Itinerario di lectio divina su san Paolo e le sue lettere.
Sussidio preparato dalla diocesi di Roma per l’anno paolino

Riprendiamo dal sito della diocesi di Roma, www.vicariatusurbis.org il Sussidio preparato dalla diocesi di Roma per un itinerario di lectio divina su san Paolo e le sue lettere.

Il Centro culturale Gli scritti (15/12/2008)


Indice


COME UTILIZZARE IL SUSSIDIO

Questo sussidio vuole essere uno strumento per approfondire e meditare in questo Anno paolino la figura dell’apostolo, attraverso la lettura di brani scelti tratti dagli Atti e dalle lettere.
L’itinerario proposto presenta i grandi temi che emergono nella vita di Paolo nel suo rapporto con le comunità cristiane da lui fondate.
Ogni tema è scandito in tre parti: una breve riflessione per la preparazione remota dell’incontro, poi i due brani biblici proposti per la lectio ed infine uno o più testi di autori cristiani per la lettura e l’approfondimento personale.
La presentazione di due testi paolini per ogni tema permette di utilizzare questo sussidio per un itinerario di 14 o di 28 incontri, a seconda delle esigenze.
La lectio divina può essere proposta in un contesto di celebrazione, di catechesi, come pure per la preghiera e la meditazione personale.
Per una Liturgia della Parola comunitaria si può adottare lo schema che è nella seconda parte del sussidio.
Alcune indicazioni per la lectio divina personale sono fornite al termine di questo libretto.

I brani citati nella sezione “Per la lettura e la riflessione personale” sono di proprietà dei rispettivi editori. In particolare, il Copyright dei testi del Santo Padre Benedetto XVI - Joseph Ratzinger è della Libreria Editrice Vaticana.

I PARTE

1. LA CONVERSIONE DI PAOLO

Per la preparazione dell’incontro

L’evento decisivo della vita di Paolo è raccontato tre volte negli Atti degli apostoli. La rivelazione che Paolo ebbe del Signore risorto è descritta una prima volta in At 9, 1-18. In At 22, 1-21 e 26, 2-23 è l’apostolo stesso a raccontare di quell’incontro prima dinanzi ai giudei di Gerusalemme, poi al re Agrippa. Anche le lettere vi fanno riferimento in diversi passaggi, tanto quell’evento fu determinante (1 Cor 9,1; 1 Cor 15,8; 2 Cor 4,6; Gal 1,11-16; Fil 3,7-14; Ef 3,1-12; 1 Tim 1,11b-17). Se Paolo fu per nascita ebreo e romano, formato nella tradizione ebraica e nella cultura greca, ciò che lo segnò in maniera radicale fu il suo diventare cristiano. Dinanzi al Cristo tutto fu conservato della sua ebraicità e della sua grecità, ma tutto assunse un significato nuovo. Nella cecità dinanzi alla luce del Cristo sulla via di Damasco Paolo divenne consapevole di non aver potuto vedere fino a quel momento la vera realtà delle cose. La caduta da cavallo che l’iconografia aggiunge all’episodio è straordinaria espressione simbolica del rovesciamento totale di tutto ciò che Paolo aveva fin lì amato e compreso.
Il tornare a vedere avvenne per opera della chiesa, tramite la persona di Anania, inviato a battezzarlo. Anche Paolo fu rigenerato dal sacramento, dall’illuminazione battesimale, e subito si ritrovò con i fratelli a proclamare Gesù Figlio di Dio.

1. 1 LA CONVERSIONE DI PAOLO

Ascoltiamo la Parola di Dio dagli Atti degli Apostoli (At 22,1-11)

In quel tempo, Paolo disse: «Fratelli e padri, ascoltate la mia difesa davanti a voi». Quando sentirono che parlava loro in lingua ebraica, fecero silenzio ancora di più. Ed egli continuò: «Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi. Io perseguitai a morte questa nuova dottrina, arrestando e gettando in prigione uomini e donne, come può darmi testimonianza il sommo sacerdote e tutto il collegio degli anziani. Da loro ricevetti lettere per i nostri fratelli di Damasco e partii per condurre anche quelli di là come prigionieri a Gerusalemme, per essere puniti.
Mentre ero in viaggio e mi avvicinavo a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso una gran luce dal cielo rifulse attorno a me; caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Risposi: Chi sei, o Signore? Mi disse: Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti. Quelli che erano con me videro la luce, ma non udirono colui che mi parlava. Io dissi allora: Che devo fare, Signore? E il Signore mi disse: Alzati e prosegui verso Damasco; là sarai informato di tutto ciò che è stabilito che tu faccia. E poiché non ci vedevo più, a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni, giunsi a Damasco».

Per la lettura e la riflessione personale

Dalla lettera dei vescovi cattolici della Turchia Paolo, testimone ed apostolo dell’identità cristiana del 25 gennaio 2008
Chi era questo «giudeo di Tarso di Cilicia» (At 21,39) che oggi ricordiamo come il grande «apostolo dei gentili»? Nacque a Tarso, presumibilmente tra il 7 e il 10 d.C., e nella città natale trascorse l’infanzia.
Per proseguire la sua formazione fu inviato a Gerusalemme, alla scuola di Gamaliele che lo educò «secondo le più rigide norme della legge paterna» (At 22,3). Questa sua adesione alla legge ed alla tradizione ebraica lo oppose ben presto al primo gruppo cristiano che prese a perseguitare (Gal 1,13-14).
L’evangelista Luca ci racconta che era tra i più zelanti nel ricercare i cristiani provenienti dal giudaismo per metterli in carcere (At 9,1-3). Ancora da Luca apprendiamo che Paolo fu tra coloro che approvarono l’uccisione di Stefano (At 8,1). Tale era il suo odio per la prima comunità dei discepoli di Gesù!
Eppure, nei pressi di Damasco, un evento mutò radicalmente questo nemico dei cristiani in un amante appassionato di Cristo e della sua Chiesa. Cristo irrompe fulmineamente nella vita di questo fanatico zelante della Legge e lo trasforma in apostolo del Vangelo. L’onestà e la totale dedizione con la quale Paolo osservava la Legge sino a perseguitare i cristiani, ora è messa in questione dall’incontro con Cristo che lo acceca per ridargli una nuova visione della realtà. Come scrisse Giovanni Crisostomo: «poiché vedeva male, Dio lo rese cieco a fin di bene... eppure non furono le tenebre ad accecarlo, ma fu un eccesso di luce che l’accecò» (Panegirico IV su Paolo, 2) A Damasco Paolo avvertì che la scrupolosa osservanza della Legge non basta a salvare. La Legge senza amore è come un corpo morto, tanto più se in nome di questa Legge, si arriva a perseguitare e uccidere chi non la osserva.
Questo episodio ci fa capire che è l’incontro con Cristo a salvare e non la sola scrupolosa osservanza dei comandamenti. Dinanzi ad una tendenza legalistica sempre presente che trasforma Dio in un idolo e il rapporto con Lui in un contratto senza adesione del cuore, Paolo con la sua esperienza di Damasco ci ripete ancor oggi: l’autore della tua salvezza è Cristo. È Lui «il compimento della legge» (Rom 10,4). Pensare di costruirsi con le sole forze umane una propria santità è un fallimento.
Dopo Damasco la vita di Paolo segna un totale cambio di rotta. Battezzato ed istruito nella fede cristiana a Damasco dal cristiano Anania (At 9,10ss) egli si mise a predicare quanto aveva «visto ed udito» (At 22,15). È dunque l’esperienza del Cristo risorto che lo rende testimone, proprio come aveva reso testimoni gli apostoli («venite e vedete») e l’incredulo Tommaso («guarda le mie mani, metti la tua mano nel mio costato...» (Gv 20,27).

1. 2 PAOLO È ACCOLTO NELLA CHIESA

Ascoltiamo la Parola di Dio dagli Atti degli Apostoli (At 22,12-21)

In quel tempo Paolo disse: «Un certo Anania, un devoto osservante della legge e in buona reputazione presso tutti i Giudei residenti [a Damasco], venne da me, mi si accostò e disse: Saulo, fratello, torna a vedere! E in quell’istante io guardai verso di lui e riebbi la vista. Egli soggiunse: Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua stessa bocca, perché gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito. E ora perché aspetti? Alzati, ricevi il battesimo e lavati dai tuoi peccati, invocando il suo nome.
Dopo il mio ritorno a Gerusalemme, mentre pregavo nel tempio, fui rapito in estasi e vidi Lui che mi diceva: Affrettati ed esci presto da Gerusalemme, perché non accetteranno la tua testimonianza su di me. E io dissi: Signore, essi sanno che facevo imprigionare e percuotere nella sinagoga quelli che credevano in te; quando si versava il sangue di Stefano, tuo testimone, anch’io ero presente e approvavo e custodivo i vestiti di quelli che lo uccidevano. Allora mi disse: Và, perché io ti manderò lontano, tra i pagani».

Per la lettura e la riflessione personale

Dalla lettera dei vescovi cattolici della Turchia Paolo, testimone ed apostolo dell’identità cristiana del 25 gennaio 2008
Paolo ci richiama all’elemento fondativo di questa nostra identità cristiana che non riguarda la fede in Dio, comune con i fratelli musulmani e con tanti altri uomini, ma la fede in Cristo come «Signore» (1 Cor12,3), colui che «Dio ha risuscitato dai morti» (Rom 10,9). Nelle Lettera ai Colossesi l’apostolo scrive addirittura che «in Cristo (...) abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (2,9). L’espressione è inequivocabile e ci ricorda che non possiamo incontrare Dio se non attraverso Cristo. Egli è la porta e il ponte tra il Padre e noi. «Uno solo - leggiamo nella prima Lettera a Timoteo (2,5) - è il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo che ha dato se stesso in riscatto per tutti».
Paolo ha avvertito tutta la difficoltà di annunciare Cristo, Dio-uomo, che ci salva attraverso la sua incarnazione e la sua morte in croce. Questa è ancora oggi la vera porta stretta di cui parla il vangelo.
La porta stretta non sono, dunque, l’accettazione dei precetti morali della Chiesa e neppure la pesantezza umana delle sue strutture, ma quello scandalo della croce che ai non cristiani appare ancor oggi «follia e stoltezza», ma che Paolo annuncia come componente essenziale ed ineliminabile della fede cristiana e anzi espressione della potenza di Dio (1 Cor1,18).
Questa accondiscendenza di Dio, che in Cristo si rende presente tra di noi fino a morire in croce, va interpretata come manifestazione di quella carità che costituisce l’essenza di Dio ineffabile, la cui trascendenza non va misurata soltanto con il metro dell’essere, come ha fatto la filosofia, ma con quello dell’amore. Non dimentichiamo forse che all’onnipotenza dell’essere corrisponde un’onnipotenza nell’amore? L’amore non è un attributo di Dio, ma è la sua essenza.
Quello che Paolo, pertanto, ci ricorda è che non dobbiamo porre limiti «umani» a questo amore per noi. Questo è il paradosso della fede cristiana confermato dall’incarnazione e morte di Cristo.
Eppure l’apostolo che con l’esempio e la parola ci rafforza nell’identità cristiana, è anche l’uomo del dialogo. Abituato ad incontrare uomini di etnie e tradizioni religiose diverse, Paolo ha compreso che lo Spirito di Cristo non è soltanto presente nella Chiesa, ma la precede ed agisce anche fuori di essa. Come ebbe ad affermare ad Atene: «Dio ha creato tutto... perché gli uomini lo cerchino e si sforzino di trovarlo, anche a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi» (At 17,26-28). [...]
Se in questo incontro con il mondo non cristiano l’apostolo ci è maestro, nei rapporti tra comunità cristiane differenti egli è maestro e fondamento di unità. Come ricordava Benedetto XVI, indicendo l’anno paolino, «l’Apostolo delle genti, particolarmente impegnato a portare la Buona Novella a tutti i popoli, si è totalmente prodigato per l’unità e la concordia di tutti i cristiani».
Ancora oggi egli invita tutti noi a puntare lo sguardo su Cristo, superando non soltanto eventuali resistenze, ma anche il disinteresse per chi non appartiene alla «nostra» Chiesa. L’apostolo che sperimentò la difficoltà dell’annuncio del Vangelo, anche da parte dei fratelli di fede, ci ricorda come quello che conta è che Cristo «venga annunciato» (Fil 1,8), ma ci richiama pure alla nostra comune responsabilità nei confronti di quanti non sono cristiani.
Prima di essere cattolici, ortodossi, siriani, armeni, caldei, protestanti, siamo cristiani. Su questa base si fonda il nostro dovere di essere testimoni. Non lasciamo che le nostre differenze generino diffidenze e vadano a scapito dell’unità di fede; non permettiamo che chi non è cristiano s’allontani da Cristo a motivo delle nostre divisioni.
Tertulliano, parlando dei cristiani, coglieva l’ammirazione di certi pagani con queste semplici parole: «Guarda come si amano!» (Apologetico 39).

2. PAOLO ANNUNCIATORE DEL VANGELO FINO A ROMA

Per la preparazione dell’incontro

Paolo, appena convertito, cominciò subito, già nella stessa Damasco, a proclamare ed a convincere che Gesù era il Cristo, il Figlio di Dio (At 9,19.22).
L’annuncio è, per l’apostolo, una cosa sola con la scoperta della fede cristiana, non qualcosa che si aggiunge successivamente ed in maniera artificiale. Il Signore stesso, sulla via di Damasco (At 22,21; At 26,16) gli rivelò la sua missione verso i pagani.
Ad Antiochia avvenne l’invio in missione (At 13,1-3), inizialmente insieme a Barnaba e poi con altri, fra cui è da ricordare almeno Timoteo, fedele compagno di Paolo. Uno studioso ha calcolato che nei quattro viaggi missionari (è da considerare tale anche quello alla volta di Roma) Paolo abbia percorso a piedi o in barca almeno 16.500 chilometri.
Dovunque Paolo arrivava incontrava, da un lato, l’accoglienza del lieto annunzio da lui portato e, dall’altro, il rifiuto e la persecuzione (2 Cor 11,23-33). Nelle lettere, ed in particolare in quella ai Romani, egli spiega che tutta la fatica missionaria è per lui come un debito: egli ha gratuitamente ricevuto e gratuitamente deve dare. Il tesoro scoperto è così grande che non può tenerlo per sé (Rm 1,14-15).
Ad Efeso (At 19,21), nel corso del III viaggio missionario, maturò in Paolo il desiderio di predicare il vangelo anche a Roma. L’occasione concreta che gli permise di concretizzare questa sua decisione gli fu data nel corso del processo che lo vide protagonista a Gerusalemme, dove fu accusato ingiustamente di aver profanato il Tempio. In quell’occasione si dichiarò cittadino romano e successivamente si appellò a Cesare per essere processato. Rinchiuso nella Fortezza Antonia, ricevette una visione del Signore che gli chiedeva di essergli testimone anche a Roma (At 23,11): è l’unica volta che il nome dell’urbe è posto sulla bocca del Cristo negli scritti neotestamentari.
Gli Atti si concludono proprio con la descrizione della predicazione di Paolo a Roma, realizzazione del desiderio dell’apostolo ed, ancor più, dell’esplicita chiamata del Signore (At 28,11-31). L’apostolo giunse a Roma in compagnia dell’evangelista Luca, autore anche degli Atti, poiché i verbi della finale del libro sono alla I persona plurale – appartengono cioè alle cosiddette “sezioni-noi” degli Atti.

2. 1 «SONO PRONTO A PREDICARE IL VANGELO ANCHE A VOI DI ROMA»

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla lettera ai Romani (Rm 1,1-15)

Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle Sacre Scritture, riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore. Per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia dell’apostolato per ottenere l’obbedienza alla fede da parte di tutte le genti, a gloria del suo nome; e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo. A quanti sono in Roma diletti da Dio e santi per vocazione, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo.
Anzitutto rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo. Quel Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunziando il vangelo del Figlio suo, mi è testimone che io mi ricordo sempre di voi, chiedendo sempre nelle mie preghiere che per volontà di Dio mi si apra una strada per venire fino a voi. Ho infatti un vivo desiderio di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati, o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io. Non voglio pertanto che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi - ma finora ne sono stato impedito - per raccogliere qualche frutto anche tra voi, come tra gli altri Gentili. Poiché sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, a predicare il vangelo anche a voi di Roma.

