Augias-Pesce, Inchiesta su Gesù: una recensione (dalla rivista dell’Associazione Biblica Italiana)
di Giuseppe Bellia

Riprendiamo sul nostro sito, per gentile concessione del direttore della rivista, la recensione di Giuseppe Bellia, professore di esegesi neotestamentaria presso la Facoltà teologica di Sicilia, al volume di C.Augias-M.Pesce, Inchiesta su Gesù, apparsa con il titolo originale “Il faticoso mestiere dello storico”, su Rivista Biblica 55 (2007), pp.191-213. Il testo è già disponibile on-line nella sezione Pubblicazioni del sito dell’Associazione Biblica Italiana www.associazionebiblica.it. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti 26/4/2008


Se scrivere storia per Goethe era «un modo di togliersi di sulle spalle il passato»[1], scrivere per la rivista dei biblisti italiani una nota su un’opera di divulgazione storica assai discussa, come l’Inchiesta su Gesù di uno studioso stimato come Mauro Pesce, che per mesi è stata al centro di una querelle accesa e a tratti anche aspra, significa farsene carico accollandosi un impegno infido e malagevole[2].

Il disagio, le riluttanze e l’esitazione non dipendono tanto dalla gravosa posta in gioco che un’ardita e legittima ricerca storica sulla figura di Gesù di Nazaret può comportare, ma derivano da quel coinvolgimento umano, da quelle ostentazioni scientifiche e da quelle implicazioni teologiche che hanno finito con l’interessare e quasi pregiudicare valori alti e indisponibili come la verità delle testimonianze fondanti, l’inviolabile libertà della coscienza, l’autonomia della ricerca scientifica e la stessa solidità della fede cristiana.

La ruvida e appassionata controversia ha provocato un assillante susseguirsi di critiche e di repliche che come in un gioco di specchi hanno moltiplicato domande e chiarimenti, rilievi e delucidazioni fino quasi a dare l’impressione che molte questioni potevano trovare un più equilibrato assestamento, sciogliendo quei malintesi e chiarendo quelle incomprensioni che, inevitabilmente, un libro destinato alla grande diffusione e al dialogo con «i non appartenenti alle Chiese» poteva contenere. Si può allora ridurre tutto a un abbagliante e innocuo fraintendimento? È stato solo un bruit absurde?

In verità le cose non stanno così; di là da ogni volenterosa iniziativa di ricomposizione e nel rispetto dei convincimenti altrui, si deve dire che una linea di frattura permane, insieme a non poche perplessità metodologiche e ad alcune riserve sostanziali. Personalmente riconosco a Mauro Pesce, oltre alla serietà della sua trentennale ricerca storico-esegetica, la qualità di studioso inquieto e di intellettuale onesto, dal tratto umano delicato e signorile accompagnato da uno stile semplice e sinceramente rispettoso dell’altro che ne fanno una figura non comune nel nostro panorama accademico.

Un raffronto fruttuoso di sicuro è possibile: ma serve entrare di nuovo nel vortice di ulteriori domande e obiezioni che, per quanto legittime e pacate, provocherebbero altre rettifiche e delucidazioni ininfluenti? Ritengo che sia più proficuo in questa riflessione, profittando dell’occasione offerta da tutta la vicenda, richiamare l’attenzione su alcune questioni non ancora a sufficienza affrontate da storici, biblisti e teologi, per suscitare una riflessione, avviare un confronto, magari un dibattito a più voci aperto e approfondito.

Prendendo necessariamente avvio dal libro-intervista, i punti caldi di cui vogliamo occuparci sono: l’autonomia della ricerca storiografica e l’uso pubblico della storia, quale trasparenza e verificabilità chiedere a chi oggi scrive storia e infine, come impostare il rapporto tra fede e storia e tra storiografia e teologia. Di questo, con garbo e insieme con parresía ci occuperemo, secondo un’ottica e una sensibilità storiografica più che esegetica e teologica.

Autonomia dello storico e uso pubblico della storia L’obliquo percorso della ricerca storiografica su Gesù di Nazaret con la third Quest ha fatto registrare un palese mutamento di rotta: ha lasciato le compassate e riparate dimore degli specialisti per approdare all’agorà chiassosa e fumosa del mercato culturale, offrendo una serie inesauribile di ritratti del rabbi galileo di cui l’appena nata «industria della memoria», ultima espressione dell’evoluzione autoreferenziale del mercato, si è impossessata con proficuo tempismo.

Questa metamorfosi plateale, che per il momento sembra inarrestabile, non riguarda però solamente la vicenda ricostruttiva del Gesù della storia; è un percorso che nell’attuale scomposta stagione postmoderna ha imboccato l’indagine storiografica nel suo insieme, da quando la ricostruzione pubblica del passato si forma fuori dei circuiti tradizionali e una certa pratica storiografica, accettando di uscire dai suoi composti recinti di ricerca, si offre, a suo rischio e detrimento, a una visibilità di largo consumo come denunciava Jürgen Habermas oltre un ventennio fa[3].

Si può interpretare questo impegno mediatico come doverosa opera di divulgazione ma in questo caso si richiede allo storico di non ignorare i germi d’inquinamento e le tecniche di manipolazione che hanno portato l’intera comunità degli storici sull’orlo di una crisi di nervi, per quella incoercibile invasione di campo operata da abili divulgatori che modellano le tappe dell’indagine storica con i ritmi della fruibilità mediatica[4].

È un processo in rapida evoluzione che mostra i segni convulsi del tempo frenetico in cui viviamo, ma uno storico coscienzioso, senza demonizzare l’uso dei mass media[5], deve conoscere il potere orientativo di questi strumenti che possono alterare e amplificare l’ondeggiamento della memoria collettiva, trasformando una modesta innovazione storiografica in scoop consumistico, con una miscela ben dosata di rigore documentario e di autonomia ermeneutica[6].

Chi scrive storia non può non avere avvertenza critica degli intricati legami che annodano la sua ricostruzione all’elaborazione della memoria e questa al suo uso pubblico, come ci insegnano le ultime vicende internazionali[7]. Si deve riconoscere che il processo di creazione del mito non si è mai arrestato e i baconiani idola tribus, specus, fori, theatri attendono ancora di essere debellati[8].

D’altra parte il processo di reificazione della memoria, con gli esibiti revisionismi e i conclamati appelli all’emancipazione dalla tradizione e l’immancabile corredo di moralismi, ha ormai coinvolto lo stesso mestiere dello storico che, come esperto delle cose del passato, è richiesto dei suoi servigi per dare credibilità a un oggetto di fruizione: il suo lavoro quindi, forse per qualcuno in modo inconsapevole, si è gradualmente trasformato in un prodotto del mercato culturale non molto dissimile da quei beni di consumo che sommergono la nostra società.

La Public History americana è parabola istruttiva di un sapere storiografico ormai inserito organicamente dentro la logica del mercato dove l’uso pubblico della storia si rivela funzionale a precise strategie di potere politico ed editoriale, indicando la direzione inarrestabile verso cui è incamminata anche la più misurata produzione storiografica del vecchio continente[9]. I veri destinatari dell’ultima Quest non sono più la consueta cerchia di specialisti o l’abituale porzione di pubblico colto che ruota attorno al mondo accademico; la cura degli storici si dirige ormai verso la crescente platea mediatica affamata di storia che non s’impegna a percorrere la faticosa e incerta via del sapere critico, accontentandosi di cognizioni già confezionate e di facile lettura.

Non so dire se lo storico Mauro Pesce, nel suo libro redatto in forma d’intervista insieme a Corrado Augias, un noto giornalista televisivo dalla «fortissima presenza mediatica», sia incorso nella trappola consumistica del mercato culturale anche da noi in convulsa ma non accidentale espansione.

A dare questa sgradevole impressione di prodotto di consumo, oltre al tono costruito ed erudito dell’intervistatore le cui introduzioni danno l’impressione di trasudare una certa calliditas uggiosa, ha contribuito anche la particolare forma di comunicazione adottata dai due autori: l’impianto a intervista del libro trasmette al lettore un senso di scorrevole continuità e di fluida organicità del tutto, conferendo alle domande un ruolo orientativo ed essenziale.

Inoltre la consumata qualità di scrittura di Augias e l’agile forma del racconto colloquiale, con la sua ambigua duttilità di termini e di temi ripresi e rilanciati[10], non segnala in nessun caso contrapposizioni frontali tra i dialoganti, ma un processo quasi di osmosi dove non sempre si coglie la discontinuità di pensiero tra apprendista ed esperto; solo qualche flebile resistenza o decorosa smentita per porre argine a un domandare che a qualcuno è apparso poco sapido e molto insinuante e comunque gradito all’intervistato, che non segnala mai la superficialità di certe generalizzazioni e l’importuna pruderie di domande oziose e non disinteressate.

L’effetto è di spostare l’attenzione dall’oggetto indagato ai soggetti coinvolti nella comunicazione facendo così inclinare l’interesse del lettore verso un soggettivismo del comunicare di cui, dopo le animose contese, resterà poca traccia. Del resto la particolare Gattung cui gli autori hanno fatto ricorso è un genere conosciuto e praticato da tempo: l’intervista o il libro scritto in dialogo ha precedenti illustri in ambito storico, biblico e teologico, da De Lubac a Congar, da Rahner a von Balthasar, per citarne solo alcuni e, in certi casi, si tratta di scritti ragguardevoli che non hanno però incontrato la voracità del pubblico mediatico.

