Esercizi spirituali predicati da don Franco Cagnasso: una meditazione alla settimana per la preghiera personale
IV/ “Che cosa vuoi che io faccia per te?”

Riproponiamo on-line la trascrizione delle meditazioni proposte da don Franco Cagnasso ai preti della diocesi di Roma negli esercizi spirituali del 13-17 novembre 2000. Ogni settimana sarà messa a disposizione sul nostro sito una meditazione perché possa accompagnare la preghiera personale. La trascrizione dei testi è stata curata dal Servizio diocesano di formazione permanente del clero, guidato da mons.Luciano Pascucci. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line del testo.

Il Centro culturale Gli scritti (10/5/2007)


Da uno sguardo in un certo senso retrospettivo, che ripercorrendo la storia di ciascuno, voleva condurre ad una presa di coscienza del “dove sto” e “chi sono” oggi, vorrei passare ora ad una domanda che dobbiamo mettere bene a fuoco dentro noi stessi: “Che cosa desideri?” Volevo essere prete e lo sono diventato, dopo anni di preparazione, ho iniziato a vivere ciò che volevo essere. Ma adesso: “Che cosa voglio?”.

Il desiderio secondo me è importante, ed è una dimensione specifica dell’uomo. L’animale ha l’istinto che lo porta ad appagare, a realizzare ciò che è, sopravvivendo e continuando la specie. Un animale può essere appagato. L’uomo invece va oltre l’immediato, il bisogno, l’istinto, perché è un “progetto aperto” e in divenire. E’ capace di insoddisfazione, di uscire da sé, di progettare, sperare. Ciò grazie ai desideri, che lo aprono a tentare di superare se stesso per cogliere il nuovo, il meglio, il differente e soprattutto per accogliere l’orizzonte del mistero e del divino.

Gesù è un uomo che desidera intensamente: “Sono venuto a portare fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere e come sono angosciato finché non sia compiuto!” (Lc 12,49-50). Non è un uomo spento, senza ansie, attese, impazienze. Desidera intensamente di fare la volontà del Padre come un affamato desidera il cibo (Gv 4,34), anche se consapevole che ciò comporta un passaggio doloroso: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi!” (Lc 22,15). Questo suo modo di essere (così lontano da certe proposte di religiosità e di spiritualità che si diffondono oggi) viene annunciato e proposto pure ai suoi.

Certe spiritualità mi sembrano spesso una ricerca di pace “come la dà il mondo”, cioè chiudendosi nel proprio cerchio, cercando il proprio appagamento, lasciando il mondo fuori, al massimo avvolto da un vago senso di “compassione”. Gesù non predica una fuga dalla sofferenza e da ciò che la genera, quasi azzerando la propria interiorità. Predica un’interiorità capace di affrontare la sofferenza, di lottare con essa, di farne dono giungendo ad una pace e ad una gioia che sono frutto di amore, e che generano energie, nuovo desiderio.

Gesù torna spesso sul tema della vigilanza. Chi vigila è attento, attende qualcosa (forse bello, forse temibile, forse entrambe le cose assieme) e desidera che arrivi. Esempio: la venuta dello sposo nella notte. Chi non desidera non si prepara, si addormenta e resta fuori (cfr. Mt 25,1-13). La veglia è desiderio, che non deve assopirsi, ma acuirsi quando la realizzazione ritarda. “L’anima mia attende il Signore più che le sentinelle l’aurora” (Salmo 130,6). La notte è lunga, la stanchezza si fa sentire, la sentinella scruta l’orizzonte per cogliere i primissimi segni di luce. Il profeta è come una sentinella a cui viene chiesto “quanto resta della notte?”, per due volte (Is 21,11), quanto ancora si dovrà attendere nel buio e nell’incertezza?

Una parte notevole del ministero di Gesù consiste nel risvegliare desideri sopiti o ignorati, nel correggere quelli meschini, nello stimolare a desiderare, a non accontentarsi di un quotidiano pesante, gretto, privo di orizzonti, proprio perché il desiderio apre il cuore, mette in movimento e dispone all’incontro.