Per la lettura e la riflessione personale

Dalla Lettera di saluto di d. Andrea Santoro alla parrocchia dei SS. Fabiano e Venanzio prima di partire missionario per la Turchia nell’anno 2000
Sento il bisogno di dire grazie: ai miei confratelli sacerdoti con cui ho pregato, gioito, sofferto e lavorato; ai malati, ai bambini, ai poveri che mi hanno mostrato la piccolezza e la potenza di Gesù; aigiovani che mi hanno permesso di cogliere con loro il soffio rinnovatore dello Spirito; agli adulti che mi hanno concesso la loro amicizia e il loro sostegno; agli anziani che mi hanno fatto poggiare sulle loro spalle antiche. Ringrazio quanti hanno collaborato in parrocchia a tenere accesa e a trasmettere la lampada della fede, a far crescere la comunità, ad accendere il fuoco di Gesù nel quartiere: chi con il carisma della parola, chi con quello della preghiera, chi con l’azione visibile, chi con i silenzi, chi con il carisma della liturgia, chi con quello della carità operosa, chi con le lacrime e la potenza redentrice della sofferenza, chi con i servizi più umili e nascosti. Ringrazio quanti non ho conosciuto perché mi hanno concesso di vivere accanto a loro e di amarli anche se a distanza. Sempre ho pregato per loro e sempre li ho pensati a me vicini, soprattutto la sera quando guardavo le finestre illuminate delle case e a messa quando, alzando il calice del sangue di Cristo dicevo: “Questo è il calice del mio sangue,
versato per voi e per tutti in remissione dei peccati”. In quel “tutti” comprendevo proprio tutti, nessuno escluso. Nel mio cuore, andando via, porterò ogni persona conosciuta e non conosciuta della parrocchia: sono le pecorelle, i figli, i “pesciolini” affidati alla mia pesca e destinati alla rete del Regno di Dio.

2. 2 L’ARRIVO A ROMA

Ascoltiamo la Parola di Dio dagli Atti degli Apostoli (At 28,11-31)

Dopo tre mesi salpammo su una nave di Alessandria che aveva svernato nell’isola, recante l’insegna dei Diòscuri. Approdammo a Siracusa, dove rimanemmo tre giorni e di qui, costeggiando, giungemmo a Reggio. Il giorno seguente si levò lo scirocco e così l’indomani arrivammo a Pozzuoli. Qui trovammo alcuni fratelli, i quali ci invitarono a restare con loro una settimana. Partimmo quindi alla volta di Roma. I fratelli di là, avendo avuto notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne. Paolo, al vederli, rese grazie a Dio e prese coraggio.
Arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per suo conto con un soldato di guardia.
Dopo tre giorni, egli convocò a sé i più in vista tra i Giudei e, venuti che furono, disse loro: «Fratelli, senza aver fatto nulla contro il mio popolo e contro le usanze dei padri, sono stato arrestato a Gerusalemme e consegnato in mano dei Romani. Questi, dopo avermi interrogato, volevano rilasciarmi, non avendo trovato in me alcuna colpa degna di morte. Ma continuando i Giudei ad opporsi, sono stato costretto ad appellarmi a Cesare, senza intendere con questo muovere accuse contro il mio popolo. Ecco perché vi ho chiamati, per vedervi e parlarvi, poiché è a causa della speranza d’Israele che io sono legato da questa catena».
Essi gli risposero: «Noi non abbiamo ricevuto nessuna lettera sul tuo conto dalla Giudea né alcuno dei fratelli è venuto a riferire o a parlar male di te. Ci sembra bene tuttavia ascoltare da te quello che pensi; di questa setta infatti sappiamo che trova dovunque opposizione».
E fissatogli un giorno, vennero in molti da lui nel suo alloggio; egli dal mattino alla sera espose loro accuratamente, rendendo la sua testimonianza, il regno di Dio, cercando di convincerli riguardo a Gesù, in base alla Legge di Mosè e ai Profeti. Alcuni aderirono alle cose da lui dette, ma altri non vollero credere e se ne andavano discordi tra loro, mentre Paolo diceva questa sola frase: «Ha detto bene lo Spirito Santo, per bocca del profeta Isaia, ai nostri padri:

Và da questo popolo e dì loro:
Udrete con i vostri orecchi, ma non comprenderete;
guarderete con i vostri occhi, ma non vedrete.
Perché il cuore di questo popolo si è indurito:
e hanno ascoltato di mala voglia con gli orecchi;
hanno chiuso i loro occhi
per non vedere con gli occhi
non ascoltare con gli orecchi,
non comprendere nel loro cuore e non convertirsi,
perché io li risani.

Sia dunque noto a voi che questa salvezza di Dio viene ora rivolta ai pagani ed essi l’ascolteranno!».
Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti quelli che venivano a lui, annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento.

Per la lettura e la riflessione personale

Dall’omelia del Papa Paolo VI del 16 ottobre 1977 per il suo 80° compleanno
Le parole d’infinita carità, che S. Paolo riserva all’amore di Cristo per l’Apostolo stesso: «Egli mi ha amato e ha dato Se stesso per me» (Gal 2,20), a mia confusione e a mio stimolo hanno governato la mia umilissima attività, durante la mia lunga permanenza romana. Sì, Roma ho amato, nel continuo assillo di meditarne e di comprenderne il trascendente segreto, incapace certamente di penetrarlo e di viverlo, ma appassionato sempre, come ancora lo sono, di scoprire come e perché «Cristo è Romano» (cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, XXXII, 102).
E a voi, Romani, quasi unica eredità ch’io vi possa lasciare, io raccomando di approfondire con cordiale e inesauribile interesse, la vostra «coscienza romana», abbia essa all’origine la nativa cittadinanza di questa Urbe fatidica, ovvero la permanenza di domicilio o l’ospitalità ivi goduta; «coscienza romana» che qui essa ha virtù d’infondere a chi sappia respirarne il senso d’universale umanesimo, non pure emanante dalla sua sopravvivenza classica, ma ancor più dalla sua spirituale vitalità cristiana e cattolica.
L’augurio si estende. Che tutti i credenti della santa Chiesa ed anche coloro che aspirano ad un ecumenismo religioso autentico, possano a buon diritto, per fede e per amore, far propria la definizione, non tanto giuridica quanto spirituale, che di San Paolo fu data: «Hic homo civis Romanus est», «quest’uomo è cittadino Romano» (At 22,26).

Da S. Dziwisz, Una vita con Karol, Rizzoli, Milano, 2007, pag. 84
Dopo cena, Giovanni Paolo II si occupava dei documenti che arrivavano sempre in una vecchia borsa lisa, dalla Segreteria di Stato. Poi, si dedicava alla lettura personale: leggeva libri di letteratura, libri che lo avevano incuriosito. Si recava in cappella per l’ultima preghiera, per l’ultimo colloquio con il Signore.
Finalmente, come ogni sera, dalla finestra della sua camera guardava Roma, tutta illuminata, e la benediceva.
E con quel segno di croce sulla ‘sua’ città, chiudeva la giornata e andava a dormire.

3. LE LETTERE AI TESSALONICESI: VIVERE LE SPERANZE DEL TEMPO PRESENTE, NELLA GRANDE SPERANZA DELLA VITA ETERNA

Per la preparazione dell’incontro
Paolo giunse a Tessalonica durante il secondo viaggio missionario, subito dopo il suo sbarco in Europa. Proveniva da Troade, l’antica Troia, dove aveva avuto in visione la rivelazione che le terre della Macedonia - Tessalonica ne era la capitale - attendevano l’annuncio del vangelo (At 16,6-10). Il percorso descritto dagli Atti è quello dell’antica via Egnazia: l’apostolo toccò Neapoli, Filippi, Anfìpoli, Apollonia ed, infine, Tessalonica (At 16,11-17,1).
Paolo si dovette fermare alcuni mesi in città per ripartire poi, a causa di una persecuzione subito scoppiata a Tessalonica, alla volta di Atene (At 17,1-15). Da lì inviò la I lettera ai Tessalonicesi, negli anni 51/52 d.C. (1 Ts 3,1). La data è uno dei capisaldi della cronologia neotestamentaria, poiché subito dopo aver lasciato Atene, Paolo giunse a Corinto dove incontrò il proconsole Gallione, fratello di Seneca, che ebbe tale carica appunto negli anni 51/52. Lo scritto è così il più antico libro del Nuovo Testamento e la sua prima parola è il nome ‘Paulos’.
Nella I lettera ai Tessalonicesi Paolo sente il bisogno di completare l’insegnamento che ha trasmesso a voce con alcune riflessioni sulla resurrezione e sulla seconda venuta di Cristo. La resurrezione di Cristo è origine della speranza che i Tessalonicesi debbono avere non solo per se stessi, ma anche per tutti coloro che muoiono in Cristo (1 Ts 4,13-18) e l’attesa della parousia, del ritorno del Signore, deve essere motivo di vigilanza, per vivere come figli della luce (1 Ts 5,1-11).
Nella II lettera ai Tessalonicesi, Paolo - od un suo discepolo - invita a considerare come l’attesa della parousia non debba essere considerata come necessariamente imminente e, quindi, come sia necessario approfittare del tempo donato da Dio per fare il bene.
Le due lettere invitano a cogliere così la relazione tra la ‘grande speranza’ che sostiene tutto il cammino e le altrettanto importanti ‘piccole speranze’ che ricevono significato da essa (Spe salvi, 26-31).

3. 1 L’ATTESA DELLA PIENA COMUNIONE CON IL SIGNORE MOTIVO DELLA FEDE, SPERANZA E CARITÀ

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla prima lettera ai Tessalonicesi (1 Ts 4,13-5,11)

Non vogliamo lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui. Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole.
Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti voi ben sapete che come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore. E quando si dirà: «Pace e sicurezza», allora d’improvviso li colpirà la rovina, come le doglie una donna incinta; e nessuno scamperà. Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno possa sorprendervi come un ladro: voi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte, né delle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobrii. Quelli che dormono, infatti, dormono di notte; e quelli che si ubriacano, sono ubriachi di notte. Noi invece, che siamo del giorno, dobbiamo essere sobrii, rivestiti con la corazza della fede e della carità e avendo come elmo la speranza della salvezza. Poiché Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Perciò confortatevi a vicenda edificandovi gli uni gli altri, come già fate.

Per la lettura e la riflessione personale

Dall’enciclica del Papa Benedetto XVI Spe salvi, 26-31

26. Non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore. Ciò vale già nell’ambito puramente intramondano. Quando uno nella sua vita fa l’esperienza di un grande amore, quello è un momento di «redenzione» che dà un senso nuovo alla sua vita. Ma ben presto egli si renderà anche conto che l’amore a lui donato non risolve, da solo, il problema della sua vita. È un amore che resta fragile. Può essere distrutto dalla morte. L’essere umano ha bisogno dell’amore incondizionato. Ha bisogno di quella certezza che gli fa dire: «Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezze né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,38-39). Se esiste questo amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora - soltanto allora - l’uomo è «redento», qualunque cosa gli accada nel caso particolare. È questo che si intende, quando diciamo: Gesù Cristo ci ha «redenti». Per mezzo di Lui siamo diventati certi di Dio - di un Dio che non costituisce una lontana «causa prima» del mondo, perché il suo Figlio unigenito si è fatto uomo e di Lui ciascuno può dire: «Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20).
27. In questo senso è vero che chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita (cfr. Ef 2,12). La vera, grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio - il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora «sino alla fine», «fino al pieno compimento» (cfr. Gv 13,1 e 19,30). Chi viene toccato dall’amore comincia a intuire che cosa propriamente sarebbe «vita». Comincia a intuire che cosa vuole dire la parola di speranza che abbiamo incontrato nel rito del Battesimo: dalla fede aspetto la «vita eterna» - la vita vera che, interamente e senza minacce, in tutta la sua pienezza è semplicemente vita. Gesù che di sé ha detto di essere venuto perché noi abbiamo la vita e l’abbiamo in pienezza, in abbondanza (cfr. Gv 10,10), ci ha anche spiegato che cosa significhi «vita»: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). La vita nel senso vero non la si ha in sé da soli e neppure solo da sé: essa è una relazione. E la vita nella sua totalità è relazione con Colui che è la sorgente della vita. Se siamo in relazione con Colui che non muore, che è la Vita stessa e lo stesso Amore, allora siamo nella vita. Allora «viviamo». [...]
31. Noi abbiamo bisogno delle speranze - più piccole o più grandi - che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere. Proprio l’essere gratificato di un dono fa parte della speranza. Dio è il fondamento della speranza - non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme. Il suo regno non è un aldilà immaginario, posto in un futuro che non arriva mai; il suo regno è presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge. Solo il suo amore ci dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto. E il suo amore, allo stesso tempo, è per noi la garanzia che esiste ciò che solo vagamente intuiamo e, tuttavia, nell’intimo aspettiamo: la vita che è «veramente» vita.

3. 2 «NON LASCIATEVI SCORAGGIARE NEL FARE IL BENE»

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla seconda lettera ai Tessalonicesi (2 Ts 2,13-3,15)

Noi dobbiamo rendere sempre grazie a Dio per voi, fratelli amati dal Signore, perché Dio vi ha scelti come primizia per la salvezza, attraverso l’opera santificatrice dello Spirito e la fede nella verità, chiamandovi a questo con il nostro vangelo, per il possesso della gloria del Signore nostro Gesù Cristo. Perciò, fratelli, state saldi e mantenete le tradizioni che avete apprese così dalla nostra parola come dalla nostra lettera. E lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene.
Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore si diffonda e sia glorificata come lo è anche tra voi e veniamo liberati dagli uomini perversi e malvagi. Non di tutti infatti è la fede. Ma il Signore è fedele; egli vi confermerà e vi custodirà dal maligno. E riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore, che quanto vi ordiniamo gia lo facciate e continuiate a farlo. Il Signore diriga i vostri cuori nell’amore di Dio e nella pazienza di Cristo. Vi ordiniamo pertanto, fratelli, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, di tenervi lontani da ogni fratello che si comporta in maniera indisciplinata e non secondo la tradizione che ha ricevuto da noi. Sapete infatti come dovete imitarci: poiché noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace. Voi, fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene. Se qualcuno non obbedisce a quanto diciamo per lettera, prendete nota di lui e interrompete i rapporti, perché si vergogni; non trattatelo però come un nemico, ma ammonitelo come un fratello.

Per la lettura e la riflessione personale

Dal discorso del Papa Benedetto XVI al convegno ecclesiale della diocesi di Roma del 9 giugno 2008
Ripeto a voi ciò che dissi [...] al Convegno ecclesiale di Verona: “La risurrezione di Cristo è un fatto avvenuto nella storia, di cui gli Apostoli sono stati testimoni e non certo creatori.
Nello stesso tempo essa non è affatto un semplice ritorno alla nostra vita terrena; è invece la più grande “mutazione” mai accaduta, il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazaret, ma con Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo”.
Nella luce di Gesù risorto dai morti possiamo dunque comprendere le vere dimensioni della fede cristiana, come “speranza che trasforma e sorregge la nostra vita” (Enciclica Spe salvi, 10), liberandoci da quegli equivoci e da quelle false alternative che nel corso dei secoli hanno ristretto e indebolito il respiro della nostra speranza. In concreto, la speranza di chi crede nel Dio che ha risuscitato Gesù dai morti si protende con tutta se stessa verso quella felicità e quella gioia piena e totale che noi chiamiamo vita eterna, ma proprio per questo investe, anima e trasforma la nostra quotidiana esistenza terrena, dà un orientamento e un significato non effimero alle nostre piccole speranze come agli sforzi che noi compiamo per cambiare e rendere meno ingiusto il mondo nel quale viviamo.
Analogamente, la speranza cristiana riguarda certo in modo personale ciascuno di noi, la salvezza eterna del nostro io e la sua vita in questo mondo, ma è anche speranza comunitaria, speranza per la Chiesa e per l’intera famiglia umana, è cioè “sempre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza anche per me” (ibid., 48). [...]
Nella società e nella cultura di oggi, e quindi anche in questa nostra amata città di Roma, non è facile vivere nel segno della speranza cristiana. Da una parte, infatti, prevalgono spesso atteggiamenti di sfiducia, delusione e rassegnazione, che contraddicono non soltanto la “grande speranza” della fede, ma anche quelle “piccole speranze” che normalmente ci confortano nello sforzo di raggiungere gli obiettivi della vita quotidiana.
È diffusa cioè la sensazione che, per l’Italia come per l’Europa, gli anni migliori siano ormai alle spalle e che un destino di precarietà e di incertezza attenda le nuove generazioni. Dall’altra parte, le aspettative di grandi novità e miglioramenti si concentrano sulle scienze e le tecnologie, quindi sulle forze e le scoperte dell’uomo, come se solo da esse potesse venire la soluzione dei problemi. Sarebbe insensato negare o minimizzare l’enorme contributo delle scienze e tecnologie alla trasformazione del mondo e delle nostre concrete condizioni di vita, ma sarebbe altrettanto miope ignorare che i loro progressi mettono nelle mani dell’uomo anche abissali possibilità di male e che, in ogni caso, non sono le scienze e le tecnologie a poter dare un senso alla nostra vita e a poterci insegnare a distinguere il bene dal male.
Perciò, come ho scritto nella Spe salvi, non è la scienza ma l’amore a redimere l’uomo e questo vale anche nell’ambito terreno e intramondano (n. 26).

