N.B. I titoli ed i neretti sono redazionali e funzionali al commento sviluppato nella catechesi. Anche la disposizione dei testi non segue un ordine cronologico, ma è relativa alla successione dei temi così come è stata organizzata per la catechesi della parrocchia di S.Melania dell’anno 2005/2006. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questi brani non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Il Centro culturale Gli scritti (3.3.2007)
Teologia della liturgia - questo significa che Dio agisce per mezzo del Cristo nella liturgia e
che noi non possiamo agire che per mezzo Suo e con Lui. Da noi stessi non possiamo costruire la nostra via verso Dio.
Questa via non è percorribile, eccetto il caso che Dio stesso si faccia la via. E una volta per sempre: le
vie dell’uomo che non pervengono accanto a Dio sono delle non-vie.
Teologia della liturgia significa inoltre che nella liturgia il Logos stesso ci parla e non solo parla: viene con
il Suo corpo, la Sua anima, la Sua carne, il Suo sangue, la Sua divinità, la Sua umanità per unirci a
Lui, per fare di noi "un solo corpo". Nella liturgia cristiana tutta la storia della salvezza, anzi tutta la
storia della ricerca umana di Dio, è presente, viene assunta e portata al suo compimento. La liturgia
cristiana è una liturgia cosmica - abbraccia la creazione intera che attende con impazienza la rivelazione dei
figli di Dio (Rm 8, 19).
Trento non si ingannò, si appoggiò sul solido fondamento della Tradizione della Chiesa.
(da La teologia della liturgia, Conferenza tenutasi nel monastero di Fontgombault dell’allora Cardinale
Joseph Ratzinger, svoltasi presso l’Abbazia benedettina di “Notre Dame de Fontgombault”, in
Francia, 22-24 luglio 2001)
Penso che ciò che avviene nel Battesimo si chiarisca per noi più facilmente, se guardiamo alla parte
finale della piccola autobiografia spirituale, che san Paolo ci ha donato nella sua Lettera ai Galati. Essa si
conclude con le parole che contengono anche il nucleo di questa biografia: "Non sono più io che vivo, ma
Cristo vive in me" (Gal 2, 20). Vivo, ma non sono più io. L'io stesso, la essenziale
identità dell'uomo – di quest'uomo, Paolo – è stata cambiata. Egli esiste ancora e non
esiste più. Ha attraversato un "non" e si trova continuamente in questo "non": Io, ma "non" più
io. Paolo con queste parole non descrive una qualche esperienza mistica, che forse poteva essergli stata donata e
che, semmai, potrebbe interessare noi dal punto di vista storico. No, questa frase è l'espressione di
ciò che è avvenuto nel Battesimo. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo
soggetto più grande. Allora il mio io c'è di nuovo, ma appunto trasformato, dissodato, aperto
mediante l'inserimento nell'altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza. Paolo ci spiega la stessa
cosa ancora una volta sotto un altro aspetto quando, nel terzo capitolo della Lettera ai Galati, parla della
"promessa" dicendo che essa è stata data al singolare – a uno solo: a Cristo. Egli solo porta in
sé tutta la "promessa". Ma che cosa succede allora con noi? Voi siete diventati uno in Cristo, risponde Paolo
(Gal 3, 28). Non una cosa sola, ma uno, un unico, un unico soggetto nuovo. Questa liberazione del nostro io
dal suo isolamento, questo trovarsi in un nuovo soggetto è un trovarsi nella vastità di Dio e un essere
trascinati in una vita che è uscita già ora dal contesto del "muori e divieni". La grande esplosione
della risurrezione ci ha afferrati nel Battesimo per attrarci. Così siamo associati ad una nuova dimensione
della vita nella quale, in mezzo alle tribolazioni del nostro tempo, siamo già in qualche modo introdotti.
Vivere la propria vita come un continuo entrare in questo spazio aperto: è questo il significato dell'essere
battezzato, dell'essere cristiano. È questa la gioia della Veglia pasquale. La risurrezione non è
passata, la risurrezione ci ha raggiunti ed afferrati. Ad essa, cioè al Signore risorto, ci aggrappiamo e
sappiamo che Lui ci tiene saldamente anche quando le nostre mani si indeboliscono. Ci aggrappiamo alla sua mano,
e così teniamo le mani anche gli uni degli altri, diventiamo un unico soggetto, non soltanto una cosa sola.
Io, ma non più io: è questa la formula dell'esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la
formula della risurrezione dentro al tempo. Io, ma non più io: se viviamo in questo modo, trasformiamo
il mondo. È la formula di contrasto con tutte le ideologie della violenza e il programma che s'oppone alla
corruzione ed all'aspirazione al potere e al possesso.
(dall’omelia di Benedetto XVI nella Veglia Pasquale nella Notte Santa del 15 aprile 2006)
Cari fratelli... il Giovedì Santo è il giorno in cui il Signore diede ai Dodici il compito sacerdotale
di celebrare, nel pane e nel vino, il sacramento del suo corpo e del suo sangue fino al suo ritorno. Al posto
dell'agnello pasquale e di tutti i sacrifici dell'Antica Alleanza subentra il dono del suo corpo e del suo sangue, il
dono di se stesso. Così il nuovo culto si fonda nel fatto che, prima di tutto, Dio fa un dono a noi, e noi,
colmati da questo dono, diventiamo suoi: la creazione torna al Creatore. Così anche il sacerdozio è
diventato una cosa nuova: non è più questione di discendenza, ma è un trovarsi nel mistero di
Gesù Cristo. Egli è sempre Colui che dona e ci attira in alto verso di sé. Soltanto Lui
può dire: «Questo è il mio corpo - questo è il mio sangue». Il mistero del
sacerdozio della Chiesa sta nel fatto che noi, miseri esseri umani, in virtù del sacramento possiamo parlare
con il suo io: in persona Christi. Egli vuole esercitare il suo sacerdozio per nostro tramite. Questo mistero
commovente, che in ogni celebrazione del sacramento ci tocca di nuovo, noi lo ricordiamo in modo particolare nel
Giovedì Santo. Perché il quotidiano non sciupi ciò che è grande e misterioso,
abbiamo bisogno di un simile ricordo specifico, abbiamo bisogno del ritorno a quell'ora in cui egli ha posto le sue
mani su di noi e ci ha fatti partecipi di questo mistero.
(dall’Omelia di Benedetto XVI per la Messa del Crisma del Giovedì Santo 13 aprile
2006)
Poiché, in effetti, non si possono separare i principi
morali generalmente validi e le disposizioni rituali e giuridiche transitorie senza distruggere la stessa Torah, la
quale è di per sé una creazione unitaria, che come tale si sa debitrice della parola che Dio ha rivolto
a Israele. L'idea secondo cui vi sarebbe da una parte la pura morale, che è razionale e universale, e
dall'altra dei riti, che sono condizionati dalle circostanze storiche e a cui, in definitiva, si può
rinunciare, misconosce del tutto la struttura interna dei cinque libri di Mosè. Il decalogo come nucleo del
Pentateuco mostra in maniera sufficientemente chiara che in esso adorazione di Dio e morale, culto ed ethos sono del
tutto inseparabili.
Gesù non ha agito come un liberale, che raccomanda e pratica lui stesso un'interpretazione della Legge
aperta e accomodante. Nel confronto tra Gesù e le autorità giudaiche del suo tempo non sono di fronte
un liberale e una gerarchia chiusa e irrigidita nel proprio tradizionalismo. Una tale ottica, tanto diffusa,
misconosce alla radice il conflitto del Nuovo Testamento; in tal modo non si rende ragione né di Gesù
né di Israele.
La sua apertura della Legge Gesù l'ha piuttosto realizzata in senso pienamente teologico, nella
consapevolezza e con la pretesa di agire nella più intima unità con Dio, il Padre, proprio in quanto
Figlio, di agire cioè nella piena autorità di Dio.
Solo Dio, infatti, poteva interpretare in modo tanto radicalmente nuovo la Legge e proclamare questa
trasformazione e conservazione come il significato da lui realmente inteso. L'interpretazione della Legge data da
Gesù ha senso solo se è un'interpretazione derivante da un mandato di Dio, se è Dio stesso a
spiegare se stesso.
Il conflitto tra Gesù e le autorità giudaiche del suo tempo non riguarda in definitiva questa o
quella singola prescrizione legale, ma la pretesa di Gesù di agire ex auctoritate divina, anzi di
essere lui stesso questa auctoritas. «lo e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30).
Il Nuovo Testamento vede la morte di Cristo in questa prospettiva, come compimento di tale evento. Ciò
significa inoltre che tutte le prescrizioni cultuali dell' Antico Testamento vengono assunte in questa morte e in
essa condotte al loro significato più profondo. Tutti i sacrifici sono infatti azioni vicarie, che in
questo grande atto di rappresentazione reale da simboli diventano realtà, così che i simboli possono
venir meno senza che per ciò si sia rinunciato neppure a uno iota. L'universalizzazione della Torah da
parte di Gesù, come la intende il Nuovo Testamento, non consiste nell'estrarre alcune prescrizioni morali
universali dalla totalità viva della rivelazione di Dio. Essa mantiene l'unità di culto ed ethos.
L'ethos resta fondato e ancorato nel culto, nell'adorazione di Dio, per il fatto che nella croce viene raccolto tutto
il culto, anzi, solo nella croce esso si fa pienamente reale.
(da Israele, la Chiesa e il mondo. I loro rapporti e il loro compito secondo il Catechismo della Chiesa
Cattolica del 1992, pagg.9-26)
Il punto di partenza (dei nuovi problemi sulla natura del sacerdozio) è dato da un’osservazione di
carattere lessicale: la futura Chiesa, per denominare i ministeri che in essa si andavano formando, non si
servì di un vocabolario sacro, ma attinse a una terminologia profana. Essa non lascia scorgere alcun tipo di
continuità tra questi suoi ministeri e il sacerdozio della legge mosaica; inoltre, per lungo tempo questi
ministeri restano poco definiti, assai vari nelle designazioni e forme in cui li incontriamo, e solo verso la
fine del I secolo si cristallizza una forma ben definita, che peraltro ammette ancora delle oscillazioni.
Soprattutto non è dato individuare un compito cultuale di questi ministeri: in nessun luogo essi vengono
posti espressamente in connessione con la celebrazione eucaristica; come loro contenuto appare in primo luogo
l’annuncio del vangelo, poi il servizio della carità tra i cristiani e funzioni comunitarie a prevalente
carattere pratico. Tutto ciò desta l’impressione che i ministeri fossero considerati non come sacri
ma semplicemente come funzionali, e quindi amministrati esclusivamente a fini specifici. In epoca postconciliare
venne del tutto spontaneo ricollegare a queste osservazioni la teoria del cristianesimo come desacralizzazione del
mondo, che si rifaceva alla tesi di Barth e Bonhoeffer sull’opposizione tra fede e religione e quindi sul
carattere areligioso del cristianesimo. La lettera agli Ebrei sottolinea con forza che Gesù soffrì
fuori delle porte della città esortandoci ad andare verso di lui (Eb 13,12-13). Questa circostanza divenne un
simbolo: la croce ha squarciato il velo del tempio, il nuovo altare si erge in mezzo al mondo; il nuovo sacrificio
non è un fatto cultuale, bensì una morte totalmente profana. La croce appare così come
un’interpretazione nuova e rivoluzionaria di ciò che unicamente può ancora considerarsi culto:
solo l’amore quotidiano in mezzo alla profanità del mondo è, secondo questa teoria, la liturgia
rispondente a questa origine.
Queste argomentazioni, risultanti dalla fusione della moderna teologia protestante con talune osservazioni
esegetiche, a un esame più attento si rivelano come l’esito delle scelte ermeneutiche fondamentali fatte
nella Riforma del XVI secolo. Il punto centrale di tali scelte era una lettura della Bibbia basata sulla
contrapposizione dialettica di legge e promessa, sacerdote e profeta, culto e promessa. Le categorie reciprocamente
correlate di legge-sacerdote-culto furono considerate come l’aspetto negativo della storia della salvezza: la
legge porterebbe l’uomo all’autogiustificazione; il culto risulterebbe dall’errore che, ponendo
l’uomo in una sorta di rapporto di parità con Dio, gli consentirebbe di stabilire, mediante la
corresponsione di determinate offerte, un rapporto giuridico tra sé e Dio; il sacerdozio è allora per
così dire l’espressione istituzionale e lo strumento stabile di questo scambievole rapporto con la
Divinità. L’essenza del vangelo, come apparirebbe in modo assai chiaro soprattutto nelle grandi
lettere di san Paolo, sarebbe perciò il superamento di questo apparato di distruttiva autogiustificazione
dell’uomo: il nuovo rapporto con Dio poggia totalmente su promessa e grazia; esso si esprime nella figura del
profeta, che di conseguenza viene costruita in stretta opposizione a culto e sacerdozio. Il cattolicesimo appariva a
Lutero come la sacrilega restaurazione di culto, sacrificio, sacerdozio e legge e dunque come la negazione della
grazia, come il distacco dal vangelo, come un regresso da Cristo a Mosè...
Il paradosso della missione di Gesù trova probabilmente la sua espressione più chiara nella formula
giovannea interpretata in maniera così profonda da Agostino: “Mea doctrina non est mea...” (7,16).
Gesù non ha nulla di proprio per sé, oltre al Padre. Nella sua dottrina è egli stesso in
gioco, e perciò dice che perfino ciò che ha di più proprio – il suo io – non gli
appartiene affatto. Il suo è il non-suo; non c’è nulla oltre il Padre, tutto è interamente
da lui e per lui.
Il parallelismo tra la forma di missione di Gesù e quella degli apostoli viene poi sviluppato in modo
particolarmente chiaro nel quarto vangelo: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi”
(13,20; 17,18; 21,21). La portata di questa affermazione diviene evidente solo se richiamiamo alla mente quello
che poc’anzi abbiamo detto sulla struttura della missione di Gesù, vale a dire sul fatto che tutta la
sua missione è relazione. Di qui comprendiamo l’importanza del seguente parallelismo:
“Il Figlio da sé non può fare nulla” (Gv 5,19.30);
“Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5).
Questo “nulla” che i discepoli condividono con Gesù esprime in pari tempo forza e debolezza del
ministero apostolico. Da sé, con le sole forze della ragione, della conoscenza e della volontà essi
non possono fare nulla di ciò che in quanto apostoli sono tenuti a fare. Come potrebbero dire: “Ti
rimetto i tuoi peccati”? Come potrebbero dire: “Questo è il mio corpo”? Come potrebbero
imporre le mani e dire: “Ricevi lo Spirito Santo”? Nulla di quanto è costitutivo dell’azione
apostolica è prodotto della capacità personale. Ma proprio in questa totale assenza di proprietà
è fondata la loro comunione con Gesù, il quale, a sua volta, è interamente dal Padre, solo per
lui e in lui, e non sussisterebbe affatto, se non fosse un permanente derivare e riconsegnarsi al Padre. Il
“nulla” per quanto attiene al proprio li coinvolge nella comunione di missione con Cristo. Questo
servizio nel quale noi siamo interamente dati all’altro, questo dare ciò che non proviene da noi, nel
linguaggio della Chiesa si chiama sacramento. Quando definiamo l’ordinazione sacerdotale un sacramento
intendiamo precisamente questo: qui non vengono ostentate le proprie forze e capacità; qui non viene
insediato un funzionario particolarmente abile, che trova l’impiego di suo gusto o semplicemente perché
ci può guadagnare il pane; non si tratta di un lavoro con il quale, grazie alle proprie competenze, ci si
assicura il sostentamento, per poi progredire nella carriera. Sacramento vuol dire: io do ciò che io stesso
non posso dare; faccio qualcosa che non dipende da me; sono in una missione e sono divenuto portatore di ciò
che l’altro mi ha trasmesso. Perciò nessuno può dichiararsi prete da sé; così come
nessuna comunità può chiamare qualcuno di sua propria iniziativa a questo compito. Solo dal
sacramento si può ricevere ciò che è di Dio, entrando nella missione che mi fa messaggero e
strumento dell’altro.
Questo legame al Signore, per cui a un uomo è dato di fare ciò che non lui stesso, ma solo il
Signore può fare, equivale alla struttura sacramentale. In questo senso la qualificazione sacramentale del
nuovo stile di missione derivante da Cristo risale fino al nucleo centrale del messaggio biblico, vi appartiene. Al
tempo stesso è divenuto evidente che qui si tratta di un ufficio totalmente nuovo, che non può essere
derivato dall’Antico Testamento, ma è spiegabile unicamente sul piano cristologico. Il ministero
sacramentale della Chiesa non fa che esprimere la novità di Gesù Cristo e mantenerla attuale nel
corso della storia.
Il ministero dei presbiteri e dei vescovi è, secondo la sua natura spirituale, identico a quello degli
apostoli. Questa identificazione, con la quale viene formulato il principio della successione apostolica, Luca
l’ha precisata ulteriormente con un’altra scelta terminologica: limitando la nozione di apostolo ai
Dodici, egli distingue l’unicità dell’origine dalla continuità della successione. In questo
senso, il ministero dei presbiteri e dei vescovi è qualcosa di diverso dall’apostolato dei Dodici. I
presbiteri-vescovi sono successori ma non apostoli essi stessi. Alla struttura della Rivelazione e della Chiesa
appartiene così il “semel” e il “semper”. La potestà, fondata
cristologicamente, di conciliare, di pascere, di insegnare prosegue immutata nei successori, ma questi sono
successori in senso corretto solo quando “sono assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli
apostoli” (At 2,42).
Dice Jean Colson: “La funzione dei “Kohanim” (ιερεις) è
essenzialmente quella di mantenere il popolo consapevole del suo carattere sacerdotale e far sì che esso viva
come tale per glorificare Dio con tutta la sua esistenza”. Non si può non riconoscere la somiglianza con
la formulazione paolina... a proposito del compito dell’apostolo come ministro di Gesù Cristo; solo che
ora, a seguito della rottura dei confini d’Israele compiuta sulla croce di Cristo, il carattere missionario e
dinamico di questa missione emerge molto più chiaramente: lo scopo ultimo di tutta la liturgia
neotestamentaria e di tutti i ministeri sacerdotali è di fare del mondo il tempio e l’oblazione per
Dio, vale a dire di far sì che il mondo intero entri a far parte del corpo di Cristo affinché Dio
sia tutto in tutti (cfr. 1Cor 15,28).