Un’immagine del rapporto tra Dio e il suo popolo (e l’umanità) è quella degli amanti del Cantico, che sviluppa il gioco continuo e sempre nuovo del desiderio e dell’appagamento: l’amore ha bisogno di risposta ma anche di non essere totalmente appagato, di desiderare ancora, altrimenti si spegne.

Gesù guida la samaritana da una quotidianità piatta che si è adattata anche al peccato, ad un desiderio più profondo e nuovo o rinnovato: “Dammi di quest’acqua!” (Gv 4).

La domanda che ci poniamo in questo corso di esercizi spirituali è bene dunque che passi attraverso questo percorso. “Che prete sto diventando?”. Posso rispondere se so dare una risposta a quest’altro interrogativo: “Che cosa desidero?” “Che cosa spero?” “Che cosa prego?”. Risposta che si può dare solo in dialogo con il Signore, che risveglia i desideri giusti, corregge quelli sbagliati, ci fa coscienti di ciò che dobbiamo desiderare per essere davvero noi stessi, non alienati, perché all’inseguimento di desideri sbagliati, estranei alle nostre scelte o velleitari e non ridotti a larve perché privi di desideri.

Gesù conduce il paralitico dal desiderio della guarigione a quello del perdono dei peccati, che lo guarisce dall’interno (cfr. Mc2 1-12); così come Pietro e Giovanni in Atti conducono lo storpio che chiede l’elemosina alla “Porta Bella” a desiderare e ottenere molto di più di un po’ di denaro (cfr. Atti 3,1ss.).

Vediamo tre passi del vangelo di Marco, che mettono a confronto i desideri degli uomini e la risposta di Gesù. Sono i passi che suggerisco per la lectio, che potrete fare leggendo tutto il cap.10.

Noi ora leggiamo Mc 10, 17-22. 35-40. 46-52.
Si mettono in rapporto con Gesù tre tipi: un “tale” che - lo veniamo a sapere dopo - “aveva molti beni”, due discepoli, fratelli fra di loro, che sono anche apostoli ed infine Bartimeo, un mendicante cieco.

Il “tale” è pieno di ardore: corre incontro a Gesù, gli rende onore mettendosi in ginocchio e gli fa la domanda giusta che va all’essenziale. E’ un uomo religioso, che fa il suo dovere, che cerca Dio intensamente, con sincerità e osserva i comandamenti. Nulla da eccepire, se non forse una considerazione troppo umana, un elogio che sembra distrarre dalla limpidezza della ricerca. Gesù lo riprende: nessuno è buono se non Dio solo, ma il discorso continua positivamente. Gesù vuole che il “tale” prenda coscienza di sé. Rispondendo: “Tutto questo l’ho già fatto”, implicitamente dice: “cerco qualcos’altro, voglio qualcosa di più, sono in grado di fare un altro passo e voglio sapere quale sia”.

I figli di Zebedeo ci fanno invece scendere con i piedi per terra. Vogliono qualcosa di cui un po’ si vergognano. Gesù ha appena parlato in questo capitolo di povertà, di sofferenza e di umiliazione: va a Gerusalemme per essere arrestato e ucciso. I dodici hanno paura e non capiscono; lo seguono lo stesso, ma proprio come reazione a queste nubi oscure che si stanno addensando, i due vogliono qualche garanzia.

Nella versione di Matteo i due mandano avanti la mamma ( Mt 20,20ss.). Pietro non è riuscito a far cambiare idea a Gesù, in altre occasioni; poco prima è riuscito almeno a farsi promettere che le loro rinunce saranno ricompensate (vs. 28-31), ma le modalità non sono chiare.

Formulano allora il desiderio che hanno dentro in modo indiretto, contorto: non dicono che cosa vogliono, ma chiedono che Gesù faccia quello che vogliono. Mettono le mani avanti: non puoi dirci di no! Forse c’è in loro la consapevolezza che non dovrebbero chiedere e nemmeno desiderare quello che in realtà vogliono intensamente.