4. LA PRIMA LETTERA AI CORINZI: IL ‘MISTERO’ DI DIO RIVELATO NELLA SAPIENZA DELLA CROCE

Per la preparazione dell’incontro
Paolo fondò la comunità cristiana di Corinto nel corso del suo secondo viaggio missionario (At 18,1-11). Ciò può essere datato con sicurezza all’anno 51/52 a motivo del suo incontro con il proconsole Gallione che rivestì tale carica in quell’anno (At 18,12-17). Il primo soggiorno dell’apostolo a Corinto durò un anno e mezzo, probabilmente a motivo dell’importanza della città. Corinto era, infatti, a quel tempo capitale dell’Acaia ed aveva strappato alla vicina Atene il primato a motivo della situazione geografica che la poneva a guardia del passaggio dell’istmo. Le navi potevano attraccare ad uno dei due porti di Corinto, Cencre ed il Lechéo, rivolti l’uno verso l’Asia e l’altro verso l’Italia, e far transitare le merci via terra, risparmiando il periplo del Peloponneso.
A Corinto Paolo abitò con Aquila e Priscilla, lavorando con loro alla fabbricazione di tende, prima di essere raggiunto da Sila/Silvano e da Timoteo. Iniziò la predicazione nella sinagoga locale, finché ne fu scacciato e, da allora, si trasferì nella casa di Tizio Giusto, un “timorato di Dio”, cioè un pagano non circonciso, vicino ai valori religiosi e morali insegnati dall’Antico Testamento. Da Corinto Paolo ripartì poi verso Antiochia. Scrisse la I lettera ai Corinzi nel corso del III viaggio missionario da Efeso (1 Cor 16,8), dopo aver probabilmente già inviato una precedente lettera che è andata perduta.
La lettera contesta la divisione che si è creata nella comunità di Corinto, perché i cristiani si richiamano a differenti predicatori del vangelo ed alla loro efficacia e intelligenza più che non alla sapienza scandalosa della croce (1 Cor 1,10-31). Paolo afferma, invece, di non sapere altro se non Gesù Cristo e questi crocifisso: solo in Lui si rivela il ‘mistero’ di Dio (1 Cor 2,1-16). L’apostolo utilizza qui l’espressione ‘rivelazione del mistero’ per indicare da un lato che Dio non può essere raggiunto dalla sapienza umana, ma, dall’altro, che Egli stesso ha voluto manifestarsi in Cristo perché l’uomo potesse vivere nella comunione con Dio. Questa rivelazione avviene nella manifestazione scandalosa dell’amore divino che si lascia inchiodare sulla croce per il peccato del mondo.
Dalla conoscenza della sapienza della croce nasce il dovere di condividere questo dono con chi ancora non l’ha ricevuto e, quindi, il ministero della testimonianza e della predicazione: «Guai a me se non predicassi il vangelo» (1 Cor 9,15-27).

4. 1 «IO RITENNI DI NON SAPERE ALTRO IN MEZZO A VOI SE NON GESÙ CRISTO E QUESTI CROCIFISSO»

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla prima lettera ai Corinzi (1 Cor 2,1-16)

Anch’io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.
Tra i perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo che vengono ridotti al nulla; parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria.
Sta scritto infatti:

Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì,
né mai entrarono in cuore di uomo,
queste ha preparato Dio per coloro che lo amano.

Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato.
Di queste cose noi parliamo, non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. L’uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno.

Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore
in modo da poterlo dirigere?

Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo.

Per la lettura e la riflessione personale

Da J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia, 1979, pp. 237-238
Nel contemplare la croce, l’importante non [è] il porre l’accento su una somma di sofferenze fisiche, quasi che il suo valore redentivo stesse nella più forte aliquota possibile di tormenti. Come potrebbe Iddio provare gioia per le pene sofferte da una sua creatura, o addirittura dal suo stesso Figlio, oppure - semmai fosse possibile - vedere in esse addirittura la valuta con la quale va da lui comprata la redenzione?
La Bibbia e la fede cristiana rettamente intesa sono ben lontane dal nutrire un’idea del genere. Non è il dolore in quanto tale che conta, bensì la vastità dell’amore, che dilata l’esistenza al punto da riunire il lontano col vicino, da ricollegare l’uomo abbandonato dal Signore con Dio. Soltanto l’amore dà un senso e un indirizzo al dolore.
Se così non fosse, i veri sacerdoti dinanzi all’ara della croce sarebbero stati i carnefici: proprio essi infatti, che hanno provocato il dolore, sarebbero stati i ministri che hanno immolato la vittima sacrificale. Siccome invece l’accento non cadeva sulla sofferenza, bensì sull’intimo centro propulsore che la regge e la sostanzia, essi non hanno affatto rivestito questa funzione; il vero e autentico Sacerdote è stato Gesù, che ha riunito nell’abbraccio del suo amore i due capi tranciati del mondo (Ef 2,13ss). [...]
La croce è una Rivelazione. Essa non ci rivela una cosa qualsiasi, bensì Dio e l’uomo. Ci palesa chi sia Dio e come sia fatto l’uomo.

Dall’omelia del Papa Benedetto XVI nella messa del 21 agosto 2005 alla spianata di Marienfeld a Colonia per la XX GMG
[Nell’ultima cena Gesù] ringrazia Dio non soltanto per le grandi opere del passato; lo ringrazia per la propria esaltazione che si realizzerà mediante la Croce e la Risurrezione, parlando ai discepoli anche con parole che contengono la somma della Legge e dei Profeti: “Questo è il mio Corpo dato in sacrificio per voi.
Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio Sangue”. E così distribuisce il pane e il calice, e insieme dà loro il compito di ridire e rifare sempre di nuovo in sua memoria quello che sta dicendo e facendo in quel momento.
Che cosa sta succedendo? Come Gesù può distribuire il suo Corpo e il suo Sangue? Facendo del pane il suo Corpo e del vino il suo Sangue, Egli anticipa la sua morte, l’accetta nel suo intimo e la trasforma in un’azione di amore.
Quello che dall’esterno è violenza brutale - la crocifissione -, dall’interno diventa un atto di un amore che si dona totalmente. È questa la trasformazione sostanziale che si realizzò nel cenacolo e che era destinata a suscitare un processo di trasformazioni il cui termine ultimo è la trasformazione del mondo fino a quella condizione in cui Dio sarà tutto in tutti (cfr. 1 Cor 15,28). Già da sempre tutti gli uomini in qualche modo aspettano nel loro cuore un cambiamento, una trasformazione del mondo. Ora questo è l’atto centrale di trasformazione che solo è in grado di rinnovare veramente il mondo: la violenza si trasforma in amore e quindi la morte in vita.
Poiché questo atto tramuta la morte in amore, la morte come tale è già dal suo interno superata, è già presente in essa la risurrezione. La morte è, per così dire, intimamente ferita, così che non può più essere lei l’ultima parola. È questa, per usare un’immagine a noi oggi ben nota, la fissione nucleare portata nel più intimo dell’essere - la vittoria dell’amore sull’odio, la vittoria dell’amore sulla morte. Soltanto questa intima esplosione del bene che vince il male può suscitare poi la catena di trasformazioni che poco a poco cambieranno il mondo. Tutti gli altri cambiamenti rimangono superficiali e non salvano.
Per questo parliamo di redenzione: quello che dal più intimo era necessario è avvenuto, e noi possiamo entrare in questo dinamismo. Gesù può distribuire il suo Corpo, perché realmente dona se stesso.
Questa prima fondamentale trasformazione della violenza in amore, della morte in vita trascina poi con sé le altre trasformazioni. Pane e vino diventano il suo Corpo e Sangue. A questo punto però la trasformazione non deve fermarsi, anzi è qui che deve cominciare appieno. Il Corpo e il Sangue di Cristo sono dati a noi affinché noi stessi veniamo trasformati a nostra volta. Noi stessi dobbiamo diventare Corpo di Cristo, consanguinei di Lui. Tutti mangiamo l’unico pane, ma questo significa che tra di noi diventiamo una cosa sola. L’adorazione, abbiamo detto, diventa unione. Dio non è più soltanto di fronte a noi, come il Totalmente Altro. È dentro di noi, e noi siamo in Lui. La sua dinamica ci penetra e da noi vuole propagarsi agli altri e estendersi a tutto il mondo, perché il suo amore diventi realmente la misura dominante del mondo.

4. 2 «GUAI A ME SE NON PREDICASSI IL VANGELO»

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla prima lettera ai Corinzi (1 Cor 9,16-27)

Fratelli, non è per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Quale è dunque la mia ricompensa? Quella di predicare gratuitamente il vangelo senza usare del diritto conferitomi dal vangelo.
Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, pur non essendo sotto la legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la legge. Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge, pur non essendo senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo, per guadagnare coloro che sono senza legge. Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro.
Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile. Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato.

Per la lettura e la riflessione personale

Dall’esortazione apostolica del Papa Paolo VI Evangelii nuntiandi, 14-15
14. La Chiesa lo sa. Essa ha una viva consapevolezza che la parola del Salvatore - «Devo annunziare la buona novella del Regno di Dio» (Lc 4,43) - si applica in tutta verità a lei stessa. E volentieri aggiunge con S. Paolo: «Per me evangelizzare non è un titolo di gloria, ma un dovere. Guai a me se non predicassi il Vangelo!» (1 Cor 9,16). È con gioia e conforto che Noi abbiamo inteso [...] queste parole luminose: «Vogliamo nuovamente confermare che il mandato d’evangelizzare tutti gli uomini costituisce la missione essenziale della Chiesa» (cfr. Dichiarazioni dei Padri Sinodali, 4: L’Osservatore Romano, 27 ottobre 1974, p. 6), compito e missione che i vasti e profondi mutamenti della società attuale non rendono meno urgenti.
Evangelizzare, infatti, è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare, vale a dire per predicare ed insegnare, essere il canale del dono della grazia, riconciliare i peccatori con Dio, perpetuare il sacrificio del Cristo nella S. Messa che è il memoriale della sua morte e della sua gloriosa risurrezione.
15. Chiunque rilegge, nel Nuovo Testamento, le origini della Chiesa, seguendo passo passo la sua storia e considerandola nel suo vivere e agire, scorge che è legata all’evangelizzazione da ciò che essa ha di più intimo. La Chiesa nasce dall’azione evangelizzatrice di Gesù e dei Dodici. Ne è il frutto normale, voluto, più immediato e più visibile: «Andate dunque, fate dei discepoli in tutte le nazioni» (Mt 28,19). Ora, «coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e circa tremila si unirono ad essi... E il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati» (At 2,41.47).
Nata, di conseguenza, dalla missione, la Chiesa è, a sua volta, inviata da Gesù. La Chiesa resta nel mondo, mentre il Signore della gloria ritorna al Padre. Essa resta come un segno insieme opaco e luminoso di una nuova presenza di Gesù, della sua dipartita e della sua permanenza. Essa la prolunga e lo continua. Ed è appunto la sua missione e la sua condizione di evangelizzatore che, anzitutto, è chiamata a continuare. Infatti la comunità dei cristiani non è mai chiusa in se stessa. In essa la vita intima - la vita di preghiera, l’ascolto della Parola e dell’insegnamento degli Apostoli, la carità fraterna vissuta, il pane spezzato - non acquista tutto il suo significato se non quando essa diventa testimonianza, provoca l’ammirazione e la conversione, si fa predicazione e annuncio della Buona Novella. Così tutta la Chiesa riceve la missione di evangelizzare, e l’opera di ciascuno è importante per il tutto.

5. LA PRIMA LETTERA AI CORINZI: L’UNITÀ DELLA CHIESA INTORNO ALL’EUCARESTIA

Per la preparazione dell’incontro

La I lettera ai Corinzi conserva il più antico racconto dell’istituzione dell’eucarestia (1 Cor 11,23-25). Paolo trasmette a sua volta solo ciò che ha ricevuto (1 Cor 11,23): il Signore Gesù volle che essa fosse celebrata in ogni generazione dai suoi apostoli e dai loro successori. Il sacramento richiede che sia riconosciuto il ‘corpo del Signore’ (1 Cor 11,29). La celebrazione è la vera fonte dell’unità della comunità cristiana: la chiesa è una non a motivo di argomentazioni o scelte umane, ma poiché è l’unico Signore che la raduna e si dona ad essa. È l’eucarestia a rendere la chiesa ‘corpo di Cristo’ (1 Cor 12,27): i credenti sono membra gli uni degli altri, poiché appartengono all’unico Cristo.
La comunità di Corinto è invitata da Paolo, perciò, a superare le sue divisioni poiché tutti sono l’unico edificio di Dio, il cui unico fondamento è Cristo: tutto appartiene ai Corinzi, ma essi sono di Cristo e Cristo è di Dio (1 Cor 3,3-23).
Anche i diversi doni e carismi sono dati dall’unico Spirito che è lo Spirito del Signore Gesù. E tutti sono donati per l’unità comune e sono ordinati in vista di questo servizio (1 Cor 12,4-11). È solo la presenza dello Spirito che può far proclamare la signoria di Gesù. Il vivere in quella carità che ha il volto di Cristo e che porta il suo nome, è perciò la via migliore di tutte, quella che sola conferisce significato ai singoli carismi (1 Cor 12,31-14,1).

5. 1 «OGNI VOLTA CHE MANGIATE DI QUESTO PANE E BEVETE DI QUESTO CALICE VOI ANNUNZIATE LA MORTE DEL SIGNORE FINCHÉ EGLI VENGA»

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla prima lettera ai Corinzi (1 Cor 11,17-34)

Fratelli, non posso lodarvi per il fatto che le vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio. Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo. È necessario infatti che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi. Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore.
Ciascuno infatti, quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo!
Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».
Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore.
Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti. Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati; quando poi siamo giudicati dal Signore, veniamo ammoniti per non esser condannati insieme con questo mondo. Perciò, fratelli miei, quando vi radunate per la cena, aspettatevi gli uni gli altri. E se qualcuno ha fame, mangi a casa, perché non vi raduniate a vostra condanna. Quanto alle altre cose, le sistemerò alla mia venuta.

Per la lettura e la riflessione personale

Dall’enciclica del Papa Benedetto XVI, Deus caritas est, 14
La «mistica» del Sacramento ha un carattere sociale, perché nella comunione sacramentale io vengo unito al Signore come tutti gli altri comunicanti: «Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane», dice san Paolo (1 Cor 10,17).
L’unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi. La comunione mi tira fuori di me stesso verso di Lui, e così anche verso l’unità con tutti i cristiani.
Diventiamo «un solo corpo», fusi insieme in un’unica esistenza. Amore per Dio e amore per il prossimo sono ora veramente uniti: il Dio incarnato ci attrae tutti a sé. Da ciò si comprende come agape sia ora diventata anche un nome dell’Eucaristia: in essa l’agape di Dio viene a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi. Solo a partire da questo fondamento cristologico-sacramentale si può capire correttamente l’insegnamento di Gesù sull’amore.
Il passaggio che Egli fa fare dalla Legge e dai Profeti al duplice comandamento dell’amore verso Dio e verso il prossimo, la derivazione di tutta l’esistenza di fede dalla centralità di questo precetto, non è semplice morale che poi possa sussistere autonomamente accanto alla fede in Cristo e alla sua riattualizzazione nel Sacramento: fede, culto ed ethos si compenetrano a vicenda come un’unica realtà che si configura nell’incontro con l’agape di Dio. La consueta contrapposizione di culto ed etica qui semplicemente cade.
Nel «culto» stesso, nella comunione eucaristica è contenuto l’essere amati e l’amare a propria volta gli altri. Un’Eucaristia che non si traduca in amore concretamente praticato è in se stessa frammentata. Reciprocamente [...] il «comandamento» dell’amore diventa possibile solo perché non è soltanto esigenza: l’amore può essere «comandato» perché prima è donato.

Da J. Ratzinger, L’ecclesiologia del Vaticano II, in Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1987, pp. 9-16
L’espressione “Corpo di Cristo” implica immediatamente questo elemento: Cristo si è costruito un Corpo; se voglio trovarlo e farlo mio io sono chiamato a farne parte come un umile membro ma in maniera completa, poiché io sono divenuto addirittura un suo membro, un suo organo in questo mondo e di conseguenza per l’eternità. L’idea della teologia liberale per cui Gesù sarebbe interessante, mentre la Chiesa sarebbe una misera realtà, si differenzia completamente da questa presa di coscienza.
Cristo si dà solo nel suo Corpo e mai in un mero ideale. Ciò vuol dire: si dà insieme con gli altri, nella ininterrotta comunione che attraversa i tempi, la quale è questo Suo Corpo. La Chiesa non è un’idea, ma un Corpo, e lo scandalo del farsi carne, in cui inciamparono tanti contemporanei di Gesù, continua nella scandalosità della Chiesa; tuttavia anche a questo proposito vale il detto: Beato chi non si scandalizza di me.
Henri de Lubac, in un’opera grandiosa [...], ha chiarito che il termine “corpus mysticum” originariamente contrassegna la SS. Eucarestia e che, per Paolo come per i Padri della Chiesa, l’idea della Chiesa come Corpo di Cristo è stata inseparabilmente collegata con l’idea dell’Eucarestia, in cui il Signore è presente corporalmente e dà a noi il suo corpo come cibo.
Ebbe così origine un’ecclesiologia eucaristica, chiamata spesso anche ecclesiologia di “communio”. Questa ecclesiologia della “communio” è diventata il vero e proprio cuore della dottrina sulla Chiesa del Vaticano II, l’elemento nuovo e allo stesso tempo del tutto legato alle origini, che questo Concilio ha voluto donarci.
Alla Chiesa appartiene essenzialmente l’elemento del “ricevere”, così come la fede deriva dall’ascolto e non è prodotto delle proprie decisioni o riflessioni. La fede infatti è incontro con ciò che io non posso escogitare o produrre con i miei sforzi, ma che mi deve invece venire incontro. Questa struttura del ricevere, dell’incontrare, la chiamiamo “Sacramento”. E appunto per questo rientra ancora nella forma fondamentale del Sacramento il fatto che esso viene ricevuto e che nessuno se lo può conferire da solo.
Nessuno si può battezzare da sé; nessuno può attribuirsi da sé l’ordinazione sacerdotale; nessuno può, da sé, assolversi dai propri peccati. Da questa struttura di incontro dipende anche il fatto che un pentimento perfetto, per sua stessa essenza, non può restare interiore, ma urge verso la forma di incontro del Sacramento. Perciò non è semplicemente un’infrazione contro prescrizioni esteriori del diritto canonico se ci si porge da sé l’Eucarestia e la si prende da sé, ma è una ferita della più intima struttura del Sacramento. Il fatto che in quest’unico Sacramento il prete possa egli stesso somministrarsi il Sacro Dono rinvia al “mysterium tremendum” al quale è esposto nell’Eucarestia; agire “in persona Christi” e così, nello stesso tempo, rappresentarlo ed essere un uomo peccatore, che vive completamente dall’accogliere il suo Dono.
La Chiesa non la si può fare, ma solo riceverla, e cioè riceverla da dove essa è già, da dove essa è realmente presente: dalla comunità sacramentale del suo Corpo che attraversa la storia. Ma c’è da aggiungere ancora qualcosa [...]: Cristo è dovunque intero.
Questa è la prima importantissima cosa che il Concilio ha formulato, in unità coi fratelli ortodossi. Ma egli è dovunque anche uno solo, e perciò io posso avere l’unico Signore solo nell’unità che egli stesso è, nell’unità con gli altri che sono anche essi il suo Corpo e che, nell’Eucarestia, lo devono sempre di nuovo diventare.