In queste opere costante era la sintonia spirituale, la consonanza ideale e l’affinità culturale tra i colloquianti, a tutto vantaggio dell’oggettività della cosa investigata rispetto all’enfatizzazione narcisistica dell’elemento autobiografico che inevitabilmente finisce con l’incoraggiare il soggettivismo dei protagonisti[11]. Prendiamo atto che Mauro Pesce per informare il vasto pubblico italiano, a suo avviso ancora all’oscuro dei risultati raggiunti dalla ricerca storica sulla figura di Gesù (p. 235)[12], ha scelto come suointerlocutore più confacente e accreditato un navigato opinion maker[13].

Certo, l’operazione attuata dai due autori si differenzia da analoghe e spettacolose iniziative editoriali realizzate negli Stati Uniti, dove la memoria storica del rabbi galileo è stata sviscerata, rivisitata, o a volte solo sbirciata, da occhi molteplici, assetati o solo curiosi e indiscreti, con intenti diversi e risultati disparati su cui «ad essere sinceri non si dà ancora alcun nuovo consenso», come afferma un esponente di rilievo dell’ultima ricerca[14].

Per alcuni storici la third Quest è stata occasione di esplorazioni libere e prudenti, attente alla complessità della figura storica da indagare, mentre per altri è stata l’occasione per sfoggiare un uso spregiudicato e a volte irriguardoso del materiale storico adoperato senza alcun vincolo verso l’autorevolezza delle tradizioni o del prudente buon senso, ma con un’acuta sensibilità verso le esigenze di una «società dello spettacolo» estetizzante e onnivora.

Non pochi ricercatori si sono rivelati volenterosi e flessibili interpreti delle richieste di un pubblico plaudente e incompetente che si appassiona a tutto ciò che più è mostrato e gridato, assecondando una regia editoriale abile e disinibita che riesce ad additare come nuovo e inedito l’ultimo ritratto di Gesù confezionato in laboratori sganciati da committenze confessionali, interessati solo a fare breccia nell’immaginario collettivo dell’uomo del nostro tempo venendo incontro a quanto richiesto dal mutabile mercato culturale[15].

La ricerca storica del professor Pesce sulle origini del cristianesimo indubbiamente è lontana dalle rappresentazioni sensazionali ed effimere di certa storiografia americana che mescola con disinvoltura procedure analitiche e decostruzioni testuali, revisionismo storico e giochi linguistici, dichiarando anzi apertamente un forte senso civile per il suo impegno di storico[16].

Tuttavia, mentre le sue più impegnative opere di esegesi e di storia, compresi i testi curati insieme all’antropologa Adriana Destro, non hanno sollevato obiezioni e rilievi consistenti, pur sostenendo cose non dissimili dal libro-intervista, così osserva lo stesso Pesce, su quanto detto nel volume della Mondadori sono subito piovute contestazioni, riserve e censure ufficiali[17].

Una sorte atipica ma non rara che è già toccata in passato a non pochi autori; in questo caso però l’asimmetria valutativa non deriva tanto dall’arditezza e temerarietà di alcuni giudizi, sempre opinabili, lanciati senza alcun filtro e con tono pressante e perentorio, ma è dipesa anche dal genere di scrittura adottato che, non lasciando molto spazio alle argomentazioni severe e poco ammiccanti dei testi di studio, si presentava come un inventario di argomentazioni inconfutabili, di affermazioni assertive e di giudizi storici inusitati[18], potendo facilmente essere accomunata ad un prodotto di consumo.

Come negare che sull’impatto disorientante del libro molto ha pesato la personalità dell’intervistato, un ricercatore dalla fama indiscussa per la specifica e riconosciuta competenza di storico delle origini cristiane, che per sua ammissione ha scelto di rispondere con giudizi storici presentati come conclusioni scientifiche, piuttosto che come sensate ricostruzioni congetturate, bisognose di molti riscontri (p. 236)?

Proprio nel libro fatto a due mani la volgarizzazione spiccia dei risultati della third Quest, con le sue inevitabili semplificazioni e con le sue ricorrenti correzioni del senso storico tradizionale, ha lasciato un retrogusto amaro e irritante che non si coglie nelle altre opere.

Su basi scientifiche, con ritmo incalzante, si vuole ricavare dai vangeli un Gesù solo uomo e solo giudeo, un visionario candido e generoso la cui morte è descritta senza alcun riferimento alle scritture profetiche d’Israele, come uno dei tanti incidenti di percorso in cui periodicamente incorrono i puri davanti alla macchina repressiva e sanguinaria del potere[19]. Insomma, Gesù, che non è mai chiamato Cristo e non è mai indicato come messia, è un uomo di elevata statura morale e di rara tempra spirituale, proteso verso un futuro utopico e prevedibilmente deludente. Non ha mai avuto in mente di cambiare il mondo: se ciò accadde fu suo malgrado, per una favorevole congiuntura politico-religiosa abilmente e sollecitamente sfruttata da ingegnosi e tardivi seguaci.

La disparità di apprezzamento ha però anche cause estrinseche più gravi e antiche che riguardano quel contagioso e inveterato atteggiamento d’impaccio e di ritegno che molti dei nostri biblisti hanno avuto e hanno verso il mondo accademico estraneo a ogni preoccupazione teologica e allergico ad ogni intenzione confessante. Davanti a un sapere storiografico, non di rado univoco, che pretende di esibire una conoscenza affrancata da ogni convinzione di parte solo perché valuta la professione di laicità come garanzia di scientificità, gli scribi cristiani accusano una penosa condizione di remissività e d’inerzia.

Dietro un diffuso contegno politically correct spesso si nasconde una rinuncia a dichiararsi al servizio della Parola che spinge, come notava già Dietrich Bonhoeffer, a mascherare il proprio impegno con «aspetti inessenziali», parlando «secondo il gusto delle masse» e trovando più appagante «l’esser considerato un uomo di mondo» che un testimone di Cristo[20].

Da ultimo però qualche cosa sta cambiando tra i biblisti italiani, anche se per il momento sembra prevalere uno stato d’animo condiscendente, conformato al «mondo mondano» da cui ci si aspetta consenso e plauso. L’atteggiamento caudatario ha reso vulnerabili davanti all’aggressività e alla sufficienza di un sapere laico a volte più ostentato che reale, non sempre in grado di esporre l’epistemologia soggiacente alla propria ricerca. La domanda necessaria è: perché le ricostruzioni fatte dagli storici sono storia? Perché hanno valore storico?

Storiografia e credibilità della storia e dello storico Dalle pagine del libro-intervista, anche se qui e là si trovano disseminate interessanti notazioni metodologiche di esegesi e di storia, non si può ovviamente ricavare l’impianto epistemologico praticato dal prof. Pesce, approdato allo studio socio-antropologico delle forme culturali implicite in un testo. Nondimeno, se si tiene conto dello svolgimento della sua argomentazione e dei suoi ultimi convincimenti sulla figura di Gesù, qualche osservazione si può formulare.

Altrettanto rivelatrice è la corrente di ricerca in cui l’intervistato si colloca, non nascondendo la sua preferenza per l’approccio contemporaneo che, nel suo insieme, ha preso le distanze dal doppio criterio negativo di Käsemann, che voleva una discontinuità del Gesù storico sia dall’ambiente giudaico d’origine sia dalla successiva comunità dei discepoli. La «terza ricerca» invece, si è fattivamente impegnata ad astrarre il rabbi galileo solo dalla tradizione cristiana, volendo nel contempo mostrare la sua totale contiguità e omogeneità al giudaismo.

Per raggiungere questo scopo i ricercatori hanno battuto sentieri molteplici ed eterogenei con un’inventiva esuberante a volte non disgiunta da puntiglio metodologico, senza darsi pensiero di dichiarare le proprie basi epistemologiche. In realtà gli storici, anche quelli del primo cristianesimo, si mostrano «riluttanti ad analizzare se stessi e la propria attività»[21]; di solito non si curano di esplicitare o produrre teorie, «si accontentano di scrivere storia senza sollevare molte domande sulla natura della conoscenza storica»[22], fanno ricorso a generalizzazioni implicite o solo abbozzate ricorrendo così a sequenze di spiegazioni incomplete o appena imbastite[23].

Una consapevole prassi storiografica, com’è quella della nostra tradizione italiana, avrebbe voluto indicate e discusse in anticipo le premesse che ogni lavoro storiografico contiene in sé, nel suo stesso esercizio, specie in un tempo in cui la storiografia è traversata da confuse correnti di decadenza e da timidi fermenti di rigenerazione[24].

Nell’epoca fluttuante e gridata di un postmoderno che si rivela sempre più post-umano, per rendere più accessibili alcune mie osservazioni di metodo e alcune glosse di carattere epistemologico al libro in questione, ritengo utile richiamare alcune tappe del travagliato percorso teoretico della più recente storiografia.

1. L’indagine storica si fonda su una pretesa insopprimibile e insieme naïve: ricostruire l’accadimento originario sceverandolo dalle aggiunte delle narrazioni e interpretazioni successive. Finita la stagione del positivismo storico, la ricerca storiografica si è incamminata verso una più consapevole comprensione dei propri limiti. La seconda metà del Novecento, a causa delle grandi tragedie, ha visto il declino dello Stato-Nazione e la crisi delle ideologie che hanno sancito con la fine dello storicismo anche l’indebolirsi della storiografia come disciplina.

Gli storici hanno appreso che la storia è una scienza debole, esposta alle incursioni dello strutturalismo ieri e all’irrisione del decostruzionismo oggi[25]. Con il lento tramonto della celebrata scuola delle «Annales», che pure aveva operato una commistione fertile con le scienze umane, investigando realtà sino allora trascurate, come le vicende dell’uomo comune, le mentalità, la vita materiale, il mondo femminile, l’ambiente e il clima, ha perso terreno la «storia quantitativa» per il ritorno prepotente dell’avvenimento e degli uomini protagonisti al centro della ricerca storica.

