verso di Roland nella Chanson:
     I cristiani hanno torto,
    ma tutti gli altri sono noiosi.
    La mossa più naturale sarebbe stata di accertarsi un po’ più da vicino
    se i cristiani avessero, dopo tutto, torto. Ma non la feci. Pensavo di poterne dimostrare la
    superiorità senza quella ipotesi. Assurdamente (ma molti idealisti assoluti hanno
    condiviso tale assurdità) pensavo che “il mito cristiano” aprisse alle menti
    non filosofiche quanta verità, cioè di idealismo assoluto, fossero in grado di
    afferrare, e anche quanta li poneva al di sopra degli irreligiosi. Chi non riesce a elevarsi
    alla nozione di assoluto si accosterebbe alla verità più credendo in “un
    Dio” che non credendo affatto”.
[5] C.S.Lewis, Le cronache di Narnia, Mondadori, Milano, 2001, I volume, pagg.139-259.
[6] Così Andrew
    Adamson, regista del film, in una intervista a Buena Vista, si è espresso intorno alla
    complessità del personaggio di Aslan, nella sua versione cinematografica:
     “Aslan è stato una sfida. È un personaggio molto importante nel libro
    e, naturalmente, molto complesso da riprodurre. Ma è molto difficile creare in
    particolare un personaggio onnipotente che sia anche accessibile. Vorresti provare compassione
    ed empatia quando va verso la sua morte... ma per fare questo deve essere umano e profondo e
    allo stesso tempo potente e feroce... come cita una frase del libro... non è un leone
    addomesticato. Liam Neeson possiede un grandissimo calore, ha una voce potente ed è
    anche capace di sprigionare una grande forza quando va in collera. Per cui è stata una
    grande sfida riunire tutte queste caratteristiche in un personaggio”.
     Purtroppo la scelta, in fase di doppiaggio della versione italiana, della voce di Omar Sharif,
    non ha permesso un analogo risultato.
[7] C.S.Lewis, Il cristianesimo così com’è, Adelphi, Milano, 1997, pagg.83-88.
[8] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, p.III, q.46.
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