Paolo «chiamato a essere apostolo»: l’incontro sulla via di Damasco
del prof. Giancarlo Biguzzi

Mettiamo a disposizione il testo della relazione tenuta dal prof. Giancarlo Biguzzi il 7 novembre 2008 in occasione dell’inaugurazione della mostra La Bibbia a Roma organizzata dall’Ufficio catechistico della Diocesi di Roma, presso il Pontificio Seminario Romano Maggiore. In quella occasione il regista ed attore Francesco Brandi ha letto i testi dell’apostolo commentati dal prof. Biguzzi.
Il catalogo della mostra sarà tra breve on-line su questo stesso sito. Alcune immagini della mostra sono disponibili on-line al link Immagini della mostra La Bibbia a Roma

Il Centro culturale Gli scritti (24/11/2008)


Indice


L’anno paolino sta suscitando grande interesse e grande fervore a tutti i livelli nella Chiesa Cattolica. Il motivo è che, per la concettosità dei suoi scritti e per le controversie con Lutero e i protestanti, Paolo è tra noi cattolici poco conosciuto e ora lo si vuole imparare a conoscere.
Nella sua complessa personalità c’è anche qualche elemento di disturbo e di antipatia (è accusato di “egomania”, talvolta è focoso, mordace, sarcastico), ma nella storia cristiana, dopo Gesù, senza alcun dubbio Paolo è il numero due. Questa sera propongo a voi la sua figura come esemplare. È esemplare per il fatto di essere unitaria, - non miscellanea, eterogenea, raccogliticcia. Paolo ha avuto un centro attorno al quale ha saputo disporre i valori in gerarchia, e ha avuto una sorgente inesauribile da cui attingere per le battaglie della sua vita e per la sua vorticosa corsa apostolica.

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Joachim Jeremias, noto studioso tedesco del secolo scorso (+ 1979), in uno scritto brevissimo (= Per comprendere la teologia dell’apostolo Paolo, Brescia 1973) esprime in modo incisivo quella che è la convinzione comune, che cioè a spiegare Paolo, la sua opera e il suo pensiero, non sono né Tarso dove è nato, né Gerusalemme dove è stato educato alle Scritture, né Antiochia di Siria dove è stato coinvolto in modo decisivo nel movimento cristiano. Ma soltanto Damasco. Su tutte le componenti della personalità di Paolo (ellenismo di Tarso, giudaismo di Gerusalemme, chiesa primitiva di Antiochia di Siria), domina dunque l’evento di Damasco, solitamente detto ‘conversione’ ma che è meglio definibile come ‘vocazione’.
Siamo informati su quello che accadde a Damasco: (a) dai tre racconti lucani in At 9,1-22 (narrazione dello scrittore, 22 versetti), At 22,6-21 (autodifesa di Paolo nell’episodio dell’arresto a Gerusalemme, 18 versetti), At 26,9-18 (autodifesa di Paolo davanti al re Agrippa, 10 versetti); (b) - da testi che si trovano in lettere considerate di solito deutero-poaoline (Ef 3,1-12; 1Tm 1,12-16); (c) da brevissimi accenni dello stesso Paolo nelle sue lettere (1Cor 9,1ss; 15,8ss; Gal 1,15-16; Fil 3,12ss).
Sono evidentemente questi testi i più illuminanti perché costituiscono una testimonianza diretta, anche se sono stati scritti almeno venti anni dopo i fatti. Sono però preziosi proprio perché il tempo che è intercorso tra i fatti e lo scritto ha condotto Paolo a una comprensione sempre più profonda dell’evento damasceno.

1. I testi di Paolo sull’evento di Damasco

a. Primo testo: 1Corinzi 9,1-18

In 1Cor 8 Paolo scrive di essere pronto ad astenersi in eterno dal mangiare carne, per riguardo a qualsiasi fratello cristiano. Ma quella rinuncia alla libertà poteva essere facilmente criticata dagli avversari Corinzi che potevano obiettare: «Se non ha autorità e libertà, Paolo non è apostolo!». Paolo previene questa possibile obiezione con quattro domande retoriche (1Cor 9,1), tutte introdotte da particelle interrogative che lasciano in attesa di una riposta affermativa:

  1. «Non sono forse libero, io?». Il senso della domanda è che, come ogni cristiano, Paolo è libero; in particolare, come ogni apostolo. È libero, se lo vuole, di farsi mantenere economicamente.
  2. «Non sono io forse un apostolo?». Mentre Luca negli Atti degli Apostolo non dà a Paolo il titolo di “apostolo”, Paolo rivendica quel titolo con grande forza e insistenza. Qui, per dare fondamento alla sua pretesa di essere apostolo, nella terza domanda retorica, quella che segue, Paolo si richiama all’evento di Damasco:
  3. «Non ho io forse visto Gesù, Signore nostro?». Nell’ultima domanda Paolo aggiunge una seconda prova della sua apostolicità, che è la sua stessa opera:
  4. «E non siete voi la mia opera nel Signore?».

