Vecchiaia, un’età nella quale la gratitudine può essere la parola che riassume tutte le altre. L’omelia del cardinal Giacomo Biffi nel giorno del suo ottantesimo compleanno

Riprendiamo da Avvenire l’omelia tenuta alla Madonna di San Luca (Bologna) il 13 giugno 2008 da S. Em. il cardinal Giacomo Biffi, arcivescovo emerito di Bologna, apparsa sul quotidiano cattolico con il titolo «La casualità? È il travestimento di Dio». I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (4/9/2008)


È la prima volta che mi càpita di prendere la parola in una circostanza come questa, e trovo qualche difficoltà. Forse la cosa più semplice è che tenti di esprimere con semplicità i sentimenti che oggi sono più vivi nel mio animo.

Penso di poter contare sulla comprensione dei miei ascoltatori e sull’atteggiamento misericordioso di quanti hanno voluto amichevolmente essermi accanto per questa celebrazione, tanto più che siamo nella casa della Madonna di San Luca, dove la nostra madre carissima ci mette tutti a nostro agio come sempre. Il primo sentimento che avverto è la sorpresa. Mi pare sia stato Trotzkj a dire che niente arriva più inaspettato della vecchiaia.

È proprio vero: anche da giovani si sa che al mondo ci sono i vecchi; ma a quell’età si guarda ai vecchi come a una popolazione lontana e inconfrontabile, press’a poco come quando si pensa agli eschimesi o ai watussi. Nessuno si rende davvero conto che si diventerà come loro e si entrerà nel loro numero.

Naturalmente a poco a poco ci si persuade; e allora subentra un secondo stato d’animo, tutto signoreggiato dai ricordi. Non avendo più davanti a noi un avvenire prevedibile da colmare mentalmente con le nostre attese e i nostri progetti, si è sospinti a guardare indietro, a ripercorrere il tempo andato, e si comincia ad abbandonarsi alle rievocazioni. Passano e ripassano davanti alla nostra memoria tutti gli anni che si sono succeduti. E qui si fa un’altra scoperta: la catena degli avvenimenti, dai quali siamo stati condizionati e plasmati, appare ai nostri occhi determinata quasi interamente dalla casualità.

Troppe combinazioni, troppe esperienze fatte, troppi incontri che hanno colmato la mia vicenda mi si rivelano oggi in tutta la loro occasionalità. Se fossi nato altrove, o anche solo in un altro angolo della mia città; se mi fossi imbattuto in frequentazioni differenti; se avessi avuto altri insegnamenti e altri esempi di vita; se fossi stato coinvolto in altri accadimenti, è indubbio che non avrei pensato, giudicato, agito come poi mi è avvenuto di agire, di giudicare, di pensare; e adesso sarei diverso da quello che sono.

È un pensiero che per un momento m’inquieta. Ma solo per un momento, perché è sùbito vinto e superato dalla verità di un Dio che – se esiste, come esiste – non può che essere il Signore dell’universo, della storia e dei cuori, cui niente sfugge di mano: tutto obbedisce al suo disegno di salvezza e di amore. Alla luce di questa persuasione ogni pagina di qualsivoglia biografia riceve un’altra lettura, anche della mia (come è ovvio). Tutto ciò che sulle prime mi era sembrato contingente e fortuito mi si manifesta perciò come frutto di un progetto mirato: un progetto eccedente ogni mia immaginazione e del tutto gratuito, liberamente formulato da colui che è l’Eterno.

Il caso, come si vede, non esiste. Ma allora – mi domando – come mai il Signore consente che gli occhi dell’uomo, quando non sono superiormente illuminati, lo vedano così dominante e quasi onnipresente nella creazione di Dio? C’è, credo, una risposta plausibile: la casualità è soltanto il travestimento assunto da un Dio che vuol passeggiare in incognito per le strade del mondo; un Dio che si studia di non abbagliarci con la sua onnipotenza e col suo splendore.

Quando si arriva qui, ogni pensiero e ogni esame lasciano il posto alla contemplazione stupita dell’incredibile e arcana benevolenza del «Padre della luce», dal quale «discende ogni buon regalo e ogni dono perfetto» (cfr. Gc 1,17). Ogni sentimento è allora naturalmente trasceso e più radicalmente inverato in quello onnicomprensivo ed esauriente della riconoscenza.

Questa di stasera è per me davvero una «eucaristia », nel significato più intenso del termine, che tocca e fa vibrare il mio essere in tutte le sue fibre. Oggi, «grazie» diventa per me la parola che riassume tutte le altre; la parola cui (se è compresa bene) non c’è più niente da aggiungere. E sono lieto di poterla pronunciare ed elevare al cielo in questo santuario, così caro al nostro popolo bolognese che qui da secoli viene ad aprire il suo cuore, a chiedere, a implorare e alla fine a ringraziare, appunto. Certo il mio canto di gratitudine e di lode è difettoso e inadeguato.

Ma siete venuti in molti ad aiutare il mio povero «grazie». Il Signore vi benedica: voi, miei fratelli nell’episcopato che anche in quest’ora non mi avete lasciato solo, voi presbiteri che per tanti anni avete generosamente collaborato con me, voi carissimi diaconi, voi tutti che oggi m’incoraggiate con la vostra presenza e il vostro affetto. Il Signore vi benedica tutti e vi ricompensi come sa fare lui.

Possiamo raccogliere un ultimo conforto dai versetti del quarto vangelo che abbiamo ascoltato. Gesù morente sulla croce dice prima: «Ecco il tuo figlio», e poi: «Ecco la tua madre» (cfr. Gv 19,26- 27). E la cosa mi ha sempre colpito. Prima di preoccuparsi di affidare Maria (che resta sola) a Giovanni, si preoccupa di affidare Giovanni (che non resta solo) a Maria. Il suo primo pensiero non è per la madre sua, è per l’apostolo; e non tanto per la persona di Giovanni, che ha già una madre; una madre che è anzi lì anche lei tra le donne che sono sotto la croce (cfr. Mt 27,56), quanto per l’umanità che egli rappresenta e più specificamente per tutti coloro che, come lui, saranno nei secoli rivestiti del carisma apostolico.

Il Figlio di Dio, Redentore e Signore di tutti, ce lo ha garantito: il sacerdozio ministeriale è posto sotto la singolare protezione materna della Regina del cielo e della terra. Per questo a noi non possono mancare mai, fino all’ultimo giorno, la serenità e la speranza. A questo proposito devo dire che, arrivato a questa età, ho imparato a dire meglio, con più senso, l’ultima parte dell’Ave Maria (superando la mia anteriore superficialità e spensieratezza): «Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen».


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