Questa trasformazione faceva scendere però il sipario sulla stagione dei progettati approcci scientifici al passato. Gli attacchi risoluti e irriverenti di scuole di pensiero legate al linguistic turn hanno reso inaffidabile la presunta oggettività del sapere storiografico[26], facendo emergere una ritrovata e allettante voglia di raccontare che mal sopporta i controlli del metodo scientifico[27].

Di questo percorso storiografico che dall’arcaico «Wie es eigentlich gewesen ist» di Ranke giunge all’anarchia epistemologica del metaphorical turn, si trova solo qualche fugace accenno nella storiografia protocristiana che non sembra risentire nemmeno delle conseguenze che un’attenta valutazione della soggettività ha prodotto negli storici più coscienziosi.

Le sue ripetute interferenze nella ricostruzione storica, a cominciare dalla messa in discussione della presunta neutralità di chi ha prodotto le fonti e di chi le ha conservate e trasmesse, per finire all’uso, se non arbitrario di sicuro soggettivo, che ne fa lo storico, hanno scosso la fiducia sull’imparzialità e obiettività della storiografia. Come può dimenticare chi scrive storia che l’oggetto della sua materia è plasmabile e che i fatti si prestano con muta compiacenza a ogni dimostrazione e si conformano a ogni sistema perché dipendono da un’opzione, da una scelta[28]?

In potere dello storico èdeterminare le domande, selezionare gli eventi e gerarchizzare le cause, come anche scartarle, dislocarle o sottovalutarle giudicandole superficiali o insignificanti: in tutti i modi, «lo storico trova sempre ciò che cerca»[29]. E questo perché le sue strategie ricostruttive sono selettive e possono derivare dalla sua situazione soggettiva o dipendere dalle autocensure che la sua vanità o il mercato dei suoi lettori e dei suoi editori reclama, privilegiando interpretazioni che non saranno mai oggetto di sperimentazione[30].

All’origine della ricerca, per una certa storiografia, non c’è più come in passato il documento, ma l’invenzione narrativa dello storico, c’è «una mente pensante» che sin dai primi passi imprime alla ricerca «una direzione di marcia»[31]. Chi scrive storia prende le mosse dalla sua situazione personale, è influenzato dalle sue convinzioni politiche e religiose ed è sollecitato da un dubbio, da una curiosità, da una domanda: in breve, da un vuoto da colmare, il cosiddetto «interesse storico», che lo spingerà a strappare alla casualità i fenomeni osservati ma, inevitabilmente, tenderà a comprendere il passato in funzione di un’«anima plasmata dai costumi e dalle idee dell’oggi»[32].

L’implicazione della soggettività nella conoscenza storica richiama il ruolo svolto dall’ermeneutica filosofica nel dibattito storiografico. Per Gadamer comprendere il passato significa immettersi nelle acque vive della storia a noi mediata dalla tradizione. L’interpretazione storica non viene dal nulla perché essendo innestata in un processo ermeneutico, non solo esistenziale ma corale e continuo, permette allo storico di controllare la fondatezza della propria precomprensione.

La tradizione, mettendoci in ascolto dei linguaggi del passato, ci colloca in quella catena di interpretazioni che il testo ha suscitato lungo la storia: la Wirkungsgeschichte. La «storia degli effetti» ad esempio giudica le interpretazioni del testo biblico come un suo prolungamento e arricchimento perché la molteplice opera di appropriazione che ne fa il lettore si muove all’interno di una continuità ermeneutica che ne rispetta l’orizzonte veritativo.

In caso contrario può generare forme di revisionismo che alterano e deformano il senso del testo, dando origine a comprensioni deviate come l’antisemitismo, il misconoscimento della libertà religiosa o l’illusione millenaristica[33]. Decisiva la correzione del Betti, che ricordava alle nuove ermeneutiche teologiche che la precomprensione non estende al testo la soggettività dell’interprete, ma rispettandone l’alterità se ne lascia modificare e correggere[34].

2. Lo storico, sperimentando nuovi modi d’interrogare il materiale documentario, ha la possibilità e la capacità di «costruire», di «inventare» le proprie fonti, ma non può determinarne la prossimità o la distanza con l’evento narrato: il linguaggio veglia sullo spazio della memoria. Una fonte, quando si allontana da ciò che racconta collocandosi in una diversa situazione culturale, percepisce diversamente la realtà; e, non comprendendo o condividendo linguaggio e valori di ciò che riferisce, si pone come testimonianza autorevole non dell’evento che attesta ma della cultura del tempo in cui fu composta.

È in potere dello storiografo mettere ordine nel suo materiale documentario forgiando scansioni cronologiche, identificando mutamenti e permanenze o ideando i caratteri omogenei e stabili di un’epoca o di un periodo organizzato in modo da evidenziare vantaggiosamente l’ipotesi ricostruttiva adottata. Ma nel lento e ironico fluire del tempo si può constatare che non gli artificiosi spartiacque scovati dagli storiografi, ma i bruschi momenti di rottura e di discontinuità sono i più sicuri e idonei a individuare trasformazioni, cambiamenti e innovazioni.

La tirannia della soggettività dunque non è illimitata: l’incombere del presente nell’orizzonte dello storiografo, se è riconosciuto, non necessariamente inficia l’oggettività della sua ricerca[35]. Lo storico non è condannato a scivolare nel relativismo. Gli storiografi, infatti, non improvvisano, pervengono alle loro spiegazioni attraverso un procedimento interpretativo fatto di supposizioni, di congetture e di ipotesi, per riempire i vuoti della catena causale e le lacune temporali presenti nell’insieme documentario.

Quando il materiale storico non consente un’interpretazione affidabile, per ricostruire i nessi e raggiungere una continuità accettabile della realtà, lo storico introduce un suo principio di organizzazione del passato[36]. Non è frutto di fantasia o di arbitrio, ma di raffronti, di comparazioni, di analogie che permettono di supplire alle assenze raggiungendo un certo grado di certezza[37]. Per via comparativa può raggiungere nuclei di verità affidabili, ma la raccolta dei diversi elementi in descrizioni d’insieme e il loro inserimento in concatenazioni causali permangono sotto il segno della soggettività, che impone di distinguere tra asserzioni (statement) sempre riconducibili a fatti accertati e giudizi (judgement) che riguardano la verità delle cose[38].

L’opera storiografica rimane sempre al di qua del fatto e si offre come racconto incompleto e incompiuto di una realtà colta prospetticamente e non verificabile[39]. La storia è una scienza velata, sfuggente, ambigua perché le sue costruzioni più solide sono impastate di argilla, essendo formate da un robusto corpo empirico tenuto insieme da una gracile malta di congetture che nel migliore dei casi funziona come «retrodizione» se non come «retroiezione» che traduce solo le proiezioni dello storico.

Per alcuni tutto ciò implica che «il problema della causalità in storia è una sopravvivenza dell’era paleoepistemologica»[40]. Per non scivolare nello scetticismo si addice allo storico la modestia, e la pazienza, perché la sua ricostruzione è un tentativo di avvicinamento a un passato dove «nulla è sicuro, persino fatti materiali possono venir aspramente contestati e resi indefinitamente incerti», al punto che «non si può costringere ad accettare la verità di alcun fatto storico»[41].

La crisi del modello statico di conoscenza storica del secolo scorso, che pure garantiva l’affidabilità della produzione scientifica attraverso un controllo collettivo del sapere, l’affievolirsi dei criteri di attendibilità delle scienze umane e le destabilizzanti intrusioni della soggettività hanno spinto gli storici ad allearsi con il sapere filosofico, sviluppando l’epistemologia come teoria idonea ad acquisire un più protetto avvicinamento al reale[42].

Ma gli storici del primo cristianesimo sembra che siano passati indenni attraverso le grandi metamorfosi storiografiche che stanno affaticando le ultime leve di storici, scossi dalle ricorrenti ondate di revisionismo che incrina la solidità della memoria collettiva da tramandare[43]. Per leggere in modo più garantito vicende, eventi e documenti, gli storici a volte fanno riferimento al consenso dell’utopica repubblica degli specialisti o alla tendenza storiografica emergente; a volte si appoggiano a grammatiche ideologiche ispirate da intenzioni apologetiche o di parte non sempre confessate o confessabili.

Nel primo caso il ricorso al consenso dei più, che non coincide necessariamente con quello dei migliori, è una scorciatoia malsicura, è solo un paravento che nell’anonimia rassicurante delle tendenze mistifica le razionalità limitate e non assolute che ogni anello della ricerca, per quanto autorevole, include; in ogni caso non esonera chi scrive storia dal rendere trasparente e autonomo il suo percorso.

Nel secondo caso, uno storico schietto, riconoscendo che il suo sapere storico ha avuto inizio da una forma di precomprensione, non ha remore nel dichiarare preliminarmente e lealmente la provenienza del suo orientamento. Lo storiografo, accettando di manifestare influenze e dipendenze, fa conoscere al lettore le sue motivazioni originarie e i suoi convincimenti in atto e dunque i suoi potenziali condizionamenti, permettendogli di controllare eventuali alterazioni, distorsioni o i possibili salti e sviamenti del suo percorso ricostruttivo. Si garantisce così una maggiore affidabilità del suo giudizio, in sintonia con quella «regola universale di probità» che, come ricorda Marc Bloch, richiede anche allo storico una «onesta sottomissione alla verità»[44].

3. Ritengo che queste considerazioni possano essere condivise anche dallo storico Mauro Pesce che si dichiara cosciente delle fluttuazioni che hanno portato la storiografia a fare attenzione «al meccanismo con cui la conoscenza umana si attua, sempre influenzata dal punto di vista, dalla collocazione culturale, dall’esperienza personale di chi osserva […] dalla prospettiva di chi guarda, dagli aspetti che si vogliono o che si è capaci di cogliere» (p. 41)[45].