Nel contesto seguente poi Paolo rivendica con molti argomenti di avere i diritti dell’apostolo: (i) Ogni lavoratore (soldato, vignaiolo, pastore, aratore, trebbiatore) vive del suo lavoro; (ii) Anche la Legge mosaica chiede che il bue possa mangiare del suo lavoro (Deut 25,4), per cui a fortiori l’apostolo ha quel diritto; (iii) Il Signore stesso ha detto che chi annuncia il Vangelo, da quell’annuncio ha diritto di trarre il sostentamento.
Paolo poi fornisce i motivi per cui non si avvale di quel diritto: perché egli non vuole porre ostacoli al Vangelo, e perché annuncia il Vangelo non di sua volontà ma, come gli antichi profeti (Amos 3,8; Ger 1,6; 20,7-9), per necessità: perché non può resistere o sottrarsi all’azione di Dio in lui.
In 1Cor 9 l’episodio di Damasco è fondamento dell’apostolicità di Paolo ed è l’investitura apostolica di Paolo e la sua opera missionaria ne è la comprova. Paolo dunque pensava l’evento di Damasco più in chiave di chiamata al ministero apostolico che di conversione.

b. Secondo testo:1Corinzi 15,1-11

Il problema che Paolo discuterà sino alla fine del lungo capitolo XV della Prima lettera ai Corinzi è esposto in 15,12: «Se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste resurrezione dei morti?». Infatti come gli altri apostoli, così anche Paolo («Sia io che loro, così predichiamo», 15,11) annuncia un Vangelo incentrato su Morte-Sepoltura di Gesù e Resurrezione-Apparizioni (1Cor 15,3-3-8).
Per noi è importante il fatto che nell’elenco dei destinatari delle apparizioni del Risorto, Paolo mette anche se stesso: «… apparve (i) a Kefa- Pietro, e (ii) ai Dodici; in seguito apparve (iii) a più di 500 fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti; inoltre apparve (iv) a Giacomo, e quindi (v) a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me (= vi), come a un aborto». Anche qui l’evento di Damasco è per Paolo investitura apostolica, nonostante che egli occupi l’ultimo posto nell’elenco dei destinatari delle apparizioni, anzi nonostante sia indegno di quel titolo perché ha perseguitato la Chiesa (15, 11).
In 1Cor 15 l’evento di Damasco più che visione è apparizione (Paolo è passivo, mentre in 1Cor 9 era attivo: «Io ho visto il Signore»). La cristofania è fondamento dell’apostolicità e - elemento nuovo che si trova nei versetti seguenti - è “grazia” (v. 10a: «Per grazia di Dio sono quello che sono e la sua grazia in me non è stata vana»): è l’iniziativa gratuita e misericordiosa di Dio che da un persecutore trae un apostolo travolgente. Quella grazia lo ha lanciato in un impegno apostolico senza pari: proprio il feto abortivo, in virtù della grazia che ha ricevuto e assecondato, è colui che per il Vangelo si è affaticato più di tutti (15,10).