(da Joseph Ratzinger, Natura del sacerdozio, in La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Ed. Paoline,
Cinisello Balsamo, 1991, pagg.75-93)
Karl Barth ha operato una distinzione nel cristianesimo tra religione e fede. Ha avuto torto a voler separare del
tutto queste due realtà, considerando positivamente la fede e negativamente la religione. La fede senza la
religione è irreale, essa implica la religione, e la fede cristiana deve, per sua natura, vivere come
religione. Ma ha avuto ragione ad affermare che anche fra i cristiani la religione può corrompersi e
trasformarsi in superstizione, ad affermare, cioè, che la religione concreta, in cui la fede viene vissuta,
deve essere continuamente purificata a partire dalla verità che si manifesta nella fede e che, d'altra
parte, nel dialogo fa nuovamente riconoscere il proprio mistero e la propria infinitezza.
(da J.Ratzinger, Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele
e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pagg.72-73)
Una delle parole-guida della riforma liturgica conciliare è stata a ragione la
"partecipatio actuosa", la fattiva partecipazione alla liturgia di tutto il "popolo di Dio". Questo
concetto ha tuttavia subito dopo il Concilio una fatale restrizione. Sorse l'impressione che si avesse una
partecipazione fattiva soltanto dove ci fosse un'attività esteriore verificabile: discorsi, canti,
prediche, assistenza liturgica. Gli articoli 28 e 30 della Costituzione Liturgica, che definiscono la partecipazione
fattiva, possono aver prestato il fianco a siffatte restrizioni, basando la partecipazione stessa, in larga misura,
su azioni esteriori. Comunque, anche il silenzio è ricordato come "partecipatio actuosa".
Riallacciandosi a questo ci si deve chiedere: come mai dev'essere solo il discorrere e non anche l'ascoltare, il
percepire con i sensi e con lo spirito, una compartecipazione spirituale attiva? Non v'è nulla di attivo nel
percepire, nel captare, nel commuoversi? Non c'è qui oltre tutto un impicciolimento dell'uomo, che viene
ridotto alla pura espressione orale, benché noi oggi tutti sappiamo che quanto v'è in noi di
razionalmente cosciente ed emerge alla superficie è soltanto l'estremità di un iceberg nei confronti di
ciò che l'uomo è nel suo complesso? Saremo ancora più concreti: ci sono ormai non pochi
uomini che riescono a cantare più "col cuore" che "con la bocca", ma ai quali il canto di coloro cui è
dato cantare anche con la bocca può veramente far cantare il cuore, in modo che essi cantano per così
dire anche in quelli stessi e l'ascolto riconoscente come l'esecuzione dei cantori diventano insieme un'unica lode a
Dio. Si deve necessariamente costringere alcuni a cantare là dove essi non possono e zittire così a
loro e agli altri il cuore? Ciò non dice proprio nulla contro il canto di tutto il popolo credente, che ha
nella chiesa una sua funzione inalterata, ma dice tutto contro un'esclusività che non può essere
giustificata né dalla tradizione né dalle circostanze.
(da Jospeh Ratzinger, La festa della fede, Jaca Book, Milano, 1990, pagg.98-99)
L’espressione “Corpo di Cristo”... implica immediatamente... questo elemento:
Cristo si è costruito un Corpo; se voglio trovarlo e farlo mio io sono chiamato a farne parte come un umile
membro ma in maniera completa, poiché io sono divenuto addirittura un suo membro, un suo organo in questo
mondo e di conseguenza per l’eternità. L’idea della teologia liberale per cui Gesù sarebbe
interessante, mentre la Chiesa sarebbe una misera realtà, si differenzia completamente da questa presa di
coscienza. Cristo si dà solo nel suo Corpo e mai in un mero ideale. Ciò vuol dire: si dà
insieme con gli altri, nella ininterrotta comunione che attraversa i tempi, la quale è questo Suo Corpo. La
Chiesa non è un’idea, ma un Corpo, e lo scandalo del farsi carne, in cui inciamparono tanti
contemporanei di Gesù, continua nella scandalosità della Chiesa; tuttavia anche a questo proposito
vale il detto: Beato chi non si scandalizza di me.
Henri de Lubac, in un’opera grandiosa piena di ampia erudizione, ha chiarito che il termine “corpus
mysticum” originariamente contrassegna la SS.Eucarestia e che, per Paolo come per i Padri della Chiesa,
l’idea della Chiesa come Corpo di Cristo è stata inseparabilmente collegata con l’idea
dell’Eucarestia, in cui il Signore è presente corporalmente e dà a noi il suo corpo come
cibo. Ebbe così origine un’ecclesiologia eucaristica, chiamata spesso anche ecclesiologia di
“communio”. Questa ecclesiologia della “communio” è diventata il vero e proprio cuore
della dottrina sulla Chiesa del Vaticano II, l’elemento nuovo e allo stesso tempo del tutto legato alle
origini, che questo Concilio ha voluto donarci.
Alla Chiesa appartiene essenzialmente l’elemento del “ricevere”, così come la fede deriva
dall’ascolto e non è prodotto delle proprie decisioni o riflessioni. La fede infatti è incontro
con ciò che io non posso escogitare o produrre con i miei sforzi, ma che mi deve invece venire incontro.
Questa struttura del ricevere, dell’incontrare, la chiamiamo “Sacramento”. E appunto per questo
rientra ancora nella forma fondamentale del Sacramento il fatto che esso viene ricevuto e che nessuno se lo
può conferire da solo. Nessuno si può battezzare da sé; nessuno può attribuirsi da
sé l’ordinazione sacerdotale; nessuno può, da sé, assolversi dai propri peccati. Da questa
struttura di incontro dipende anche il fatto che un pentimento perfetto, per sua stessa essenza, non può
restare interiore, ma urge verso la forma di incontro del Sacramento. Perciò non è semplicemente
un’infrazione contro prescrizioni esteriori del diritto canonico se ci si porge da sé l’Eucarestia
e la si prende da sé, ma è una ferita della più intima struttura del Sacramento. Il fatto che in
quest’unico Sacramento il prete possa egli stesso somministrarsi il Sacro Dono rinvia al “mysterium
tremendum” al quale è esposto nell’Eucarestia; agire “in persona Christi” e
così, nello stesso tempo, rappresentarlo ed essere un uomo peccatore, che vive completamente
dall’accogliere il suo Dono. La Chiesa non la si può fare, ma solo riceverla, e cioè riceverla da
dove essa è già, da dove essa è realmente presente: dalla comunità sacramentale del suo
Corpo che attraversa la storia. Ma c’è da aggiungere ancora qualcosa, che ci aiuta a comprendere
questo difficile termine “comunità conformi al diritto”: Cristo è dovunque intero. Questa
è la prima importantissima cosa che il Concilio ha formulato, in unità coi fratelli ortodossi. Ma
egli è dovunque anche uno solo, e perciò io posso avere l’unico Signore solo
nell’unità che egli stesso è, nell’unità con gli altri che sono anche essi il suo
Corpo e che, nell’Eucarestia, lo devono sempre di nuovo diventare.
(da Joseph Ratzinger, L’ecclesiologia del Vaticano II, in Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni
Paoline, Cinisello Balsamo, 1987, pagg.9-16)
Volendo tentare una... panoramica, possiamo distinguere tre generazioni di esegeti e di conseguenza tre grandi
svolte nella storia esegetica del nostro secolo. Ai suoi inizi abbiamo l’esegesi liberale che,
conformemente alla visione del mondo liberale, vede in Gesù il grande individualista che libera la religione
dalle istituzioni cultuali, riducendola a pura etica, la quale a sua volta viene interamente fondata sulla
responsabilità della coscienza individuale. Un Gesù di questo tipo, che rifiuta il culto e
trasforma la religione in morale e spiega quest’ultima come una vicenda privata dell’individuo, non
può naturalmente essere il fondatore di alcuna Chiesa. In quanto avversario di tutte le istituzioni,
non sarà lui a crearne una. La prima guerra mondiale provocò il crollo del mondo liberale e con
ciò anche il distacco dal suo individualismo e dalla sua morale soggettiva. Le grandi corporazioni politiche,
che si erano appoggiate interamente alla scienza e alla tecnica come portatrici del progresso
dell’umanità, avevano fallito come autorità morali dell’ordinamento sociale. Si
risvegliò così una forte esigenza di comunità nella sfera del sacro. Ci fu una riscoperta della
Chiesa anche nello stesso ambito protestante. Nella teologia scandinava si sviluppò un’esegesi
cultuale che, in stretta opposizione al pensiero liberale, non vedeva più Gesù come critico del culto,
ma intendeva il culto come interiore spazio vitale della Bibbia così del Nuovo come dell’Antico
Testamento e cercava di interpretare anche il pensiero e la volontà di Gesù a partire dalla grande
corrente della liturgia vissuta. Analoghe tendenze si manifestarono nell’area di lingua inglese. Ma anche nel
protestantesimo tedesco era emerso un nuovo significato di Chiesa; ci si rese conto che il Messia non è
pensabile senza il suo popolo. Con la svolta favorevole ai sacramenti, si riconobbe all’ultima cena di
Gesù un significato fondativo rispetto alla comunità e venne formulata la tesi, secondo cui attraverso
la cena stessa Gesù aveva dato vita a una nuova comunità, sicché la cena costituiva
l’origine della Chiesa e il suo criterio permanente. Dai teologi russi in esilio in Francia lo stesso concetto,
sulla base della tradizione ortodossa, venne sviluppato in una ecclesiologia eucaristica, che dopo il concilio
Vaticano II ha esercitato un forte influsso nel mondo cattolico. Dopo la secondo guerra mondiale,
l’umanità si divise sempre più nettamente in due campi: da una parte il mondo dei popoli
ricchi, di nuovo largamente ispirato al modello liberale, e dall’altra il blocco marxista, che si
considerò come il portavoce dei popoli poveri del Sudamerica, dell’Africa e dell’Asia e insieme
come il modello per il loro futuro. Venne così a delinearsi anche una bipartizione delle tendenza
teologiche. Nel mondo neoliberale dell’Occidente si affermò in forme nuove una variante escatologica
del messaggio di Gesù. E’ vero che Gesù non viene più concepito come un puro moralista,
ma la sua figura è ancora una volta quella di un oppositore del culto e delle istituzioni storiche
dell’Antico Testamento. Ci si rifaceva così al vecchio schema che riduce l’Antico Testamento a
sacerdote e profeta, a culto, istituzioni, diritto da una parte, e profezia, carisma, libertà creativa
dall’altra. In quest’ottica, sacerdote, culto, istituzione e diritto appaiono come qualcosa di negativo
che deve essere superato, mentre Gesù si collocherebbe nella linea dei profeti, cui pone termine, contro il
sacerdozio visto quale responsabile dell’uccisione di Gesù e dei profeti. Si sviluppa così una
nuova variante dell’individualismo liberale: Gesù proclama la fine delle istituzioni. Il suo messaggio
escatologico può essere stato pensato nel condizionamento storico come annuncio della fine del mondo; tuttavia
viene assimilato come rottura e passaggio dall’istituzionale al carismatico, come fine delle religioni o
comunque come fede “non mondana”, che crea e rinnova di continuo le proprie forme. Di fondazione della
Chiesa, ancora una volta, non si può parlare; essa contrasterebbe infatti con la radicalità
escatologica. Ora, però, questo nuovo tipo di impostazione liberale poteva molto facilmente essere trasformata
in una interpretazione biblica di orientamento marxista. La contrapposizione fra sacerdoti e profeti diviene
anticipazione della lotta di classe come legge della storia. Di conseguenza Gesù è morto nella lotta
contro le forze dell’oppressione. Egli diviene così il simbolo del proletariato che soffre e combatte,
del “popolo”, come oggi si dice di preferenza. Il carattere escatologico del messaggio si riferisce
allora alla fine della società classista; nella dialettica profeta-prete si esprime la dialettica della
storia, che ultimamente si conclude con la vittoria degli oppressi e con l’avvento della società senza
classi. In una prospettiva simile è assai facile integrare il fatto che Gesù ha parlato ben poco della
Chiesa, e molto spesso del regno di Dio; il “regno” è perciò la società senza classi
e diviene il traguardo a cui tende la lotta del popolo oppresso; traguardo che considera raggiunto là dove il
proletariato, vale a dire il suo partito, il socialismo, sia giunto alla vittoria. L’ecclesiologia riacquista
quindi significato nel senso del modello dialettico, costituito dalla scissione della Bibbia in sacerdoti e profeti,
cui corrisponde una distinzione tra istituzione e popolo. Conformemente a questo modello dialettico, alla Chiesa
istituzionale, cioè alla “Chiesa ufficiale”, viene contrapposta la “Chiesa del
popolo”, che nasce di continuo dal popolo e sviluppa così le intenzioni di Gesù, vale a dire la
sua battaglia contro l’istituzione e contro la sua forza oppressiva per una nuova e libera società che
sarà “il regno”.
Perciò la richiesta di una preghiera esprime la consapevolezza da parte dei discepoli di essere divenuti
una nuova comunità facente capo a Gesù. Qui essi sono come la cellula primigenia della Chiesa, e ci
mostrano al tempo stesso che la Chiesa è una comunità unificata essenzialmente a partire dalla
preghiera. La preghiera con Gesù ci dà la comune apertura a Dio...
La preghiera comune che i discepoli hanno ricevuto da Gesù ci mette su un'ulteriore traccia. Durante la sua
vita terrena Gesù aveva partecipato insieme ai Dodici al culto del tempio di Israele. Il Padre nostro era il
primo inizio di una speciale comunità di preghiera con e a partire da Gesù. Inoltre nella notte,
prima della passione, Gesù compie un altro passo in tale direzione quando trasforma la Pasqua di Israele in un
culto talmente nuovo, che logicamente doveva portare fuori dalla comunità del tempio e con ciò fondare
definitivamente un popolo della «nuova alleanza». Le parole di istituzione dell'eucaristia, sia nella
tradizione marciana sia in quella paolina, hanno sempre a che fare con l'alleanza; esse rimandano al Sinai e alla
nuova alleanza preannunciata da Geremia. I sinottici e il vangelo di Giovanni stabiliscono inoltre, sia pure in
modi diversi, il nesso con l'evento pasquale, e infine richiamano anche le parole del Servo sofferente in Isaia.
Con la Pasqua e il rito dell'alleanza sinaitica vengono recepiti i due atti fondativi di Israele attraverso i
quali esso divenne e diviene sempre nuovamente un popolo. Il nesso di questo sfondo cultuale originario, su cui
si basava e viveva Israele, con le parole-chiave della tradizione profetica fonde passato, presente e futuro nella
prospettiva di una nuova alleanza. Il senso del tutto è chiaro: «Come in passato l'antico Israele
venerava nel tempio il proprio centro e la garanzia della propria unità e nella celebrazione comunitaria della
Pasqua realizzava in maniera viva tale unità, così ora questo nuovo banchetto deve essere il vincolo
di unità di un nuovo popolo di Dio. Non c'è più bisogno di un luogo centrale costituito
dall'unico tempio esteriore... Il corpo di Cristo, che è il centro del banchetto del Signore, è l'unico
nuovo tempio che congiunge in unità i cristiani ben più realmente di quanto possa fare un tempio di
pietre» (J.Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio, Queriniana, Brescia, 1971, p.87).
Allo stesso ordine di idee appartiene un'altra serie di testi della tradizione evangelica. Tanto Matteo e Marco come
«anche Giovanni tramandano (naturalmente in diversi contesti) l’espressione di Gesù, secondo la
quale egli ricostruirà in tre giorni il tempio distrutto e lo sostituirà con uno migliore (Mc 14,58 e
Mt 26,61; Mc 15,29 e Mt 27,40; Gv 2,19; cfr. Mc 11,15-19 par.; Mt 12,6). Sia nei sinottici che in Giovanni è
chiaro che il nuovo tempio, ‘non fatto da mani d'uomo’, è il corpo glorioso di Gesù
stesso...». Ciò significa: «Gesù annuncia il crollo del culto antico e con esso dell'antico
popolo e ordinamento salvifico, e promette un nuovo culto più elevato, al cui centro ci sarà il suo
stesso corpo glorioso»(J.Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio, Queriniana, Brescia, 1971, p.88).
Ne segue che la fondazione della santissima eucaristia nella sera che precede la passione non può essere
vista come una qualsiasi azione più o meno isolata. Essa è la stipulazione di un patto e, come tale, la
concreta fondazione del nuovo popolo, che diviene tale attraverso il suo rapporto di alleanza con Dio. Potremmo
anche dire: in virtù dell'evento eucaristico, Gesù coinvolge i discepoli nel suo rapporto con Dio e
pertanto anche nella sua missione che ha di mira «i molti», ossia l'umanità di tutti i luoghi e di
tutti i tempi. Questi discepoli diventano «popolo» attraverso la comunione col corpo e col sangue di
Gesù, che è al tempo stesso comunione con Dio. L'idea veterotestamentaria dell'alleanza, che
Gesù accoglie nella sua predicazione, riceve un nuovo centro: la comunione col corpo di Cristo. Potremmo dire:
il popolo della nuova alleanza diventa popolo a partire dal corpo e dal sangue di Cristo, ed è solo a partire
da questo centro che è popolo. Può essere chiamato «popolo di Dio» perché, per la
comunione con Cristo, si apre il rapporto con Dio, che l'uomo non è in grado di stabilire da sé.
Anticipando il nostro tema principale - Chiesa particolare e Chiesa universale - possiamo dire: l'eucaristia, in
quanto permanente origine e centro della Chiesa, ricongiunge tutti i «molti», che ora diventano popolo,
con l'unico Signore e col suo unico corpo; da ciò dunque è data l'unicità della Chiesa come la
sua unità. Ma le molte celebrazioni, nelle quali si rende presente l'unica eucaristia, mostrano anche la
multiformità dell'unico corpo. È certamente chiaro, tuttavia, che queste molte celebrazioni non possono
porsi l'una accanto all'altra come qualcosa di autonomo e indipendente l'una dall'altra, ma sono sempre e
soltanto presenza dell'unico e medesimo mistero...