5. 2 «ORA VOI SIETE CORPO DI CRISTO E SUE MEMBRA»

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla prima lettera ai Corinzi (1 Cor 12,27-13,13)

Fratelli, ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte. Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi vengono i miracoli, poi i doni di far guarigioni, i doni di assistenza, di governare, delle lingue.
Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti operatori di miracoli? Tutti possiedono doni di far guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano?
Aspirate ai carismi più grandi! E io vi mostrerò una via migliore di tutte.
Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.
E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla.
E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova.
La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità.
Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia.
Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto.
Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!

Per la lettura e la riflessione personale

Da san Francesco di Sales, Introduzione alla vita devota, parte 1, cap. 3
Nella creazione Dio comandò alle piante di produrre i loro frutti, ognuna “secondo la propria specie” (Gen 1,11). Lo stesso comando rivolge ai cristiani, che sono le piante vive della sua Chiesa, perché producano frutti di devozione, ognuno secondo il suo stato e la sua condizione. La devozione deve essere praticata in modo diverso dal gentiluomo, dall’artigiano, dal domestico, dal principe, dalla vedova, dalla donna non sposata e da quella coniugata.
Ciò non basta; bisogna anche accordare la pratica della devozione alle forze, agli impegni e ai doveri di ogni persona. Dimmi, Filotea, sarebbe conveniente se il vescovo volesse vivere in una solitudine simile a quella dei certosini? E se le donne sposate non volessero possedere nulla come i cappuccini?
Se l’artigiano passasse tutto il giorno in chiesa come il religioso e il religioso si esponesse a qualsiasi incontro per servire il prossimo come è dovere del vescovo?
Questa devozione non sarebbe ridicola, disordinata e inammissibile? Questo errore si verifica tuttavia molto spesso.
No, Filotea, la devozione non distrugge nulla quando è sincera, ma anzi perfeziona tutto e, quando contrasta con gli impegni di qualcuno, è senza dubbio falsa. L’ape trae il miele dai fiori senza sciuparli, lasciandoli intatti e freschi come li ha trovati. La vera devozione fa ancora meglio, perché non solo non reca pregiudizio ad alcun tipo di vocazione o di occupazione, ma al contrario vi aggiunge bellezza e prestigio.
Tutte le pietre preziose, gettate nel miele, diventano più splendenti, ognuna secondo il proprio colore, così ogni persona si perfeziona nella sua vocazione, se l’unisce alla devozione. La cura della famiglia è resa più leggera, l’amore fra marito e moglie più sincero, il servizio del principe più fedele, e tutte le altre occupazioni più soavi e amabili. È un errore, anzi un’eresia, voler escludere l’esercizio della devozione dall’ambiente militare, dalla bottega degli artigiani, dalla corte dei principi, dalle case dei coniugati.
È vero, Filotea, che la devozione puramente contemplativa, monastica e religiosa può essere vissuta solo in questi stati, ma oltre a questi tre tipi di devozione, ve ne sono molti altri capaci di rendere perfetti coloro che vivono in condizioni secolari. Perciò dovunque ci troviamo, possiamo e dobbiamo aspirare alla vita perfetta.

6. LA SECONDA LETTERA AI CORINZI: NELLA DEBOLEZZA LA POTENZA DI CRISTO

Per la preparazione dell’incontro

La II lettera ai Corinzi fu scritta da Paolo durante il III viaggio missionario e precisamente dalla Macedonia (2 Cor 7,5-6; non è dato sapere se da Filippi o da Tessalonica). Potrebbe essere stata preceduta da una ulteriore lettera alla quale si fa riferimento nel corso del testo, se questa non è la stessa I lettera ai Corinzi o parte della II ai Corinzi (cfr. 2 Cor 2,4).
La II lettera ai Corinzi affronta il tema del rapporto tra l’apostolo e la comunità. È una difesa appassionata dell’importanza del ministero nella chiesa. Paolo ha scritto con lo Spirito del Dio vivente sulle tavole di carne del cuore dei Corinzi: essi sono così diventati una lettera di Cristo (2 Cor 3,2-3). Solo la nuova alleanza ha reso possibile questo, perché la lettera uccide, ma lo Spirito dà vita.
Eppure il ministero e la testimonianza sono sottoposti anch’essi allo scandalo della croce. Le persecuzioni ed il rifiuto, come una spina nella carne, accompagnano l’annuncio del vangelo.

6. 1 «TI BASTA LA MIA GRAZIA»

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla seconda lettera ai Corinzi (2 Cor 11,21-12,10)

Fratelli, lo dico con vergogna; come siamo stati deboli! Però in quello in cui qualcuno osa vantarsi, lo dico da stolto, oso vantarmi anch’io. Sono Ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?
Se è necessario vantarsi, mi vanterò di quanto si riferisce alla mia debolezza. Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così sfuggii dalle sue mani.
Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene! Pur tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa - se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio - fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo - se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio - fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare. Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò fuorché delle mie debolezze. Certo, se volessi vantarmi, non sarei insensato, perché direi solo la verità; ma evito di farlo, perché nessuno mi giudichi di più di quello che vede o sente da me. Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte.

Per la lettura e la riflessione personale

Dalla relazione Dalla vocazione alla giustificazione di p. Ugo Vanni S. J. ai sacerdoti del settore Sud della diocesi di Roma del 20 febbraio 2003
Paolo parla della spina nella carne. È un brano importante per capire l’apostolato di Paolo e come Paolo realizza la sua vocazione apostolica. È in polemica con chi non lo considera un vero apostolo.
Paolo dice: Mi costringete a dire delle cose che non vorrei dire! Se volete sapere tutto, ve lo dico! Io ho avuto 14 anni fa un contatto con la trascendenza; sono stato al terzo cielo, quasi faccia a faccia con Dio e lì ho avuto delle esperienze, che non posso poi esprimere con la stessa chiarezza e con la stessa vivezza con cui le ho vissute. [...]
Perché questo essere salito al terzo cielo non mi desse alla testa, perché non scambiassi questo dono puro di Dio con qualcosa di mio, Dio mi ha mandato un contrappeso. Paolo parla di un angelo di satana che lo schiaffeggi, di una spina, di un fascio di spine conficcate nella carne che gli fanno sentire tutta la sua debolezza.
Che cos’è questa metafora che Paolo usa quando parla della “spina nella carne”? Secondo tutti gli esegeti moderni - e fondatamente - non è una tentazione sessuale, come aveva interpretato S. Agostino e come a volte viene interpretato, specialmente sulla linea della Vulgata, che traduceva questa espressione: “una spinosità che punge la carne” (stimulus carnis meae), che fa pensare subito alla sessualità. Nel testo greco non c’è l’idea di stimolo. Ovviamente delle spine conficcate nella carne si fanno sentire, ma questo è un fatto che viene dopo. Se la spina sta tranquillamente dove sta non è uno stimolo; diventa uno stimolo, quando la spina viene conficcata nella carne, quando si fa sentire. Cos’è allora questa spinosità nella carne? Da tutto l’insieme risulta che sono le difficoltà che Paolo trova nel suo apostolato. Difficoltà esterne: persecuzioni, fraintendimenti… e difficoltà interne, personali. Quasi certamente collegate con uno stato fisico che impediva l’apostolato che pure Dio gli chiedeva di fare. E quindi probabilmente era o una malattia o una debolezza di tipo fisico.
È quella situazione di conti che non tornano: Paolo si sentiva inviato da Dio a portare il Vangelo, era guidato dallo Spirito, faceva dei progetti apostolici e a un certo punto le circostanze esterne e poi le circostanze sue personali - la sua salute - non gli permettevano di realizzarli. I conti allora non gli tornavano! E allora reagisce secondo il suo carattere, pregando, pregando e pregando. Si rivolge al Signore e gli dice: Toglimi questa spina! Cioè: Spianami la strada! Vuoi che faccia l’apostolo? Vuoi che annunci il Vangelo? Dammi la possibilità di annunciare il Vangelo! Non mi mettere questi blocchi sulla strada che tu vuoi che io percorra.
«Pregai e ad un certo punto il Signore mi disse» - non è una visione, ma una presa di coscienza che pian piano matura in Paolo. La risposta del Signore non è quella di spianargli la strada. Gli rimangono, infatti, tutte le sue difficoltà. La risposta è invece questa: «Ti basta il mio amore, lamia benevolenza!» Il testo greco indica qui la benevolenza più che la grazia. Non dice: Ti basta quella grazia corroborante che io ti do. Questa è un’interpretazione che rischia di quantizzare il rapporto: Quella grazia che ti do, ti sarà sufficiente! Per Paolo il problema è più a monte. Gesù gli dice: Io ti amo! Basta! Non ti preoccupare di altro! Quando Paolo riesce a capire questo, si è affidato all’assoluto dell’amore: Voglio che tu sia apostolo! Ci sono queste difficoltà che ti impediscono di realizzare quei piani che io stesso ti ho fatto venire in mente? Come fare? Pensa a me, pensa al mio amore: l’assoluto è nel mio amore! Il mio amore che si manifesta nel mistero della morte e della risurrezione, nel mistero della debolezza e della forza di Dio. Una volta che Paolo riesce a capire questo, tutto cambia.
Ti basta di essere amato da me! Ti basta questo coinvolgimento nella debolezza e nella forza del mistero pasquale! Siamo insieme! Più debolezze ci sono e meglio è; non perché le debolezze siano simpatiche, ma perché Paolo vede nelle debolezze, malattie, difficoltà, quella partecipazione alla debolezza di Dio della crocifissione. E poi attraverso questo sa che connessa ad essa c’è la risurrezione.
Di fronte a qualunque difficoltà, la risposta che lui ritiene persuasiva nel suo apostolato è questo affidamento totale ad un Cristo che non solo provvede, ma che ama. La sua provvidenza è frutto di quest’amore che per Paolo è un qualcosa di assoluto. Allora, quando Paolo si sente davvero così amato da Cristo, sa di essere accanto a lui, di poter completare nella sua carne quello che manca alla passione di Cristo, come dirà poi nella lettera ai Colossesi. Questo è un punto importante per capire la vocazione di Paolo, per capire la nostra vocazione, per capire ogni vocazione cristiana.
Nella nostra vocazione Dio ci dice di farci tutto a tutti. Dobbiamo fare anche i nostri progetti; però il vero realizzatore del nostro apostolato, il vero attualizzatore di noi come dono agli altri nell’apostolato è sempre lui; è un segreto del suo amore verso di noi e verso gli altri. Allora Dio ci dice: Lasciatemi fare! Fidatevi pienamente del mio amore! Fate tutto quello che potete, ma guardate a me. Fidatevi pienamente del mio amore e io farò. Paolo ce ne ha messo del tempo per capirlo: Pregai il Signore tre volte! Vuol dire: Pregai il Signore a lungo, con intensità crescente, con tutte le mie forze. Ma quando Paolo riesce a capire questo alla fine acquista luce.

6. 2 «ABBIAMO QUESTO TESORO IN VASI DI CRETA»

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla seconda lettera ai Corinzi (2 Cor 4,7-5,10)

Fratelli, noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi. Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita.
Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi. Tutto infatti è per voi, perché la grazia, ancora più abbondante ad opera di un maggior numero, moltiplichi l’inno di lode alla gloria di Dio.
Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne.
Sappiamo infatti che quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un’abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mani di uomo, nei cieli. Perciò sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste: a condizione però di esser trovati gia vestiti, non nudi. In realtà quanti siamo in questo corpo, sospiriamo come sotto un peso, non volendo venire spogliati ma sopravvestiti, perché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita. È Dio che ci ha fatti per questo e ci ha dato la caparra dello Spirito.
Così, dunque, siamo sempre pieni di fiducia e sapendo che finché abitiamo nel corpo siamo in esilio lontano dal Signore, camminiamo nella fede e non ancora in visione. Siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo ed abitare presso il Signore. Perciò ci sforziamo, sia dimorando nel corpo sia esulando da esso, di essere a lui graditi. Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male.

Per la lettura e la riflessione personale

Da J. Ratzinger, Perché sono ancora nella Chiesa, in H. U. von Balthasar - J. Ratzinger, Due saggi. Perché sono ancora cristiano. Perché sono ancora nella Chiesa, Queriniana, Brescia, 1972, pp. 51-71
[C’è] un esempio, con il quale i Padri nutrirono la loro meditazione sul mondo e sulla Chiesa. Essi spiegarono che nel mondo materiale la luna è l’immagine di ciò che la Chiesa rappresenta per la salvezza nel mondo spirituale.
Nella sua fugacità e nella sua rinascita la luna rappresenta il mondo terreno degli uomini, questo mondo che è continuamente condizionato dal bisogno di ricevere e che trae la propria fecondità non da se stesso, ma dal sole; rappresenta lo stesso essere umano, quale si esprime nella figura della donna, che concepisce ed è feconda in forza del seme che riceve. I Padri hanno applicato il simbolismo della luna alla Chiesa soprattutto per due ragioni: per il rapporto luna-donna (madre) e per il fatto che la luna non ha luce propria, ma la riceve dal sole, senza del quale essa sarebbe completamente buia. La luna risplende, ma la sua luce non è sua, bensì di un altro.
È tenebre e nello stesso tempo luce; pur essendo di per sé buia, dona splendore in virtù di un altro di cui riflette la luce. Proprio per questo essa simboleggia la Chiesa, la quale pure risplende, anche se di per sé è buia; non è luminosa in virtù della propria luce, ma del vero sole, Gesù Cristo, cosicché, pur essendo soltanto terra (anche la luna non è che un’altra terra), è ugualmente in grado di illuminare la notte della nostra lontananza da Dio - «la luna narra il mistero di Cristo» (Ambrogio, Exameron IV 8,23).
Tuttavia in questa nostra epoca di viaggi lunari viene spontaneo approfondire questo paragone, che, confrontando la concezione fisica con quella simbolica, mette meglio in evidenza la nostra situazione specifica rispetto alla realtà della Chiesa. La sonda lunare e l’astronauta scoprono la luna soltanto come landa rocciosa e desertica, come montagne e come sabbia, non come luce. E in effetti essa è in se stessa soltanto deserto, sabbia e rocce. E tuttavia, per merito di altri ed in funzione di altri ancora, essa è pure luce e tale rimane anche nell’epoca dei voli spaziali.
È dunque ciò, che in se stessa non è. Pur appartenendo ad altri, questa realtà è anche sua. Esiste una verità fisica ed una simbolico-poetica, una non elimina l’altra. Ciò non è forse un’immagine esatta della Chiesa? Chi la esplora e la scava con la sonda spaziale scopre soltanto deserto, sabbia e terra, le debolezze dell’uomo, la polvere, i deserti e le altezze della sua storia. Tutto ciò è suo, ma non rappresenta ancora la sua realtà specifica.
Il fatto decisivo è che essa, pur essendo soltanto sabbia e sassi, è anche luce in forza di un altro, del Signore: ciò che non è suo, è veramente suo e la qualifica più di qualsiasi altra cosa, anzi la sua caratteristica è proprio quella di non valere per se stessa, ma solo per ciò che in essa non è suo, di esistere in qualcosa che le è al di fuori, di avere una luce, che pur non essendo sua, costituisce tutta la sua essenza.
Essa è ‘luna’ - mysterium lunae - e come tale interessa i credenti perché proprio così esige una costante scelta spirituale. Dopo la traduzione della liturgia della Messa, avvenuta in seguito all’ultima riforma, recitando il testo prescritto, incontravo ogni volta una difficoltà che mi sembra chiarire ulteriormente l’argomento di cui ci stiamo occupando. Nella traduzione del Suscipiat si dice: «Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa». Io ero sempre tentato di dire «e di tutta la nostra santa Chiesa». Ricompare qui tutto il nostro problema ed il cambiamento operatosi in quest’ultimo periodo. Al posto della sua Chiesa è subentrata la nostra, e con essa le molte Chiese; ognuno ha la sua. Le Chiese sono diventate imprese nostre, di cui ci vantiamo oppure ci vergogniamo, piccole e innumerevoli proprietà private disposte una accanto all’altra, Chiese soltanto nostre, nostra opera e proprietà, che noi conserviamo o trasformiamo a piacimento. Dietro alla «nostra Chiesa» o anche alla «vostra Chiesa» è scomparsa la «sua Chiesa». Ma è proprio e soltanto questa che interessa; se essa non esiste più, anche la ‘nostra’ deve abdicare. Se fosse soltanto nostra, la Chiesa sarebbe un superfluo gioco da bambini.