c. Terzo testo: Galati 1,11-16

Secondo le accuse dei suoi avversari Paolo predicherebbe la libertà per i pagani dalla Legge mosaica “per piacere agli uomini”: «È forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio? [Come è possibile pensare che] io cerchi di piacere agli uomini? Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo!» (Gal 1,10).
Nella sua replica Paolo anzitutto nega di avere facilitato e addomesticato il Vangelo («il Vangelo da me annunziato non è secondo l’uomo [= addomesticato perché piaccia all’uomo]», v. 11). Poi nega di avere ricevuto il Vangelo da uomini, e cioè dalla catechesi di qualche apostolo o di qualche comunità (v. 12a). Prima di Damasco infatti era accanito persecutore della Chiesa (vv. 13-14), e quindi di certo non era catecumeno. Dopo Damasco si è recato in Arabia senza salire a Gerusalemme per incontrare gli Apostoli (vv. 16b-17). Egli invece ha ricevuto il Vangelo “per rivelazione, - di’apokalypseōs” (a Dio «è piaciuto rivelarmi il suo Figlio»). A questo scopo Dio lo ha selezionato «fin dal seno della madre» e lo ha «chiamato per grazia». Il tema della vocazione, quindi, qui è esplicito. Tutto questo in vista dell’annuncio aipagani. In Gal 2,7-8 Paolo espliciterà il carattere particolare di questa sua missione mettendo a confronto il suo mandato ai gentili con quello di Pietro ai circoncisi.
In Gal 1 l’evento di Damasco è “apocalisse” o “rivelazione” a Paolo del Figlio, quale centro assoluto della storia salvifica (Gal 1,16a). È “apocalisse” o “rivelazione” dell’Evangelo o buona notizia che riguarda Gesù, e che Paolo ha ricevuto non dagli uomini ma direttamente da Dio (v. 12). Poi, è chiamata all’apostolato totalmente gratuita (v. 15b) e in nulla meritata. È chiamata all’apostolato dei pagani, come quella di Pietro è chiamata all’apostolato dei circoncisi (2,8). È chiamata profetica perché descritta con le parole della vocazione di Geremia (Ger 1,5: «Prima di formarti nel seno materno ti conoscevo… ti ho stabilito profeta delle nazioni»), o, ancora più, con le parole della vocazione del Servo di Adonay (Is 49,1: «Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunciato ecc.»).

d. Quarto testo: Filippesi 3,2-14

Nella serena lettera ai Filippesi che è la lettera della gioia (cf. le 15 ricorrenze di “gioia”, e “gioire”), il cap. 3 è, invece, duramente polemico contro missionari probabilmente cristiani, sostenitori della circoncisione. Nella replica contro di loro Paolo inserisce due allusioni a Damasco: nel v. 3,7 e nel v. 3,12.
La prima volta Paolo si confronta con il loro vanto: «Se qualcuno ritiene di potere confidare nella carne, io più di lui» (3,4). Paolo allora elenca prima tre motivi di vanto «nella carne» ereditati dalla nascita, e poi tre motivi di vanto conquistati personalmente: egli è

  1. circonciso l’ottavo giorno
  2. Israelita della tribù di Beniamino
  3. Ebreo da ebrei [= fedele alla cultura, alla lingua, allo stile di vita]

  1. quanto alla Legge, fariseo (= osservanza radicale della Legge),
  2. quanto allo zelo, persecutore,
  3. quanto alla giustizia (all’essere giusto davanti a Dio), irreprensibile.

All’inizio del v. 7 c’è un «ma» che segna la svolta del ragionamento e che introduce la prima allusione all’evento di Damasco: «… ma quello che poteva essere per me un guadagno l’ho considerato una perdita, a motivo di Cristo». Quel rovesciamento di valori è avvenuto a Damasco. La contrapposizione di guadagno e di perdita dice che a Damasco si è operato un capovolgimento di giudizio circa i privilegi storici e morali del giudaismo.
Passando a parlare del presente, Paolo conferma quella mutazione di prospettiva e la rafforza dicendo di considerare come perdita e sterco non solo i privilegi del giudaismo, ma “ogni cosa”, di fronte alla conoscenza superiore o sublime di Gesù Cristo (v. 8). Lasciando perdere ogni altro valore, ora Paolo cerca di conquistare il Cristo, di esperimentare la potenza della sua resurrezione, e la comunione alle sue sofferenze «con la speranza di giungere alla resurrezione dai morti».
Con queste parole Paolo è passato a parlare del futuro, ed è passato al secondo confronto coi suoi avversari. Sembra che dal testo di Filippesi si possa ricavare che essi si consideravano già perfetti, pienamente salvati e partecipi della resurrezione di Cristo. Paolo, servendosi dell’immagine della corsa nello stadio, dice di sé invece di essere ancora impegnato nella corsa: «Non però che io abbia già conquistato il premio o che sia oramai arrivato alla perfezione. Solo mi sforzo di correre per conquistarlo». E aggiunge il secondo riferimento a Damasco scrivendo: «…perché anch’io sono stato conquistato dal Cristo» (v. 12).
In Fil 3 Damasco per Paolo in qualche modo, se si vuole, è conversione, perché è capovolgimento di valori e di scelte morali. Per questo i Filippesi, che possono essere disorientati da un insegnamento nuovo e da modelli di vita sbagliati come quelli introdotti dagli avversari di Paolo, hanno un esempio nell’Apostolo. Egli infatti sente il bisogno di invitarli alla sua imitazione: «Fratelli, fatevi miei imitatori, e guardate a quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi» (v. 17). Il cambiamento di vita in Paolo è avvenuto a motivo del Cristo (v. 7) e a motivo della sublimità della conoscenza di Gesù Cristo (v. 8). L’espressione significa probabilmente, come in Gal 1, la rivelazione del Cristo a Paolo per apocalisse. Dunque, Damasco è conoscenza (data gratuitamente e poi lentamente assimilata) del Cristo quale valore assoluto che relativizza i privilegi di Israele e tutto. Per Paolo l’evento di Damasco significa infine essere stato afferrato e conquistato dal Cristo, per cui ora, a sua volta, egli cerca di conquistare lui e la resurrezione.