Paolo dunque non ha introdotto in concreto nulla di nuovo chiamando la Chiesa “corpo di Cristo”; egli
ci offre solo una formula concisa a indicare ciò che sin dal principio era caratteristico della crescita della
Chiesa. E’ totalmente falsa l’affermazione, pur ripetuta in continuazione, che Paolo non avrebbe fatto
altro che applicare alla Chiesa un’allegoria diffusa nella storia stoica del suo tempo. L’allegoria
stoica paragona lo Stato a un organismo in cui tutte le membra devono cooperare. L’idea dello Stato come
organismo è una metafora per indicare la dipendenza di tutti da tutti e quindi l’importanza delle
diverse funzioni che sono all’origine della vita di una collettività. Questo paragone veniva utilizzato
per calmare le masse in agitazione e richiamarle alle loro funzioni: ogni organo ha una sua particolare importanza;
è insensato che tutti vogliano essere una stessa cosa, perché allora, anziché divenire qualcosa
di più elevato, si abbassano tutti e si distruggono a vicenda.
Esistono... due radici più concrete della formula paolina. L’una è presente
nell’eucaristia, con la quale il Signore stesso ha formalmente determinato il sorgere di questa idea. “Il
pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo
pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo”, dice Paolo ai Corinzi, nella stessa lettera, dunque, in
cui sviluppa per la prima volta la dottrina del corpo di Cristo (1Cor 10,16s.). Qui noi troviamo il suo vero
fondamento; il Signore diviene il nostro pane, il nostro nutrimento. Egli ci dà il suo corpo; una parola che
però va pensata a partire dalla risurrezione e dallo sfondo linguistico semitico da cui muove san Paolo. Il
corpo è il sé di un uomo, che non si risolve nel corporeo, ma che comprende anche il corporeo, Cristo
ci dà se stesso, lui che, in quanto risorto, è rimasto corpo. Sebbene in modo nuovo, il fatto esteriore
del mangiare diviene espressione di quel compenetrarsi di due soggetti... Comunione significa che la barriera
apparentemente invalicabile del mio io viene infranta e può essere infranta poiché Gesù per
primo ha voluto aprire tutto se stesso, ci ha tutti accolti dentro di sé e si è dato totalmente a
noi. Comunione significa dunque fusione delle esistenze: come nell'alimentazione il corpo può assimilare
una sostanza estranea e così vivere, così il mio io viene «assimilato» a Gesù
stesso, fatto simile a lui in uno scambio che spezza sempre più le linee di separazione. È quanto
avviene a quelli che si comunicano; tutti vengono assimilati a questo «pane» e divengono così tra
loro una sola cosa: un solo corpo. In questo modo l'eucaristia edifica la Chiesa, aprendo le mura della
soggettività e radunandoci in una profonda comunione esistenziale. Per essa ha luogo l'«adunanza»
tramite la quale il Signore ci riunisce. La formula: «la Chiesa è il corpo di Cristo» afferma
dunque che l'eucaristia, in cui il Signore ci dà il suo corpo e fa di noi un solo corpo, è il luogo
dell'ininterrotta nascita della Chiesa, nel quale egli la fonda sempre di nuovo; nell'eucaristia la Chiesa è
se stessa nel modo più intenso; in tutti i luoghi e nondimeno una sola, così come lui è uno
solo.
Con queste riflessioni siamo giunti alla terza radice del «corpo di Cristo» nella concezione paolina;
l'idea del rapporto sponsale o - se vogliamo esprimerci in termini neutrali - la filosofia biblica dell'amore, che
è inseparabile dalla teologia eucaristica. Questa filosofia dell'amore si presenta subito al principio
della sacra Scrittura, a conclusione del racconto della creazione, allorché ad Adamo viene attribuita la
parola profetica: «Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e
i due saranno una sola carne» (Gn2,24). Una carne, vale a dire: un'unica nuova esistenza. Anche
questa idea del divenire una sola carne nell'unione di anima e corpo dell'uomo e della donna viene ripresa nella
prima lettera ai Corinzi da Paolo, il quale precisa che essa si avvera nella comunione: «Chi si unisce al
Signore forma con lui un solo spirito» (1Cor 6,17).
Ma ora appare in primo piano un nuovo e più importante aspetto, che potrebbe essere dimenticato in una
teologia sacramentaria di corto respiro, ed è che la Chiesa è corpo di Cristo nel modo in cui la moglie
insieme al marito diviene un solo corpo e una sola carne. In altre parole: essa è corpo non secondo una
identità indifferenziata, ma in virtù dell'atto pneumatico-reale dell'amore che unisce gli sposi. Detto
ancora con altri termini: Cristo e la Chiesa sono un corpo nel senso in cui marito e moglie sono una sola carne,
così che pur nella loro inscindibile unione fisico-spirituale restano tuttavia non mescolati e non confusi. La
Chiesa non diventa semplicemente Cristo, essa rimane la serva che nel suo amore egli innalza a sua sposa che cerca il
suo volto in questa fine dei tempi. Ma in questo modo sul fondamento dell'indicativo che si annuncia nelle parole
«sposa» e «carne», appare anche l'imperativo dell'esistenza cristiana. Diviene
perciò evidente il carattere dinamico del sacramento, che non è una realtà fisica
predeterminata, ma qualcosa che si realizza a livello personale. Proprio il mistero d'amore come mistero sponsale
manifesta l'immensità del nostro compito e la possibilità di caduta nella Chiesa. Sempre di nuovo,
attraverso l'amore unificante, essa deve divenire ciò che essa è, e sottrarsi alla tentazione di
rifiutare la propria vocazione per cadere nell'infedeltà di un'arbitraria autonomia. Diviene evidente il
carattere relazionale e pneumatologico dell'idea di corpo di Cristo e della concezione sponsale, e la ragione per cui
la Chiesa non è mai giunta a perfezione ma ha sempre bisogno di rinnovamento. Essa è sempre in
cammino verso l'unione con Cristo: ciò che comporta anche la sua propria, interiore unità che diviene,
viceversa, tanto più fragile, quanto più si allontana da questo rapporto fondamentale.
(da Joseph Ratzinger, Origine e natura della Chiesa, in La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Ed.
Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pagg.9-31)
L’uomo moderno è fortemente interessato al problema di Dio; anche il problema di
Cristo lo interessa; ma i sacramenti sanno troppo di chiesa, appaiono troppo legati a uno stadio sorpassato della
fede perché egli possa scorgere l’utilità di parlare ancora di essi. O non costituisce forse
una pretesa il pensare che l’aspersione di un uomo con un po’ d’acqua debba essere qualcosa di
decisivo per la sua esistenza? E che dire dell’imposizione delle mani del vescovo, chiamata confermazione,
o dell’unzione con un po’ d’olio consacrato fatta dalla chiesa all’ammalato come ultima
scorta lungo il cammino? Anche i preti cominciano a domandarsi qua e là se l’imposizione delle mani
del vescovo, chiamata consacrazione sacerdotale, possa costituire il legame irrevocabile di una vita fino
all’ultimo istante e se qui non sia sopravvalutata l’importanza del rito: al rito in ultima analisi non
può essere subordinata l’esistenza che si rinnova ogni giorno, con il suo futuro sempre aperto, con le
sue imponderabilità e le sue situazioni che irrompono in maniera sempre nuova. L’idea del segno
indelebile, impresso nell’anima da questi sacramenti, appare all’uomo di oggi come una filosofia
particolare fortemente mistica: l’esistenza umana è per lui qualcosa di permanentemente aperto, che
cresce nella decisione e non può essere per sempre sigillata mediante un rito irripetibile. Idee simili
vengono opposte naturalmente anche alla concezione sacramentale del matrimonio e persino l’eucaristia non
rimane esclusa da una problematica siffatta: il concetto di sostanza, al quale appare strettamente congiunta
l’idea della conversione, sembra essere divenuto completamente vuoto, specialmente in quanto il pane –
chimicamente e fisicamente considerato – rappresenta una mescolanza di molecole eterogenee, consistenti di un
numero indefinito di atomi; questi ultimi a loro volta possono essere scomposti in una molteplicità di
particelle elementari, alle quali infine non può essere attribuita, nell’antagonismo dell’energia
ondulatoria e della costituzione materiale, una consistenza sostanziale fissa. Cosa dovrebbe significare quindi la
‘conversione’? Come e dove può essere presente la carne e il sangue di Cristo? E in che maniera
bisogna intendere che l’uomo mangia e beve la carne e il sangue di Cristo? Non affiora qui il motivo mitologico
secondo cui l’uomo può essere influenzato spiritualmente mediante il cibo terreno – una
rappresentazione quindi mitica e magica, in netta opposizione con le nostre conoscenze psicologiche e fisiologiche.
Tutto ciò viene a trovare infine la sua condensazione irrecusabile nella questione sul senso del culto
cristiano. Perché per incontrare Dio occorre proprio andare in chiesa? Dio è forse legato a un rito e a
un luogo? Lo spirituale può essere mediato, o addirittura legato, materialmente e ritualmente? Lo si conceda
pure a chi vuole vivere in questo stadio esistenziale o a chi ne ha forse bisogno: questo afferma l’uomo
d’oggi, consapevole dell’altezza assoluta della coscienza umana e pienamente consapevole nello stesso
tempo che ancora oggi vi sono degli uomini che si trovano a uno stadio di coscienza medievale, se non addirittura
antica o primitiva. Ma egli non vorrà legare se stesso a determinati stadi della coscienza, i quali –
egli ne è convinto – costituiscono relitti del passato e saranno progressivamente eliminati dal futuro,
anche se questo futuro non eliminerà mai del tutto le correnti sotterranee del primitivo, cosicché
l’umanità praticamente consisterà sempre della coesistenza di diversi stadi di coscienza. Cosa
dobbiamo dunque dire? E’ il perdurare dei sacramenti nel nostro tempo qualcosa di più di una concessione
al passato, alla primitività insuperabile di una parte dell’umanità? Si tratta di un abbellimento
estetico nello spirito di un mondo passato, tollerabile con un po’ di coscienza critica anche all’uomo
d’oggi, o si tratta di un’esigenza permanente, di una realtà fondante dell’esistenza
cristiana ancora oggi? Un rinnovamento liturgico che non si ponesse queste questioni fondamentali rimarrebbe in
superficie e potrebbe difficilmente sfuggire a sua volta al pericolo di trasformarsi in una faccenda puramente
estetica...
Per quanto riguarda in primo luogo la storia dell’umanità, si può costatare come in essa
esistono dei sacramenti originari (Ursakramente). Essi, con una specie di necessità interna, affiorano
sempre laddove degli uomini vivono assieme e, con alcune trasformazioni, perdurano persino nel mondo
desacramentalizzato della tecnica. Li si potrebbero chiamare ‘sacramenti della creazione’
(Schöpfungssakramente): emergono ai punti nodali dell’esistenza umana e lasciano così riconoscere
un’immagine dell’essere dell’uomo e del modo del suo rapporto con Dio. Siffatti punti nodali
sono costituiti dalla nascita e dalla morte, dal pasto e dalla comunione sessuale. Si tratta, come si vede, di
realtà che propriamente non sono originate dall’essere spirituale dell’uomo, bensì dalla
sua natura biologica. Sono cioè i punti nodali del suo esserci biologico che realizza continuamente se
stesso e si rinnova nella ricezione del cibo e nella comunione sessuale, ma nella nascita e nella morte sperimenta
misteriosamente i suoi limiti, il suo poggiare su qualcosa che gli sfugge, più grande e diverso, dal quale
emerge sempre nuovamente, ma che sembra anche sempre nuovamente ingoiarlo. Queste realtà biologiche,
attualizzazioni proprie della corrente della vita alla quale l’uomo partecipa, ricevono però in lui, in
quanto essere che trascende il biologico, una nuova dimensione. Queste realtà diventano, per dirla con
Schleiermacher, le fessure attraverso le quali l’eterno illumina l’uniformità della
quotidianità umana. Proprio perché si tratta di eventi biologici e non già spirituali,
l’uomo sperimenta in essi lo strapotere di una potenza che egli non può invocare o costringere, la quale
lo circonda e lo porta anteriormente già alle sue decisioni. Con ciò però si è già
accennato a qualcosa di ulteriore: la dimensione biologica riceve nell’uomo, in quanto esistenza spirituale, un
nuovo significato e una nuova profondità.
Il mangiare dell’uomo è qualcosa di diverso che la ricezione del cibo nell’animale. Il nutrirsi
perviene alla sua forma umana diventando banchetto. Nel banchetto l’uomo sperimenta la squisitezza delle cose
nelle quali gli viene donata la feconda potenza della terra e, in questa ricezione della preziosità della
terra, egli sperimenta anche il co-essere con altri uomini: la mensa crea comunione e il mangiare è
completo solo quando avviene in comune, mentre l’essere assieme raggiunge la sua pienezza nella comunione della
mensa che unisce tutti nella comunanza della ricezione dei doni della terra. La mensa diventa allora interpretazione
profonda dell’essere umano, dell’esistenza dell’uomo alla quale noi, con la questione sui
sacramenti, volevamo nello stesso tempo tener fisso lo sguardo. Nella mensa l’uomo sperimenta che egli non
fonda da sé il proprio essere, ma che piuttosto vive nel ricevere. Egli sperimenta se stesso come donato,
vivente del dono immeritato di una fecondità che per così dire sembra che sempre lo attenda.
Non è l’uomo che fonda se stesso, ma è un doppio ‘con’ che lo fonda: essere
‘con’ le cose ed essere ‘con’ gli uomini. L’uomo per così dire può
esistere solo al plurale. In questo duplice ‘con’ si nasconde però un terzo, non meno
fondamentale: il suo spirito esiste soltanto nella comunione con il corpo, come d’altra parte anche il suo
corpo perdura nell’essere solo a partire dallo spirito. La comunione dello spirito con il corpo implica
però l’essere immersi nell’unità della corrente della vita cosmica e manifesta quindi un
fondamentale essere concatenati degli esseri che possono essere denominati uomini: si tratta del punto di
partenza di quella profonda comunione a cui accenna la Bibbia quando chiama tutta l’umanità come un
unico Adamo. Certamente nel legame vicendevole creato dal bíos comune, poggia nello stesso tempo il
fondamento per una profonda separazione dell’uomo dagli altri suoi simili e dalla quale in ultima analisi egli
viene impedito di vivere come spirito in spirito e di pervenire quindi alla comunione piena...
Il sacramento nella sua forma universale storico-religiosa è quindi in primo luogo espressione
dell’esperienza che Dio incontra l’uomo in maniera umana: nei segni della comunione umana e nella
trasformazione di ciò che è puramente biologico in qualcosa di umano che, nell’atto religioso,
sperimenta ancora la sua trasformazione in una terza dimensione, la garanzia del divino nell’umano. Non
sarebbe difficile formulare già adesso una prima risposta alla crisi della concezione sacramentale dalla quale
abbiamo preso le mosse e portare allo scoperto la riduzione antropologica sulla quale si basa...
Un primo punto nodale si ha dall’esperienza originaria della colpa. L’uomo che non costruisce da
se stesso la sua esistenza, ma vive dell’essere donato, sperimenta nello stesso tempo il suo essere obbligato,
il suo stare sotto una forma che gli è stata già data in antecedenza, e la cui violazione lo rende
colpevole. A partire da qui si dà però come un sacramento della penitenza fin dai tempi primitivi
della storia umana. San Bonaventura, il grande teologo francescano del Medioevo, non aveva completamente torto quando
pensava che due sacramenti siano stati istituiti già all’inizio della storia e che siano tanto antichi
quanto l’uomo stesso: il sacramento del matrimonio e quello della penitenza. Nelle religioni dei popoli questo
aspetto è scivolato nelle esteriorità più strane: in un culto del lavarsi, dei mezzi di
purificazione, del trasferimento della colpa sugli animali o sugli schiavi. In tutti questi riti, in parte sciocchi,
in parte repellenti, si percepisce tuttavia qualcosa di simile al balbettio di una consapevolezza secondo la
quale l’uomo, nel piegarsi alla verità della sua colpa, sperimenta la vicinanza del suo Dio. E quando si
tenta di purificare lo spirito con mezzi materiali, pur in tutta l’assurdità che può essere
attribuita a un procedimento siffatto, è presente tuttavia un’invocazione commovente della
purificazione contenuta nei riti...
Una seconda creazione della struttura simile a quella del sacramento è costituita dall’ufficio dei
preti e dei re: i servizi decisivi nella comunità rimandano a loro volta al fondamento stesso
dell’umano, non si esauriscono nella loro funzione sociale, ma sono espressione della trasparenza
dell’umano al divino e nello stesso tempo della consapevolezza che la comunione umana è assicurata
solidamente solo quando non poggia esclusivamente su se stessa, ma in colui che è più grande di
essa...
Per anticipare le nostre conclusioni diciamo subito che né è giustificato il grido di protesta di
Karl Barth che vede una stretta opposizione tra religione e fede, cosicché la fede verrebbe a essere solo il
completamente diverso, in assoluta discontinuità con tutta la storia religiosa dell’umanità,
né sono nel giusto le semplificazioni operate dall’idea del cristianesimo anonimo, secondo cui
improvvisamente tutto il mondo dovrebbe già sempre esser dichiarato cristiano anonimamente. La
realtà è ben più complessa di quanto non vorrebbero dare a intendere queste semplificazioni.
Sarà possibile stabilire alcuni elementi comuni con l’idea universale umana del sacramento, ma nello
stesso tempo cogliere anche chiaramente le tracce della differenza, la quale s’impone già
semplicemente con necessità intrinseca nella chiarificazione stessa del concetto di Dio: non rimane più
oscuro chi sia Dio; egli non appare più come il mistero abissale del cosmo in generale, bensì come il
Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe; ancora meglio: come il Dio di Gesù Cristo, come il Dio che è presente
qui per l’uomo e che si lascia definire proprio mediante questa sua comunione con gli uomini. In una
parola: egli appare come il Dio personale, che è conoscenza e amore e che perciò è parola e
amore rivolti a noi. Parola che ci chiama e amore che unisce...