Questa avvertita consapevolezza della natura «necessariamente soggettiva» di ogni esperienza umana, vista anche l’assenza di una riflessione epistemologica necessaria per spiegare e giustificare la scelta dei registri di approccio al passato da lui adoperata, avrebbe dovuto spingerlo a palesare i «processi mentali» che presiedevano alla sua ricerca. Non sarebbe stato più coerente dichiarare l’orientamento attuale del suo pensiero o la sua effettiva dislocazione culturale?

Proprio per conservare una più ampia verificabilità all’ars storica che, come si è visto, è contaminata dalla soggettività, non sarebbe stato più efficace presentare le sue personali precomprensioni (p. 236)? Forse che la corretta applicazione di un metodo può bastare a garantire l’affidabilità epistemologica di un percorso? Forse che accuratezza e verità sono sinonimi[46]? Per quale ragione accreditare una raffigurazione non storica dello storico, presentato in modo oleografico come algido e distaccato alfiere di una scienza «assiologicamente neutra», senza pulsioni, senza passioni, senza interessi che non si schiera e non prende parte alla storia[47]?

Da Hegel in avanti abbiamo imparato che la scrittura della storia non è separabile dallo storico che vi immette «le sue categorie»[48] e sappiamo anche che il presente tende a polarizzare il tempo attraendo a sé passato e futuro[49], facendo dello storico un esule lacerato tra l’accaduto che tenta di esplorare e il presente in cui prova a vivere[50].

Siamo stati avvisati che in ogni strategia interpretativa si può intrufolare quella «cattiva soggettività»[51] che scaturisce da pulsioni estranee alla ricerca stessa o da scopi indicibili e dissimulati. Indicare «i postulati da cui si muove» una ricostruzione[52], conoscerne il verso, saperne la direzione permetterebbe di allontanare ogni sospetto di partigianeria o quantomeno di parzialità che sembra affiorare in non pochi giudizi trancianti di alcune pagine del libro dove si rasenta l’avventatezza e l’illazione.

Riporto di seguito solo alcuni esempi. Secondo Mauro Pesce, Gesù aspettava l’instaurazione del regno di Dio «non tramite una campagna politico militare, né mediante la conquista politica del potere. Il suo messaggio è sostanzialmente diverso da quello del cristianesimo successivo che, per questo aspetto, non sembra differente molto dall’Islam» (p. 55). Preso dalla foga colloquiale, con l’intento di distanziare ancora di più Cristo dai cristiani in un unico giudizio di riprovazione morale, condanna anche i secoli dei martiri cristiani, eguagliando la pacifica evangelizzazione cristiana alla diffusione militare dell’Islam.

Sulla stessa falsariga si dichiarano gli ebrei esempio unico di tolleranza religiosa ante litteram, contrapposti ai buddisti e ai primi cristiani aggressivi e conflittuali con il mondo pagano (pp. 84s). Le rivolte giudaiche di Gerusalemme e di Alessandria sono invenzioni politiche di leggende degiudaizzanti?

A p. 135 si legge: «Luca, nell’episodio della trasfigurazione, sembra suggerire che [Gesù] abbia invocato Elia e Mosè perché gli chiarissero il suo destino futuro». D’accordo, è solo una sua ipotesi sulla trepidante umanità di Gesù, ma da dove la trae fuori? Un’esegesi exsilentio può arrecare materiale storico?

A p. 221, a proposito della necessaria mediazione che i cristiani assegnano a Gesù, leggiamo: «Io credo che in realtà ciò sia avvenuto contro la sua volontà. Infatti nella preghiera che lui ha insegnato, il Padre Nostro, non attribuisce a sé alcun ruolo, non vi è neppure nominato. Solo conta il rapporto degli uomini con Dio e viceversa. Null’altro. Nessun mediatore. Ciò che ha lasciato a chiunque gli creda è il desiderio del regno di Dio, che Dio, lui solo, regni».

Questo è il suo combattivo punto di vista: ma su quale base documentaria poggia la sua interpretazione polemica? Il suo giudizio, teologico più che storico, è contraddetto da quella ininterrotta confessione cristologica che è il Nuovo Testamento.

A conclusione di tutto, a p. 238, con tono accorato: «bisogna […] occorre […] bisogna […] non deve […] è necessario […] bisogna» e con cercate assonanze attesta: «In principio c’è la diversità: non un solo cristianesimo, ma molti cristianesimi». Qui la strategia ricostruttiva diviene appello, catechesi: come equivocare la pluralità nella fede con la pluralità delle fedi? Il vangelo «uno e quadrimorfo» rappresenterebbe quattro distinti cristianesimi? Taziano è riabilitato, mentre il parlare al plurale delle comunità n’esce distorto.

Lo ripeto, una leale informazione dell’interesse previo che ha avviato il suo percorso storiografico avrebbe reso più trasparenti e meno devastanti per l’ignaro pubblico italiano quelle convinzioni che, come riconosce lo stesso intervistato, sono «migliorabili» e anche «contestabili» (p. 236), mentre a non pochi è sembrato che, dietro le rassicurazioni di conclusioni scientifiche affatto inoppugnabili e dietro un tono che a volte avremmo preferito meno sentenzioso, vi sia altro.

4. Veniamo adesso a un altro punto controverso del suo impianto ricostruttivo: la questione delle fonti. Mauro Pesce da storico tratteggia una figura di Gesù in netto contrasto con quella proposta dalla successiva tradizione cristiana, accusata addirittura di «tradimento» (p. 68). Secondo questa ricostruzione, già accennata, egli fu un ebreo di stretta osservanza, che non disse e non fece mai nulla per abolire la legge e il culto mosaico (pp. 26-28). «Era un ebreo che non voleva fondare una nuova religione. Non era un cristiano. Era convinto che il Dio delle Sacre Scritture ebraiche stesse cominciando a trasformare il mondo per instaurare finalmente il suo regno sulla terra» (p. 237).

Non concepì affatto la sua morte violenta come opera di salvezza per il mondo (p. 29), perché non tentò mai «di convertire i non ebrei» (p. 37), mentre invece era «del tutto concentrato su Dio e pregava per capire la sua volontà e ottenere le sue rivelazioni», premuroso con «le pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 15,24), cioè verso quei giudei «sviati» che avevano bisogno di lui (p. 36). In definitiva, si sentiva inviato a sostegno «dei bisogni degli uomini, in particolare i malati, i più poveri e coloro che erano trattati in modo ingiusto.

Il suo messaggio era inscindibilmente mistico e sociale». Ma il regno di Dio non venne «e anzi, egli fu messo a morte dai romani per motivi politici. I suoi discepoli, che provenivano da ambienti più vari, ne diedero fin dall’inizio interpretazioni differenti. Si interrogarono sulla sua morte fornendo spiegazioni diverse e molti di loro si convinsero che egli fosse risuscitato […] e diedero vita a una nuova religione» (p. 237).

Il cristianesimo sarebbe dunque una creazione tardiva e sia l’annunzio della «buona notizia» (la redenzione e riconciliazione dell’umanità con Dio), sia la sua diffusione fra tutte le genti risalirebbero a convinzioni e interpretazioni dei differenti seguaci condensate negli scritti neotestamentari, specialmente nei vangeli, mentre quelle opere «che le Chiese considerarono apocrife a partire dal IV secolo, scomparvero» (p. 237).

Nel suo vario argomentare il prof. Pesce, a più riprese, fa appello alle «basi razionali» dei suoi convincimenti che espone a volte attraverso una puntuale disamina esegetica o un fitto raziocinare storico, a volte presentando ipotesi o rispondendo con asserzioni categoriche, a volte riportando le conclusioni a lui favorevoli della più recente discussione o facendo appello alle posizioni di presunti consensi consolidati.

Naturalmente certe affermazioni e alcuni passaggi di questa catena ermeneutica sono condivisibili, ma ci chiediamo: per ricostruire una simile figura di Gesù a quale precisa testimonianza o a quale materiale documentario fa riferimento? Qual è la sua fonte? Lo stesso intervistato, mancando di una documentazione più attendibile, si affida agli scritti neotestamentari, in modo particolare ai vangeli, «normalmente considerati fonti primarie per conoscere Gesù», anche se in realtà sono già una prima forma di allontanamento perché «ce lo fanno conoscere filtrato da una luce degiudaizzante» (p. 35).

Forse Pesce qui fa riferimento a Gadamer per dire che i vangeli non sono attendibili storicamente in quanto necessariamente condizionati dal prospettivismo storico o ideologico degli evangelisti e delle comunità? La sua metodica in questo caso sarebbe del tutto priva di presupposti soggettivi? Situazione giudicata «paradossale» dallo stesso Pesce, che si rende conto come un tale modo di utilizzare le fonti, potendo sceverare quanto conviene al proprio ragionamento storico, appare abnorme e perciò è un’affermazione che va considerata «in qualche modo ingiustificata, dal momento che proprio i vangeli ci servono» per conoscere Gesù (p. 35).

Il libro è percorso da questo lucido e snervante paradosso: l’intervistato è sempre a caccia dei filoni degiudaizzanti nascosti o palesi e nel contempo si mostra aperto a un uso spigliato delle tradizioni protocristiane quando sono di appoggio alla propria strategia ricostruttiva[53].

Siamo davanti a uno di quei legittimi processi di «invenzione delle fonti» di cui si parlava sopra, dove il diverso modo di interrogare la base documentaria fornisce nuova luce sui fatti? Ma in questo caso qual è la «nuova interrogazione» cui sono sottoposti i libri neotestamentari, spesso relegati a materiale storico meno probante perché frutto di redazioni cristianizzanti?