e. L’evento di Damasco, sintesi

La ricchezza spirituale e storica dell’evento di Damasco è evidente anche dal linguaggio (o dai linguaggi, al plurale) cui Paolo ricorre per parlarne. Di volta in volta Paolo utilizza il linguaggio della vocazione profetica, delle teofanie, dell’apocalisse o rivelazione escatologica, della conquista militare o della vittoria sportiva, della conversione o cambiamento nella scala dei valori.
Nei testi di Paolo l’insistenza sulla conversione morale, in ogni caso, non è così forte come nella nostra catechesi, nell’iconografia paolina, e come al 25 gennaio del nostro calendario liturgico. A Damasco Paolo non è un peccatore che ritrova i sentieri del bene: di sé stesso lui diceva infatti: «Quanto alla giustizia, quella che viene dalla Legge, [io sono] irreprensibile!» (Fil 3,6). Non è neanche una conversione da una religione a un’altra, perché Paolo considera Damasco come il momento in cui la sua fede di israelita giunge a maturazione e pienezza: si sente giudeo che fa il passo oramai necessario ad ogni giudeo. Tutt’al più, più che al cristianesimo Paolo si convertì dalla Legge mosaica al Cristo. Più che un convertito, Paolo fu un chiamato. E fu cercato da Dio più di quanto egli cercasse.
L’Apostolo scrive a distanza di circa 20-25 anni, e questo dice come anche a distanza di decenni l’incontro di Damasco fosse la sua stella polare, sia per capire sé stesso, sia per perseverare tra le difficoltà innumerevoli della sua corsa apostolica. Quello di Damasco fu l’evento che divise la vita di Paolo in due. Paolo stesso parla di quello che era prima e di quello che fu poi: dunque Damasco ha una assoluta centralità nella esistenza e nella teologia di Paolo. Davvero, dunque, la personalità di Paolo, il suo pensiero, le sue lettere, la sua travolgente corsa apostolica per tutta la mezzaluna mediterranea (voleva andare in Spagna, Rom 15,24.28)… si spiegano non a partire dal luogo di nascita, né dagli studi fatti alla scuola di un grande maestro del giudaismo, né dalla catechesi ricevuta dalle fervorose comunità delle origini, ma dall’incontro con Gesù Risorto. Un solo giorno ha segnato, illuminato e determinato tutta una esistenza.
Sempre di nuovo Paolo tornava all’evento di Damasco come alla segreta sorgente del suo apostolato e della sua perseveranza in mezzo alle difficoltà apostoliche e personali, egli che scrive: «battaglie all’esterno, timori al di dentro»! (2Cor 7,5). Si richiama a Damasco quando lo criticano a Corinto e in Galazia, quando a Filippi qualcuno è subentrato a rovinare il suo lavoro apostolico, e quando qualcuno si vanta di titoli umani e di grandezze non vere. E soprattutto si richiama a Damasco quando gli vogliono negare il titolo di apostolo. Damasco è la sua risorsa inesauribile per superare scoraggiamenti, incomprensioni, ostilità, debolezze ecc. e per rilanciare sé stesso nell’annuncio evangelico, nella fondazione di Chiese là dove il vangelo non era stato ancora annunciato (Rom 15,20), per lanciarsi alla conquista perfino dell’estremo occidente della Spagna…
Il pudore con cui Paolo custodiva questo suo personalissimo segreto, il riserbo e la discrezione con cui ne parlava quando era costretto a farlo, non precludono a noi la possibilità di gettare lo sguardo su quell’evento spirituale che ha lasciato un segno profondo nella storia cristiana e delle religioni. Ed è allora difficile non sentirci invitati a tornare anche noi, sempre di nuovo, con il pensiero e con la preghiera, alla nostra vocazione, qualunque essa sia, come alla sorgente della forza e della luce di cui abbiamo bisogno nella battaglia della vita e del servizio al Vangelo. La nostra chiamata diventa allora anche per noi sorgente di giovinezza e di generosità, si conferma come baricentro della nostra vita, e come il punto di Archimede poggiando sul quale possiamo sollevare almeno il piccolo mondo in cui ci troviamo a vivere.