(I sacramenti cristiani) stanno nello stesso tempo a significare l’inserimento nella storia originata da
Cristo. Quest’aggiunta della dimensione storica rappresenta anzi la novità specificamente cristiana
dell’idea sacramentale, novità che soltanto conferisce al simbolo naturale la sua obbligatorietà
e la sua pretesa concreta, lo purifica dalle sue ambiguità e lo trasforma in garanzia sicura per la vicinanza
dell’unico vero Dio, che non è soltanto la profondità misteriosa del cosmo, bensì il suo
Creatore e Signore. Questo aspetto specificamente cristiano da noi ritrovato costituisce però nello stesso
tempo proprio lo scandalo dell’uomo di oggi, il quale sarebbe forse disposto ad attribuire al cosmo un mistero
divino, ma non è in grado di intendere come la provvisorietà di una linea storica possa contenere la
decisione del suo destino umano...
Con questa analisi della dimensione sacramentale cristiana, siamo pervenuti già al concetto dogmatico
più circoscritto dell’attuale teologia sacramentaria, i cui aspetti principali abbiamo imparato a suo
tempo nel catechismo: istituzione da parte di Gesù Cristo – segno esteriore – grazia interna.
In che modo questi tre aspetti si appartengano e formino così la realtà ‘sacramento’,
dovrebbe essere già in qualche maniera chiaro: le realtà visibili, che già in forza della
loro costituzione creaturale mostrano per così dire una certa trasparenza al Dio creatore, acquistano adesso
un nuovo significato decisivo per l’esistenza, in quanto sono ormai inserite nel contesto della storia di
Cristo e sono divenute strumenti della mediazione di questo nuovo sistema di rapporti storici.
Io credo che l’atteggiamento contrario ai sacramenti che predomina oggi nella mentalità comune, poggia
su un duplice equivoco antropologico, penetrato profondamente nella coscienza universale a partire da alcuni
fattori del nostro tempo (cioè della forma della storia data già a noi in precedenza).
Esercita qui il suo influsso il disconoscimento idealistico dell’essere umano, arrivato al suo apogeo con
Fichte, quasi che l’uomo possa essere uno spirito autonomo che si costruisce tutto sulle proprie decisioni,
prodotto esclusivo di esse, nient’altro che volontà e libertà intollerante di tutto ciò
che non è spirituale, prendente forma totalmente in se stesso.
Quando Bultmann diceva che lo spirito non può essere cibato materialmente e credeva quindi così
superato il principio sacramentale, in ultima analisi si trattava sempre della rappresentazione ingenua
dell’autonomia spirituale dell’uomo. Fa effettivamente una strana impressione che,
nell’epoca nella quale si crede di riscoprire la corporalità dell’uomo e si pensa che lo
spirito può essere solo nel modo della corporalità, possa ancora continuare a operare, o
addirittura pervenire al suo pieno sviluppo, una metafisica dello spirito che si poggia sulla negazione di questi
rapporti...
All’eresia idealista, se la vogliamo chiamare così, si unisce oggi in maniera tutta propria quella
marxista. Di essa Heidegger ha detto in maniera intelligente che il materialismo non consiste nel fatto di
interpretare ogni essere come materia, ma nel ridurre tutta la materia a semplice materiale del lavoro umano. In
realtà è soltanto qui, nel prolungamento antropologico della prospettiva ontologica, il centro vero
dell’eresia: nella riduzione dell’uomo a homo faber che non ha a fare con le cose in sé, ma
le considera soltanto come funzioni del proprio lavoro, di cui egli stesso è diventato il funzionario. Con
ciò viene a cadere la prospettiva del simbolismo e la capacità dell’uomo di intravedere
l’eterno...
Colui che celebra i sacramenti non accetta la rappresentazione ingenua che vorrebbe che Dio, l’Onnipotente,
abitasse soltanto in questo posto determinato che è nella chiesa il tabernacolo. Ciò sarebbe
già in contraddizione con la più superficiale conoscenza delle affermazioni dogmatiche, per le quali
il carattere specifico dell’eucaristia non è dato dalla presenza di Dio in quanto tale, bensì
dalla presenza dell’uomo Gesù Cristo, presenza che rimanda al carattere orizzontale, storicamente
determinato, dell’incontro dell’uomo con Dio.
Ed egli fa questo perché sa che, in quanto uomo, non può disporre da se stesso quando e come Dio gli
si deve mostrare, bensì sa di essere colui che riceve, colui che è rimandato alla potenza già
data, non producibile con le proprie forze, che rappresenta il segno della libertà sovrana di Dio che
determina da se stesso il modo della sua presenza.
L’adorazione eucaristica è in realtà riferita al Signore che, mediante la sua vita e la sua
sofferenza storica, è divenuto ‘pane’ per noi; al Signore che, mediante la sua incarnazione e la
sua donazione alla morte, è divenuto colui che è aperto a noi. Una preghiera siffatta ha quindi come
suo oggetto il mistero storico di Gesù Cristo, la storia di Dio con l’uomo che si fa incontro a noi nel
sacramento. Ed essa si riferisce anche a tutto il “corpo di Cristo”, alla comunione dei credenti,
nella quale e attraverso la quale Dio viene a noi.
(da Il fondamento sacramentale dell’esistenza cristiana di Joseph Ratzinger, Queriniana, Brescia,
2005)
Per Lutero, perseguitato dal timore della condanna eterna, era importante sapere che, anche se era un peccatore, era
tuttavia amato da Dio e giustificato. Per lui c’è questa contemporaneità: di essere vero
peccatore e di essere totalmente giustificato E’ una espressione della sua esperienza personale, che poi
è stata approfondita anche con riflessioni teologiche. Mentre per la Chiesa cattolica è importante
sottolineare che non c’è un dualismo. Se uno non è giusto non è neanche giustificato. La
giustificazione, cioè la grazia che ci viene data nel sacramento, rende il peccatore nuova creatura, come dice
san Paolo. Ma rimane, come afferma il Concilio di Trento, la concupiscenza, cioè una tendenza al
peccato, uno stimolo che porta al peccato, ma che, come tale, non è peccato. Queste sono controversie
classiche. Il problema diventa più reale se prendiamo in considerazione la presenza della Chiesa nel processo
della giustificazione, la necessità del sacramento della penitenza. Qui si rivelano le vere divergenze.
Sì. In questo senso è importante notare che Dio agisce realmente nell’uomo. Lo trasforma, crea
qualcosa di nuovo nell’uomo, non dà soltanto un giudizio quasi giuridico, esterno all’uomo.
Ciò ha una portata molto più generale. C’è una trasformazione del cosmo e del mondo.
Penso ad esempio all’Eucarestia. Noi cattolici diciamo che c’è una transustanziazione, che la
materia diventa Cristo. Lutero parla invece di coesistenza: la materia rimane tale e coesiste con Cristo. Noi
cattolici crediamo che la grazia è una vera trasformazione dell’uomo e una trasformazione iniziale del
mondo e non è... soltanto una copertura aggiunta che non entra realmente nel vivo della realtà
umana.
E’ importante questa operazione della grazia. Noi siamo tutti contagiati un po’ dal deismo. Dio rimane
un po’ fuori. Mentre la fede cattolica – questa grande fiducia, questa grande gioia che Dio, facendosi
uomo, entrando nella carne, unendosi alla carne, continua a operare nel mondo trasformandolo – ha la potenza,
la volontà, la radicalità dell’amore, per entrare nel nostro essere e trasformarlo.
Nella Risposta della Chiesa cattolica dello scorso anno stava scritto: “Dovrebbe essere preoccupazione comune
di luterani e cattolici trovare un linguaggio capace di rendere la dottrina della giustificazione più
comprensibile anche agli uomini del nostro tempo”. Penso che la quasi assenza di questa dottrina è
causata da un indebolimento del senso di Dio. Se Dio è preso sul serio, il peccato è una cosa seria. E
così era per Lutero. Adesso Dio è abbastanza lontano, il senso di Dio è molto attenuato e
perciò anche il senso della grazia è attenuato. Adesso dobbiamo trovare insieme in questo contesto
attuale il modo di annunciare Dio, Cristo, di annunciare così la bellezza della grazia. Perché se non
c’è senso di Dio, se non c’è senso del peccato, la grazia non dice niente. E mi sembra
questo il nuovo compito ecumenico: che insieme possiamo capire e interpretare in un modo accessibile, che tocca il
cuore dell’uomo di oggi, cosa vuol dire che il Signore ci ha redenti, ci ha dato la grazia.
(da Il mistero e l’operazione della grazia, intervista di G.Cardinale al card.J.Ratzinger, in 30giorni,
6, giugno 1999, pagg.11-14)
La liturgia non è il mero convergere di un gruppo che si costruisce una festa a proprio
uso e consumo e addirittura, magari, si autocelebra. Partecipando invece all’incontro di Cristo con il Padre,
entriamo in comunione con la Chiesa universale, ma siamo anche immessi nella communio sanctorum, nella comunione dei
Santi. Sì, in un certo senso, è la liturgia dei cieli. La sua grandezza sta davvero nel lacerare la
cortina dei cieli e nel consentirci di unire la nostra voce al coro che vi canta l’adorazione del Signore.
Questo è anche il motivo per cui il prefazio si conclude con queste parole: ‘Cantiamo con i cori di
cherubini e serafini’. E noi sappiamo di non essere soli, di fondere le nostre voci con altre voci così
che il confine tra cielo e terra non esista più...
Su questa questione (della irreformabilità o meno della liturgia) va registrata una certa divergenza tra
Occidente e Oriente. La Chiesa bizantina ha plasmato la propria liturgia nel IV, V secolo, grazie al contributo
di Basilio e di Giovanni Crisostomo. Come altre Chiese orientali vede nella liturgia un dono divino cui
l’uomo non può mettere mano: ci immettiamo in lei, ma non ne siamo gli artefici (per quanto qualche
singolo dettaglio abbia subito aggiustamenti secondari). L’Occidente, invece, ha sempre avuto un forte
senso della storicità. Anch’esso ha concepito la liturgia essenzialmente come un dono, ma come un dono
affidato alla Chiesa vivente e che cresce con lei. Possiamo fare un raffronto con le Sacre Scritture. Le Sacre
Scritture non sono parola di Dio caduta dall’alto, ma parola di Dio incarnata nella storia e che cresce in
essa. Così la Chiesa occidentale è rimasta fedele al principio dell’intangibilità della
liturgia per quanto riguarda il complesso della sua sostanza e della sua forma, ma contemporaneamente, con cautela,
l’ha anche lasciata crescere storicamente. Il canone romano, analogamente a quello della Chiesa orientale,
è nato nel IV secolo circa. Successivamente anche in Occidente si sono sviluppate diverse tipologie
liturgiche: quella gallicana, quella spagnola, poi si sono imposti influssi germanici e così via. Le diverse
nazioni che di volta in volta si affacciavano alla ribalta della storia potevano contribuire a questo processo di
crescita, mentre Roma ha sempre agito con cautela recidendo le degenerazioni ipertrofiche. Roma ha custodito con il
massimo rigore la liturgia nella sua forma più arcaica, direi addirittura in una forma precedente a quella
orientale, almeno dal punto di vista della tipologia teologica. In questo modo la liturgia ha continuato a vivere in
un processo storico – sempre aperta all’apporto del nuovo, e in particolare a nuovi Santi – ma
rimanendo contemporaneamente costante nella sostanza. Per questa ragione la Chiesa occidentale ha potuto procedere
a riforme liturgiche che non sono state delle cesure, ma che sono state improntate al rispetto dovuto a una creatura
vivente così come ci si sforza di salvaguardare una creatura che cresce e di mantenerla in vita. Pio X, ad
esempio, ha contenuto il proliferare delle celebrazioni dei Santi sopprimendone una parte, ha ripristinato la
centralità della domenica, riportando anche quella celebrazione a una maggiore semplicità ed
essenzialità. Già Pio V aveva ridimensionato l’ipertrofica sequenza di inni che si era insinuata
nei riti. In questa linea si è mosso anche il Concilio Vaticano II, ed è stata una scelta giusta
perché una crescita organica non contrastata da tendenze sclerotizzanti fa parte della tradizione
ecclesiastica liturgica. Direi però che bisogna distinguere tra la doverosa salvaguardia di una creatura
vivente che cresce, sempre ancorata al principio che l’uomo non può disporre della vita di alcuna
creatura ma deve porsi al suo servizio rispettando le leggi interne dell’esistenza, e la valutazione della
Chiesa come artificio umano, regolato da meccanismi che si possono smontare e rimontare a proprio
piacimento...
C’è bisogno come minimo di una nuova consapevolezza liturgica che sottragga spazio alla tendenza a
operare sulla liturgia come se fosse un oggetto della nostra abilità manipolatoria. Siamo giunti al punto che
dei gruppi liturgici imbastiscono da se stessi la liturgia domenicale. Il risultato è certamente il frutto
dell’inventiva di un pugno di persone abili e capaci. Ma in questo modo viene meno il luogo in cui mi si fa
incontro il totalmente Altro, in cui il sacro ci offre se stesso in dono; ciò in cui mi imbatto è solo
l’abilità di un pugno di persone. E allora ci si accorge che non è quello che si sta cercando.
E’ troppo poco, e insieme qualcosa di diverso. La cosa più importante oggi è riacquistare il
rispetto della liturgia e la consapevolezza della sua non manipolabilità. Reimparare a riconoscerla nel suo
essere una creatura vivente che cresce e che ci è stata donata, per il cui tramite noi prendiamo parte alla
liturgia celeste. Rinunciare a cercare in essa la propria autorealizzazione, per vedervi invece un dono. Questa,
credo è la prima cosa: sconfiggere la tentazione di un fare dispotico, che concepisce la liturgia come oggetto
di proprietà dell’uomo, e risvegliare il senso interiore del sacro. Il secondo passo
consisterà nel valutare dove sono stati apportati tagli troppo drastici per ripristinare in modo chiaro e
organico le connessioni con la storia passata. Io stesso ho parlato in questo senso di riforma della riforma.
Ma, a mio avviso, tutto ciò deve essere preceduto da un processo educativo che argini la tendenza a
mortificare la liturgia con invenzioni personali. Per una retta presa di coscienza in materia liturgica è
importante che venga meno l’atteggiamento di sufficienza per la forma liturgica in vigore fino al 1970. Chi
oggi sostiene la continuazione di questa liturgia o partecipa direttamente a celebrazioni di questa natura, viene
messo all’indice; ogni tolleranza viene meno a questo riguardo. Nella storia non è mai accaduto niente
del genere; così è l’intero passato della Chiesa ad essere disprezzato. Come si può
confidare nel suo presente se le cose stanno così? Non capisco nemmeno, ad essere franco, perché tanta
soggezione, da parte di molti confratelli vescovi, nei confronti di questa intolleranza, che pare essere un tributo
obbligato allo spirito dei tempi, e che pare contrastare, senza un motivo comprensibile, il processo di necessaria
riconciliazione all’interno della Chiesa.
(da Dio e il mondo di Joseph Ratzinger. Colloquio con Peter Seewald, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001,
pagg.376-380)
L'altro punto, su cui voglio richiamare l'attenzione, riguarda la liturgia. Le varie fasi della riforma liturgica
hanno fatto sorgere l'idea che la liturgia possa venir mutata a piacere. Se c'è qualcosa che non si può
cambiare questo riguarderebbe tutt'al più le parole della consacrazione, mentre tutto il resto lo si potrebbe
fare anche diversamente. Ne deriva una conseguenza logica: se questo lo può fare un'autorità
centrale, perché non anche le istituzioni locali? E se le istituzioni locali, perché allora non anche
la stessa comunità? Essa dovrebbe infatti potersi esprimere e ritrovare se stessa nella liturgia. Dopo le
tendenze razionaliste e puritane degli anni Settanta e anche degli anni Ottanta ci si è stancati oggi delle
liturgie delle parole e si desidera una liturgia dell'esperienza, che si avvicina molto agli orientamenti del New
Age: si ricerca ciò che è rumoroso ed estatico, non la «logikè latreia», la
rationabilis oblatio (la liturgia secondo ragione, conforme al logos), di cui parla Paolo e con lui la liturgia
romana (Rom 12, 1).
Certo, esagero un po'; quello che voglio sottolineare non si riferisce alla situazione normale delle nostre
comunità. Ma queste tendenze sono comunque evidenti. Si richiede perciò una certa vigilanza, per non
cadere in potere di un vangelo diverso da quello che il Signore ci ha donato, pietre invece di pane.
(da La fede e la teologia ai giorni nostri in L'Osservatore Romano, 1 novembre 1996)
Che cosa si intende per “liturgia”? Che cosa avviene in essa? In quale tipo di realtà ci
imbattiamo in essa? Negli anni Venti del 1900 si fece il tentativo di ricomprendere la liturgia come
“gioco”; il punto di paragone era anzitutto il fatto che la liturgia, come il gioco, ha regole proprie e
crea un suo mondo che vale quando si entra in essa e che poi, altrettanto naturalmente, viene meno quando il
“gioco” finisce. Un altro punto di paragone era che il gioco è sì dotato di senso, ma allo
stesso tempo è libero e, proprio per questo, ha in sé qualcosa di terapeutico, anzi, di
liberatorio, dal momento che ci fa uscire dalla vita di tutti i giorni e dai fini che la caratterizzano, insieme
con le costrizioni che questi ultimi comportano, liberandoci quindi, per qualche tempo, da tutto ciò che
opprime la nostra vita lavorativa. Il gioco sarebbe, per così dire, un altro mondo, un’oasi di
libertà in cui possiamo per un momento lasciar scorrere liberamente l’esistenza; di tali momenti di
evasione dal potere del quotidiano noi abbiamo bisogno per riuscire a sopportarne il peso. In questo ragionamento
c’è qualcosa di vero, ma una simile osservazione non può bastare. Infatti, se così fosse,
sarebbe in fondo del tutto secondario a quale gioco giochiamo; tutto ciò che si è detto può
essere applicato a qualunque gioco, il cui necessario e intrinseco legame al rispetto delle regole sviluppa
subito la sua particolare fatica e conduce a situazioni a loro volta intricate; si pensi al mondo attuale dello sport
ai campionati di scacchi o ad altri giochi: dovunque si vede che il gioco, dal totalmente altro di un mondo diverso o
di un non-mondo, subito diventa un pezzo di mondo, con sue leggi, sempre che non voglia perdersi in puri, vuoti
trastulli. C’è ancora un aspetto di questa teoria del gioco che merito di essere menzionato e che ci
porta molto più vicino all’essenza particolare della liturgia: il gioco dei bambini appare in molti
suoi aspetti una sorta di anticipazione della vita, un addestramento a quella che sarà la loro vita
successiva, senza però comportare tutto il peso e la serietà di quest’ultima. Allo stesso modo la
liturgia potrebbe ricordarci che noi tutti, davanti alla vera vita, cui desideriamo arrivare, restiamo in fondo come
dei bambini o, in ogni caso, dovremmo restare tali; la liturgia sarebbe allora una forma completamente diversa di
anticipazione, di esercizio preliminare: preludio della vita futura, della vita eterna, di cui Agostino dice che, a
differenza della vita attuale, non è intessuta di bisogno e di necessità, ma in tutto e per tutto della
libertà del donare e del dare. La liturgia sarebbe allora riscoperta del nostro vero essere bambini,
dentro di noi, dell’apertura alla grandezza che ci sta davanti e che non è ancora compiuta con la vita
adulta; essa sarebbe una forma ben definita della speranza, che anticipa la vera vita, che ci introduce alla vita
autentica – quella della libertà, dell’immediatezza con Dio e della totale apertura reciproca.