7. LA LETTERA AI GALATI: LA GRAZIA DELLA LIBERTÀ

Per la preparazione dell’incontro

Al tempo di Paolo la regione della Galazia comprendeva sia la zona abitata propriamente dalle tre tribù di origine gallica giunte nel III secolo a.C. in Asia Minore e stanziatesi intorno ad Ancyra, l’odierna Ankara, capitale della Turchia, sia le zone più a sud con le città di Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra, Derbe, ecc. È discusso dagli studiosi se la lettera si rivolga ad una di queste due regioni oppure ad entrambe, anche se l’esplicita attestazione del termine ‘galati’ fa propendere per la zona settentrionale.
Paolo attraversò ed evangelizzò la regione nord-galatica durante il II viaggio missionario (At 16,6) e vi tornò nel corso del III viaggio (At 18,23). La lettera fu probabilmente scritta da Efeso, sempre nel corso del III viaggio missionario.
La lettera ai Galati vuole richiamare i cristiani di quelle regioni al vangelo di Cristo.
Paolo, infatti, ha annunciato ai Galati ciò che Cristo risorto gli ha rivelato apparendogli sulla via di Damasco (Gal 1,11-17) e la predicazione dell’apostolo è avvenuta in piena comunione con ciò che tutta la chiesa apostolica concordemente proclama (Gal 1,18-2,10). La lettera è così uno dei documenti più preziosi che attestano la fede delle prime comunità, mentre erano ancora in vita tutti gli apostoli.
Dopo la partenza di Paolo giunsero, però, in Galazia alcuni predicatori itineranti i quali disorientarono le comunità affermando che la circoncisione era necessaria e che, senza di essa, il vangelo non giovava a nulla. Paolo reagisce con forza nella lettera affermando che l’uomo è salvato dalla grazia della fede in Cristo Gesù e non dall’osservanza rituale della Legge mosaica. Ciò che conta è ormai la fede che opera per mezzo della carità (Gal 5,1-15). La salvezza consiste, dunque, nella presenza di Cristo “che vive in noi”, per mezzo del suo Santo Spirito; è grazie ad esso che si sviluppa il frutto nella novità di vita (Gal 5,16-26).

7. 1 LA FEDE CHE OPERA PER MEZZO DELLA CARITÀ

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla lettera ai Galati (Gal 5,1-15)

Fratelli, Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato ad osservare tutta quanta la legge. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia. Noi infatti per virtù dello Spirito, attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo. Poiché in Cristo Gesù non è la circoncisione che conta o la non circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità.
Correvate così bene; chi vi ha tagliato la strada che non obbedite più alla verità? Questa persuasione non viene sicuramente da colui che vi chiama! Un pò di lievito fa fermentare tutta la pasta. Io sono fiducioso per voi nel Signore che non penserete diversamente; ma chi vi turba, subirà la sua condanna, chiunque egli sia. Quanto a me, fratelli, se io predico ancora la circoncisione, perché sono tuttora perseguitato? E’ dunque annullato lo scandalo della croce? Dovrebbero farsi mutilare coloro che vi turbano.
Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. 1Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!

Per la lettura e la riflessione personale

Dalle parole del Papa Benedetto XVI all’Angelus dell’1 luglio 2007, sulle letture della XIII domenica dell’anno C della liturgia
[Siamo invitati] a meditare su un tema affascinante, che si può riassumere così: libertà e sequela di Cristo. L’evangelista Luca narra che Gesù, “mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme” (Lc 9,51). Nell’espressione “decisamente” possiamo intravedere la libertà di Cristo.
Egli infatti sa che a Gerusalemme lo attende la morte di croce, ma in obbedienza alla volontà del Padre offre se stesso per amore.
È in questa sua obbedienza al Padre che Gesù realizza la propria libertà come consapevole scelta motivata dall’amore.
Chi è libero più di Lui che è l’Onnipotente? Egli però non ha vissuto la sua libertà come arbitrio o come dominio. L’ha vissuta come servizio. In questo modo ha “riempito” di contenuto la libertà, che altrimenti rimarrebbe “vuota” possibilità di fare o di non fare qualcosa. Come la vita stessa dell’uomo, la libertà trae senso dall’amore. Chi infatti è più libero? Chi si riserva tutte le possibilità per paura di perderle, oppure chi si spende “decisamente” nel servizio e così si ritrova pieno di vita per l’amore che ha donato e ricevuto?
L’apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani della Galazia, nell’attuale Turchia, dice: “Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri” (Gal 5,13). Vivere secondo la carne significa seguire la tendenza egoistica della natura umana. Vivere secondo lo Spirito invece è lasciarsi guidare nelle intenzioni e nelle opere dall’amore di Dio, che Cristo ci ha donato. La libertà cristiana è dunque tutt’altro che arbitrarietà; è sequela di Cristo nel dono di sé sino al sacrificio della Croce.
Può sembrare un paradosso, ma il culmine della sua libertà il Signore l’ha vissuto sulla croce, come vertice dell’amore. Quando sul Calvario gli gridavano: “Se sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce!”, egli dimostrò la sua libertà di Figlio proprio rimanendo su quel patibolo per compiere fino in fondo la volontà misericordiosa del Padre.
Questa esperienza l’hanno condivisa tanti altri testimoni della verità: uomini e donne che hanno dimostrato di rimanere liberi anche in una cella di prigione e sotto le minacce della tortura. “La verità vi farà liberi”. Chi appartiene alla verità, non sarà mai schiavo di nessun potere, ma saprà sempre liberamente farsi servo dei fratelli.
Guardiamo a Maria Santissima. Umile ancella del Signore, la Vergine è modello di persona spirituale, pienamente libera perché immacolata, immune dal peccato e tutta santa, dedita al servizio di Dio e del prossimo. Con la sua materna premura ci aiuti a seguire Gesù, per conoscere la verità e vivere la libertà nell’amore.

7. 2 IL FRUTTO DELLO SPIRITO

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla lettera ai Galati (Gal 5,16-26)

Fratelli, vi dico: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste.
Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge. Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come gia ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio.
Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è legge. Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri.
Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito. Non cerchiamo la vanagloria, provocandoci e invidiandoci gli uni gli altri.

Per la lettura e la riflessione personale

Dal discorso del Papa Benedetto XVI al Convegno di Verona del 19 ottobre 2006
La risurrezione di Cristo è il centro della predicazione e della testimonianza cristiana, dall’inizio e fino alla fine dei tempi. Si tratta di un grande mistero, certamente, il mistero della nostra salvezza, che trova nella risurrezione del Verbo incarnato il suo compimento e insieme l’anticipazione e il pegno della nostra speranza.
Ma la cifra di questo mistero è l’amore e soltanto nella logica dell’amore esso può essere accostato e in qualche modo compreso: Gesù Cristo risorge dai morti perché tutto il suo essere è perfetta e intima unione con Dio, che è l’amore davvero più forte della morte. Egli era una cosa sola con la Vita indistruttibile e pertanto poteva donare la propria vita lasciandosi uccidere, ma non poteva soccombere definitivamente alla morte: in concreto nell’Ultima Cena egli ha anticipato e accettato per amore la propria morte in croce, trasformandola così nel dono di sé, quel dono che ci dà la vita, ci libera e ci salva.
La sua risurrezione è stata dunque come un’esplosione di luce, un’esplosione dell’amore che scioglie le catene del peccato e della morte. Essa ha inaugurato una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé.
Tutto ciò avviene concretamente attraverso la vita e la testimonianza della Chiesa; anzi, la Chiesa stessa costituisce la primizia di questa trasformazione, che è opera di Dio e non nostra. Essa giunge a noi mediante la fede e il sacramento del Battesimo, che è realmente morte e risurrezione, rinascita, trasformazione in una vita nuova. È ciò che rileva San Paolo nella Lettera ai Galati: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (2,20). È stata cambiata così la mia identità essenziale, tramite il Battesimo, e io continuo ad esistere soltanto in questo cambiamento. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio io c’è di nuovo, ma trasformato, purificato, “aperto” mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza. Diventiamo così “uno in Cristo” (Gal 3, 28), un unico soggetto nuovo, e il nostro io viene liberato dal suo isolamento. “Io, ma non più io”: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo, la formula della “novità” cristiana chiamata a trasformare il mondo. Qui sta la nostra gioia pasquale. La nostra vocazione e il nostro compito di cristiani consistono nel cooperare perché giunga a compimento effettivo, nella realtà quotidiana della nostra vita, ciò che lo Spirito Santo ha intrapreso in noi col Battesimo: siamo chiamati infatti a divenire donne e uomini nuovi, per poter essere veri testimoni del Risorto e in tal modo portatori della gioia e della speranza cristiana nel mondo, in concreto, in quella comunità di uomini e di donne entro la quale viviamo.

8. LA LETTERA AI ROMANI: IL PECCATO E LA GRAZIA

Per la preparazione dell’incontro

Paolo scrisse la lettera ai Romani in prospettiva del suo viaggio. Probabilmente ciò avvenne durante la permanenza di tre mesi a Corinto (At 20,3), nel corso del III viaggio missionario, mentre Paolo progettava di tornare a Gerusalemme per recarsi da lì nell’urbe. Paolo è ospite di Gaio (Rm 16,23), la stessa persona probabilmente che ha battezzato proprio a Corinto (1 Cor 1,14). Paolo non è ancora mai stato a Roma, ma conosce almeno una trentina di cristiani della città (Rm 16,1-16), che deve aver incontrato nei suoi viaggi (si pensi, ad esempio, ad Aquila e Priscilla, esuli da Roma, conosciuti a Corinto; cfr. At 18,1-3).
La comunità cristiana di Roma era stata probabilmente fondata da missionari dei quali non si è conservato il nome, forse commercianti o soldati o liberti che, divenuti cristiani in oriente, si erano poi trasferiti in Roma ed avevano lì annunciato il vangelo. Lo storico romano Svetonio testimonia che già nell’anno 49 d.C. la presenza cristiana faceva talmente discutere nelle sinagoghe della capitale che l’imperatore Claudio era giunto alla decisione di espellere i giudei da Roma (l’affermazione concorda con At 18,2). Anche Paolo afferma che la fama della fede dei romani è già nota in tutto il mondo (Rm 1,8; 16,19).
La lettera ai Romani è una esposizione del vangelo di Cristo. Paolo non è pressato da contingenze concrete ed espone la sua comprensione della grazia di Dio che sola salva tramite la fede. L’uomo è tuttora segnato dalla bontà della creazione divina, poiché può riconoscere la perfezione del Creatore tramite le sue creature (Rm 1,18-21) ed avvertire, tramite la coscienza, la legge morale che Dio ha iscritto nella natura umana (Rm 2,14-15); nonostante questo la sua esistenza è segnata dal peccato che ha avuto origine in Adamo (Rm 5,12-21). L’uomo pertanto non compie il bene e non riesce a liberarsi con le proprie forze dal male (Rm 7,14-25). Per questo Dio ha manifestato la sua grazia in Cristo, perché l’uomo fosse salvato non in base alle proprie opere, ma per il perdono e la vita nuova donati a lui attraverso la morte e la resurrezione di Cristo (Rm 6,1-14).
Tutta l’esistenza umana è così ormai segnata dall’amore di Dio in Cristo Gesù che non verrà mai meno, poiché in lui Dio ci ha donato tutto (Rm 8,28-39).
La lettera ai Romani è un richiamo perenne all’unità del disegno salvifico divino e, perciò, della Scrittura: i testi di Genesi 1-3 sono riletti alla luce del mistero pasquale e manifestano tutto il dramma del peccato originale che si oppone all’opera creativa di Dio. La lettera ai Romani è, inoltre, manifestazione della bontà e della necessità della riflessione teologica nell’esistenza cristiana; il suo genere letterario che non è narrativo, ma riflessivo ed espositivo, attesta come la vita della chiesa abbia bisogno della sintesi teologica per esprimere e comunicare il mistero di Dio.

8. 1 «IO NON COMPIO IL BENE CHE VOGLIO, MA IL MALE CHE NON VOGLIO»

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla lettera ai Romani (Rm 7,14-25)

Fratelli, sappiamo che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mente, servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato.

Per la lettura e la riflessione personale

Dalla Costituzione conciliare Gaudium et spes, 13
Costituito da Dio in uno stato di giustizia, l’uomo però, tentato dal Maligno, fin dagli inizi della storia abusò della libertà, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di lui.
Pur avendo conosciuto Dio, gli uomini «non gli hanno reso l’onore dovuto... ma si è ottenebrato il loro cuore insipiente»... e preferirono servire la creatura piuttosto che il Creatore (cfr. Rm 1,21-25).
Quel che ci viene manifestato dalla rivelazione divina concorda con la stessa esperienza.
Infatti l’uomo, se guarda dentro al suo cuore, si scopre inclinato anche al male e immerso in tante miserie, che non possono certo derivare dal Creatore, che è buono.
Spesso, rifiutando di riconoscere Dio quale suo principio, l’uomo ha infranto il debito ordine in rapporto al suo fine ultimo, e al tempo stesso tutta l’armonia, sia in rapporto a se stesso, sia in rapporto agli altri uomini e a tutta la creazione. Così l’uomo si trova diviso in se stesso.
Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre.
Anzi l’uomo si trova incapace di superare efficacemente da sé medesimo gli assalti del male, così che ognuno si sente come incatenato.
Ma il Signore stesso è venuto a liberare l’uomo e a dargli forza, rinnovandolo nell’intimo e scacciando fuori «il principe di questo mondo» (cfr. Gv 12,31), che lo teneva schiavo del peccato.
Il peccato è, del resto, una diminuzione per l’uomo stesso, in quanto gli impedisce di conseguire la propria pienezza. Nella luce di questa Rivelazione trovano insieme la loro ragione ultima sia la sublime vocazione, sia la profonda miseria, di cui gli uomini fanno l’esperienza.

Dalla Prefazione di V. Soloviev a I tre dialoghi ed Il racconto dell’Anticristo, Marietti, 2007, p. LXV
È forse il male soltanto un difetto di natura, un’imperfezione che scompare da sé con lo sviluppo del bene oppure una forza effettiva che domina il mondo per mezzo delle sue lusinghe sicché per una lotta vittoriosa contro di esso occorre avere un punto di appoggio in un altro ordine di esistenza?

Da G. K. Chesterton, Ortodossia, Morcelliana, Brescia, 2005, p. 22
Certi nuovi teologi mettono in discussione il peccato originale, la sola parte della teologia cristiana che possa effettivamente essere dimostrata. Alcuni [...], nel loro fin troppo fastidioso spiritualismo, ammettono bensì che Dio è senza peccato - cosa di cui non potrebbero aver la prova nemmeno in sogno - ma, viceversa, negano il peccato dell’uomo che può esser visto per la strada. I più grandi santi, come i più grandi scettici, hanno sempre preso come punto di partenza dei loro ragionamenti la realtà del male.
Se è vero (come è vero) che un uomo può provare una voluttà squisita a scorticare un gatto, un filosofo della religione non può trarne che una di queste deduzioni: o negare l’esistenza di Dio, ed è ciò che fanno gli atei; o negare qualsiasi presente unione fra Dio e l’uomo, ed è ciò che fanno tutti i cristiani. I nuovi teologi sembrano pensare che vi sia una terza più razionalistica soluzione: negare il gatto.

8. 2 «COME DIO NON CI DONERÀ OGNI COSA INSIEME CON CRISTO?»

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla lettera ai Romani (Rm 8,28-39)

Fratelli, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati.
Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?
Proprio come sta scritto:

Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno,
siamo trattati come pecore da macello.

Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.