2. I Appendice: sintesi a cura dell’ufficio catechistico delle ulteriori riflessioni al termine della relazione

Il prof. Biguzzi si è poi soffermato su quella che ha chiamato la “geografia apostolica di Paolo”. Paolo si è recato subito, dopo l’incontro con il Cristo risorto, in Arabia. Il riferimento va, forse, ad Is 60, ai versetti nei quali il profeta parla dei nabatei, di coloro che abitavano i territori circostanti Petra. Essi sono citati dal passo di Isaia prima delle navi di Tarsis, in un contesto nel quale si fa riferimento a Madian, a Efa ed a Kedar. Paolo si potrebbe essere recato in quelle regioni per annunciarvi il vangelo, in obbedienza all’antica profezia.
Ma, una volta incontrate con ogni probabilità in Arabia le prime difficoltà, si rivolse verso occidente, inviato da Antiochia come secondo rispetto a Barnaba, che deteneva la suprema responsabilità della missione. L’evangelista Luca, negli Atti, improvvisamente però inverte i due nomi e parla di Paolo e dei “suoi accompagnatori”. Evidentemente la leadership era passata da Barnaba a Paolo (At 13,13). In questo primo viaggio apostolico, comunque, Paolo visitò ed evangelizzò quello che si potrebbe chiamare l’ “occidente minore”, cioè centri di secondaria importanza, alcuni addirittura insignificanti.
È a partire dal secondo viaggio apostolico che Paolo si rivolse alle metropoli, alle capitali della provincia. Egli sceglieva alcune città e tutto lascia ritenere che, in esse, egli abbia attuato quella che si può ben chiamare una strategia “della primizia”: sceglieva cioè alcune persone capaci, a loro volta, di continuare l’evangelizzazione in altre città e regioni. Proprio con il titolo di “primizia”, rispettivamente dell’Asia e dell’Acaia, vengono salutati Epeneto (Rm 16,5) e la famiglia di Stefana (1Cor 16,15). Piantata la primizia, Paolo poteva essere certo che sarebbe arrivato anche il resto del raccolto.
È nota, a questo riguardo, la vicenda di Colosse, Gerapoli e Laodicea, che Paolo non visitò mai, pur scrivendo delle lettere a quelle comunità. In quelle città si era, però, recato Epafra, che aveva ricevuto il vangelo da Paolo stesso. Similmente si può fare riferimento alle “case” di Ninfa o di Filemone (Col 4,15 e Flm 2), evidentemente luoghi di incontro della comunità e di annunzio del Cristo. Viene in mente il riferimento al vangelo di Marco, dove l’evangelista parla del contadino che può andare tranquillamente a dormire, perché, conoscendo bene il proprio mestiere, sa che il seme crescerà e porterà frutto.
Paolo arriverà a scrivere di “aver finito”, avendo evangelizzato “a cerchio” da Gerusalemme fino all’Illirico (l’odierna Albania), non trovando così più spazio apostolico (Rm 15,19); egli aveva cioè piantato ovunque la primizia ed il vangelo poteva ormai compiere la sua corsa anche nei luoghi circostanti.
L’apostolo si pose in mente, allora, di raggiungere la Spagna; la penisola iberica è nominata due volte nella finale della lettera ai Romani (Rm 15,24 e 15,28). Non sappiamo se vi sia giunto (un recente convegno si è svolto in Spagna, precisamente a Tarragona, per cercare, ovviamente, di dimostrare che l’obiettivo era stato raggiunto).
Da Roma Paolo si aspettava probabilmente degli aiuti in denaro ed un traduttore per portare a compimento con efficacia la predicazione del vangelo fino all’estremo occidente. Si potrebbe ricordare qui un’antica espressione che recita: “gli altri vagavano, egli progrediva”! Viene spontanea la domanda: se avesse raggiunto la Spagna cosa avrebbe fatto poi? Forse, si può ipotizzare sulla linea del suo comportamento precedente, che si sarebbe recato ad evangelizzare l’Africa del nord.
Tutta questa fatica di evangelizzazione l’apostolo la sintetizza con l’espressione di Rm 15,16: “essere liturgo del Cristo fra le genti”. Egli sapeva di adempiere il “servizio sacro”, portando l’annunzio cristiano, perché “le genti potessero diventare un’offerta gradita a Dio”.
Il prof. Biguzzi ha ancora paragonato la centralità del rapporto con Cristo nella vita di Paolo all’espressione che Francesco d’Assisi utilizzerà per descrivere la propria fede: essa è pubblica, ma, al contempo, è custodita con grande pudore: “Secretum meum mihi”. Paolo torna sempre ad attingere a quella fonte, quando ha un problema. Più volte accenna, come si è visto, all’incontro sulla via di Damasco ma senza mai descriverlo compiutamente.
Riprendendo, allora, in estrema sintesi l’itinerario percorso nella sua relazione il prof. Biguzzi è tornato all’affermazione iniziale: Paolo ha una personalità complessa, ma non raccogliticcia. Egli ha piuttosto un centro che gli è servito per mettere in un ordine gerarchico tutti gli altri valori. L’incontro di Damasco – Paolo vi ritornerà fisicamente dopo l’Arabia, ma vi ritorna continuamente nello spirito – è veramente la chiave per comprendere la sua vita.