Viene forse dall’approccio socio-antropologico? Questa giovane metodologia, introdotta in Italia da Mauro Pesce e Adriana Destro, aiuta a leggere in modo nuovo le fonti collocandole nel loro contesto naturale che è quello della cultura giudaica e mediterranea del I sec. d.C., caratterizzata da esperienze e valori dissimili da quelli del nostro Occidente postmoderno. Si rintracciano dapprima i dati culturali condivisi trattenuti negli strati profondi dei testi, per poi passare al probabile ambiente di provenienza che ha permesso e portato alla scrittura del testo, potendo così infine confrontare, nel caso degli scritti neotestamentari, le forme culturali delle esperienze religiose dei discepoli di Gesù con quelle a lui stesso attribuite.

È un percorso lungo e arido che apporta informazioni forse troppo astratte per uno storico ma che gli permette di controllare l’aderenza della sua ricostruzione a un contesto sociale certo. Francamente non mi sembra che questo complesso e delicato criterio socio-antropologico sia qui applicato per interrogare in modo diverso i testi. Piuttosto si è davanti a un procedimento circolare, già praticato da molti third questers americani, dove la ricerca parte dal rinvenimento di un ipotetico dato gesuologico, assunto e sfoggiato come indiscusso e originario, per poi usarlo come referente principale se non assoluto della ricostruzione storica[54].

Si ha l’impressione che il punto di approdo della ricerca si confonda con l’interesse storico primario che ne sta alla base perché interrogazione e dimostrazione, premesse e conclusione coincidono: la «de-cristianizzazione» di Gesù è insieme opzione metodologica e giudizio finale. L’abbaglio dell’autoreferenzialità è insidioso perché ipnotizzante, correndo dal testo alla realtà sociale e viceversa, senza condurre al nuovo potendo ratificare solo il già pensato e il già saputo.

5. Ancora qualche altra notazione sull’incompiutezza storiografica. Il «ritorno al racconto» ci aveva consegnato la lezione che una storia è tanto più affidabile quanto più è autoesplicativa, cioè si racconta da sé perché scevra di dimostrazioni addomesticate che forzano il detto a non dire e il fatto a non significare[55]; come nel caso della perorazione energica con cui Pesce s’impegna a mostrare l’assoluta ebraicità del Padre Nostro (pp. 28-30): operazione possibile sul piano esegetico ma non convincente su quello storico.

Una preghiera che le prime comunità cristiane hanno scelto come segno distintivo della loro pietà, tramandandola come forma antonomastica e normativa della loro relazione con il Dio di Gesù. Si tratta di un modello precipuo di esperienza di preghiera cristiana, consacrata proprio da quei testi «degiudaizzanti» che sono i vangeli. Secondo Luca è richiesta addirittura dagli stessi discepoli a Gesù (Lc 11,1-4) come qualificante segno socio-religioso della giovane comunità proprio nella fase di strutturazione (performing) dopo l’invio dei settanta(due) e il loro successo (Lc 10,1- 20).

Questo inossidabile dato testimoniale nel libro è svuotato della sua perspicua valenza socioantropologica per divenire espressione rievocativa della totale dipendenza dell’esperienza religiosa di Gesù dalla religiosità ebraica! Ma non sostiene Pesce che «il senso storico di un testo è quello che l’autore ha voluto dargli, quello che i suoi contemporanei potevano comprendere» (p. 94)?

In questa caratteristica forma religiosa di pietà ebraica, più coerentemente andava semmai iscritto il sentire religioso di autori e destinatari del vangelo, al massimo dei primi seguaci di Gesù, visto che «le fonti riflettono la fede di chi le ha scritte» (p. 41). In questo caso non interpella lo storico il fatto che il sintagma al singolare («Padre mio»), frequente in Mt ma assente in Mc e da alcuni ritenuto redazionale, non è mai usato dai cristiani, nemmeno da Paolo, ma è messo solo sulle labbra di Gesù?

Le prime comunità sapevano che la loro esperienza di «figli di Dio» non poteva essere identificata con quella del loro maestro: la paternità di Dio verso di loro era di natura qualitativamente diversa. Inoltre, se la preghiera è opera redazionale, come spiegare proprio nelle prime fasi di formazione di un piccolo gruppo, quando emerge la necessità di costruire una nuova identità attraverso gli inevitabili momenti della comparazione (compare) e divulgazione (declare), l’uso selettivo e rappresentativo del Padre Nostro fatto dalle prime comunità?

Perché caratterizzare la nascente tradizione «degiudaizzante» di Gesù con un’ordinaria preghiera ebraica che qualunque ebreo del suo tempo poteva dire «senza doversi per questo convertire al cristianesimo» (p. 30)? Chi scrive storia non dovrebbe affannarsi contra factum; dovrebbe piuttosto spiegare come mai una forma religiosa del giudaismo sia potuta diventare da subito la preghiera specifica delle prime comunità cristiane[56]. Anche nell’interpretazione storica sensus non est inferendus, sed efferendus: il significato si deve ricavare, non imporre a un testo.

Un altro tipo di scivolamento metodologico si può notare in quelle argomentazioni capziose e polemiche che sorprendono non poco nel repertorio probatorio di uno storico: «Gesù è un uomo ebreo che non si sente identico a Dio. Non si prega Dio se si pensa di essere Dio» (p. 28). Ragionamento ingannevole, di ascendenza ariana, che dietro un apparente buon senso dissimula la fallacia logica di un’argomentazione circolare, o meglio di una petitio principii, che dà per scontato nelle premesse quanto riaffermerà nelle conclusioni.

Il procedimento parte da una affermazione errata: i vangeli o l’eventuale strato originario dei vangeli canonici affermerebbero solo l’umana ebraicità di Gesù e non la sua divinità, difatti Gesù prega Dio, dunque i vangeli dimostrerebbero che Gesù non era Dio. In realtà i vangeli in modi diversi testimoniano accanto all’umanità di Gesù anche la sua misteriosa realtà divina; più esattamente attestano che Dio si è rivelato nell’uomo di Nazaret, che la parola di Dio si è fatta carne nell’umanità storica di Gesù, in quel crocifisso che nell’evento pasquale Dio ha rivelato al mondo come suo Figlio.

E poi, nel Padre Nostro conosciamo l’autentico modo di pregare di Gesù o quello delle sue comunità? E in questo caso la fonte non è data da quei vangeli canonici, «degiudaizzanti» e «cristianizzanti», da quello di Luca in particolare, considerato da Pesce il vangelo che meglio ha compreso l’essenza del messaggio di Gesù (p. 221)? Come discernere in questo rivolgersi a Dio come suo Padre ciò che è peculiare di Gesù da ciò che è sperimentato dalle prime generazioni cristiane? Quale il nesso di continuità e di discontinuità insieme che attraverso il Padre Nostro unisce e distingue le comunità dei discepoli, Gesù e il suo popolo? Senza un criterio affidabile non si può determinare quando un testo canonico finisce di essere fonte storica per divenire solo glossa teologica.

Analoga osservazione si può fare per un’interpretazione di Isaia presente nei vangeli e ritenuta da molti storici e teologi solo un teologumeno marginale ma che ovviamente per il primo cristianesimo tale non era: la verginità di Maria. Accettiamo pure che «il testo di Isaia anche nella traduzione dei Settanta non alluda affatto alla nascita verginale di Gesù, e vada interpretato in senso ebraico, non cristiano»; e conveniamo ancora con l’intervistato quanto sia «stupefacente che solo in ambito cristiano se ne dia una versione inesistente in tutta la tradizione che precede e che segue», al punto che «il significato cristiano può affiorare dal testo di Isaia solo se qualcuno, leggendolo, abbia già chiara la teoria della nascita verginale di Gesù» (pp. 93-95).

Se le cose stanno così, l’ardita ed esclusiva lettura cristiana del testo di Isaia ci pone davanti a qualcosa di unico che nel suo nucleo essenziale segnala già una considerevole devianza dal giudaismo del secondo Tempio. Questa novità, vista la doppia redazione di Matteo e Luca, potrebbe essere agganciata a distinte e originali tradizioni orali giudeocristiane; ma dal momento che l’intervento dello Spirito nella nascita di Gesù si distanzia sia dai concepimenti straordinari delle donne sterili dell’Antico Testamento, sia dai racconti di fecondazioni mitologiche del paganesimo, da dove è pervenuta ai primi seguaci? Non potendo venire dal contesto religioso giudaico, nemmeno da quello della diaspora, o dall’ambiente sociale mediterraneo, queste tradizioni preredazionali interpellano uno storico che deve spiegare come le comunità che hanno accolto e professato la fede nell’incarnazione, in tempi assai remoti, abbiano simultaneamente ideato e sviluppato il racconto simbolico, ossia reale e teologicamente significante, della verginità di Maria.

L’interpretazione cristiana segnala un cambiamento di prospettiva così consistente e radicale che rinvia necessariamente a una memoria originaria della fede protocristiana, molto prossima al Gesù storico. Non è legittimo chiedersi se si sia realizzato un evento capace di giustificare l’inaudito ed esuberante sviluppo successivo? Qualcosa di realmente nuovo, «un vero inizio che come tale non può essere fatto derivare da ciò che è accaduto prima ma che si dispiega a partire da se stesso», come scrive Romano Guardini, suscitando insieme alla fede in Gesù anche l’ossimoro della vergine-madre? L’intreccio di fede e storia è pervasivo e correlato e traversa i vangeli ponendo quesiti inevitabili a storici e credenti, ma soprattutto esigendo una metodologia aperta, capace di «lasciarsi istruire dal fenomeno», in grado di interpretare congiuntamente nell’unico tessuto narrativo i diversi percorsi della storia e della fede[57].