Per la lettura e la riflessione personale

Dal Discorso di Papa Benedetto XVI del 7 novembre 2006 ai vescovi della Svizzera ad limina apostolorum

In tutto il travaglio del nostro tempo, la fede deve veramente avere la priorità. Due generazioni fa, essa poteva forse essere ancora presupposta come una cosa naturale: si cresceva nella fede; essa, in qualche modo, era semplicemente presente come una parte della vita e non doveva essere cercata in modo particolare. Aveva bisogno di essere plasmata ed approfondita, appariva però come una cosa ovvia.
Oggi appare naturale il contrario, che cioè in fondo non è possibile credere, che di fatto Dio è assente. In ogni caso, la fede della Chiesa sembra una cosa del lontano passato.
Così anche cristiani attivi hanno l’idea che convenga scegliere per sé, dall’insieme della fede della Chiesa, le cose che si ritengono ancora sostenibili oggi.
E soprattutto ci si dà da fare per compiere mediante l’impegno per gli uomini, per così dire, contemporaneamente anche il proprio dovere verso Dio. Questo, però, è l’inizio di una specie di “giustificazione mediante le opere”: l’uomo giustifica se stesso e il mondo in cui svolge quello che sembra chiaramente necessario, ma manca la luce interiore e l’anima di tutto.
Perciò credo che sia importante prendere nuovamente coscienza del fatto che la fede è il centro di tutto - “Fides tua te salvum fecit” dice il Signore ripetutamente a coloro che ha guarito. Non è il tocco fisico, non è il gesto esteriore che decide, ma il fatto che quei malati hanno creduto. E anche noi possiamo servire il Signore in modo vivace soltanto se la fede diventa forte e si rende presente nella sua abbondanza.

Da K. Barth, Predigten 1954-1967, Theologischer Verlag, Zürich 2003 (I edizione del 1979), p. 37 (traduzione di P. Pulcinelli)
Ci secca sentire che siamo salvati dalla grazia, e solo dalla grazia. Non apprezziamo il fatto che Dio non ci debba nulla, che la nostra vita dipende solo dalla sua bontà, che non ci resta che una grande umiltà e la gratitudine di un bambino a cui hanno fatto un mucchio di regali. In realtà non ci piace affatto distogliere lo sguardo da noi stessi. Preferiremmo molto ritirarci nel nostro circolo chiuso, e stare con noi stessi. Per dirla schiettamente: non ci piace credere.

Da J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia, 1969, pp. 215-216
L’uomo non raggiunge veramente se stesso tramite ciò che fa, bensì tramite ciò che riceve. Egli è tenuto ad attendere il dono dell’amore, e non può accogliere l’amore che sotto forma di gratuita elargizione.
Non si può far l’amore da soli, senza l’altro; bisogna invece attenderselo, farselo dare. E non si può divenire integralmente uomini fuorché venendo amati, lasciandosi amare. Siccome l’amore rappresenta per l’uomo la più alta possibilità e al contempo la più profonda necessità, e l’elemento più necessario è contemporaneamente il più libero e inesigibile, ne consegue appunto che l’uomo, per ottenere la ‘salvezza’, si trova preordinato al ricevere. Qualora egli rifiuti di sottomettersi a questa legge, ossia ad accettare tale dono, rovina e distrugge se stesso. Un’attività di stampo assolutamente autonomo, che volesse edificare l’esistenza umana unicamente di propria iniziativa, sarebbe una contraddizione in termini. Louis Evely ha formulato questa constatazione in maniera veramente grandiosa:

«L’intera storia dell’umanità è stata fuorviata, ha subìto una frattura per colpa della falsa idea di Dio fattasi da Adamo. Egli volle divenire uguale a Dio. Spero che non abbiate mai visto in questo un peccato di Adamo... Non ve l’aveva forse invitato Dio stesso? Solo che Adamo si è ingannato nell’immaginarne il modellato. Pensò che Dio fosse un essere indipendente, autonomo, autosufficiente; e per divenire come lui, si è ribellato commettendo una disobbedienza. Ma allorché Dio si rivelò, allorché Dio volle mostrare chi veramente egli fosse, si presentò sotto forma di amore, di tenerezza, di effusione di se stesso, di infinita compiacenza in un altro essere. Simpatia, spontanea dipendenza. Dio si fece palesemente obbediente, obbediente sino alla morte. Credendo di diventare Dio, Adamo assunse un atteggiamento totalmente diverso da quello di lui. Si ritirò in una scontrosa solitudine, mentre Dio era la comunità per antonomasia».

Tutto ciò comporta indubbiamente una riduzione delle opere, dell’agire, a mera relatività; la lotta dichiarata da S. Paolo alla «giustizia basata sulle opere» va intesa proprio partendo da questa constatazione.
Bisogna però soggiungere che, in questo inquadramento dell’operare umano a grandezza solo penultima, sta anche la sua intrinseca liberazione: l’attività dell’uomo può ora estrinsecarsi con quel rilassamento, con quella scioltezza e libertà che conviene al fattore penultimo. Il primato della ricezione non intende affatto esiliare l’uomo in una mera passività; non dice che l’uomo possa ora starsene a braccia conserte, come ci rinfaccia il marxismo.
Al contrario, anzi: esso ci agevola piuttosto la possibilità, con alto senso di responsabilità e al contempo senza convulsa agitazione, di affrontare allegri e sciolti le cose di questo mondo, mettendole al servizio dell’amore redentivo.

9. LA LETTERA AI ROMANI: LA VITA IN CRISTO

Per la preparazione dell’incontro

Tutto ha origine dalla grazia e ciò che non viene dalla fede è peccato (Rm 14,23), afferma la lettera ai Romani. Proprio questa sovrabbondanza della grazia divina è capace di cambiare il cuore umano, di rendere l’uomo nuova creatura perché egli cooperi con la sua vita e le sue opere all’azione dello Spirito.
L’opera della giustificazione non è così una pura dichiarazione esteriore che lascia l’uomo nella sua condizione di peccato, ma l’inizio del culto spirituale nel quale l’uomo offre il proprio corpo, la propria esistenza, come sacrifico gradito a Dio (Rm 12,1-2).
I sacrifici antichi pagani erano atti esteriori, immolazioni di animali, offerte di cibi e bevande; all’opposto, nel pensiero greco-romano, la ricerca spirituale sembrava portare ad una scissione fra l’anima ed il corpo, di modo che la consegna era quella del distacco dalle cose terrene e dalla condivisione di vita con tutti gli uomini, per differenziarsi e coltivare la propria interiorità.
Paolo presenta il nuovo dinamismo che nasce dalla fede cristiana, per la quale ogni aspetto della vita, dalla corporeità all’intelligenza, dalle relazioni sponsali a quelle educative, dal rapporto con i fratelli a quello con i poveri e finanche quello con i nemici, tutto viene assunto per divenire espressione della carità cristiana, poiché pieno compimento della Legge è l’amore (Rm 13,10).
Anche il rapporto con lo stato e l’impegno politico acquistano una nuova rilevanza, perché il potere viene spogliato del suo carattere idolatrico e manifesta, invece, la sua dimensione di realtà necessaria a servizio della convivenza umana. Il ‘Date a Cesare quel che è di Cesare, ma date a Dio quel che è di Dio’ segna anche la riflessione dell’apostolo e la proposta paolina di una partecipazione fedele, intelligente e propositiva ai doveri della collettività.

9. 1 «OFFRITE I VOSTRI CORPI: È QUESTO IL VOSTRO CULTO SPIRITUALE»

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla lettera ai Romani (Rm 12,1-21)
Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.
Per la grazia che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi: non valutatevi più di quanto è conveniente valutarsi, ma valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato.
Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri. Abbiamo pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi. Chi ha il dono della profezia la eserciti secondo la misura della fede; chi ha un ministero attenda al ministero; chi l’insegnamento, all’insegnamento; chi l’esortazione, all’esortazione.
Chi dà, lo faccia con semplicità; chi presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia.
La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità.
Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi.
Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti: A me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore. Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere:facendo questo, infatti, ammasserai carboni ardenti sopra il suo capo. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male.

Per la lettura e la riflessione personale

Da sant’Ireneo, Adversus Haereses V, 6, 1
Gli uomini sono spirituali grazie alla partecipazione dello Spirito, ma non grazie alla privazione ed eliminazione della carne

Da Madeleine Delbrêl, La gioia di credere, Gribaudi, Milano, 1988
La nostra condizione è di avere un corpo. La mattina, quando ci svegliamo, il nostro corpo è il nostro primo incontro. Un primo incontro non sempre piacevole, poi una prossimità ora cordiale ora tempestosa lungo tutto il giorno. Quanti di noi, in momenti di sovraffaticamento o di tentazione, non hanno provato una gran voglia di maledire il proprio corpo e quasi chiesto di esserne liberati...
E tuttavia il nostro corpo non è un caso. Dio l’ha voluto, Dio l’ha equilibrato. Abbiamo i nervi il sangue e il temperamento profondo che Egli ha voluto. Il nostro corpo, Dio l’ha pre-conosciuto per farvi abitare la sua grazia. Egli non ne ignora alcuna debolezza, alcun compromesso, alcuna deviazione.
Eppure l’ha scelto per farne il corpo d’un santo.
Noi abbiamo il corpo del nostro destino, il corpo della nostra santità.
Il nostro corpo è il luogo, nel corso della giornata, di incidenti che fanno spesso a pugni con la nostra anima: vibrazione di nervi, pesantezza di testa, buone o cattive disposizioni, altrettante minute circostanze che non per questo sono meno le circostanze e l’espressione della volontà di Dio su di noi. Niente di tutto ciò è un negativo che debba impedirci e determinarci. Al contrario: tutto ciò costituisce le condizioni della venuta di Dio in noi, è un poco del suo volere che ci si rivela: questo benessere, questa emicrania, queste gambe affaticate sono la materia della nostra grazia attuale.
Bisognerebbe abituarci a tenere il nostro corpo come in gerenza: è la vita che Dio ci affida. Noi dobbiamo perderla quanto alla proprietà, ma ritrovarla in quanto essa gli appartiene. Bisognerebbe che noi stessimo di fronte al nostro corpo come il contadino davanti alla sua terra. Sapere ciò che il nostro corpo vale: stimarlo, come si suol dire. Saperne le ricchezze e le deficienze, ciò che lo fortifica e ciò che lo debilita, tentare di armonizzarlo con le grandi leggi naturali che Dio ha inventato: quelle che noi richiamiamo quando vogliamo raffigurare l’insieme delle anime congiunte al Cristo.
Il nostro corpo non ha frontiere che ci siano facilmente percettibili. Di questi tempi, in cui gli studi medici e psicologici mettono spesso in luce brutalmente le eredità o gli atavismi, molte persone possono venirne turbate, sentirsi urtate e scosse nei loro desideri di rettitudine spirituale da questi marosi interiori: gusti, istinti, caratteri, passioni, squilibri.
Nondimeno, tutta questa pasta umana è anch’essa materia per la grazia, materia per la nostra grazia.
Proprio con essa Dio ha deciso di fare di noi dei santi. Nulla in essa è inquietante, perché tutto vi è previsto. È una gioia offrire a Dio, per un servizio di buona volontà, questa particella di umanità carnale venuta di balzo in balzo dal fondo di generazioni pure o colpevoli.
È una gioia l’esserne depositari e avere il potere di santificarla. È assai confortante sapere che la nostra volontà, applicata alla volontà di Dio, basta a mantenere nell’ordine tutta questa pasta di umanità: la nostra volontà, che dev’essere tesa e dolce, tesa verso Dio e priva della propria rigidezza come una guaina di pelle ben conciata che rivesta una lama e diventi dura anch’essa.
Questa scoperta della volontà di Dio nel nostro corpo fa sì che noi dobbiamo considerarne anche la minima parte con rispetto. Esiste una sorta di reverenza di fronte a ciò che Dio ha creato. Non bisogna credere di materializzare così la nostra vita: l’ossequio che daremo all’azione di Dio nella nostra carne ci condurrà all’adorazione profonda dell’opera che egli compie negli spiriti. La giustizia che praticheremo nei riguardi del nostro corpo ci renderà forse più giusti di fronte alla nostra anima.

Dai Discorsi sul Cantico dei Cantici di san Bernardo, abate (Disc. 83, 4-6; Opera omnia, ed. Cisterc. 2 [1958] 300-302)
L’amore è sufficiente per se stesso, piace per se stesso e in ragione di sé. È a se stesso merito e premio. L’amore non cerca ragioni, non cerca vantaggi all’infuori di sé. Il suo vantaggio sta nell’esistere. Amo perché amo, amo per amare.
Grande cosa è l’amore se si rifà al suo principio, se è ricondotto alla sua origine, se è riportato alla sua sorgente. Di là sempre prende alimento per continuare a scorrere. L’amore è il solo tra tutti i moti dell’anima, tra i sentimenti e gli affetti, con cui la creatura possa corrispondere al Creatore, anche se non alla pari; l’unico con il quale possa contraccambiare il prossimo e, in questo caso, certo alla pari.
Quando Dio ama, altro non desidera che essere amato. Non per altro ama, se non per essere amato, sapendo che coloro che l’ameranno si beeranno di questo stesso amore.
L’amore dello Sposo, anzi lo Sposo-amore cerca soltanto il ricambio dell’amore e la fedeltà. Sia perciò lecito all’amata di riamare. Perché la sposa, e la sposa dell’Amore non dovrebbe amare? Perché non dovrebbe essere amato l’Amore? Giustamente, rinunziando a tutti gli altri suoi affetti, attende tutta e solo all’Amore, ella che nel ricambiare l’amore mira a uguagliarlo. Si obietterà, però, che, anche se la sposa si sarà tutta trasformata nell’Amore, non potrà mai raggiungere il livello della fonte perenne dell’amore. È certo che non potranno mai essere equiparati l’amante e l’Amore, l’anima e il Verbo, la sposa e lo Sposo, il Creatore e la creatura.
La sorgente, infatti, dà sempre molto più di quanto basti all’assetato. Ma che importa tutto questo?
Cesserà forse e svanirà del tutto il desiderio della sposa che attende il momento delle nozze, cesserà la brama di chi sospira, l’ardore di chi ama, la fiducia di chi pregusta, perché non è capace di correre alla pari con un gigante, gareggiare in dolcezza col miele, in mitezza con l’agnello, in candore con il giglio, in splendore con il sole, in carità con colui che è l’Amore? No certo.
Sebbene infatti la creatura ami meno, perché è inferiore, se tuttavia ama con tutta se stessa, non le resta nulla da aggiungere. Nulla manca dove c’è tutto. Perciò per lei amare così è aver celebrato le nozze, poiché non può amare così ed essere poco amata. Il matrimonio completo e perfetto sta nel consenso dei due, a meno che uno dubiti che l’anima sia amata dal Verbo, e prima e di più.

Dal discorso di Benedetto XVI ai giovani in piazza Matteotti a Genova del 18 maggio 2008
State uniti tra voi, aiutatevi a vivere e a crescere nella fede e nella vita cristiana, per poter essere testimoni arditi del Signore. State uniti, ma non rinchiusi. Siate umili, ma non pavidi. Siate semplici, ma non ingenui.
Siate pensosi, ma non complicati. Entrate in dialogo con tutti, ma siate voi stessi. Restate in comunione con i vostri Pastori: sono ministri del Vangelo, della divina Eucaristia, del perdono di Dio. Sono per voi padri e amici, compagni della vostra strada. Voi avete bisogno di loro, e loro - noi tutti - abbiamo bisogno di voi.

9. 2 «RENDETE A CIASCUNO CIÒ CHE GLI È DOVUTO»: IL CRISTIANO, LA SOCIETÀ E LA POLITICA

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla lettera ai Romani (Rm 13,1-14)

Fratelli, ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna. I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver da temere l’autorità? Fà il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male. Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto il rispetto.
Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare,non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. L’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore.
Questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri.