Gli altri dieci infatti si arrabbiano (v. 41), e in Lc 9,45 e 22,24 si dice che fra loro discutevano chi fosse il più grande e Gesù li rimproverava di questo. In Mc 9, 23-27 si dice che discutevano fra loro, e quando Gesù li interroga, tacciono. Si vergognano, sanno che non è bene, vorrebbero tenere il Maestro fuori di queste beghe... alle quali però non rinunciano. Tuttavia forse pensano che, anche se questo desiderio non è fra i più graditi al Maestro, è meglio non farsi fregare dagli altri; e pensano pure di avere diritti. “Abbiamo lasciato tutto”, dice Pietro; “siamo sempre dietro a te, pronti a seguirti fino a Gerusalemme”, pensano i figli di Zebedeo. “Ti ho sempre servito e non mi hai dato un capretto”, dice il figlio maggiore della parabola ( cfr. Lc 15,11-32), “abbiamo lavorato tutto il giorno con il calore”, dicono i lavoratori pagati tutti allo stesso modo (cfr. Mt 20,1-16).

Mi sembra che qui Giacomo e Giovanni si facciano portatori di modi di pensare e di sentire molto comuni. Il primo è quello che ci pone come creditori davanti a Dio. Lo sentiamo tante volte ben esplicitato dalla gente, con rabbia o con pena: “Prego, faccio il mio dovere, il Signore deve aiutarmi... perché non mi ha aiutato?” “A che serve fare il bene, se poi...”. Noi forse non siamo così diretti e semplici, però in fondo riteniamo di aver diritto a qualche privilegio da parte del Signore... almeno un capretto per far festa!

Il secondo tratto è quello di tenere dentro desideri che si sanno impropri. A volte non li diciamo neppure a noi stessi, non li lasciamo emergere, ma ci sono (un’invidia, un’ambizione anche molto precisa, un desiderio di rivincita...). Altre volte li conosciamo e li conserviamo, ma non diventano aperti, restano come ai margini della nostra vita, anche se la influenzano: come i discepoli che “discutevano per via” e poi davanti a Gesù tacciono, camminiamo portandoceli dietro, ma senza farli entrare nel nostro rapporto con Dio: sono ben custoditi in noi, ma non nel salotto buono, bensì nella stanza di servizio.
Gesù vuole che si esprimano, che parlino chiaro: è questo che vogliamo! Infatti la domanda si esprime: avere i primi posti. Così come si esprime, sollecitato da Gesù, anche il “tale” che cerca la vita eterna: “Io sono buono, ho sempre osservato tutto fin dalla mia giovinezza”.

Ma passiamo al terzo personaggio, il mendicante cieco.
Diversamente dagli altri, non è alla ricerca di perfezione nel contesto di una vita già buona, né avanza dei diritti verso il Maestro, né vuole essere il primo. Nemmeno ha il diritto di rivolgersi a Gesù, tant’è che lo sgridano, perché taccia: sta facendo una cosa inopportuna, disturba, interrompe... lui lo sa, e forse per questo il suo grido non ha contenuti specifici. Non chiede istruzioni per la vita eterna, né dice: “Devi fare ciò che chiedo”. Urla: “Abbi pietà”. Nessun diritto, solo la consapevolezza di aver bisogno e la fiducia che in qualche modo Gesù non farà come gli altri, lo ascolterà.

Confronta il racconto di C. Coccioli “Uomini in fuga”. Il magistrato alcolizzato che trova la forza di farsi aiutare solo quando smette di dire a Dio come aiutarlo e si arrende a dire: “Aiutami come tu vuoi”.