Così, essa imprime anche nella vita apparentemente reale di tutti i giorni i segni anticipatori della
libertà, che rompono le costrizioni e lasciano trasparire il cielo sulla terra.
Una simile applicazione della teoria del gioco innalza la liturgia ben al di sopra del gioco in generale, in cui
vive pur sempre l’anelito del vero “gioco”, del totalmente altro di un mondo in cui ordine e
libertà si fondono tra loro; rispetto alla superficialità del gioco usuale, prigioniero comunque delle
proprie finalità e, insieme, umanamente vuoto, essa fa emergere la particolarità e
l’alterità del “gioco” della sapienza, di cui parla la Bibbia e che si può quindi
porre in rapporto con la liturgia. Ma ci manca ancora un contenuto essenziale di questo abbozzo, dato che il pensiero
della vita futura vi compare per ora solo come un vago postulato e la vista di Dio, senza la quale la “vita
eterna” sarebbe solo deserto, resta ancora del tutto indeterminata...
L’adorazione, la giusta modalità del culto, del rapporto con Dio, è costitutiva per la giusta
esistenza umana nel mondo: essa lo è proprio perché attraverso la vita quotidiana ci fa partecipi
del modo di esistere del “cielo”, del mondo di Dio, lasciando così trasparire la luce del mondo
divino nel nostro mondo. In questo senso il culto ha di fatto – come abbiamo detto a proposito
dell’analisi del “gioco” – il carattere di un’anticipazione. Esso prefigura una vita
più definitiva e, in tal modo, dà alla vita presente la sua misura. Una vita in cui manca tale
anticipazione, in cui il cielo non è più abbozzato, diverrebbe plumbea e vuota. Per questo non esistono
società totalmente prive di culto. Persino i sistemi decisamente ateistici e materialistici hanno realizzato
nuove forme di culto, che risultano però solo illusorie e che inutilmente cercano di nascondere la loro
nullità nella loro ampollosa millanteria.
Con ciò arriviamo a un’ultima riflessione. L’uomo non può “farsi” da
sé il proprio culto; egli afferra solo il vuoto, se Dio non si mostra. Quando Mosè dice al faraone:
“noi non sappiamo con che cosa servire il Signore” (Es 10,26), nelle sue parole emerge di fatto uno dei
principi basilari di tutte le liturgie. Se Dio non si mostra, l’uomo, sulla base di quell’intuizione di
Dio che è iscritta nel suo intimo, può certamente costruire degli altari “al dio
ignoto”(cfr. At 17,23); può protendersi con il pensiero verso di lui, cercarlo procedendo a tastoni. Ma
la vera liturgia presuppone che Dio risponda e mostri come noi possiamo adorarlo. Essa implica una qualche forma di
istituzione. Essa non può trarre origine dalla nostra fantasia, dalla nostra creatività, altrimenti
rimarrebbe un grido nel buio o una semplice autoconferma. Essa presuppone qualcosa che stia concretamente di fronte,
che si mostri a noi e indichi così la via alla nostra esistenza. Di questa non arbitrarietà del culto
vi sono nell’Antico Testamento numerose e impressionanti testimonianze. In nessun altro passo, però,
questo tema si manifesta con tanta drammaticità come nell’episodio del vitello d’oro (o meglio
del torello). Questo culto, guidato dal sommo sacerdote Aronne, non doveva affatto servire un idolo pagano.
L’apostasia è più sottile. Essa non passa apertamente da Dio all’idolo, ma resta
apparentemente presso lo stesso Dio: si vuole onorare il Dio che ha condotto Israele fuori dall’Egitto e si
crede di poter rappresentare in modo appropriato la sua misteriosa potenza nell’immagine del torello. In
apparenza tutto è in ordine e presumibilmente anche il rituale procede secondo le prescrizioni. E tuttavia
è una caduta nell’idolatria. Due cose portano a questo cedimento, inizialmente appena percettibile. Da
una parte la violazione del divieto delle immagini: non si riesce a mantenere la fedeltà al Dio invisibile,
lontano e misterioso. Lo si fa scendere al proprio livello, riducendolo a categorie di visibilità e
comprensibilità. In tal modo il culto non è più un salire verso di lui, ma un abbassamento di
Dio alle nostre dimensioni: Egli deve essere lì dove c’è bisogno e così si pone in
realtà al di sopra di lui. Con ciò si è già accennato alla seconda cosa: si tratta di un
culto fatto di propria autorità. Se Mosè rimane assente a lungo e Dio diventa quindi inaccessibile,
allora lo si porta al proprio livello. Questo culto diventa così una festa che la comunità si fa da
sé; celebrandola, la comunità non fa che confermare se stessa. Dall’adorazione di Dio si passa a
un cerchio che gira intorno a se stesso: mangiare, bere, divertirsi. La danza intorno al vitello d’oro è
l’immagine di questo culto che cerca se stesso, che diventa una sorta di banale autosoddisfacimento. La
storia del vitello d’oro è un monito contro un culto realizzato a propria misura e alla ricerca di se
stessi, in cui in definitiva non è più in gioco Dio, ma la costituzione, di propria iniziativa di un
piccolo mondo alternativo. Allora la liturgia diventa davvero un gioco vuoto. O, ancora peggio, un abbandono del Dio
vivente camuffato sotto un manto di sacralità. Ma alla fine resta anche la frustrazione, il senso di vuoto.
Non c’è più quell’esperienza di liberazione che ha luogo lì dove avviene un vero
incontro con il Dio vivente.
(da Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001,
pagg.9-19)
Ho notato questo (questo problema delle differenti spiritualità) quando ero Arcivescovo di Monaco. Quando noi
siamo entrati in seminario, abbiamo avuto tutti una comune spiritualità cattolica, più o meno matura.
Diciamo che il fondamento spirituale era comune. Adesso vengono da esperienze spirituali molto diverse. Ho constatato
nel mio seminario che vivevano in diverse «isole» di spiritualità che comunicavano difficilmente.
Tanto più ringraziamo il Signore perché ha dato tanti nuovi impulsi alla Chiesa e tante nuove forme
anche di vita spirituale, di scoperta della ricchezza della fede. Bisogna soprattutto non trascurare la comune
spiritualità cattolica, che si esprime nella Liturgia e nella grande Tradizione della fede. Questo mi sembra
molto importante. Questo punto è importante anche riguardo al Concilio. Non bisogna vivere - come ho detto
prima di Natale alla Curia Romana - l'ermeneutica della discontinuità, ma vivere l'ermeneutica del
rinnovamento, che è spiritualità della continuità, dell'andare avanti in continuità.
Questo mi sembra molto importante anche riguardo alla Liturgia.
(dalle risposte di Papa Benedetto XVI alle domande dei sacerdoti, durante l’incontro con il clero della
Diocesi di Roma del giovedì 2 marzo 2006)
Al cattolico praticante normale due appaiono i risultati più evidenti della riforma
liturgica del Concilio Vaticano II: la scomparsa della lingua latina e l’altare orientato verso il popolo. Chi
legge i testi conciliari potrà constatare con stupore che né l’una né l’altra cosa
si trovano in essi in questa forma.
Certo, alla lingua volgare si sarebbe dovuto dare spazio, secondo le intenzioni del Concilio (cfr. Sacrosanctum
Concilium 36,2) – soprattutto nell’ambito della liturgia della Parola – ma, nel testo conciliare,
la norma generale immediatamente precedente recita: «L’uso della lingua latina, salvo un diritto
particolare, sia conservato nei riti latini» (Sacrosanctum Concilium 36,1).
Dell’orientamento dell’altare verso il popolo non si fa parola nel testo conciliare. Se ne fa parola in
istruzioni postconciliari. La più importante di esse è la Institutio generalis Missalis Romani,
l’Introduzione generale al nuovo Messale romano del 1969, dove al numero 262 si legge: «L’altare
maggiore deve essere costruito staccato dal muro, in modo che si possa facilmente girare intorno ad esso e celebrare,
su di esso, verso il popolo [versus populum]». L’introduzione alla nuova edizione del Messale romano del
2002 ha ripreso questo testo alla lettera, ma alla fine ha fatto la seguente aggiunta: «è auspicabile
laddove è possibile». Questa aggiunta è stata letta da molte parti come un irrigidimento del
testo del 1969, nel senso che adesso ci sarebbe un obbligo generale di costruire – «laddove
possibile» – gli altari rivolti verso il popolo. Questa interpretazione, però, era stata respinta
dalla competente Congregazione per il Culto divino già in data 25 settembre 2000, quando spiegò che
la parola «expedit» [è auspicabile] non esprime un obbligo ma una raccomandazione.
L’orientamento fisico dovrebbe – così dice la Congregazione – essere distinto da quello
spirituale. Quando il sacerdote celebra versus populum, il suo orientamento spirituale dovrebbe essere comunque
sempre versus Deum per Iesum Christum [verso Dio attraverso Gesù Cristo]. Siccome riti, segni, simboli e
parole non possono mai esaurire la realtà ultima del mistero della salvezza, si devono evitare posizioni
unilaterali e assolutizzanti al riguardo.
Un chiarimento importante, questo, perché mette in luce il carattere relativo delle forme simboliche esterne,
opponendosi così ai fanatismi che purtroppo negli ultimi quarant’anni non sono stati infrequenti nel
dibattito attorno alla liturgia. Ma allo stesso tempo illumina anche la direzione ultima dell’azione liturgica,
mai totalmente espressa nelle forme esterne e che è la stessa per sacerdote e popolo (verso il Signore: verso
il Padre attraverso Cristo nello Spirito Santo). La risposta della Congregazione dovrebbe perciò creare anche
un clima più disteso per la discussione; un clima nel quale si possano cercare i modi migliori per la pratica
attuazione del mistero della salvezza, senza reciproche condanne, nell’ascolto attento degli altri, ma
soprattutto nell’ascolto delle indicazioni ultime della stessa liturgia. Bollare frettolosamente certe
posizioni come “preconciliari”, “reazionarie”, “conservatrici”, oppure
“progressiste” o “estranee alla fede”, non dovrebbe più essere ammesso nel confronto,
che dovrebbe piuttosto lasciare spazio ad un nuovo sincero comune impegno di compiere la volontà di Cristo nel
miglior modo possibile.
Questo piccolo libro di Uwe Michael Lang, oratoriano residente in Inghilterra, analizza la questione
dell’orientamento della preghiera liturgica dal punto di vista storico, teologico e pastorale. Ciò
facendo, riaccende in un momento opportuno – mi sembra – un dibattito che, nonostante le apparenze, anche
dopo il Concilio non è mai veramente cessato.
Il liturgista di Innsbruck Josef Andreas Jungmann, che fu uno degli architetti della Costituzione sulla Sacra
Liturgia del Vaticano II, si era opposto fermamente fin dall’inizio al polemico luogo comune secondo il quale
il sacerdote, fino ad allora, avrebbe celebrato “voltando le spalle al popolo”. Jungmann aveva invece
sottolineato che non si trattava di un voltare le spalle al popolo, ma di assumere il medesimo orientamento del
popolo. La liturgia della Parola ha carattere di proclamazione e di dialogo: è rivolgere la parola e
rispondere, e deve essere, di conseguenza, il reciproco rivolgersi di chi proclama verso chi ascolta e viceversa. La
preghiera eucaristica, invece, è la preghiera nella quale il sacerdote funge da guida, ma è orientato,
assieme al popolo e come il popolo, verso il Signore. Per questo – secondo Jungmann – la medesima
direzione di sacerdote e popolo appartiene all’essenza dell’azione liturgica. Più tardi Louis
Bouyer – anch’egli uno dei principali liturgisti del Concilio – e Klaus Gamber, ognuno a suo modo,
ripresero la questione. Nonostante la loro grande autorità, ebbero fin dall’inizio qualche problema nel
farsi ascoltare, così forte era la tendenza a mettere in risalto l’elemento comunitario della
celebrazione liturgica e a considerare perciò sacerdote e popolo reciprocamente rivolti l’uno verso
l’altro.
Soltanto recentemente il clima si è fatto più disteso e così, su chi pone domande come quelle di
Jungmann, di Bouyer e di Gamber, non scatta più il sospetto che nutra sentimenti “anticonciliari”.
I progressi della ricerca storica hanno reso il dibattito più oggettivo, e i fedeli sempre più
intuiscono la discutibilità di una soluzione in cui si avverte a malapena l’apertura della liturgia
verso ciò che l’attende e verso ciò che la trascende. In questa situazione, il libro di Uwe
Michael Lang, così piacevolmente oggettivo e niente affatto polemico, può rivelarsi un aiuto prezioso.
Senza la pretesa di presentare nuove scoperte, offre i risultati delle ricerche degli ultimi decenni con grande cura,
fornendo le informazioni necessarie per poter giungere a un giudizio obiettivo. Molto apprezzabile è il fatto
che viene evidenziato, a tale riguardo, non solo il contributo, poco conosciuto in Germania, della Chiesa
d’Inghilterra, ma anche il relativo dibattito, interno al Movimento di Oxford nell’Ottocento, nel cui
contesto maturò la conversione di John Henry Newman. È su questa base che vengono sviluppate poi le
risposte teologiche.
(da «La direzione ultima dell’azione liturgica, mai totalmente espressa nelle forme esterne,
è la stessa per il sacerdote e il popolo: verso il Signore», introduzione del
cardinale Joseph Ratzingeral libro di Uwe Michael Lang, Turning towards the Lord: Orientation
in Liturgical Prayer, editrice Ignatius Press, San Francisco)
Egregi Signor Kiko Argüello,
Sig.na Carmen Hernandez
e Rev.do Padre Mario Pezzi,
A seguito dei dialoghi intercorsi con questa Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti circa
la celebrazione della Santissima Eucaristia nelle comunità del Cammino Neocatecumenale, in linea con gli
orientamenti emersi nell’incontro con Voi dell’11 novembre c.a., sono a comunicarVi le decisioni del
Santo Padre.
Nella celebrazione della Santa Messa, il Cammino Neocatecumenale accetterà e seguirà i libri
liturgici approvati dalla Chiesa, senza omettere né aggiungere nulla. Inoltre, circa alcuni elementi si
sottolineano le indicazioni e precisazioni che seguono:
1. La Domenica è il “Dies Domini”, come ha voluto illustrare il Servo di Dio, il Papa Giovanni
Paolo II, nella Lettera Apostolica sul Giorno del Signore. Perciò il Cammino Neocatecumenale deve entrare in
dialogo con il Vescovo diocesano affinché traspaia anche nel contesto delle celebrazioni liturgiche la
testimonianza dell’inserimento nella parrocchia delle comunità del Cammino Neocatecumenale. Almeno
una domenica al mese le comunità del Cammino Neocatecumenale devono perciò partecipare alla Santa Messa
della comunità parrocchiale.
2. Circa le eventuali monizioni previe alle letture, devono essere brevi. Occorre inoltre attenersi a quanto
disposto dall’ “Institutio Generalis Missalis Romani” (nn. 105 e 128) e ai Praenotanda
dell’”Ordo Lectionum Missae” (nn. 15, 19, 38, 42).
3. L’omelia, per la sua importanza e natura, è riservata al sacerdote o al diacono (cfr. C.I.C.,
can. 767 § 1). Quanto ad interventi occasionali di testimonianza da parte dei fedeli laici, valgono gli spazi e
i modi indicati nell’Istruzione Interdicasteriale “Ecclesiae de Mysterio”, approvata “in
forma specifica” dal Papa Giovanni Paolo II e pubblicata il 15 agosto 1997. In tale documento, all’art.
3, §§ 2 e 3, si legge:
§ 2 - “È lecita la proposta di una breve didascalia per favorire la maggior comprensione della liturgia che viene celebrata e anche, eccezionalmente, qualche eventuale testimonianza sempre adeguata alle norme liturgiche e offerta in occasione di liturgie eucaristiche celebrate in particolari giornate (giornata del seminario o del malato, ecc.) se ritenuta oggettivamente conveniente, come illustrativa dell’omelia regolarmente pronunciata dal sacerdote celebrante. Queste didascalie e testimonianze non devono assumere caratteristiche tali da poter essere confuse con l’omelia”.
§ 3 - “La possibilità del ‘dialogo’ nell’omelia (cfr. Directorium de Missis cum Pueris, n. 48) può essere, talvolta, prudentemente usata dal ministro celebrante come mezzo espositivo, con il quale non si delega ad altri il dovere della predicazione”.
Si tenga inoltre attentamente conto di quanto esposto nell’Istruzione “Redemptionis
Sacramentum”, al n. 74.
4. Sullo scambio della pace, si concede che il Cammino Neocatecumenale possa usufruire dell’indulto
già concesso, fino ad ulteriore disposizione.
5. Sul modo di ricevere la Santa Comunione, si dà al Cammino Neocatecumenale un tempo di transizione (non
più di due anni) per passare dal modo invalso nelle sue comunità di ricevere la Santa Comunione
(seduti, uso di una mensa addobbata posta al centro della chiesa invece dell’altare dedicato in presbiterio) al
modo normale per tutta la Chiesa di ricevere la Santa Comunione. Ciò significa che il Cammino
Neocatecumenale deve camminare verso il modo previsto nei libri liturgici per la distribuzione del Corpo e del Sangue
di Cristo.
6. Il Cammino Neocatecumenale deve utilizzare anche le altre Preghiere eucaristiche contenute nel messale, e
non solo la Preghiera eucaristica II.