Per la lettura e la riflessione personale

Dal discorso Libertà e religione nell’identità dell’Europa del 20 settembre 2002 dell’allora card. J. Ratzinger, in occasione delle Giornate internazionali del pensiero filosofico sul tema: Le due libertà:Parigi o Filadelfia?
È noto che i testi delle lettere degli apostoli - in consonanza con la visione tratteggiata nei Vangeli - non sono affatto toccate dal pathos della rivoluzione, anzi, vi si oppongono chiaramente. I due testi fondamentali di Rom 13,1-6 e di 1 Pt 2,13-17 sono molto chiari e da sempre una spina nell’occhio per tutti i rivoluzionari. Romani 13 chiede che «ciascuno» (letteralmente: ogni anima) stia sottomesso alle autorità costituite, perché non c’è alcuna autorità se non da Dio. Un’opposizione all’autorità sarebbe pertanto un’opposizione contro l’ordine stabilito da Dio. Ci si deve sottomettere quindi non solo per costrizione, ma per ragioni di coscienza. In modo del tutto analogo la prima Lettera di Pietro richiede sottomissione alle autorità legittime «per amore del Signore»: «Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti. Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia...».
Né Paolo né Pietro esprimono qui un’esaltazione acritica dello Stato romano. Sebbene essi affermino l’origine divina degli ordinamenti giuridici statali, sono ben lontani da una divinizzazione dello Stato.
Proprio perché essi vedono i limiti dello Stato, che non è Dio e non si può presentare come Dio, riconoscono la funzione dei suoi ordinamenti e il suo valore morale. [...]
In questa linea si muove la risposta di Gesù ai farisei e agli erodiani in merito alla questione delle tasse: ciò che è di Cesare, deve essere dato a Cesare (Mc 13,12-17).
Nella misura in cui l’imperatore romano è garante del diritto, egli può esigere obbedienza; naturalmente l’ambito del dovere di obbedienza viene allo stesso tempo ridotto: esiste ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio. Laddove Cesare si innalza a Dio, ha superato i suoi limiti e l’obbedienza sarebbe allora rinnegamento di Dio. Sostanzialmente è in questa linea anche la risposta di Gesù a Pilato, nella quale il Signore proprio di fronte al giudice ingiusto riconosce tuttavia che il potere per l’esercizio del ruolo di giudice, del servizio al diritto, può essere dato solo dall’alto (Gv 19,11).
Se si considerano queste correlazioni, appare una concezione dello Stato molto sobria: non è determinante la credibilità personale o le buone intenzioni soggettive degli organi dello Stato. Nella misura in cui garantiscono la pace e il diritto, corrispondono a una disposizione divina; con una terminologia di oggi diremmo: rappresentano un ordinamento creaturale.
Lo Stato è da rispettare proprio nella sua profanità; è necessario a partire dall’essenza dell’uomo come animal sociale et politicum, si fonda su questa natura umana e così è corrispondente alla creazione.
In tutto questo è allo stesso tempo contenuta una delimitazione dello Stato: esso ha il suo ambito, che non può superare; deve rispettare il più alto diritto di Dio. Il rifiuto dell’adorazione dell’imperatore e in genere il rifiuto del culto dello Stato è in fondo semplicemente il rifiuto dello Stato totalitario. [...]
Un aspetto importante appare anche in 1 Tm 2,2, dove i cristiani vengono esortati a pregare per il re e per tutte le autorità, «perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla». Due cose appaiono qui chiaramente: i cristiani pregano per il re e per le autorità, ma non adorano il re. Il testo datato al tempo di Nerone - se ne è autore Paolo - o, se è da collocare più tardi, all’incirca dal tempo di Domiziano, quindi due tiranni ostili ai cristiani. Nondimeno i cristiani pregano per colui che governa, perché egli possa adempiere il suo compito.
Naturalmente qualora egli si faccia Dio, gli rifiutano obbedienza. Il secondo elemento consiste nel fatto che viene formulato il compito dello Stato in una forma straordinariamente sobria, che sembra quasi banale: deve preoccuparsi della pace interna ed esterna. Ciò può, come detto, suonare piuttosto banale, ma in realtà vi è espressa una istanza essenzialmente morale: la pace interna ed esterna sono possibili solo quando sono assicurati i diritti essenziali dell’uomo e della comunità. [...] Un messianismo entusiasta escatologico-rivoluzionario è assolutamente estraneo al Nuovo Testamento. La storia è per così dire il regno della ragione; la politica non instaura il Regno di Dio, ma certamente deve preoccuparsi per il giusto regno dell’uomo, ciò vuol dire: creare i presupposti per una pace interna ed esterna e per una giustizia, nella quale tutti «possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità» (1 Tm 2,2).

10. LA LETTERA AI FILIPPESI: LA SUBLIMITÀ DELLA CONOSCENZA DI CRISTO

Per la preparazione dell’incontro

Paolo fondò la comunità di Filippi in Macedonia durante il suo II viaggio missionario, dopo essere sbarcato a Neapoli, provenendo da Troade (At 16,11-12). Gli Atti ricordano a Filippi il nome di Lidia: fu lei a ricevere il primo battesimo che Paolo amministrò in Europa (At 16,13-15). Sempre a Filippi, una giovane schiava che aveva uno spirito di divinazione riconobbe che Paolo e Sila erano portatori del vero messaggio di salvezza, ma, una volta che essi allontanarono da lei lo spirito che era fonte di guadagno per i suoi padroni, questi ultimi ingenerarono una sommossa contro Paolo che fu gettato in prigione (At 16,16-24). Imprigionato fu liberato miracolosamente e battezzò il suo carceriere (At 16,25-40), ma dovette poi allontanarsi dalla città per le difficoltà avute con la popolazione della città (cfr. anche 1 Ts 2,2 e Fil 1,30). Paolo tornò a Filippi nel corso del III viaggio missionario.
È probabile che in questa occasione abbia scritto a Filippi la II lettera ai Corinzi, poiché in quella lettera afferma di essersi recato in Macedonia incontro a Tito che doveva recargli le notizie sulla comunità di Corinto (2 Cor 2,12-13; 7,5-16).
Paolo scrive la lettera ai Filippesi in una situazione di prigionia (Fil 1,12-14): il suo essere in carcere non lo sconforta, ma anzi diventa occasione di annunzio del vangelo per quelli che sono con lui e per gli stessi carcerieri. L’apostolo è in attesa della sentenza che potrebbe essere quella di una condanna a morte, anche se Paolo è fiducioso che sarà infine liberato e potrà rivedere i Filippesi (Fil 1,27; 2,23-24). L’ipotesi tradizionale vuole che la lettera sia stata inviata da Roma, dunque al termine del IV viaggio di Paolo, ma alcuni studiosi ipotizzano una precedente prigionia di Paolo ad Efeso, non raccontataci dagli Atti, nel corso della quale potrebbe essere avvenuta la redazione del testo.
La lettera conserva un antico inno cristologico già noto probabilmente alla comunità di Filippi (Fil 2,6-11). L’epistolario paolino testimonia così di un altro importantissimo strumento di trasmissione della fede: l’inno liturgico. Il rapporto tra la lex orandi e la lex credendi è già evidentissimo nel Nuovo Testamento. Nell’inno si afferma con chiarezza che Cristo è di natura divina, ma che non considerò questa sua uguaglianza con Dio qualcosa da custodire con gelosia, bensì si spogliò della gloria che competeva alla sua divinità per divenire simile agli uomini e comunicare loro questa sua condizione.
Paolo ha così appreso a considerare tutto ciò che prima riteneva importante come ‘spazzatura’ (letteralmente ‘sterco’), dinanzi alla sublimità della conoscenza di Cristo (Fil 3,1-16). Questa rivelazione di Cristo non può non far esultare tutti i credenti di gioia e non può non esprimersi in allegrezza (Fil 4,1-9; sulla ‘gioia’ nella lettera, cfr. anche Fil 1,18.25; 2,2.17.18.28.29; 3,1; 4,10).

10. 1 «TUTTO ORMAI IO CONSIDERO UNA PERDITA DINANZI ALLA SUBLIMITÀ DELLA CONOSCENZA DI CRISTO»

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla lettera ai Filippesi (Fil 2,6-11; 3,1-16)
Fratelli, Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre.
Per il resto, fratelli miei, state lieti nel Signore. A me non pesa e a voi è utile che vi scriva le stesse cose: guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno circoncidere! Siamo infatti noi i veri circoncisi, noi che rendiamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci gloriamo in Cristo Gesù, senza avere fiducia nella carne, sebbene io possa vantarmi anche nella carne. Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non però che io abbia gia conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo.
Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù. Quanti dunque siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo. Intanto, dal punto a cui siamo arrivati continuiamo ad avanzare sulla stessa linea.

Per la lettura e la riflessione personale

Dall’omelia del Papa Benedetto XVI nella Messa crismale del 5 aprile 2007
Lo scrittore russo Leone Tolstoj narra in un piccolo racconto di un sovrano severo che chiese ai suoi sacerdoti e sapienti di mostrargli Dio affinché egli potesse vederlo. I sapienti non furono in grado di appagare questo suo desiderio. Allora un pastore, che stava giusto tornando dai campi, si offrì di assumere il compito dei sacerdoti e dei sapienti.
Il re apprese da lui che i suoi occhi non erano sufficienti per vedere Dio. Allora, però, egli volle almeno sapere che cosa Dio faceva. “Per poter rispondere a questa tua domanda - disse il pastore al sovrano - dobbiamo scambiare i vestiti”. Con esitazione, spinto tuttavia dalla curiosità per l’informazione attesa, il sovrano acconsentì; consegnò i suoi vestiti regali al pastore e si fece rivestire del semplice abito dell’uomo povero.
Ed ecco allora arrivare la risposta: “Questo è ciò che Dio fa”. Di fatto, il Figlio di Dio - Dio vero da Dio vero - ha lasciato il suo splendore divino: “…spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso … fino alla morte di croce” (cfr. Fil 2,6ss).
Dio ha - come dicono i Padri - compiuto il sacrum commercium, il sacro scambio: ha assunto ciò che era nostro, affinché noi potessimo ricevere ciò che era suo, divenire simili a Dio.
San Paolo, per quanto accade nel Battesimo, usa esplicitamente l’immagine del vestito: “Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3,27). Ecco ciò che si compie nel Battesimo: noi ci rivestiamo di Cristo, Egli ci dona i suoi vestiti e questi non sono una cosa esterna. Significa che entriamo in una comunione esistenziale con Lui, che il suo e il nostro essere confluiscono, si compenetrano a vicenda. “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” - così Paolo stesso nella Lettera ai Galati (2,2) descrive l’avvenimento del suo battesimo.
Cristo ha indossato i nostri vestiti: il dolore e la gioia dell’essere uomo, la fame, la sete, la stanchezza, le speranze e le delusioni, la paura della morte, tutte le nostre angustie fino alla morte. E ha dato a noi i suoi “vestiti”.
Ciò che nella Lettera ai Galati espone come semplice “fatto” del battesimo - il dono del nuovo essere - Paolo ce lo presenta nella Lettera agli Efesini come un compito permanente: “Dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima! … [Dovete] rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera. Perciò, bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membri gli uni degli altri. Nell’ira, non peccate…” (Ef 4,22-26).

10. 2 «RALLEGRATEVI NEL SIGNORE SEMPRE»

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla lettera ai Filippesi (Fil 4,1-9)

Fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete saldi nel Signore così come avete imparato, carissimi!
Esorto Evòdia ed esorto anche Sìntiche ad andare d’accordo nel Signore. E prego te pure, mio fedele collaboratore, di aiutarle, poiché hanno combattuto per il vangelo insieme con me, con Clemente e con gli altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita.
Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù.
In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare. E il Dio della pace sarà con voi!

Per la lettura e la riflessione personale

Da san Tommaso d’Aquino, Expositio et lecturas super epistolas Pauli Apostoli, lect. 5 su 2 Cor 1,13
«Siate nella gioia» (2 Cor 13,11). Questo sentimento è necessario perché voi siate giusti e virtuosi, perché nessuno è tale se non si rallegra delle opere virtuose e giuste [...] E veramente ci si deve rallegrare continuamente perché la gioia conserva l’uomo nell’habitus del bene. Nessuno, infatti, può rimanere a lungo in ciò che lo rattrista.

11. LA LETTERA AI COLOSSESI E LA LETTERA A FILEMONE: TUTTE LE COSE SUSSISTONO IN LUI

Per la preparazione dell’incontro

La comunità cristiana di Colossi, nella Frigia, non era stata fondata direttamente da Paolo, bensì da un suo collaboratore, Epafra. Lo stesso era avvenuto nelle due città vicine di Laodicea e Gerapoli (Col 4,16). Paolo non aveva neanche mai visitato queste città, sebbene conoscesse evidentemente le vicende della chiesa locale tramite Epafra. Proprio le lettere sono lo strumento di comunicazione utilizzato da Paolo per tenere i contatti con le comunità quando gli è impossibile visitarle. Come Marco ha inventato il genere letterario ‘vangelo’, così Paolo è il creatore delle lettere alle comunità. Prima di lui l’antichità conosceva solamente lettere private, molto brevi, di affari o d’amore, oppure trattati filosofici in forma epistolare, nei quali le singole lettere scandivano la divisione in capitoli. Con Paolo nasce l’esigenza di lettere non fittizie indirizzate non ad un singolo, ma a più persone: sono il corrispettivo in chiave letterario dell’esistenza della chiesa. Gli studiosi non sono certi se la lettera ai Colossesi sia stata scritta da Paolo, ma affermano con sicurezza che se la paternità del testo non fosse direttamente sua, si dovrebbe pensare allora ad un suo discepolo; la lettera presenta infatti dei temi tipicamente paolini, ma con sviluppi teologici significativi.
La lettera si presenta come scritta in una condizione di prigionia e si è pensato, quindi, a Roma o ad Efeso.
Colossesi vuole affermare non solo il primato di Cristo, come mediatore tra Dio e gli uomini, ma soprattutto la sua unicità. Evidentemente alcuni fra i Colossesi si ritenevano depositari di una rivelazione a loro dire più completa di quella degli altri cristiani, asserendo di avere relazioni privilegiate con angeli o altre potenze celesti: essi non negavano Cristo, ma lo ritenevano insufficiente, incompleto e cercavano di andare oltre la sua unicità - viene da pensare ad alcune posizioni delle moderne concezioni religiose sincretiste nella galassia della odierna New Age.
Paolo afferma, invece, nell’inno cristologico della lettera (Col 1,15-20) che Cristo è l’immagine del Dio invisibile Non è dato scoprire il vero volto di Dio se non nell’incontro con Cristo.
Non solo: il Cristo è anche il capo del corpo che è la chiesa e non si può incontrare il capo senza incontrare al contempo il suo corpo. La lettera ai Colossesi relativizza così tutte le potenze angeliche, affermando che esse sono sottomesse a Cristo ed al suo servizio, poiché solo in Cristo dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9). Il messaggio cristiano si rivela così non come una proposta elitaria, ma si offre piuttosto ad ogni uomo che ha accesso all’unico Cristo tramite la fede ed il battesimo. Anche la lettera a Filemone è indirizzata ad un abitante di Colossi ed a tutta la comunità cristiana della città. Paolo invita Filemone ad accogliere il suo schiavo fuggitivo Onesimo come fratello in Cristo, in nome della carità. Il messaggio di Gesù comincia a trasformare dall’interno tutte le relazioni umane.

11. 1 CRISTO È IMMAGINE DEL DIO INVISIBILE E CAPO DEL SUO CORPO CHE È LA CHIESA

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla lettera ai Colossesi (Col 1,15-20)

Cristo, il Figlio diletto, è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui. Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli.

Per la lettura e la riflessione personale

Da Aleksandr Men’, Io credo. Il Simbolo della fede, Nova millennium editrice, Roma, 2007, pp. 56-60
Non ho paura di tornare a ripetere che ogni cultura al mondo possiede i propri templi, i canti, le campane, i rosari, i trattati, i conventi e molto altro, ma la differenza principale del cristianesimo rispetto alle altre religioni del mondo consiste nella persona di Gesù Cristo.
Questa Persona, questa Rivelazione, non esiste altrove. E per quanto sia stata grande la persona di Gautama il Budda che fondò il buddismo, i suoi orientamenti, i suoi insegnamenti, i suoi principii sono molto più essenziali per il buddismo della persona stessa del Budda. In fin dei conti, se Maometto non fosse comparso sulla terra, e se altri, ignoto, avesse proposto i dogmi importantissimi dell’unicità di Dio, dell’obbedienza a Dio, delle preghiere più volte al giorno, ecc. l’islam sarebbe comunque diventato tale qual è oggi.
Invece il cristianesimo, senza Cristo perde la sostanza, l’ultima e la più importante. In una novella di Vladimir Solov’ëv, scritta poco prima di morire, e intitolata Breve novella sull’Anticristo, è presentata una scena ove il presidente dell’intero pianeta, il sovrano della Terra, raduna i rappresentanti delle principali Chiese cristiane. Ai cattolici promette la costruzione di templi particolarmente sfarzosi, agli ortodossi di creare musei straordinariamente preziosi dedicati all’arte ecclesiastica antica, ai protestanti di fondare nuovi istituti per lo studio della Sacra Scrittura e della teologia.
Sembra che tutti siano contenti. Ma i tre capi della chiesa, il papa Pietro, lo staretz Joann e il professor Pauli, gli rivolgono una domanda diretta: qual è il suo atteggiamento nei confronti di Gesù Cristo? «Tu ci proponi tutto, tranne Lui». Questo è cristianesimo senza Cristo. Estetica, scienza, tradizione, liturgia... ma manca la cosa principale! Manca il Figlio dell’Uomo, crocefisso e risorto! E grazie a questo indizio lo staretz Joann, il papa Pietro e il dottor Pauli smascherano l’anticristo nel presidente del mondo. È questo un brano d’importanza primaria nel chiarire la visione di Vladimir Solov’ëv sul mistero del cristianesimo.
Va detto che da allora non è cambiato nulla; e anche dal tempo in cui fu scritto il Vangelo, in questo senso, non è cambiato niente. «Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine», dice il Signore Gesù Cristo. E quando noi leggiamo i testi più antichi - cronologicamente più antichi - del Nuovo Testamento, vi troviamo le parole dell’apostolo Paolo, il quale dice che l’uomo si salva, cioè si approssima a Dio, non attraverso la legge, non con le cose della legge, ma attraverso la fede in Gesù Cristo.
Questo che cosa significa? La legge è un certo ordine della vita. La legge è una religione appartenente alla cultura umana. Questa cultura, naturalmente, come si suol dire, ha “radici terrene”. Tutto importante e indispensabile; ma questa eredità culturale non può compiere la svolta, perché in essa ci sono troppe cose umane, e solamente umane. E solo quando l’uomo scopre per sé Cristo, immortale, sempre vivo, allora si compie quello che in uno specifico linguaggio biblico si chiama salvezza, cioè comunione dell’uomo alla Vita vera, alla quale l’anima brama, alla quale aspira. Ecco perché il Signore Gesù Cristo chiamò la Sua predicazione besorà, che significa “lieta novella”, in greco evanghelion. Noi la chiamiamo Vangelo, la Lieta o Buona Novella.