Storia e teologia Si è visto che l’identità storica di Gesù, del Gesù terreno, non ci è data da un’inchiesta storiografica univoca, a tratti pretenziosa, che non dichiara l’interesse previo che determina il suo sapere storico mai a sufficienza emancipato dai convincimenti personali dello storiografo. L’affollata galleria di ritratti della third Quest, da aggiungere a quelli collezionati in due secoli e mezzo di ricerca, ci ricorda che l’approccio storico non è mai stato in grado di spiegare come siano andate veramente le cose riguardo al Gesù della storia.

E questo per aver separato per via di ostinati pregiudizi illuministici quanto nelle fonti canoniche era dato nell’unità narrativa dell’ευαγγελιον, che non è una narrazione di nudi fatti ma un’esposizione ordinata di eventi con finalità artistica, etica, esplicativa, apologetica e profetica che nella loro complessità permettono il passaggio dalla storia precritica alla storia critica[58]. Nei vangeli storia e teologia, occupandosi dell’identico, formano un unico ordito narrativo-testimoniale di cui si deve tener conto nel processo interpretativo: l’opera di storici e teologi si presenta strettamente connessa e non può essere disgiunta al punto che la deficienza della ricerca storiografica non consente una maggiore libertà di manovra al teologo[59].

Perciò la convinzione di Mauro Pesce che «la ricerca storica rigorosa non allontani dalla fede, ma non spinga neppure verso di essa», motivandola con il ragionamento che «una cosa è cercare Gesù per ottenerne benefici di salvezza o, al contrario, per criticare e combattere la fede delle Chiese», mentre altra cosa è «tentare di conoscere storicamente ciò che Gesù ha in effetti detto, fatto, sperimentato e creduto» (p. 236), contiene una sua ovvia verità ma ci sorprende per la sua acerbità oltre che per la sua impraticabilità.

La fede dei credenti, è vero, è una risposta personale all’appello che Gesù rivolge a ogni uomo e senza dipendere dalla storiografia deve però misurarsi con la storia, non può sfuggirla. Il Dio che agisce in Gesù Cristo è lo stesso Dio che ha cominciato a operare nella storia del popolo di Israele e non in modo episodico ed eccezionale, ma secondo una «continuità discontinua» di cui storici e teologi, a diverso titolo, si devono far carico. Lo storico non può eludere o aggirare le interrogazioni teologiche dei testi di cui si serve come fonti, se vuole arrivare al Gesù della storia, così come la fede non può raggiungere il suo Signore saltando la mediazione dei primi testimoni su cui lo storico a buon diritto esercita le proprie conoscenze.

Fede e storia non sono vie parallele destinate a non incontrarsi mai, sono piuttosto polarità esplicative della verità ossimorica fondante che sola permette una pensabilità unitaria del reale: Gesù Cristo uomo e Dio. Ci chiediamo come è possibile che l’autore dell’introduzione alla Lettera a Cristina di Lorena non abbia avuto la ponderata avvertenza che non poche delle ricostruzioni ipotetiche esibite non sono affatto neutrali presentandosi gravide di conseguenze per la fede cristiana[60].

Proprio l’aver separato nelle fonti canoniche storia e fede è stato il pregiudizio fallimentare della Leben Jesu Forschung che aveva affidato alla sola strumentazione storico-critica ogni possibilità di effettiva conoscenza di Gesù. Era solo una presunzione storicista credere che l’identità di un uomo, la complessità di una vita, la verità di un evento potessero essere raggiunte da un impersonale approccio «scientifico».

Il non aver messo in discussione questo annoso e persistente mitema della «prima ricerca» ha prodotto quel minimalismo della new Quest giustamente criticato dall’ultima ricerca che però non ha corretto ma esasperato l’unidirezionalità dell’indagine storica. La third Quest, utilizzando le conoscenze delle scienze letterarie e gli approcci delle scienze sociali, ha saputo apportare nuove luci sulla cultura e la società del tempo di Gesù. Ha sviluppato una storia quantitativa, oggi poco praticata, che tenendosi lontano dai quesiti teologici ha finito con l’avvantaggiare la conoscenza del contesto a scapito della persona di Gesù.

Enfatizzando il ruolo degli storici, ha spostato il baricentro dei criteri di storicità verso la «plausibilità» di una piena dislocazione di Gesù all’interno del medio giudaismo, ha trascurato l’apporto teologico delle fonti neotestamentarie fino a svalutare i dati storici più solidi raggiunti dalla «seconda ricerca».

Allo storico che vuole raccontare il divenire degli uomini nel tempo e comprendere lo scarto degli avvenimenti che causano sospensione, cambiamento e novità può bastare il «criterio di plausibilità» che registra come autentiche solo quelle parole e quelle azioni di Gesù che risultano omologabili al contesto culturale e societario del suo tempo? Se tutta la storia di Gesù può essere rinchiusa dentro una più ampia e comprensiva vicenda giudaica e mediterranea, come spiegare lo strappo dirompente della nuova religione e il suo rapido sviluppo?

La vicenda di Gesù è sicuramente iscritta nel contesto vitale dell’Israele del suo tempo, ma si è visto che uno storico non può leggerla con le sole tipologie del giudaismo farisaico o essenico o apocalittico, o con le sole categorie politiche, economiche e morali della cultura mediterranea, annullando o sottostimando ogni forma di discontinuità religiosa e socioculturale solo perché include nel suo palinsesto una dichiarata fede cristologica[61].

Non si deve aspettare il secolo di Ireneo per prendere atto che il complesso documentario provocato dalla comparsa di Gesù, come affermava Ben Chorin, si presenta di fronte alla tradizione rabbinica con un’immagine già strutturata e inconfondibile[62]. La «storia degli effetti» non avrebbe nulla da dire a uno storico? Martin Hengel ha contestato la riduzione di Gesù al common Judaism di Sanders, ricordando che lo sviluppo delle primissime comunità, non trovando alcuna analogia nel giudaismo palestinese, è da ricondurre teologicamente ma anche storicamente alla persona e all’opera di Gesù[63].

Lo storico può contraddire le fonti canoniche che avanzano ragioni e testimonianze sul nesso di causalità storico-teologico stabilito dall’istanza narrativa tra le cose dette e fatte da Gesù e la sua morte, ma solo sulla base di nuove conoscenze e non per un congetturare ideologico mosso anche da nobili fini.

Per la stessa proprietà transitiva, la predicazione e la missione dei suoi discepoli, più che un’opera di «decristianizzazione», richiederebbero di essere interpretati come fenomeni, almeno in parte, provocati o riconducibili al «mondo personale» di Gesù. Come accordare gli autonomi risultati dell’indagine storica con le richieste veritative del sapere teologico?

Una criteriologia storica rispettosa di questa complessità deve recuperare qualcosa della doppia dissomiglianza di Käsemann, troppo in fretta liquidata come innaturale separazione del rabbi galileo dal suo ambiente. Il suo intento era storico e teologico insieme perché non si proponeva di ritrovare una continuità evolutiva tra il Gesù e il Cristo, ma di ritrovare in un nucleo storico affidabile ciò che aveva potuto condurre alla fede in lui. Come raggiungere questo risultato?

Ho indicato altrove nella duplice interpretazione schleiermacheriana la via per cogliere le differenze irriducibili. «Come ogni discorso possiede una relazione con la totalità della lingua e con l’insieme del pensiero del suo autore, così anche ogni comprendere comporta due momenti: comprendere il discorso come elemento emergente della lingua e comprenderlo come un fatto in chi pensa». La comprensione di un testo per Schleiermacher deve quindi far riferimento sia agli strumenti espressivi del codice linguistico di un determinato ambiente, al linguaggio esistente cui l’autore attinge (interpretazione «grammaticale»), sia alla sua collocazione nella pienezza della personalità dell’autore come tappa di un percorso intellettuale e morale in fieri (interpretazione «psicologica»).

Nel primo caso l’uomo è considerato come «un luogo in cui una data lingua assume una forma peculiare e il suo discorso va compreso solo a partire dalla totalità della lingua», mentre nel secondo ogni uomo è visto come «uno spirito in costante evoluzione e il suo discorso è solo uno dei fatti prodotti da questo spirito in connessione con tutti gli altri»[64].

Si può così distinguere in un testo ciò che è concepito attraverso la lingua da ciò che invece è prodotto dall’autore stesso ed «è governato da una legge e logica propria»[65]. Di fronte a un testo lo storico non può limitarsi a un’esegesi formale della lingua, deve anche comprendere l’individualità cui esso appartiene, cogliendo il dinamismo diveniente che permette di osservare in un documento scritto quanto di dissomigliante c’è tra il linguaggio a disposizione dell’autore e le varianti da lui introdotte per comunicare il suo specifico punto di vista.

La forma narrativa adottata, in una parola lo stile, può rivelare la traccia soggettiva di un autore quando non si limita ad accogliere il linguaggio ma lo fa proprio sospingendolo verso una soglia di comprensione nuova, lasciando nel testo una traccia linguistica che, segnalando la dissonanza culturale con l’ambiente di riferimento, permette per comparazione di riconoscere la sua specificità.

È possibile riconoscere quanto di discrepante linguisticamente e d’incompatibile culturalmente è stato arrecato da Gesù rispetto al linguaggio e ai comportamenti in uso da parte dei giudei del suo tempo, compreso ciò che da lui ha preso avvio e forma? Si dà con Gesù un’irruzione di novità inattesa, un radicalismo non omologabile alla sua Umwelt, un capovolgimento di orizzonte non riconducibile a tradizione alcuna, che inducono a pensare che il rabbi galileo abbia tratti originari senza eguali tra i suoi contemporanei?