In breve, il Cammino Neocatecumenale, nella celebrazione della Santa Messa, segua i libri liturgici approvati, avendo
tuttavia presente quanto esposto sopra ai numeri 1, 2, 3, 4, 5 e 6.
Riconoscente al Signore per i frutti di bene elargiti alla Chiesa mediante le molteplici attività del Cammino
Neocatecumenale, colgo l’occasione per porgere distinti saluti.
Francis Card. Arinze
Prefetto Congregatio de Cultu Divino et Disciplina Sacramentorum
(dalla Lettera della Sacra Congregazione per il Culto Divino dell’1 dicembre 2005)
Anche i più decisi avversari della sacralità - nel caso specifico del luogo sacro
- ammettono che la comunità cristiana ha bisogno di un luogo dove riunirsi e definiscono a partire da qui la
funzione dell'edificio chiesa in senso non sacrale, ma rigorosamente funzionale: esso rende possibile l'incontro
liturgico. Questa è indiscutibilmente una funzione essenziale dell'edificio chiesa, grazie alla quale esso
differisce dalla forma classica del tempio nella maggior parte delle religioni. Il rito di espiazione nel Santo dei
Santi dell'antica Alleanza è celebrato solamente dal sommo sacerdote; nessuno al di fuori di lui può
accedervi e lui stesso può farlo solo una volta all'anno. Similmente, anche i templi di tutte le altre
religioni non sono di solito luoghi di riunione degli oranti, ma spazi cultuali riservati alla divinità. Il
fatto che l'edificio cristiano venga ben presto denominato domus ecclesiae (casa della «Chiesa»,
dell'assemblea del popolo di Dio) e che poi il termine ecclesia (assemblea, chiesa) venga usato per definire
in forma abbreviata non solo la comunità vivente ma anche la casa che la ospita, manifesta un'altra
concezione: il «culto» lo celebra Cristo stesso nel suo stare davanti al Padre, è Lui il culto dei
suoi nel momento in cui essi si radunano con Lui e intorno a Lui. Questa differenza essenziale tra lo spazio della
liturgia cristiana e i «templi» non può tuttavia essere spinta sino a una falsa contrapposizione,
in cui viene interrotta la continuità interna della storia religiosa dell'umanità, che non appare mai
annullata nell'Antico come nel Nuovo Testamento, malgrado tutte le differenze esistenti. Cirillo di Gerusalemme
nella sua XVIII Catechesi (23-25) pone giustamente l'accento sul fatto che la parola convocatio
(synagogé-ekklesía = assemblea del popolo convocato), laddove compare per la prima volta - nel
Pentateuco, in occasione della consacrazione di Aronne - è esplicitamente ordinata al culto. Egli mostra che
questo è vero anche in tutti gli altri passi della Torà e che tale correlazione non va perduta nel
passaggio al nuovo Testamento. La convocazione, l'assemblea, ha uno scopo; e tale scopo è il culto, da cui
deriva e verso cui tende la chiamata. È il culto che riunisce i convocati, che dà dignità e
significato al loro incontro, vale a dire al loro essere una cosa sola in quella «pace» che il mondo non
può dare. Ciò è chiaro anche nel prototipo della ekklesia per l'Antico come per il Nuovo
Testamento: la comunità del Sinai. Essa si raduna per ascoltare la parola di Dio e per suggellarla nell'evento
sacrificale, così che si stabilisca il «patto» tra Dio e l'uomo. Ma anziché proseguire
con riflessioni di carattere generale, osserviamo più attentamente il modo in cui lo spazio ecclesiale ha
concretamente preso forma. Louis Bouyer - richiamandosi soprattutto alle ricerche di E.L.Sukenik - ha mostrato
come la casa di Dio cristiana sia sorta in stretta continuità con la sinagoga e, senza drammatiche rotture,
abbia ricevuto la sua specifica novità cristiana mediante la comunione con Gesù Cristo, crocifisso e
risorto. Questo stretto nesso con la sinagoga, con la sua struttura architettonica e le sue forme cultuali, non
contraddice affatto ciò che abbiamo detto sinora, e cioè che la liturgia cristiana include in sé
anche il tempio e non è solo una continuazione della sinagoga. Difatti la sinagoga stessa si richiamava al
tempio. La sinagoga non era semplicemente un luogo di insegnamento, una sorta di sala di insegnamento religioso -
secondo l'espressione di Bouyer -, ma era sempre incentrata sulla presenza di Dio. Questa presenza di Dio,
però, per gli ebrei era (ed è) strettamente legata al tempio. La sinagoga era dunque caratterizzata da
due punti focali. Il primo era la «cattedra di Mosè», della quale parla anche Gesù nel
Vangelo (Mt 23,2). Il rabbino non dice niente di suo, non è nemmeno un professore che analizza e fa una
riflessione di tipo intellettuale sulla parola di Dio; egli rende presente la parola che Dio attraverso Mosè
ha comunicato a Israele e comunica tutt'oggi. Dio parla oggi attraverso Mosè. La cattedra di Mosè
esiste perché il Sinai non sia solo esperienza del passato, perché qui non avviene solo un discorso
umano, ma è Dio a parlare.
La cattedra di Mosè non esiste quindi come un polo autonomo. Né è semplicemente rivolta al
popolo: il rabbino - come tutti coloro che si trovano nella sinagoga - è rivolto all'arca dell'Alleanza, o
meglio, allo scrigno della Torà che rappresenta l'arca scomparsa. L'arca dell'Alleanza fu sino all'esilio
l'unico «oggetto» che poteva trovar posto nel Santo dei Santi e gli conferiva il suo carattere peculiare.
L'arca era intesa come un trono vuoto, su cui si posava la Shekhinà, la nube della presenza di Dio. I
cherubini, in cui erano rappresentati gli elementi del mondo, vi figuravano come «assistenti del trono»;
non più divinità autonome, ma espressione delle forze della creazione in adorazione dell'unico Dio.
«Tu che siedi tra i cherubini», così viene invocato il Dio che i cieli non possono contenere, ma
che ha scelto l'arca santa come «sgabello» della Sua presenza. In questa prospettiva l'arca simboleggia
in qualche modo la presenza reale di Dio tra i suoi: essa è al tempo stesso impressionante raffigurazione
dell'assenza di immagini nel culto veterotestamentario, che lascia Dio nella sua sovranità e, per così
dire, gli offre solo lo sgabello del suo trono. L'arca dell'Alleanza era andata smarrita nell'esilio, da allora il
Santo dei Santi era vuoto: così lo trovò Pompeo quando, attraversando il tempio, scostò il velo,
entrò incuriosito nel Santo dei Santi e proprio in quello spazio vuoto incontrò ciò che è
più peculiare della religione biblica: il Santo dei Santi vuoto era divenuto ora anche un atto di attesa, di
speranza che Dio stesso ricostruirà il suo trono.
Se la sinagoga contiene nello scrigno della Torà una sorta di arca dell'Alleanza, essa è proprio per
questo il luogo di una specie di «presenza reale», poiché in essa sono conservati i rotoli della
Torà: la parola vivente di Dio, attraverso la quale egli dimora in Israele in mezzo al suo popolo. Per questo
lo scrigno era circondato da segni di riverenza, rivolti alla misteriosa presenza di Dio: esso era protetto da un
velo, davanti al quale ardevano le sette luci della menorà, il candelabro a sette bracci. Tuttavia
la presenza nella sinagoga di un' «arca dell'alleanza» non significa affatto che ora la comunità
locale sia divenuta autarchica, sufficiente a se stessa, ma che proprio essa è il luogo del proprio
autosuperamento in direzione del tempio, della comunità dell'unico popolo di Dio a partire dall'unico Dio: si
tratta ovunque dell'unica e medesima Torà. In tal modo l'arca rinvia oltre se stessa, all'unico luogo della
sua presenza che Dio si è scelto - il Santo dei Santi nel tempio di Gerusalemme. Questo Santo dei Santi del
tempio restò, come spiega Bouyer, «il fulcro ultimo del culto della sinagoga». Così
«tutte le sinagoghe, al tempo di Gesù e da quell'epoca in poi, sono orientate verso
Gerusalemme»... Il rabbino e il popolo guardano all'«arca dell'Alleanza» e, facendo questo, si
volgono verso Gerusalemme, verso il Santo dei Santi del tempio in quanto luogo della presenza di Dio per il suo
popolo. Le cose restarono così anche dopo la distruzione del tempio. Se già il Santo dei Santi vuoto
era stato espressione di una speranza, è ora il tempio distrutto ad attendere il ritorno della
Shekhinà, la propria ricostruzione ad opera del Messia che verrà...
Rispetto alla forma... della sinagoga, dall'essenza della fede cristiana derivano tre innovazioni che costituiscono
il tratto propriamente nuovo e specifico della liturgia cristiana.
In primo luogo non si guarda più a Gerusalemme, il tempio distrutto non è più considerato
il luogo della presenza terrena di Dio. Il tempio di pietra non esprime più la speranza dei cristiani; il suo
velo è squarciato per sempre. Ora si guarda a oriente, al sole che sorge. Non si tratta di un culto solare,
ma è il cosmo che parla di Cristo. In riferimento a Lui viene ora interpretato l’inno solare del
salmo 19 (18), dove si dice: «egli [il sole] è come uno sposo che esce dal suo talamo [ ...].
Dall'estremità dei cieli è la sua levata, ai loro confini è il suo ritorno» (vv. 6s).
Questo salmo passa direttamente dalla celebrazione della creazione alla lode della legge. Ciò viene ora inteso
a partire da Cristo, che è la vera parola, il Logos eterno e, dunque, la vera luce della storia, che
è sorto a Betlemme dalla camera nuziale della Vergine Madre e che ora illumina il mondo intero.
L’oriente sostituisce come simbolo il tempio di Gerusalemme, Cristo – rappresentato nel sole –
è il luogo della Shekhinà, il vero trono del Dio vivente; nell’incarnazione la natura umana
è divenuta veramente il trono di Dio, che è così legato per sempre alla terra e accessibile alla
nostra preghiera. La preghiera verso oriente fu considerata nella Chiesa antica una tradizione apostolica.
Benché non si possa datare con certezza l'inizio di questo cambiamento di orientamento, dalla direzione del
tempio all'oriente, è comunque certo che esso risale a un'epoca remotissima e che è sempre stato
considerato un tratto caratteristico della liturgia cristiana (anche nella preghiera privata). A questo
«orientamento» (oriens=est, oriente; orientamento significa quindi «indirizzare verso
est») della preghiera cristiana sono associati diversi significati. Orientamento è anzitutto semplice
espressione dello sguardo rivolto a Cristo come luogo di incontro tra Dio e l'uomo. Esso esprime la forma
cristologica fondamentale della nostra preghiera. Il fatto però che si veda Cristo simboleggiato nel sole che
sorge rinvia anche a una cristologia escatologicamente determinata. Il sole simboleggia il Signore che
tornerà, l'ultima alba della storia. Pregare rivolti a oriente significa andare incontro a Cristo che viene.
La liturgia rivolta a oriente opera, allo stesso tempo, l'ingresso nel corso della storia che muove verso il suo
futuro, verso il nuovo cielo e la nuova terra che in Cristo ci vengono incontro. Essa è preghiera della
speranza, è il pregare camminando nella direzione che ci indicano la vita di Cristo, la sua passione e la sua
resurrezione. Proprio per questo, ben presto, in diverse parti della cristianità la direzione dell'oriente
venne indicata dalla croce. Lo si può desumere anche da un parallelo tra Ap1,7 e Mt24,30. Nell'Apocalisse di
Giovanni si legge: «Ecco: viene tra le nubi; tutti gli uomini lo contempleranno, anche quelli che l'hanno
trafitto; e si batteranno per lui il petto tutte le tribù della terra. Sì, amen!». L'autore
dell'Apocalisse si richiama qui a Gv19,37, dove, alla fine della scena della crocifissione, viene citato il
misterioso detto profetico di Zc12,10: «Guarderanno a colui che hanno trafitto», che ora acquista d'un
tratto un significato concreto. Infine, in Mt24,30 vengono riportate queste parole del Signore: «Allora [alla
fine dei giorni] apparirà nel cielo il segno del Figlio dell'uomo e allora si batteranno il petto tutte le
tribù della terra [Zc 12,10] e vedranno il Figlio dell'uomo venire sulle nubi del cielo [Dn 7,13] con grande
potenza e splendore». Il segno del Figlio dell'uomo, di Colui che è stato trafitto, è la
croce, che diviene ora il segno della vittoria del Risorto. In tal modo il simbolismo della croce e quello
dell'oriente si intrecciano; ambedue sono espressione della stessa e unica fede, in cui la memoria della Pasqua di
Gesù si fa presenza e le conferisce la dinamica della speranza che va incontro a Colui che viene. Infine,
questo volgersi a oriente significa anche che il cosmo e la storia della salvezza sono tra loro collegati. Il cosmo
entra in questa preghiera, anch'esso attende la liberazione. Proprio questa dimensione cosmica è un
elemento essenziale della liturgia cristiana. Essa non si compie mai solo nel mondo che l'uomo si è fatto da
sé. Essa è sempre liturgia cosmica - il tema della creazione è parte integrante della preghiera
cristiana. Essa perde la sua grandezza se dimentica questo stretto rapporto...
La seconda novità rispetto alla sinagoga consiste nel fatto che compare un elemento completamente nuovo,
che nella sinagoga non poteva esserci: alla parete orientale, ovvero nell'abside, c'è ora l'altare, su cui
viene ora celebrato il sacrificio eucaristico. Come abbiamo visto, l'eucaristia è un entrare nella
liturgia celeste, un divenire contemporanei all'atto di adorazione di Gesù Cristo in cui egli, mediante il suo
corpo, assume in sé il tempo del mondo e contemporaneamente lo innalza al di sopra del tempo stesso portandolo
fino alla comunione dell'eterno amore. Per questo l'altare significa un ingresso dell'oriente nella comunità
radunata e un'uscita della comunità dal carcere di questo mondo attraverso il velo ora aperto; significa,
inoltre, partecipazione alla Pasqua, al «passaggio» dal mondo a Dio che Cristo ci ha aperto. È
chiaro che l'altare nell'abside guarda verso l' «Oriente» e ne è al tempo stesso parte. Se
nella sinagoga, al di là dell'arca santa, dello scrigno della parola, si era guardato verso Gerusalemme, ora
con l'altare si è posto un nuovo baricentro: in esso - lo ripetiamo - torna a essere presente ciò che
prima era significato dal tempio. Esso serve anzi alla nostra contemporaneità con il sacrificio del
Logos. Trattiene così il cielo nella comunità radunata o, piuttosto, la porta al di sopra di
sé nella comunione dei santi di ogni luogo e di ogni tempo. Potremmo anche affermare che l'altare è,
per così dire, il luogo del cielo squarciato; esso non chiude lo spazio ecclesiale, ma lo apre alla liturgia
eterna. Avremo modo in seguito di parlare delle conseguenze pratiche di questo significato dell'altare cristiano,
dal momento che la questione della giusta collocazione dell'altare sta al centro delle polemiche
postconciliari...
Il terzo elemento che va notato... è che l'arca della Scrittura viene conservata e mantiene la sua
collocazione nell'edificio ecclesiastico, ma anche qui con una novità sostanziale. Alla Torà si
aggiungono i Vangeli, che soli possono svelare il senso della Torà: «Di me ha scritto
Mosè», dice Cristo (Gv5,46). Lo scrigno della parola, l'«arca dell'alleanza», diventa ora il
trono dell'Evangelo, che certo non abolisce le «Scritture», non le mette da parte, ma le spiega,
così che esse formano ora anche le «Scritture» dei cristiani, e senza di loro il Vangelo sarebbe
senza fondamento. Viene mantenuta l'usanza sinagogale di coprire lo scrigno con un velo per esprimere la
santità della parola. Ne deriva del tutto spontaneamente che anche il nuovo, il secondo luogo santo, l'altare,
viene avvolto con un velo, da cui nella Chiesa orientale si è sviluppata l'iconostasi. La duplicità
dei luoghi santi ebbe una conseguenza importante per la prassi liturgica: nella liturgia della parola la
comunità era radunata intorno allo scrigno dei libri sacri, ovverosia intorno alla cattedra ad esso associata
e che da cattedra di Mosè divenne cattedra episcopale. Come il rabbino non parlava per sua autorità,
così ora il vescovo spiega la Bibbia in nome e per conto di Cristo, per cui essa da parola scritta e passata
torna a essere ciò che è: discorso presente che Dio rivolge a noi. A conclusione della liturgia della
parola, durante la quale i fedeli si raccolgono attorno al seggio episcopale, tutti i presenti con il vescovo
si spostano attorno all'altare, dove si ode l'appello: conversi ad Dominum - volgetevi al Signore, vale a
dire: guardate ora, insieme con il vescovo, verso oriente, nel senso dell'affermazione della lettera agli Ebrei:
«avendo lo sguardo fisso su Gesù, autore e consumatore della fede» (12,2). La liturgia eucaristica
si compie tenendo lo sguardo su Gesù, è sguardo rivolto a Lui. La liturgia ha dunque nella
struttura della chiesa cristiana primitiva due luoghi. Il primo è quello della liturgia della parola, al
centro dello spazio, nel quale i fedeli sono radunati attorno al bema, una sorta di tribuna su cui si
trovavano il trono dell'Evangelo, il seggio episcopale e il leggio. La liturgia eucaristica vera e propria ha il suo
luogo nell'abside, presso l'altare, che i fedeli circondano, rivolti tutti, con il celebrante, verso oriente, al
Signore che viene.
Bisogna, infine, accennare a un'ultima differenza tra la sinagoga e le chiese delle origini: in Israele
solo la presenza degli uomini era considerata fondamentale per la celebrazione del culto. Solo a loro si riferiva il
sacerdozio universale descritto in Esodo19. Nella sinagoga le donne potevano quindi trovar posto solo sulle tribune o
nelle logge. Nella Chiesa di Cristo, già a partire dagli apostoli, da Gesù stesso, non esisteva tale
distinzione. Anche se alle donne non veniva affidato il servizio pubblico della parola, esse erano comunque
pienamente coinvolte nella celebrazione liturgica, esattamente come gli uomini. Per questo esse - sia pur separate
dagli uomini - trovavano posto nello spazio sacro, attorno al bema come attorno all'altare.