Gesù si ferma, lo fa chiamare. Anche lui si rivolge con una domanda, e questo può essere curioso: che altro poteva volere il cieco? Non lo sappiamo. Forse chiedeva molto meno, ma proprio l’attenzione di Gesù lo porta ad osare, a capire che cosa davvero vuole, come è accaduto alla samaritana. Bartimeo deve essere cosciente di ciò che vuole e ciò che chiede, e lo dice davanti a tutti, perché è il desiderio cosciente e limpido che rende capaci di ricevere.

“A volte mi chiedo che cosa faccio al mondo e vorrei morire - mi disse una volta una vecchia indù mezza cieca e sola - ma poi capisco che mi fa aspettare perché vuole che lo desideri di più”. Il cieco fa una richiesta apparentemente analoga a quella dei due discepoli: chiede per sé, per il proprio bene. Non “cosa devo fare” come il “tale”, ma “dammi”. C’è però una differenza abissale. I due credono di vedere e meritare e chiedono qualcosa in più rispetto agli altri, qualcosa che non li fa crescere, ma li suppone già cresciuti. Il cieco invece chiede luce, per essere capace di riconoscere il Signore, di essere nella verità, di camminare dietro a lui. Chiede la sapienza, lo Spirito che il Padre non rifiuta mai (Lc 11,13). Ciò non significa far domande “solo” spirituali o generiche. Significa piuttosto desiderare intensamente che dentro la mia realtà si compia la volontà di Dio, venga il suo regno, si realizzi la sua misericordia. Significa desiderare di essere afferrati da Dio e condotti a lui. Salomone chiede sapienza per essere ciò che già è, ma secondo Dio. E’ già salito, ma sa di essere sordo, cieco, muto, povero davanti al suo compito, a ciò che davvero conta, che non sono denaro e vittoria, ma giustizia (Sap 9).

Chiariti i desideri Gesù che cosa fa?
Torniamo indietro al primo personaggio. Gesù ama questa persona perché coglie la sincerità di ciò che dice, come in Natanaele, e lo chiama. Prende sul serio il suo desiderio e ne mostra le conseguenze: allora lìberati e vieni! Tristemente, il “tale” se ne va. Desiderava davvero; ha capito bene, ma credeva che la strada fosse un’altra. Forse s’aspettava qualche regola in più, indicazioni ascetiche, un modello di spiritualità, giorni di digiuno, preghiere, letture... invece deve lasciare e non se la sente. Gesù dice una cosa troppo semplice e troppo radicale (e spesso mi è capitato di trovare persone in queste condizioni, trattenute dai soldi ma anche da altre cose). Il “tale” ha buone intenzioni, però il suo non è un “voglio”, ma un “vorrei”. Mettete allora accanto ai desideri che non vogliamo ammettere a noi stessi, e a quelli noti, ma custoditi “a parte” dalla nostra vita di fede, anche questi: desideri giusti, belli, ma vaghi, velleitari ed inefficaci perché soffocati da altro.

Con i due apostoli carrieristi, Gesù ricorre alla presa in giro: “Non sapete quello che voi dite”. Avete criteri lontanissimi dai miei, incompatibili con la mia logica (che Gesù poi spiega a tutti nei vv. 41-45): voi ponete il Regno al vostro servizio anziché voi stessi a servizio del Regno, non vi fidate del Padre, ma fate mercato, baratti con lui. In particolare non lo sapete perché ancora vi rifiutate di accettare ciò che vado dicendo, cioè che bisogna passare attraverso le sofferenze e la croce, “ bere un calice” che io stesso troverò amarissimo. Gesù Cristo però non si ferma a questa ironia tagliente. Come in tante altre occasioni, anche questa stupidaggine appena detta viene colta da lui per far fare un passo avanti, come ha fatto con la samaritana e con Pietro.

La samaritana credeva di poter dare l’acqua, che lei stessa prendeva per sé, e di aver bisogno solo di un po’ di riposo, di un pozzo più vicino e comodo; Gesù la conduce a scoprire la sua sete profonda, repressa, e insieme la possibilità di estinguerla. Pietro credeva di poter difendere Gesù, di essergli fedele in qualsiasi situazione; Gesù lo conduce a scoprirsi più miserabile di Bartimeo, ma da questa miseria fa compiere il passo della scoperta che lui ama: “Sì, Signore, io ti amo!” (cfr. Gv 21). Marta si credeva utile e importante, Gesù le fa accogliere positivamente l’inutilità di sua sorella...