Lo storico deve pur spiegare quelle audaci parole di contestazione e quei molteplici gesti di rottura compiuti da Gesù facendo leva sulla sua autonoma e provocatoria autorità (διδαχη καινη κατ’εξουσιαν: Mc 1,27) che tanta ostilità gli hanno procurato da parte di potenti e sapienti del suo popolo[66].

Allo stesso modo si dovrebbe lasciare interpellare dai detti εγω δε λεγω υμιν del discorso della montagna (Mt 5,22-44), dalle parole che cominciano con un risoluto Amen, dalle sconvolgenti affermazioni di Gesù sul sabato (Mc 2,27-28) o infine dalla stessa ricorrente espressione ο υιος του ανθροπου dei sinottici come «ossimoro cristologico che ci restituisce alla giudaicità singolare di Gesù»[67].

Uno storico può ignorare o sottostimare tutto questo perché ha la possibilità di ricomporre ogni divergenza in catene di senso da lui approntate, glissando sul materiale documentario insufficiente o per lui imbarazzante; ma se le interrogazioni del teologo o quelle dell’utile buon senso («come è potuto accadere tutto questo?»), rimangono inevase, anche la sua narrazione resta sospesa e la sua ricostruzione apparirà aleatoria e di parte.

Non si richiede a uno storico di appurare se si dà un ingresso di Dio nella storia, se c’è traccia di una sua presenza attiva nell’essere e nel divenire del mondo, anche se c’è un pensiero laico controcorrente che sostiene che senza la mediazione del divino l’universo sembra sprofondare verso l’indifferenziato dell’auto-referenziale, verso il cupo inorganico del postumano, della storia ormai solo naturale[68]. Suo compito è piuttosto quello di registrare se si danno esperienze del sacro, se il soprannaturale è realtà antropologica testimoniata da quanti affermano che la trascendenza è entrata nelle loro esistenze, modificando la loro condotta e risignificando il loro modo di pensare. Certo non spetta a chi scrive storia indurre alla fede o far credere a quanto da essi attestato, ma è altrettanto estraneo al mestiere dello storico attardarsi a svilire le testimonianze del Risorto, riportando fatue interpretazioni su presunti «stati alterati di coscienza» (p. 182).

È nella natura dell’indagine storiografica compiere una legittima, doverosa e continua messa in questione delle interpretazioni del passato, ma se la sua rielaborazione è a sostegno di posizioni di fatto egemoni nelle istituzioni accademiche e nel mondo del potere editoriale si definisce solo come sospetta opera di revisionismo.

Oggi, e l’esito sonante del mercato lo ricorda, il modello di Gesù emergente non è quello confessante delle Chiese, ma quello esoterico di un’immagine «eterodossa e gnosticizzante» del rabbi galileo che dal mondo marginale delle sètte è divenuto paradigma dominante nel mondo universitario[69]. Un racconto storico delle origini cristiane sarà allora tanto più attendibile quanto meno cercherà di essere conclusivo e perfettamente esplicativo dell’insieme documentario.

Spingere a forza parole, fatti, persone e culture verso griglie ermeneutiche razionalizzanti non è impresa che aiuta a comprendere l’unico e il molteplice, non avvicina all’enigma della vita, perché «i metodi falliscono là dove i contenuti sono sostanzialmente storici»[70].

Anche Mauro Pesce esprime qualcosa di simile quando dice: «non bisogna cercare a tutti i costi una logica in ogni aspetto di un racconto religioso» (p. 118). Chi scrive storia sa che magna est veritas et praevalebit anche se il vero sembra una «meta asintotica», un traguardo che si allontana all’infinito. Una sana autoironia permetterà però allo storico di conservare alla memoria Jesu qualcosa di quell’incontenibile stupore originario dei vangeli dove, con lievità e timore, affiora l’impensato, si allude al non detto, si accenna al mistero.


Note

[1] L’espressione, cara a B. CROCE, è riportata nel suo La storia come pensiero e come azione, Bari 1966, 34.

[2] C. AUGIAS – M. PESCE, Inchiesta su Gesù. Chi era l’uomo che ha cambiato il mondo, Milano 2006.

[3] È la critica fatta da Jürgen Habermas alla concezione consumistica della storia; se lo storico esce dai suoi luoghi propri per incontrare il gradimento degli spettatori, il suo metodo da rigoroso e misurato diventa piacevole ed estroverso, prescindendo dai contenuti e dalle regole del proprio statuto disciplinare si espone ai condizionamenti delle mode: J. HABERMAS, «L’uso pubblico della storia», in G.E. RUSCONI (ed.), Germania, un passato che non passa, Torino 1987, 98-109.

[4] La notazione è di G. DE LUNA, La passione e la ragione, Milano 2004, 1.

[5] Vedi P. ORTOLEVA, «Storia e mass media», in N. GALLERANO (ed.), L’uso pubblico della storia, Milano 1995, 63-82.

[6] M. LEGNANI, Al mercato della storia: il mestiere di storico tra scienza e consumo, Roma 2000 e S. VITALI, Il passato digitale, Milano 2004.

[7] Vedi la più matura posizione di N. Gallerano che correggendo Habermas ha sottolineato gli aspetti positivi che l’uso pubblico della storia può svolgere nella società: GALLERANO, Le verità nella storia. Scritti sull’uso pubblico del passato, Roma 1999.

[8] M.I. FINLEY, Uso e abuso della storia. Il significato, lo studio e la comprensione del passato, Torino 1981, 25.

[9] L’analisi di questo processo in O. DUMOULIN, Le rôle social de l’historien. De la chaire au prétoire, Paris 2003, 343.

[10] Sono tutti quei passi che hanno indotto i recensori a confondersi tra quanto asserito da Augias e non smentito o ripreso da Pesce: vedi ad esempio la «condanna all’oblio» dei testi apocrifi (p. 10), ripresa dall’intervistato (p. 21); a sua volta il giudizio di esclusione del Vangelo di Tommaso perché «troppo giudaico» è contraddetto per accreditare un’interpretazione polemica della verginità in partu di Maria, peraltro assente nel testo lucano (pp. 101-104). O ancora l’inaffidabilità storica dell’Apocalisse giudicata da Augias un’«escatologia allucinata» (p. 39), libro implicitamente utilizzato da Pesce per ricostruire storicamente la natura e il carattere del regno di Dio atteso da Gesù che avrebbe visto «un periodo intermedio in cui il messia regnerà e la terra sarà rinnovata: una specie di sogno utopico in cui le forze della natura diventeranno benefiche, ogni contrasto avrà fine» (p. 220).

[11] Per questa fine osservazione rimando a M. NARO, «La frammentazione come travaglio epistemologico della teologia nel Novecento», in Ho Theológos 20(2002), 163-184.

[12] Affermazione solo in parte condivisibile. Con tutti i limiti e i ritardi riconosciuti alle istituzioni accademiche ecclesiali del nostro paese, come si può dire che le migliaia di studenti passati negli ultimi trent’anni dagli studi teologici o dagli ISSR (vedi il giudizio a p. 23) non sono stati messi in grado di avere accesso a un’informazione aggiornata sulla ricerca storiografica sull’uomo Gesù? Se non si conoscesse la puntuale informazione prodotta sulla third Quest con certosina fatica da un veterano come Giuseppe Segalla o l’opera di sintesi e di assimilazione compiuta da un enciclopedico come Romano Penna, basterebbe soltanto vedere quante opere sono state tradotte sull’argomento dalle case editrici non solo cristiane, per non parlare dei corsi d’informazione e specialistici tenuti in alcune Facoltà Pontificie dove sono stati adottati i testi di Destro e Pesce.

[13] Pesce si è fatto intervistare da Augias perché lo riteneva uno di quegli «uomini di vasta cultura, capaci di mettere in collegamento i risultati dell’indagine scientifica con i bisogni che si manifestano in una società complessa come la nostra» (p. 236). Nel c. X un saggio di questa vasta cultura, aperta a una società complessa?

[14] Così W. STEGEMANN, «Premessa», in W. STEGEMANN – B.J. MALINA – G. THEISSEN (edd.), Il nuovo Gesù storico, Brescia 2006, 10; analogo giudizio negativo in J.P. MEIER, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, Brescia 2002, 126.

[15] Sul ruolo strategico della novità nei media cf. G. DE LUNA, «La storia sempre “nuova” dei quotidiani e la costruzione del senso comune», in Passato e presente 16(1998), 5-14.

[16] «Quanto più aumenta la consapevolezza storica, tanto più si rinvigoriscono il pensiero critico e la vita democratica di un paese» (p. 237).

[17] Come lamenta lo stesso Pesce: «nel libro “Forme culturali del cristianesimo nascente” che ho scritto con Adriana Destro presso un’editrice cattolica (Morcelliana, 2006) si trovano approfondimenti scientifici su tanti altri temi e nessuno ci ha condannato»: M. PESCE, Risposta a Rodolfo Doni, in La Nazione del 2 febbraio 2007.

[18] Come riconosce lo stesso intervistato che ha scelto di «rispondere in modo assertivo alle domande di Augias» piuttosto che «presentare un ventaglio di ipotesi plausibili» (p. 236).

[19] Gesù è solo un «discoureur friand d’aphorismes sapientiaux et de devinettes, dont la morale universelle se distille au travers d’une rhétorique où dominent exagération, humour et paradoxe»: D. MARGUERAT, «La ‘troisième quête’ du Jésus de l’histoire», in RSR 87(1999), 402.

[20] D. BONHOEFFER, Gli scritti (1928-1944), Brescia 1979, 381.

[21] «Lasciano questo compito ai filosofi, salvo poi a disdegnarne gli sforzi, considerati o sintomo d’ignoranza ovvero non pertinenti o l’una cosa e l’altra»: M.I. FINLEY, Problemi e metodi di storia antica, Roma-Bari 1998, 6.