(da Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001,
pagg.59-70)
Nel corso dell’evoluzione storica della fede cristiana, si sono andate palesemente
distaccando una dall’altra due branche dottrinali, che assunsero correntemente il nome di
‘cristologia’ e ‘soteriologia’. Con la prima si indicava la dottrina concernente
l’essere di Gesù, che si andò man mano sempre più incapsulando come un’eccezione
ontologica, trasformandosi così in un oggetto di speculazione, diventando qualcosa di specialissimo,
d’incomprensibile, di limitato unicamente a Gesù. Col termine di ‘soteriologia’
s’indicava invece la dottrina concernente la redenzione. Dopo aver esaminato a fondo il cruciverba ontologico
per scoprire come uomo e Dio potessero sussistere insieme in Gesù, si passò a domandarsi,
separatamente, che cosa Gesù avesse realmente fatto e come gli effetti della sua opera risultassero
applicabili a noi. Il fatto che le due questioni si siano dissociate una dall’altra, portando la persona e
l’opera da essa compiuta a formare il contenuto di due trattati nozionali separati, ha finito per renderle
ambedue incomprensibili e irrealizzabili. Basta solo sfogliare un pochino i manuali di dogmatica, per rilevare
subito quanto si complicassero le teorie vertenti sulle due branche; e tutto, semplicemente perché si era
dimenticato che solo abbinandole assieme si possono davvero comprendere. Mi limito soltanto a ricordare la forma in
cui la dottrina concernente la redenzione per lo più si presenta alla coscienza cristiana. Essa si basa ancora
sulla cosiddetta ‘teoria della soddisfazione’, che è stata sviluppata alle soglie del medioevo da
Anselmo di Canterbury, e da allora in poi ha sempre condizionato in maniera esclusiva le coscienze del cristianesimo
d’Occidente. Essa, già solo nella sua classica configurazione, non va immune da unilateralità.
Qualora poi la si veda nella rozza e grossolana veste in cui l’ha insaccata la coscienza popolare, ci appare
come un crudele meccanismo, per noi sempre più inutilizzabile. Anselmo di Canterbury (1033-1109 circa) si
era preoccupato di evincere l’opera di Cristo con argomenti obbligati (rationibus necessariis), dimostrando
così irrefragabilmente come tale opera dovesse tassativamente svolgersi così, come di fatto
s’è svolta. A grandi linee, il suo pensiero si potrebbe abbozzare nel seguente modo. Per colpa del
peccato dell’uomo, che è stato un atto di ribellione contro Dio, l’ordine della giustizia è
stato infinitamente sovvertito, e Dio infinitamente offeso. Dietro questa concezione, sta l’idea che la misura
dell’offesa si valuti badando all’offeso: le conseguenze sono ben differenti – si dice – se
io offendo un accattone o invece il presidente della repubblica. L’offesa assume un peso diverso, a seconda di
chi ne è la vittima. Siccome Iddio è infinito, anche l’offesa a lui fatta
dall’umanità col peccato riveste un peso infinito. Ora, il diritto in tal modo violato deve venire
risarcito, perché Iddio è il Dio dell’ordine e della giustizia, anzi, la Giustizia per
antonomasia. Ma corrispondentemente alla misura dell’offesa, è necessaria una riparazione infinita. E
l’uomo non è assolutamente in grado di offrirla. Può sì offendere in maniera infinita,
perché le sue facoltà arrivano a tanto; ma non riesce a soddisfare in maniera infinita: siccome
è un povero essere finito, qualunque cosa egli esibisca, sarà sempre e soltanto una cosa finita. La
sua forza distruttiva sopravanza di molto le sue facoltà ricostruttive. Sicché, tra tutte le
riparazioni che l’uomo tenterà di offrire, e la grandezza della sua colpa, continuerà a
sussistere un margine infinito, un divario incolmabile: ogni gesto d’espiazione non può che mostrargli
la sua assoluta impotenza a colmare l’infinito abisso scavato dalle sue stesse mani. E allora,
l’ordine dovrà rimanere per sempre distrutto, l’uomo dovrà restare eternamente sprofondato
nel baratro della sua colpa? Ecco che a questo punto Anselmo s’imbatte nella figura di Cristo. Allora la sua
risposta suona così: Dio stesso lava l’ingiustizia da noi commessa; ma non (come pur potrebbe fare)
accordandoci una semplice amnistia, la quale non è in grado di liquidare intrinsecamente l’accaduto,
bensì subentrando al posto nostro. L’infinito stesso si fa uomo, e poi in quanto uomo, appartenente alla
stirpe degli offensori eppure sempre in possesso dell’energia capace di infinita riparazione negata al semplice
uomo, offre la richiesta espiazione. Si ha così la redenzione, che avviene interamente per via di grazia, ma
al contempo anche in forma di ripristino della giustizia lesa. Anselmo credeva d’aver così risolto in
maniera convincente il grave problema del Cur Deus homo?, d’aver trovato il perché
dell’Incarnazione e della croce; la sua concezione ha decisamente improntato l’intero secondo millennio
del cristianesimo occidentale; ai suoi occhi, era ovvio che Cristo era dovuto morire sulla croce per riparare
l’infinita offesa arrecata alla Maestà divina, ristabilendo così l’ordine un dì
violato. Non si può certo negare che in questa teoria siano contenuti decisivi spunti biblici ed umani: chi
ne segue con un po’ di pazienza l’argomentazione, riuscirà a scorgerlo senza difficoltà.
Pertanto, nella sua qualità di tentativo mirante ad armonizzare i singoli elementi della narrazione biblica in
un grande sistema di pensiero, compatto e radicale, andrà pur sempre tenuta in considerazione. Non è
poi difficile vedere come, nonostante tutti gli ammennicoli filosofici e giuridici qui adoperati, il tema conduttore
rimanga pur sempre quella verità che viene espressa dalla Bibbia nella piccola preposizione ‘per’,
con la quale essa ci dimostra come noi uomini non viviamo solo attingendo la linfa direttamente da Dio, ma anche gli
uni dagli altri, e in definitiva da quell’Unico che è vissuto per tutti. E non c’è chi
non veda come, in questo schema presentatoci dalla teoria della soddisfazione, rimanga sempre bene in vista
l’ampio respiro del pensiero biblico dell’elezione, per il quale la vocazione non è un privilegio
accordato all’eletto, bensì una sua chiamata ad essere per gli altri. Essa è infatti una
vocazione a quel ‘per’, in cui l’uomo s’abbandona con animo sollevato, cessa di aggrapparsi
convulsamente a se stesso, ed osa spiccare quel balzo verso l’Infinito unicamente rischiando il quale riesce a
raggiungere se stesso. Ma pur concedendo tutto questo, non si può d’altra parte negare che il sistema
giuridico divino-umano e perfettamente logico, escogitato da Anselmo, alteri le prospettive, finendo magari con la
sua ferrea logica per mettere in una luce sinistra l’immagine di Dio. Dovremo tornare diffusamente
sull’argomento, quando sarà il momento di parlare sul significato della croce. Per ora, può anche
bastare l’accenno al fatto che le cose si presentano in maniera tutta diversa allorché, invece di
istituire una separazione fra l’opera e la persona di Gesù, si vede chiaramente come in Gesù
Cristo non si tratti di un’opera staccata da lui stesso, non d’una prestazione tassativamente richiesta
da Dio perché egli stesso è tenuto a rispettare l’ordine; allora infatti apparirà chiaro
che – per dirla con Gabriel Marcel – in lui non si tratta d’un avere bensì d’un
essere nei confronti dell’umanità. Come del resto tutt’altro aspetto presentano le cose, quando si
è afferrata la chiave dell’argomentazione paolina, che s’insegna a comprendere Cristo come
l’ ‘ultimo uomo’ (εσχατος αδαμ:
1Cor15,45), vale a dire come l’uomo definitivo, che introduce l’uomo nel suo futuro, consistente nel
fatto che egli non è soltanto uomo, ma forma invece un tutto unico con Dio.
(da J.Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia, 1979, pagg.182-185)
a) Giustizia e grazia.
Come abbiamo rilevato poc’anzi, in questo campo la coscienza cristiana è in genere ancora largamente
improntata ad una grossolana ed irrozzita idea della teologia d’espiazione risalente ad Anselmo di
Canterbury... Per molti cristiani, e specialmente per quelli che conoscono la fede solo piuttosto da lontano, le cose
stanno come se la croce andasse vista inserita in un meccanismo, costituito dal diritto offeso e riparato. Sarebbe la
forma in cui la giustizia di Dio infinitamente lesa verrebbe nuovamente placata da un’infinita espiazione.
Sicché la vicenda della croce appare all’uomo come l’espressione d’un atteggiamento, che
poggia su un esatto conguaglio tra dare e avere; ma nello stesso tempo, si ha la sensazione che questo conguaglio si
basi per altro su un piedestallo fittizio. Di conseguenza, si dà segretamente con la mano sinistra, ciò
che poi si ritoglie solennemente con la destra. Col risultato che la ‘infinita espiazione’ su cui Dio
sembra reggersi, si presenta in una luce doppiamente sinistra. Da molti libri di devozione, s’infiltra
così nella coscienza proprio l’idea che la fede cristiana nella croce immagini un Dio, la cui spietata
giustizia abbia preteso un sacrificio umano, l’immolazione del suo stesso Figlio. Per cui si volgono con
terrore le spalle ad una giustizia, la cui tenebrosa ira rende inattendibile il messaggio dell’amore. Quanto
diffusa è un’immagine del genere, altrettanto è sbagliata e falsa. Nella Bibbia, la croce non
si presenta affatto come ingranaggio d’un meccanismo di diritto leso; la croce vi compare invece proprio come
espressione indicante la radicalità dell’amore che si dona interamente, come un processo in cui uno
è ciò che fa, e fa esattamente ciò che è: come palese simbolo d’una vita vissuta
integralmente per gli altri. Agli occhi di chi osserva attentamente, nella teologia della croce sviluppata dalla
Scrittura, si esprime un’autentica rivoluzione rispetto alle idee di espiazione e di redenzione riscontrabili
nelle religioni non cristiane della storia; non si può per altro negare che, nella coscienza cristiana dei
tempi successivi, tale rivoluzione si sia di nuovo largamente neutralizzata, e sia stata ben di rado riconosciuta in
tutta la sua portata. Nelle religioni mondiali, espiazione significa normalmente riparazione e ripristino dei
rapporti perturbati esistenti con la divinità, ottenuti tramite azioni propiziatrici degli uomini. Quasi
tutte le religioni ruotano attorno al problema dell’espiazione; nascono dalla consapevolezza che l’uomo
ha della propria colpa di fronte a Dio, e denotano il tentativo di eliminare questo sentimento di colpa, cancellando
il peccato mediante opere d’espiazione offerte a Dio. L’azione espiatrice con la quale gli uomini mirano
a conciliarsi e propiziarsi la divinità, sta al centro della storia delle religioni. Nel Nuovo Testamento,
invece, la situazione è quasi esattamente l’inversa. Non è l’uomo che s’accosta a Dio
tributandogli un dono compensatore, ma è Dio che s’avvicina all’uomo per accordarglielo. Per
iniziativa stessa della sua potenza amorosa, egli restaura il diritto leso, giustificando l’uomo colpevole
mediante la sua misericordia creatrice e richiamando alla vita la creatura morta. La sua giustizia è
grazia: è giustizia attiva, che raddrizza l’uomo distorto, riportandolo allo stato lineare,
giustificandolo. Qui ci troviamo davvero di fronte alla svolta portata dal cristianesimo nella storia delle
religioni: il Nuovo Testamento non dice che gli uomini si riconcilino con Dio, come del resto dovremmo attenderci,
perché sono essi che hanno sbagliato, non Dio. Ci dice invece che “Dio in Cristo ha riconciliato con
sé il mondo” (2Cor 5,19). Ora, ciò è qualcosa di veramente inaudito, qualcosa di
assolutamente nuovo: è la base di lancio dell’esistenza cristiana e il centro focale della teologia
della croce, sviluppata dal Nuovo Testamento. Dio non aspetta che i colpevoli si facciano avanti, riconciliandosi con
lui, ma va loro incontro per primo riabilitandoli. In questo grande evento si vede delinearsi il vero indirizzo
orientativo dell’incarnazione, della croce.
Di conseguenza, nel Nuovo Testamento la croce si presenta primariamente come un movimento discendente,
dall’alto in basso. Essa non ha affatto l’aspetto d’una prestazione propiziatrice che
l’umanità offre allo sdegnato Iddio, bensì quello d’un’espressione di quel folle
amore di Dio, che s’abbandona senza riserve all’umiliazione pur di redimere l’uomo; è un suo
accostamento a noi, non viceversa. Con questa inversione di rotta nell’idea dell’espiazione, che
viene a spostare addirittura l’asse dell’impostazione religiosa in genere, nel cristianesimo anche il
culto e l’intera esistenza ricevono un nuovo indirizzo. Nella sfera cristiana, l’adorazione si
estrinseca in primo luogo nel ricevere con animo grato l’azione salvifica di Dio. La forma essenziale del culto
cristiano si chiama quindi a ragion veduta Eucarestia, cioè rendimento di grazie. In questa cerimonia
cultuale, non si offrono a Dio tributi umani, ma si porta invece l’uomo a lasciarsi inondare di doni; noi non
glorifichiamo Iddio offrendogli qualcosa di presumibilmente nostro – quasi che ciò non fosse già
per principio suo! -, bensì facendoci regalare qualcosa di Suo, e riconoscendolo così come
l’unico Signore. Lo adoriamo lasciando cadere la finzione d’un campo in cui noi saremmo in grado di
presentarci a lui come contrattatori autonomi, mentre in realtà noi possiamo esistere soltanto in lui e in
derivazione da lui. Il sacrificio cristiano non consiste in un dare a Dio ciò che Egli non avrebbe senza di
noi, bensì nel nostro farci completamente ricettivi nei suoi confronti e nel lasciarci integralmente assorbire
da lui. Permettere a Dio di operare su di noi: ecco la quintessenza del sacrificio cristiano.
b) La croce come adorazione e sacrificio.
Con i rilievi sin qui fatti, non abbiamo però detto ancora tutto. Quando si legga il Nuovo Testamento dal
principio alla fine, non è possibile soffocare la domanda se esso non ci presenti l'azione espiativa di
Gesù come l'offerta d'un sacrificio al Padre, additandoci la croce come l'olocausto che Cristo in tutta
obbedienza esibisce al Padre. In una lunga serie di testi, l'azione di Cristo ci vien indicata nonostante tutto
come un movimento ascendente intrapreso dall'umanità verso Dio; sicché sembra proprio tornare alla
ribalta tutto quanto abbiamo testé spazzato via dalla scena. Enucleando la sola linea discendente, per altro,
non è possibile cogliere integralmente il senso del Nuovo Testamento. E allora, come dobbiamo spiegarci il
rapporto intercorrente fra le due linee? Dobbiamo forse escludere l'una a beneficio dell'altra? E qualora lo
volessimo davvero fare, quale scala di valori ci autorizzerebbe ad intraprendere tale selezione? È quindi
chiaro che in questa direzione non possiamo procedere: finiremmo inevitabilmente per elevare il puro e semplice
arbitrio della nostra opinione a parametro per commisurare la fede.
Per riuscir ad andare avanti su questo terreno, dobbiamo ampliare la nostra domanda, cercando di appurare dove sia
situato il punto d'avvio dell'interpretazione neotestamentaria della croce. Occorre innanzitutto avvertire che la
croce di Gesù è apparsa di primo acchito ai discepoli come la fine, come il fallimento dell'opera da
lui intrapresa. Essi avevano creduto d'aver trovato in lui un re. che non avrebbe più potuto esser
detronizzato, e s'erano invece trovati improvvisamente ad essere soltanto i compagni di sventura d'un giustiziato.
La risurrezione aveva sì dato loro la certezza che Gesù era malgrado tutto davvero un re; ma a che
cosa sarebbe servita la croce, dovettero imparare a capirlo solo lentamente, per gradi. Il mezzo per comprenderlo
glielo offerse la Scrittura, vale a dire l'Antico Testamento, ricorrendo alle cui immagini simboliche, ai cui
concetti, si sforzarono d'interpretare l'accaduto. Essi tirarono quindi in campo anche i suoi testi e le sue
prescrizioni liturgiche, nella convinzione che tutto quanto vi si diceva si era effettivamente realizzato in
Gesù, anzi, che solo guardando a lui si poteva ora capire veramente quale fosse in realtà il senso
riposto di quelle parole e di quei fatti. Ed ecco perché, nel Nuovo Testamento, noi troviamo spiegata la
croce, anche con pensieri tratti dalla teologia cultuale vetero-testamentaria.
La più logica e coerente elaborazione in questo senso possiamo riscontrarla nella Lettera agli Ebrei, che
mette in rapporto la morte di Gesù in croce col rito e con la teologia della festa ebraica dell'espiazione,
presentandocela come l'autentica festa della riconciliazione cosmica. La linea di pensiero sviluppata in questa
lettera si potrebbe sintetizzare press'a poco così: ogni vittima offerta dalla umanità, ogni tentativo
da essa intrapreso per propiziarsi Iddio tramite il culto rituale, di cui il mondo rigurgita, dovevano per forza
restare pura e semplice opera umana priva di mordente, perché Iddio non cerca vitelli e capri o qualsiasi
altra cosa gli venga offerta per via rituale. Si possono presentare a Dio, in ogni parte del mondo, intere
ecatombi di animali; egli però non ne ha affatto bisogno, perché tutto gli appartiene lo stesso e
quindi al Signore dell'universo non si dà un bel nulla, anche quando si brucia tutto ciò in suo
onore: «Non ti sottraggo di casa il giovenco, né i capretti dagli ovili tuoi. Ché mia
è ogni fiera della selva, gli animali sui monti a mille a mille. Mi è noto ogni volatile nell'alto,
ciò che vive nei campi è in mia mano. Se avrò fame, a te non verrò a dirlo, ché
mio è l'orbe e ciò che esso contiene. Mangio io forse la carne dei tori, ovvero bevo il sangue dei
capretti? Offri a Dio la tua lode in sacrificio...» - così dice un'esortazione di Dio contenuta
nell'Antico Testamento (Sal50[49],9-14). L'autore della Lettera agli Ebrei si pone proprio sulla linea spirituale
di questo e di altri testi affini. Con decisione ancor più energica egli ribadisce l'inutilità del
conato rituale. Dio non cerca vitelli e capri, bensì l'uomo; il libero assenso dell'amore è l'unico
elemento che Dio deve attendersi, l'adorazione e il ‘sacrificio’ che soli siano suscettibili di avere un
senso. L'assenso dato a Dio, con cui in pratica l'uomo si ridona al Signore, non si potrà mai sostituire e
surrogare col sangue dei giovenchi e degli arieti. «E che cosa mai potrà dare l'uomo, quale prezzo, per
il riscatto della sua anima» (Mc. 8,37)? La risposta non può suonare che così: egli non è
in grado di dare proprio nulla che sia atto a controbilanciare la sua carenza.