Con i due apostoli Gesù usa un metodo curioso: la sfida. Volete il primo posto? Dovete conquistarvelo: berrete il calice e vivrete il battesimo? Per forza rispondono di sì, anche se è pure questa una risposta insensata come la fiera sicurezza di Pietro. Gesù sa che da soli non ce la faranno, ma sa pure che alla fine percorreranno davvero la strada della croce, e allora gliela garantisce. Si realizza così un paradosso: Gesù garantisce loro (e loro acconsentono?) ciò che non volevano, mentre non promette nulla di ciò che avevano chiesto. Dopo il calice amaro ci sarà certo vita e gioia, ma il quando, il come e il posto non hanno rilevanza. La fede è un affidarsi al Signore, non un calcolo per garantirsi un posto; è cammino con il Signore che porta la croce, non raccomandazione per non portarla. Porterete la croce, il resto si vedrà...

Bartimeo, portato in mezzo a quelli che volevano farlo tacere, si sente chiedere che cosa vuole. Come dicevo, questa domanda gli fa forse fare il salto di qualità, gli dà il coraggio di desiderare ciò che non osava. Può infatti capitare che i nostri desideri non siano né cattivi, né sbagliati, né velleitari, ma semplicemente troppo timidi e piccoli. Non osiamo sperare, certe cose ci sembrano troppo belle per desiderarle davvero e per chiederle, abbiamo paura di essere delusi. Invece la fede ci deve rendere audaci. Il dono dello Spirito è trasformante, e se siamo liberi da noi stessi, dalla paura di far brutte figure, di fallire, di impegnare il Signore, ci fa fare molto di più di ciò che osiamo pensare, intrecciando il piano della nostra santificazione personale con quello del nostro servizio apostolico.

Un finale triste con il ricco zelante, un finale a sorpresa con i figli di Zebedeo, un lieto fine (che è l’inizio della sequela) per Bartimeo. Riprendiamo ancora queste tre storie, sempre leggendole nell’ottica del desiderio, della domanda di Gesù: “Che vuoi che io ti faccia?”.

Tre anni fa mi sono trovato a vivere un periodo di grande stanchezza e confusione interiore. Sono andato a pregare in un monastero vicino ad Assisi, ma non riuscivo ad ingranare, mi sentivo davvero scoraggiato. Poi mi sono chiesto: scoraggiato di che cosa? che cosa voglio? perché mi sto impegnando? Ho ripercorso con queste domande la mia storia recente e mi sono lasciato interrogare dal Signore: allora, adesso che cosa vuoi?

Il mettere ordine nei miei desideri è stato davvero rigenerante. La confusione che a volte ci affligge nella nostra vita interiore ed esteriore, certi sensi di insoddisfazione generale, di frustrazione, di incertezza possono trovare la loro spiegazione proprio qui: non so che cosa voglio veramente, o voglio certe cose diverse da quelle che vorrei. Anche il nostro impegno pastorale ne soffre. Se non so cosa voglio, come verificare ciò che faccio e come confrontarmi con i collaboratori? Quando il responsabile ha idee e desideri confusi, o in realtà vuole altro da ciò che dice di volere, sono guai per chi collabora.

Spesso questa mancanza di chiarezza conduce a tirarsi dietro nella vita pesi proprio inutili, o dannosi. Ci sono persone che a 40-60-70 anni ancora tirano fuori amarezze per un desiderio inappagato, un torto subito, un’obbedienza non digerita. Se avessi studiato, ma non mi hanno lasciato... Alla base c’è probabilmente l’immaturità della persona, ma anch’essa va in qualche modo affrontata. A che serve rimasticare i “vorrei”, gli “avrei potuto”, ecc. ecc.? E’ possibile che la mia vocazione, la mia pienezza e gioia di uomo e di credente siano davvero bloccate, impedite, tarpate da queste cose? O non sono forse io di ostacolo a me stesso, perché non dico con coraggio: voglio perdonare, voglio andare avanti, voglio accogliere ed amare la mia storia e me stesso? Sono così sicuro che quello che avrei voluto o potuto sarebbe davvero stato meglio per me?