3. II Appendice: schema distribuito prima della relazione

I. La figura di Paolo nell’anno paolino

La felice intuizione di indire un anno paolino.
La complessa personalità di Paolo:
qualche elemento di disturbo ma grande, imprescindibile protagonista.
Figura esemplare perché unitaria:
Paolo ha avuto un centro e attorno a quel centro ha disposto i valori in gerarchia.

II. Paolo a Damasco, Paolo e damasco

A spiegare Paolo non sono né Tarso, né Gerusalemme, né Antiochia di Siria
ma soltanto Damasco, con la cristofania.
Fonti per l’evento di Damasco (At 9; 22; 26; Ef 3,1-12; 1Tm 1,12-16)
ma poi soprattutto le sue lettere: cf. 1Cor 9,1ss; 15,8ss; Gal 1,15-16; Fil 3,12ss

III. Secretum meum mihi: Paolo e la sua sorgente segreta

(1) In 1Cor 9,1
L’episodio di Damasco è visione del Risorto
e, come tale, è fondamento dell’apostolicità di Paolo.

(2) In 1Cor 15,3-8
L’evento di Damasco è apparizione del Risorto.
La cristofania è fondamento dell’apostolicità,
ed è “grazia”, iniziativa gratuita e misericordiosa di Dio
che da un persecutore trae un apostolo travolgente.

(3) In Galati 1,11-16
L’evento di Damasco è “apocalisse” o “rivelazione” del Figlio
quale centro assoluto della storia salvifica (Gal 1,16a).
È dunque “apocalisse” o “rivelazione” dell’Evangelo o buona notizia
che Paolo ha ricevuto non dagli uomini ma direttamente da Dio.
È chiamata profetica perché descritta con le parole bibliche di vocazione
È chiamata all’apostolato delle genti.

(4) In Filippesi 3,2-14
Damasco è conversione, perché capovolgimento di valori,
perché sublime conoscenza di Gesù Cristo.
Per Paolo è poi essere stato afferrato e conquistato dal Cristo
per cui ora, a sua volta, egli cerca di conquistare lui e la potenza della sua resurrezione.

(5) Sintesi
Conversione? ed, eventualmente, da che cosa a che cosa?
L’evento che divise la vita di Paolo in due:
sempre di nuovo Paolo tornava all’evento di Damasco
come alla segreta sorgente del suo apostolato e della sua perseveranza .
Il pudore con cui Paolo custodiva questo suo personalissimo segreto
e l’invito a noi, a tornare sempre di nuovo alla nostra vocazione.

IV. La geografia apostolica di Paolo

«Chiamato [a essere] apostolo» (Rm 1,1; 1Cor 1,1) «delle genti» (Rm 11,13)
Prima scelta apostolica: l’Arabia, a sud est di Gerusalemme
Seconda scelta: l’occidente (Cipro e altopiano anatolico) con Barnaba
Terza scelta: la primizia (Rm 16,5; 1Cor 16,15) nelle metropoli egee
Tappa a Roma, con meta la Spagna
«perché le genti divengano una offerta gradita» (Rm 15,16).


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