Siccome però tutto il culto pre-cristiano poggia sull'idea della sostituzione, della rappresentanza, tentando
di sostituire l'insostituibile, esso doveva per forza rimanere un conato inutile e vano. Alla luce della fede in
Cristo, la Lettera agli Ebrei può osar tirare questo fallimentare bilancio della storia della religione, anche
se solo il presentarlo, in un mondo saturo di offerte sacrificali, doveva apparire un crimine mostruoso. Essa ha
il coraggio di affermare senza riserve questo completo fallimento delle religioni, perché sa come in Cristo
l’idea della sostituzione, della supplenza, abbia acquisito un senso integralmente nuovo. Egli, che agli
effetti della religione legale era un laico, non rivestiva alcun ufficio nel servizio cultuale d’Israele
– dice il testo - era invece l’unico vero sacerdote del mondo. La sua morte che, vista sotto
l’aspetto puramente interno alla storia, rappresentò un evento meramente profano –
l’esecuzione capitale d’un uomo condannato come delinquente politico - fu invece l’unico atto
liturgico della storia universale. Il suo supplizio è stato una liturgia cosmica, tramite la quale
Gesù, non in quel settore limitato dell’azione liturgica che era il tempio, bensì al cospetto
dell’intero mondo, attraversando l’atrio della morte è penetrato nell’autentico tempio,
ossia alla presenza di Dio stesso, e per sacrificargli non delle cose, sangue di animali od altro, bensì
addirittura se stesso (Ebr9,11 ss.).
Facciamo ben attenzione a questa fondamentale conversione di rotta, che costituisce il pensiero centrale della
Lettera: ciò che visto con occhi terreni si presentava come un avvenimento meramente profano, è in
realtà il vero culto dell’umanità, perché colui che ne fu il protagonista sbrecciò
la staccionata chiusa della cerimonia liturgica, trasformando quest’ultima in una genuina realtà:
donando e sacrificando se stesso. Egli strappò di mano agli uomini le offerte sacrificali, sostituendovi la
sua personalità, il suo stesso ‘io’ donato in olocausto. Se tuttavia nel nostro testo si
afferma ancora che Gesù ha operato la redenzione col suo sangue (Ebr 9,12), questo sangue non va inteso come
un dono materiale, come un mezzo espiativo da misurarsi quantitativamente, bensì come la pura concretizzazione
di quell’amore che ci vien additato come spinto sino all’estremo (Gv 13,1). Esso è
l’espressione della totalità della sua dedizione e del suo servizio, l’implicita asserzione del
fatto che egli offre né più né meno che se stesso. Il gesto dell’amore che tutto dona:
questo e soltanto questo ha costituito, secondo la Lettera agli Ebrei, l’autentica redenzione del mondo;
per cui, l’ora della croce rappresenta il giorno della redenzione cosmica, la vera e definitiva festa della
Riconciliazione. Non esiste altro culto né altro Sacerdote all’infuori di quello che lo ha compiuto:
Gesù Cristo.
c) L’essenza del culto cristiano.
Stando così le cose, l’essenza del culto cristiano non sta nell’offerta di cose, e nemmeno in una
certa qual loro distruzione, come dal secolo XVI in poi si può leggere sempre più insistentemente
scritto nei trattati teorici concernenti il sacrificio della messa, ove si afferma che proprio in questo modo bisogna
riconoscere la suprema autorità di Dio sull’universo. Tutti gli sforzi fatti dal pensiero in questo
senso sono ormai stati decisamente superati dall’avvento di Cristo, e dall’interpretazione che ce ne
dà la Bibbia. Il culto cristiano si concretizza nell’assoluta dedizione dell’amore, quale
poteva estrinsecarsi unicamente in colui, nel quale l’amore stesso di Dio si era fatto amore umano; e si
esplica nella nuova forma di funzione vicaria inclusa in quest’amore: nel fatto che egli s’è
incaricato di rappresentarci e noi ci lasciamo impersonare da lui. Esso comporta pure che noi ci decidiamo una buona
volta ad accantonare i nostri conati di auto-giustificazione, che in fondo sono solo delle magre scuse, buone
unicamente a metterci gli uni contro gli altri; così come il tentativo di giustificazione architettato da
Adamo è una mera scusa pretestuosa, un conato di scaricare la colpa sulla compagna, anzi, addirittura un
tentativo di accusare Dio stesso: “E’ stata la donna da te datami per compagna, che mi ha presentato il
frutto dell’albero...” (Gen 3,12). Esso esige che noi, al posto del deleterio scaricabarile
dell’auto-giustificazione, accogliamo il dono dell’amore fattoci da Gesù Cristo che intercede per
noi, lasciandoci convogliare nel suo flusso, per divenire così in lui e con lui dei veri adoratori. Tenendo
ben presenti questi principi, dovrebbe risultarci possibile rispondere stringatamente ad alcuni altri quesiti che
ancora si pongono.
1. Guardando al messaggio d’amore lanciato al mondo dal Nuovo Testamento, va oggi sempre più prendendo
piede una tendenza a risolvere completamente il culto cristiano nell’amor fraterno, nella
‘fraternità umana’, senza lasciar più alcun posto al diretto amor di Dio, o alla
venerazione del Signore: se ne riconosce solo la dimensione orizzontale, mentre si nega invece la dimensione
verticale dell’immediato rapporto con Dio. Ora, rifacendoci a quanto abbiamo detto, si vede assai facilmente
perché questa concezione, di primo acchito apparentemente così simpatica, finisca invece per svuotare
di contenuto, oltre che il cristianesimo, anche il sentimento d’umanità. La fraternità con
pretese di autosufficienza si trasformerebbe fatalmente nel più smaccato egoismo di autoaffermazione. Essa
infatti rinuncerebbe alla sua benefica apertura, alla sua scioltezza e abnegazione, qualora non accogliesse anche il
bisogno di redenzione che tale amore porta in sé da parte di colui, che solo ha saputo realmente amare a
sufficienza. E nonostante tutta la buona volontà, finirebbe per fare una grossa ingiustizia a sé
ed agli altri, perché l’uomo non si esaurisce unicamente nei rapporti di fraternità umana, ma si
realizza invece in tutta la sua estensione solo nei rapporti con quel disinteressato amore, che glorifica Dio stesso.
Il disinteresse della pura e semplice adorazione è la suprema possibilità dell’esistenza umana,
la sua sola vera e definitiva liberazione.
2. Soprattutto allorché si osservano le forme devozionali consuetudinarie incentrate sulla passione, viene
continuamente da domandarsi in qual modo si colleghino fra loro sacrificio (e quindi adorazione) e dolore. Stando ai
rilievi testé fatti, il sacrificio cristiano non è altro che l’esodo della ‘funzione
vicaria’, che abbandona tutta se stessa, realizzato in pieno nell’uomo che è integralmente
‘esodo’, autosuperamento dell’amore. Pertanto, il principio costitutivo del culto cristiano
è questo movimento di esodo, caratterizzato dalla sua duplice e al contempo unitaria polarizzazione su Dio e
sul prossimo. Cristo, portando l’essere umano a Dio, lo porta anche alla salvezza. La vicenda della croce
è quindi pane di vita “per molti” (Lc 22,19; Mt 26,27), perché il crocifisso ha trasfuso il
corpo dell’umanità nell’assenso dell’adorazione. E’ un fatto spiccatamente
‘antropocentrico’, vale a dire accentrato sull’uomo, proprio perché è stato un
radicale teocentrismo, ossia una consegna incondizionata dell’ ‘io’ e quindi dell’essenza
dell’uomo a Dio. Ora, siccome questo esodo dell’amore costituisce l’estasi dell’uomo, vale
a dire lo slancio con cui egli si proietta fuori di sé protendendosi infinitamente sopra se stesso, quasi
strappandosi alla sua natura e librandosi arditamente alto, oltre tutte le sue apparenti possibilità
d’impennata, proprio per questo motivo l’adorazione (sacrificio) è sempre simultaneamente anche
croce, dolore, dissociazione, morte del granello di frumento, che solo morendo è in grado di portar frutto. Ma
così risulta anche perfettamente chiaro come questa componente di sofferenza sia un elemento solo secondario,
che fluisce da un preminente fattore primario, dal quale riceve il suo significato e la sua giustificazione. Il
principio costitutivo del sacrificio non è la distruzione, bensì l’amore. E solo in quanto questo
fattore principale forza il terreno per sbocciare, crocifigge, lacera e fa male, finisce per rientrare pur esso nel
sacrificio: come forma assunta dall’amore in un mondo caratterizzato dalla morte e dall’egoismo.
A questo proposito c’è un brano altamente significativo di Jean Daniélou, che per essere esatti
riguarda un problema diverso, ma può considerarsi lo stesso adattissimo a lumeggiare ulteriormente
l’assunto di cui ci stiamo occupando: “Tra il mondo pagano e il Dio trino esiste un solo ed unico legame:
la croce di Cristo. Qualora volessimo egualmente prender posto in questa terra di nessuno, proponendoci di tirare di
bel nuovo i fili di collegamento fra il mondo dei pagani e il Dio trino, perché dovremmo meravigliarci di
poterlo fare unicamente attraverso la croce di Cristo? Siamo infatti tenuti a renderci simili a questa croce, a
portarla dentro di noi, come dice S.Paolo parlando dell’araldo della fede, quando afferma che noi apostoli
(cristiani) “portiamo sempre e dovunque nel nostro corpo le sofferenze di Gesù morente” (2Cor
4,10). Questa lacerazione che per noi rappresenta una croce, questa impossibilità di amare simultaneamente la
ss.Trinità e un mondo completamente estraniato dalla Trinità, da cui il nostro cuore è afflitto,
costituisce proprio la sofferenza mortale del Figlio unigenito, a condividere la quale egli ci chiama. Lui, che ha
portato in sé questa dissociazione per eliminarla, ma è riuscito ad eliminarla appunto e soltanto per
averla prima portata in sé, è davvero in grado di giungere da un termine all’altro. Pur senza
abbandonare il seno della Trinità, egli si protende sino al limite estremo della miseria umana, colmando
così l’intero spazio intermedio. Questa protensione di Cristo, simboleggiata dalle quattro dimensioni
direzionali della croce, è la misteriosa espressione della nostra intima dissociazione e ci conferma a
lui”. Il dolore è in ultima analisi il risultato e la palese manifestazione della dilatazione di
Gesù Cristo, che si estende dal suo essere in Dio sino al baratro del “Dio mio, perché mi hai
abbandonato?” Chi ha stirato la sua propria esistenza in modo tale, da essere contemporaneamente tuffato in Dio
e immerso nell’abisso della creatura abbandonata da lui, deve per forza quasi dissociarsi intimamente,
trovandosi così realmente ‘crocifisso’. Tale lancinante lacerazione viene però ad
identificarsi con l’amore: ne rappresenta la concretizzazione spinta sino al segno supremo (Gv 13,1), e
è al contempo la tangibile espressione dell’immenso orizzonte da esso aperto. Attingendo a questi dati,
è davvero possibile mettere in luce la genuina fondatezza della assennata devozione alla Passione,
dimostrando chiaramente come pietà incentrata sulla Passione e spiritualità apostolica si fondino in
un mutuo intreccio. Si dovrebbe anche vedere come lo slancio apostolico, il servizio prestato all’uomo ed
al mondo, faccia tutt’uno col nucleo centrale della mistica cristiana e con la pietà accentrata sulla
Passione. Queste due attività non si eliminano né s’intralciano a vicenda, ma vivono invece
attingendo profondamente l’una dall’altra. Con ciò dovrebbe ora apparire chiaro anche come, nel
contemplare la croce, l’importante non sia il porre l’accento su una somma di sofferenze fisiche, quasi
che il suo valore redentivo stesse nella più forte aliquota possibile di tormenti. Come potrebbe Iddio provare
gioia per le pene sofferte da una sua creatura, o addirittura dal suo stesso Figlio, oppure – semmai fosse
possibile – vedere in esse addirittura la valuta con la quale va da lui comprata la redenzione? La Bibbia e
la fede cristiana rettamente intesa sono ben lontane dal nutrire un’idea del genere. Non è il dolore
in quanto tale che conta, bensì la vastità dell’amore, che dilata l’esistenza al punto da
riunire il lontano col vicino, da ricollegare l’uomo abbandonato dal Signore con Dio. Soltanto l’amore
dà un senso e un indirizzo al dolore. Se così non fosse, i veri sacerdoti dinnanzi a all’ara
della croce sarebbero stati i carnefici: proprio essi infatti, che hanno provocato il dolore, sarebbero stati i
ministri che hanno immolato la vittima sacrificale. Siccome invece l’accento non cadeva sulla sofferenza,
bensì sull’intimo centro propulsore che la regge e la sostanzia, essi non hanno affatto rivestito questa
funzione; il vero e autentico Sacerdote è stato Gesù, che ha riunito nell’abbraccio del suo amore
i due capi tranciati del mondo (Ef 2,13s.).
Fatti questi rilievi, in pratica abbiamo già dato una risposta all’interrogativo da cui siamo partiti,
quello cioè che si chiede se non sia farsi un concetto indegno della divinità l’immaginarsi un
Dio il quale esige addirittura l’uccisione di suo Figlio, per placare la sua collera. Ad una domanda del
genere, si può rispondere solo così: in effetti, Dio non si può affatto immaginare in questo
modo. E per di più, un tale concetto di Dio non ha nulla da spartire nemmeno con l’idea di Dio
presentataci dal Nuovo Testamento. Questo infatti ci mostra un Dio che di sua spontanea iniziativa ha voluto divenire
in Cristo l’Omega – cioè l’ultima lettera – nell’alfabeto della creazione. Si
tratta quindi di quel Dio che è l’atto d’amore per antonomasia, la pura ‘funzione
vicaria’, e che per adempierla si fa necessariamente avanti in incognito, prendendo l’aspetto d’un
misero verme (Sal 22[21],7). Ci troviamo di fronte al Dio che s’identifica con la sua creatura, e in questo
“contineri a minimo”, ossia in questo suo lasciarsi coartare dalla più infima delle cose, pone in
atto quella ‘sovrabbondanza’ che lo manifesta realmente come Dio. La croce è una Rivelazione.
Essa non ci rivela una cosa qualsiasi, bensì Dio e l’uomo. Ci palesa chi sia Dio e come sia fatto
l’uomo. Nella filosofia greca, si trova un tipico presagio di questo stato di cose: l’immagine del
giusto crocifisso, descrittaci da Platone. Il grande filosofo, nella sua opera concernente lo Stato, si chiede
come dovrebbe svolgersi la vicenda d’un uomo giusto e tutto d’un pezzo in questo mondo. E giunge alla
conclusione che la rettitudine d’un uomo risulterebbe davvero perfetta e collaudata, solo allorché
egli si accollasse tutta l’apparenza dell’ingiustizia, perché unicamente allora sarebbe evidente
che egli non segue l’opinione degli uomini, ma si allinea invece alla giustizia unicamente per amor di essa.
Sicché, secondo Platone, il vero giusto deve necessariamente essere un misconosciuto e perseguitato in questo
modo; anzi, Platone non si perita di scrivere: “Direte quindi che stando così le cose, il giusto
verrà flagellato, torturato, gettato in catene, accecato col ferro rovente, e infine, dopo tutto questo
scempio finirà per esser crocifisso...”. Questo brano, scritto ben 400 anni avanti Cristo,
continuerà sempre a commuovere il cristiano. Partendo dal più serio ed acuto pensiero filosofico, qui
si presagisce che il perfetto giusto vivente nel mondo sarà il giusto crocifisso; si ha quindi un
presentimento di quella rivelazione dell’uomo che si attua sulla croce. Il fatto che il Giusto integrale,
allorché apparve quaggiù, abbia finito per divenire il crocifisso, il condannato a morte dalla
giustizia, ci dice implacabilmente chi sia l’uomo. Guardati come sei, o uomo: incapace di sopportare il
giusto, al punto che il vero amante vien trattato da pazzo, da fallito, da ripudiato! Ingiusto al punto da aver
continuamente bisogno dell’ingiustizia altrui per sentirti scusato, al punto di non poter tollerare il giusto
che sembra strapparti di mano questa scusa! Ecco, quello che sei! L’evangelista Giovanni ha riassunto tutto
ciò nell’ “Ecce homo” (Ecco l’uomo!) di Pilato, che vuol dire appunto questo: ecco le
condizioni, la fisionomia dell’uomo! La verità dell’uomo è la sua carenza di verità.
L’affermazione dei salmi, secondo cui ogni uomo è un mentitore (Sal 116[115],11), che vive in qualche
modo contro la verità, palesa già chiaramente quale sia l’aspetto reale dell’uomo. La
verità dell’uomo è quella di andar continuamente contro la verità; il giusto crocifisso
è quindi lo specchio messo in faccia all’uomo, nel quale egli vede spietatamente riflessi i suoi veri
tratti. La croce però non rivela soltanto l’uomo, ma ci palesa anche Dio: ecco Dio, che sprofondato in
questo baratro s’identifica con l’uomo, salvandolo nell’istante stesso in cui lo giudica.
Nell’abisso del fallimento umano, si rivela l’abisso ancor più insondabile dell’amor divino.
La croce è quindi veramente il centro della Rivelazione, che non ci fa conoscere qualche massima sinora a noi
ignota, ma ci manifesta noi stessi, svelandoci quali davvero siamo di fronte a Dio e additandoci Dio disceso in mezzo
a noi.
(da J.Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia, 1979, pagg.227-238)
N.B. Tutti i diritti dei materiali sono dei rispettivi titolari.
Riproduzione riservata.