Queste recriminazioni amare che fanno male solo a noi stessi sono forse un modo per non prendere atto della nostra povertà: sono e faccio poco, ma la colpa è dell’educazione ricevuta, dei superiori, della gente, ecc... Invece chi ottiene più dal Signore è proprio Bartimeo, cieco e mendicante, che continua ad urlare spudoratamente: “abbi pietà”. Gesù, dà quando si è coscienti di un bisogno. E lui stesso parte con la samaritana manifestando un suo bisogno: “Dammi da bere!”. Forse qui è solo un tratto pedagogico, però sappiamo che Gesù ha veramente condiviso la nostra povertà. Dio, in lui, si fa bisognoso, chiede aiuto per fare il cammino della redenzione. E’ questa la sua logica, anche psicologica, e deve essere anche la nostra.

Noi vogliamo servire, dare, renderci e sentirci utili. E’ bello, ma in un certo senso è facile. Difficile è scoprire poco a poco o traumaticamente che si ha poco da dare, che si è davvero poveri. E’ però un passaggio prezioso perché ci pone fra quelli che chiedono, desiderano, si fanno aiutare e noi possiamo trovare un equilibrio importante anche per il nostro rapporto con gli altri e per il nostro apostolato. Perché Dio non solo dà, ma anche chiede, da povero. Povero di mezzi (Betlemme, Nazaret, Gesù che vive di quanto gli danno), ma anche di altro. Gesù chiede di pregare, perché da solo non ce la fa a raccogliere tutta la messe; chiede di pregare e di vegliare con lui nel momento della prova. Gesù è bimbo, e il bimbo è colui che ha bisogno di tutto. Dio ci è Padre, si fa nostro Fratello, ma si fa anche Figlio dell’Uomo, nostro figlio e impara questo suo essere uomo.

Bisogno, carenza, desiderio, debolezza sono presenza e rivelazione di Dio, luoghi di rivelazione dell’amore. Dio vive la dimensione di ricevere perché noi possiamo dare. L’aver bisogno è condizione necessaria per entrare in comunione con l’altro. Ciò vale non solo per il singolo, ma anche per la chiesa tutta. La missiologia lo sta scoprendo, e apre prospettive bellissime. La chiesa è sacramento di salvezza non solo quando dà, ma anche quando chiede, accoglie, cerca. La chiesa in missione completa la sua umanità e scopre così meglio il volto di Cristo povero, che ha bisogno, che impara e cresce, che vuole - come dice Col 1,24 - che si “completi” ciò che manca ai patimenti di Cristo. L’autosufficienza soffoca e porta alla sclerosi.

Sapere che cosa vogliamo significa infine dare verità alla nostra preghiera. Essa deve essere momento unitario con tutti gli aspetti del nostro vivere, non può essere generica e astratta, né troppo sicura di sé e petulante, né deve riguardare solo la parte bella della nostra vita. Si prega senza maschere, mettendoci in Dio come siamo... Allora essa purifica e corregge i desideri, li porta al concreto, li rafforza e ci fa giungere a quella confidenza totale che Gesù esprime quando dice di pregare “senza dubitare” (cfr. Mt 21,21). Almeno ci conduce alla condizione di Giacomo e di Giovanni che si trovano cambiate le carte in tavola, dicono sì senza capire, ma continuano il loro cammino con Gesù. Se sapessimo bene tutte le conseguenze di ciò che desideriamo e chiediamo, forse certi “sì” non li diremmo. L’importante è dire sì al Signore, fidandoci che alla fine sarà lui a cavarci dai guai.


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