[22] J.B. LONERGAN, Il metodo in teologia, Brescia 1975, 213.

[23] C.G. HEMPEL, «The function of general laws in history», in JPh 34(1942), 35-42; ID., Come lavora uno storico, Roma 1977.

[24] La tradizione storiografica italiana è ricca di riflessione teorica: da Vico a Croce, da Salvemini a Chabod, da Gramsci a Momigliano, per non citare le ultime due generazioni di storici italiani attenti ai problemi di fondazione teorica del mestiere di storico. Per avere una conoscenza essenziale della tradizione storiografica italiana dentro cui ci muoviamo si veda R. ROMANO, La storiografia italiana oggi, Roma 1978.

[25] Come non ricordare l’ironia di C. LÉVI-STRAUSS (Il pensiero selvaggio, Milano 1979), che negava alla conoscenza storica un’autonoma consistenza? Per lui i cosiddetti fatti storici erano solo invenzione, racconti e come tali mai veramente accaduti: «la rivoluzione francese, così come se ne parla, non è mai esistita» (p. 279). Per lo strutturalismo alla conoscenza storica non corrisponde alcun oggetto specifico: è solo un metodo che cerca di equiparare al flusso di percezione della coscienza dell’individuo un’analoga e inverificabile continuità dei processi storici (ibid., pp. 269-272).

[26] Si tratta di un insieme di correnti intellettuali nordamericane frutto di un fecondo e corrosivo incrocio tra strutturalismo francese, filosofia analitica e pragmatismo anglosassone: G. ELEY, «De l’histoire sociale au “tournant linguistique” dans l’historiographie anglo-américaine des années 1980», in Genèses 7(1992), 163-193.

[27] A partire già dagli anni ’50 era iniziata quella progressiva «dissoluzione dell’oggetto» che spingeva lo storico a diffidare della propria oggettività. Per la storiografia americana di quegli anni vedi C. BEARD, «Written History as an Act of Faith», in H. MEYERHOFF (ed.), The Philosophy of History, New York 1959, 141.

[28] «Toute histoire est choix»: così L. FEBVRE, Problemi di metodo storico, Torino 1992, 73.

[29] H.-I.MARROU, Tristezza dello storico. Possibilità e limiti della storiografia, Brescia 1999, 41.

[30] K.R. POPPER, Logica della scoperta scientifica, Torino 1970, 44.

[31] M. BLOCH, Apologia della storia o mestiere di storico, Torino 1998, 69-70.

[32] Così H.-I. MARROU, La conoscenza storica, Bologna 1997, 58; la citazione in Tristezza dello storico, 36.

[33] G. MURA, Ermeneutica e verità. Storia e problemi della filosofia dell’interpretazione, Roma 21997, 272-278.

[34] E. BETTI, L’ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito, Roma 1987.

[35] BLOCH, Apologia della storia, 54.

[36] J.-G., DROYSEN, Istorica. Lezioni di enciclopedia e metodologia della storia, Napoli 1994, 279.

[37] M. BLOCH, Storici e storia, Torino 1997, 109.

[38] M. MANDELBAUM, The problem of historical knowledge. An answer to relativism, New York-London 1967, 19-20.

[39] M. WEBER, Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino 1958, 112.

[40] P. VEYNE, Come si scrive la storia. Saggio di epistemologia, Roma-Bari 1973, 163.

[41] MARROU, Tristezza dello storico, 55 e 57.

[42] E. CASTELLI GATTINARA, Strane alleanze. Storici, filosofi e scienziati a confronto nel Novecento, Milano 2003.

[43] Per le forme di revisionismo tendenzioso spinto fino al negazionismo che irride la veridicità dei fatti più luttuosi del secolo breve, vedi E. COLLOTTI (ed.), Fascismo e antifascismo. Rimozioni, revisioni, negazioni, Roma-Bari 2000.

[44] BLOCH, Apologia della storia, le citazioni rispettivamente alle pp. 87 e 123.

[45] Un riferimento analogo anche nell’introduzione di Augias, pp. 8-10.

[46] FINLEY, Problemi e metodi di storia antica, 82.

[47] BLOCH, Apologia della storia, 104.

[48] G.W.F. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze 1981, 91.

[49] F.HARTOG, Régimes d’historicité. Présentisme et expérience du temps, Paris 2003, 126.

[50] S. KRACAUER, History. The Last Things Before the Last, New York 1969, 157.

[51] A. SCHAFF, Storia e verità, Roma 1977, 229-230.

[52] MARROU, La conoscenza storica, 245.

[53] In una situazione come questa VEYNE, Come si scrive la storia, 68, ricorda che «gli storici raccontano intrecci, i quali sono come altrettanti itinerari da essi tracciati, a loro gusto, attraverso il campo degli avvenimenti […] ma nessuno di tali itinerari è l’unico vero, nessuno coincide con la Storia».

[54] C. PERROT, Gesù, Cristo e Signore dei primi cristiani. Una cristologia esegetica, Roma 2000, 32.

[55] W.B. GALLIE, Philosophy and the Historical Understanding, New York 1964, 23.

[56] Sulla tradizione orale del Padre Nostro pervenuta ai sinottici, cf. J.D.G. DUNN, Gli albori del cristianesimo. 1: La memoria di Gesù. I: Fede e Gesù storico, Brescia 2006, 241-244.

[57] J. RATZINGER, «L’interpretazione biblica in conflitto. Problemi del fondamento ed orientamento dell’esegesi contemporanea», in AA. VV., L’esegesi cristiana oggi, Casale Monferrato 1991, 116, dove cita appunto R. GUARDINI, Das Christusbild der paulinischen und johanneischen Schriften, Würzburg 1961, 11.

[58] LONERGAN, Il metodo in teologia, 200-211, aveva già capito la funzione centrale della narrazione. Oggi riprendendo Ricoeur si parla della narrazione come interfaccia tra identità storica e identità dogmatica, cf. A. GESCHÉ, «Pour une identité narrative de Jésus», in RTL 30(1999), 153-179 e 336-356.

[59] Sulla funzione basilare del «racconto di Gesù», distinto dall’annuncio e tuttavia a esso indispensabile, vedi G. ANGELINI, «Il racconto-base di Gesù esigenza superata? La funzione regolativa della narrazione elementare dell’evento, in vista dell’appello alla fede nella contemporaneità», in AA.VV., Fede, ragione, narrazione. La figura di Gesù e laforma del racconto,Milano 2006, 15-45; per le implicazioni sistematiche dell’unico evento di Gesù attestato da una molteplicità di racconti, vedi F.G. BRAMBILLA, «I molti racconti e l’unico Gesù. La memoria Jesu principio di unità e diversità delle narrazioni evangeliche», ibid., 47-93.

[60] M. PESCE, «La “Lettera a Cristina”: una proposta per definire ambiti autonomi di sapere e nuovi assetti di potere intellettuale nei paesi cattolici», in G. GALILEI, Lettera a Cristina di Lorena, Genova 2000, 58-62.

[61] Di segno opposto alla tendenza giudaizzante il giudizio di un teologo A. GESCHÉ, Dio per ripensare. Il Cristo, Cinisello Balsamo (MI) 2003, 71 che afferma: «oggi tutti concordano nel dire che, se Gesù appartiene autenticamente al mondo giudaico della sua epoca, nello stesso tempo fu anche diverso, e che questa sua diversità appartiene sicuramente alla sua figura storica e non già a una qualche costruzione della leggenda o dei credenti».

[62] S. BEN CHORIN, Fratello Gesù. Un punto di vista ebraico sul Nazareno, Brescia 1985, 116.

[63] Per il netto emergere del cristianesimo come religione autonoma cf. M. HENGEL – R. DEINES, «E.P. Sanders’ “Common Judaism”, Jesus, and the Pharisees», in JTS 46(1995), 1-70. Ingenerosa la critica mossagli da E.W. STEGEMANN, «Gesù nel giudaismo del suo tempo», in STEGEMANN – MALINA – THEISSEN (edd.), Il nuovo Gesù storico, 313, di avere «un’idea di causalità piuttosto semplice e prescientifica», vista l’irrilevante correzione da lui apportata all’impostazione di Hengel. Per Schleiermacher oggettivamente storico «significa riconoscere come si rapporta il discorso alla totalità della lingua e come si rapporta il sapere contenuto in esso in quanto prodotto della lingua», mentre oggettivamente profetico «significa presentire come il discorso stesso diventerà un punto di sviluppo per la lingua» (p. 329).

[64] F.D.E. SCHLEIERMACHER, Ermeneutica, Milano 1996, le citazioni a pp. 301 e 303.

[65] E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, Milano 1955, II, 651.

[66] Mi limito a citare l’introduzione metodologica di R.E. BROWN, La morte del Messia. Un commentario ai Racconti della Passione nei quattro vangeli, Brescia 1999, 31-56.

[67] R. VIGNOLO, “Il Figlio dell’uomo” – ovvero il chiaroscuro della “figura” preferita da Gesù», in AA. VV., Fede, ragione, narrazione, 215-254.

[68] Su questi temi avvincenti segnalo soltanto l’innovativa visione di M. ZAMBRANO, Verso un sapere dell’anima, Milano 1996; EAD., L’umano e il divino, Roma 2001; e inoltre, R. MARCHESINI, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Torino 2002; P.BARCELLONA, Il suicidio dell’Europa. Dalla coscienza infelice all’edonismo cognitivo, Bari 2005; J. KRISTEVA, Il bisogno di credere, Roma 2006.

[69] ANGELINI, «Il racconto-base di Gesù», 18 nota 4 che riporta il giudizio documentato di P. Jenkins.

[70] BROWN, La morte del Messia, 35; vedi anche PERROT, Gesù, Cristo e Signore, 51


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