11. 2 «È IN CRISTO CHE ABITA CORPORALMENTE TUTTA LA PIENEZZA DELLA DIVINITÀ»

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla lettera ai Colossesi (Col 2,9-19)

Fratelli, è in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi avete in lui parte alla sua pienezza, di lui cioè che è il capo di ogni Principato e di ogni Potestà. In lui voi siete stati anche circoncisi, di una circoncisione però non fatta da mano di uomo, mediante la spogliazione del nostro corpo di carne, ma della vera circoncisione di Cristo. Con lui infatti siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui anche siete stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti.
Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti per i vostri peccati e per l’incirconcisione della vostra carne, perdonandoci tutti i peccati, annullando il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli. Egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce; avendo privato della loro forza i Principati e le Potestà ne ha fatto pubblico spettacolo dietro al corteo trionfale di Cristo.
Nessuno dunque vi condanni più in fatto di cibo o di bevanda, o riguardo a feste, a noviluni e a sabati: tutte cose queste che sono ombra delle future; ma la realtà invece è Cristo! Nessuno v’impedisca di conseguire il premio, compiacendosi in pratiche di poco conto e nella venerazione degli angeli, seguendo le proprie pretese visioni, gonfio di vano orgoglio nella sua mente carnale, senza essere stretto invece al capo, dal quale tutto il corpo riceve sostentamento e coesione per mezzo di giunture e legami, realizzando così la crescita secondo il volere di Dio.

Per la lettura e la riflessione personale

Da Henri de Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura, vol. III, Jaca Book, Milano, 1996 (brani scelti da L. Walt per il sito www.letterepaoline.it)
In Gesù Cristo, che ne era il fine, l’antica Legge trovava in precedenza la sua unità. Di secolo in secolo, tutto in questa Legge convergeva verso di Lui. È Lui che, della “totalità delle Scritture”, formava già “l’unica Parola di Dio” [...]
In Lui, i verba multa (le molte parole) degli scrittori biblici diventano per sempre Verbum unum (l’unica Parola). Senza di Lui, invece, il legame si scioglie: di nuovo la parola di Dio si riduce a frammenti di “parole umane”; parole molteplici, non soltanto numerose, ma molteplici per essenza e senza unità possibile, perché, come constata Ugo di San Vittore, multi sunt sermones hominis, quia cor hominis unum non est (numerose sono le parole dell’uomo, perché il cuore dell’uomo non è uno) [...]
Sì, Verbo abbreviato, “abbreviatissimo”, brevissimum, ma sostanziale per eccellenza. Verbo abbreviato, ma più grande di ciò che abbrevia. Unità di pienezza. Concentrazione di luce. L’incarnazione del Verbo equivale all’apertura del Libro, la cui molteplicità esteriore lascia ormai percepire il “midollo” unico, questo midollo di cui i fedeli si nutriranno.
Ecco che con il fiat (accada) di Maria che risponde all’annunzio dell’angelo, la Parola, fin qui soltanto “udibile alle orecchie”, è diventata “visibile agli occhi, palpabile alle mani, portabile alle spalle”. Più ancora: essa è diventata “mangiabile”.
Niente delle verità antiche, niente degli antichi precetti è andato perduto, ma tutto è passato a uno stato migliore. Tutte le Scritture si riuniscono nelle mani di Gesù come il pane eucaristico, e, portandole, egli porta sé stesso nelle sue mani: “tutta la Bibbia in sostanza, affinché noi ne facciamo un solo boccone...”.
“A più riprese e sotto varie forme” Dio aveva distribuito agli uomini, foglio per foglio, un libro scritto, nel quale una Parola unica era nascosta sotto numerose parole: oggi egli apre loro questo libro, per mostrare loro tutte queste parole riunite nella Parola unica. Filius incarnatus, Verbum incarnatum, Liber maximus (Figlio incarnato, Verbo incarnato, Libro per eccellenza): la pergamena del Libro è ormai la sua carne; ciò che vi è scritto sopra è la sua divinità [...] Le due forme del Verbo abbreviato e dilatato sono inseparabili. Il Libro dunque rimane, ma nello stesso tempo passa tutt’intero in Gesù e per il credente la sua meditazione consiste nel contemplare questo passaggio.
Mani e Maometto hanno scritto dei libri. Gesù, invece, non ha scritto niente; Mosè e gli altri profeti “hanno scritto di lui”. Il rapporto tra il Libro e la sua Persona è dunque l’opposto del rapporto che si osserva altrove. Così la Legge evangelica non è affatto una lex scripta (legge scritta).
Il cristianesimo, propriamente parlando, non è affatto una “religione del Libro”: è la religione della Parola - ma non unicamente né principalmente della Parola sotto la sua forma scritta. Esso è la religione del Verbo, “non di un verbo scritto e muto, ma di un Verbo incarnato e vivo”. La Parola di Dio adesso è qui tra di noi, “in maniera tale che la si vede e la si tocca”: Parola “viva ed efficace”, unica e personale, che unifica e sublima tutte le parole che le rendono testimonianza. Il cristianesimo non è “la religione biblica”: è la religione di Gesù Cristo.

12. LA LETTERA AGLI EFESINI: IL DISEGNO SALVIFICO DI DIO ABBRACCIA L’UNIVERSO INTERO

Per la preparazione dell’incontro

La lettera agli Efesini potrebbe essere stata indirizzata originalmente non solo alla comunità cristiana di Efeso, ma anche ad altre comunità asiatiche ed, in particolare, ai cristiani provenienti dal paganesimo; infatti, in alcuni manoscritti antichi, manca l’indirizzo esplicito. Si ipotizza così che lo scritto sia stato concepito come ‘circolare’, come ‘enciclica’ per essere letto in più luoghi.
Efeso fu comunque un luogo molto significativo nella vita di Paolo ed egli amò profondamente i cristiani di quella città. Vi transitò una prima volta al termine del II viaggio missionario, provenendo via mare dal porto di Cencre (At 19,19-21) e vi lasciò i coniugi Aquila e Priscilla che con lui vi erano giunti. Vi soggiornò poi a lungo, per ben due anni, durante il II viaggio missionario (At 19,1-20,1). Durante questo periodo fondò la comunità cristiana, incontrando innanzitutto alcuni discepoli di Giovanni Battista che non avevano ancora sentito parlare dello Spirito Santo (At 19,2). Predicò nella sinagoga e poi nella scuola di un certo Tiranno, lottò contro le pratiche magiche degli esorcisti non cristiani del luogo, mostrando che è solo la fede in Gesù che sconfigge il male. Venne in conflitto con i cultori della dèa Artemide efesina, poiché, mostrando la falsità degli dèi pagani, allontanò molti dalla sua venerazione.
Ad Efeso Paolo scrisse probabilmente la I lettera ai Corinzi e la lettera ai Galati e, secondo alcuni autori, le lettere nelle quali egli si dichiara prigioniero. Sempre ad Efeso maturò in Paolo il desiderio di annunciare il vangelo a Roma (At 19,21-22).
Tornando dalla Grecia a Gerusalemme, alla fine del III viaggio, volle incontrare ancora gli anziani che aveva costituito a guida della comunità efesina, ma, per non essere rallentato nel viaggio, dette loro appuntamento a Mileto, dove li salutò con un famoso discorso di consegne ecclesiali e di addio (At 20,17-38).
Le considerazioni sulla paternità paolina fatte per Colossesi valgono ancor più per Efesini. La lettera invita ad avere uno sguardo contemplativo sul disegno di Dio che abbraccia l’intera creazione e tutto riassume in Cristo, come il ‘capo’ verso cui tutto tende (Ef 1,3-14). Il ‘mistero’ del piano salvifico di Dio è stato ormai manifestato e realizzato: i credenti ‘scelti prima della creazione del mondo’ ora in Cristo sono divenuti figli adottivi di Dio. Il disegno salvifico comprende così non solo la venuta del Cristo, ma anche la chiesa della quale egli è capo, nella quale ebrei e pagani vengono a formare un solo corpo (Ef 3,1-13).
Anche il matrimonio diviene ‘sacramento’ dell’amore che unisce ormai il Cristo alla sua sposa, la chiesa, con un amore indissolubile (Ef 5,21-33).

12. 1 LA CHIESA APPARTIENE AL “PIANO SALVIFICO” DI DIO

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla lettera agli Efesini (Ef 3,2-13)
Fratelli, penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro beneficio: come per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero di cui sopra vi ho scritto brevemente.
Dalla lettura di ciò che ho scritto potete ben capire la mia comprensione del mistero di Cristo. Questo mistero non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come al presente è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito: che i Gentili cioè sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo, e ad essere partecipi della promessa per mezzo del vangelo, del quale sono divenuto ministro per il dono della grazia di Dio a me concessa in virtù dell’efficacia della sua potenza.
A me, che sono l’infimo fra tutti i santi, è stata concessa questa grazia di annunziare ai Gentili le imperscrutabili ricchezze di Cristo, e di far risplendere agli occhi di tutti qual è l’adempimento del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio, creatore dell’universo, perché sia manifestata ora nel cielo, per mezzo della Chiesa, ai Principati e alle Potestà la multiforme sapienza di Dio, secondo il disegno eterno che ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore, il quale ci dà il coraggio di avvicinarci in piena fiducia a Dio per la fede in lui. Vi prego quindi di non perdervi d’animo per le mie tribolazioni per voi; sono gloria vostra.

Per la lettura e la riflessione personale

Dalla catechesi del Papa Benedetto XVI, del mercoledì 23 novembre 2005, sul Cantico del primo capitolo della Lettera di San Paolo agli Efesini (Ef 1,3-10)
Il «mistero della volontà» divina ha un centro che è destinato a coordinare tutto l’essere e tutta la storia conducendoli alla pienezza voluta da Dio: è «il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose» (Ef 1,10).
In questo «disegno», in greco oikonomia, ossia in questo piano armonico dell’architettura dell’essere e dell’esistere, si leva Cristo capo del corpo della Chiesa, ma anche asse che ricapitola in sé «tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra». La dispersione e il limite vengono superati e si configura quella «pienezza» che è la vera meta del progetto che la volontà divina aveva prestabilito fin dalle origini. Siamo, dunque, di fronte a un grandioso affresco della storia della creazione e della salvezza.

12. 2 IL “MISTERO” DEL MATRIMONIO RIVELATORE DELL’AMORE DEL CRISTO

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla lettera agli Efesini (Ef 5,21-33)

Fratelli, siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo.
Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto.
E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso, e la donna sia rispettosa verso il marito.

Per la lettura e la riflessione personale

Da M. Zerwick, Commento alla lettera agli Efesini, Città nuova, Roma, 1971, pp. 157-158
Senza una formula introduttiva, come Paolo fa invece di solito quando riferisce un testo della Sacra Scrittura, si cita immediatamente il passo del Genesi: “Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre” (Gen 2,24). Dinanzi a questo passo, si è soliti pensare prima di tutto al matrimonio naturale. Non così Paolo; egli vede qui espresso un profondo mistero (“questo mistero è grande”) e spiega perché lo trova grande: “Dico però (che è grande) considerando Cristo e la Chiesa”. Il che equivale a dire: io intendo questa parola di Dio come riferentesi a Cristo e alla Chiesa. A dire il vero la frase si riferisce direttamente alla prima coppia umana; Adamo è però per Paolo tipo del Cristo, il secondo Adamo, e ciò che vale per il primo Adamo deve trovare nel secondo la sua elevazione e il suo compimento.
Così dunque, secondo Paolo, il passo del Genesi intende veramente Cristo e il suo matrimonio con la Chiesa, il che è perciò davvero un “grande mistero”.
Il nostro testo parla con certezza anche del matrimonio umano, ma di ciò in quanto è interiormente dipendente dal matrimonio fondamentale di Cristo con la sua Chiesa, e, come reale partecipazione, essenzialmente riferito ad esso. Certo, se deve esser di questo veramente partecipazione, allora il matrimonio umano è più di una semplice copia, allora nel matrimonio che avviene fra membra di Cristo deve verificarsi qualcosa dell’unione di Cristo con la sua Chiesa, un’unione dispensatrice di vita. Così il matrimonio viene introdotto, non solo per similitudine, ma per partecipazione in ciò che Paolo chiama il grande mistero fondamentale: Cristo, lo sposo, che forma un sol corpo con la Chiesa, sua sposa. È qui ciò che ci fa capire il matrimonio come mezzo di grazia, e quindi come sacramento.

Da R. Cantalamessa, Amare la chiesa. Meditazioni sulla Lettera agli Efesini, Ancora, Milano, 2003, pp. 92-97
Leggendo con occhi moderni le parole di Paolo, una difficoltà balza subito agli occhi. Paolo raccomanda al marito di “amare” la propria moglie (e questo ci sta bene), ma poi raccomanda alla moglie di essere “sottomessa” al marito e questo, in una società fortemente (e giustamente) consapevole della parità dei sessi, sembra inaccettabile. Infatti è vero. Su questo punto san Paolo è, in parte almeno, condizionato dalla mentalità del suo tempo. Tuttavia la soluzione non sta nell’eliminare dai rapporti tra marito e moglie la parola “sottomissione”, ma semmai nel renderla reciproca, come reciproco deve essere anche l’amore.
In altre parole, non solo il marito deve amare la moglie, ma anche la moglie il marito; non solo la moglie deve essere sottomessa al marito, ma anche il marito alla moglie. Amore reciproco e sottomissione reciproca. Ma, a guardare bene, è proprio l’esortazione con cui comincia il nostro testo: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo”. La sottomissione non è allora che un aspetto e un’esigenza dell’amore. Per chi ama, sottomettersi all’oggetto del proprio amore non umilia, ma rende anzi felici. Sottomettersi significa, in questo caso, tener conto della volontà del coniuge, del suo parere e della sua sensibilità; dialogare, non decidere da solo; saper a volte rinunciare al proprio punto di vista. Insomma, ricordarsi che si è diventati “coniugi”, cioè, alla lettera, persone che sono sotto “lo stesso giogo” liberamente accolto. San Giovanni Crisostomo sa trarre delle conseguenze molto belle dal confronto tra il matrimonio umano e quello tra Cristo e la Chiesa. Rivolgendosi ai mariti dice: “Vuoi che la tua sposa ti ubbidisca come la Chiesa a Cristo? Abbi cura anche tu di lei, come Cristo della Chiesa... Come il Cristo non con minacce né con sevizie né incutendo timore né in alcun modo simile, bensì con la sua grande sollecitudine portò ai suoi piedi colei che gli volgeva le spalle..., così comportati anche tu verso tua moglie... Uno, con il timore, potrebbe legare a sé un domestico, ma la consorte della propria vita, la madre dei propri figli, colei in cui si ha tutta la propria felicità, non la si deve legare a sé con il timore e le minacce, bensì con l’amore e l’intimo affetto. Che matrimonio sarebbe infatti quello in cui la moglie tremasse davanti al marito? E di che piacere potrebbe godere il marito coabitando con la sua sposa come con una schiava e non con una donna libera?” (Giovanni Crisostomo, Sulla Lettera agli Efesini, 20, PG 62,137).
Per comprendere la bellezza e la dignità del rapporto di coppia, dobbiamo risalire alla Bibbia. È scritto: “Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” (Gen 1,27). Viene stabilito, come si vede, un rapporto stretto tra l’essere creati “a immagine di Dio” e il fatto di essere “maschio e femmina”. Ma che rapporto ci può essere tra le due cose? In che senso l’essere maschio e femmina - la coppia umana - è un’immagine di Dio? Dio non è né maschio né femmina! La somiglianza consiste in questo. Dio è unico e solo, ma non è solitario. L’amore esige comunione, scambio interpersonale; richiede che ci siano un “io” e un “tu”. Per questo il Dio cristiano è uno e trino. In lui coesistono unità e distinzione: unità di natura, di volere, di intenti, e distinzione di caratteristiche e di persone. Proprio in questo la coppia umana è immagine di Dio. La famiglia umana è un riflesso della Trinità. Marito e moglie sono infatti una carne sola, un cuore solo, un’anima sola, pur nella diversità di sesso e di personalità. Nella coppia si riconciliano tra loro unità e diversità. Gli sposi stanno di fronte, l’uno all’altro, come un “io” e un “tu” e stanno di fronte a tutto il resto del mondo, cominciando dai propri figli, come un “noi”, quasi si trattasse di una sola persona, non più però singolare ma plurale.
“Noi”, cioè “tua madre ed io”, “tuo padre ed io”. Alla dignità e bellezza che viene al matrimonio dalla creazione, si aggiunge quella che gli viene dalla redenzione, dall’essere cioè segno dell’unione tra Cristo e la Chiesa...

13. LE LETTERE A TIMOTEO E A TITO: IL DEPOSITO DELLA FEDE, DI GENERAZIONE IN GENERAZIONE

Per la preparazione dell’incontro

Paolo prese con sé Timoteo nel II viaggio apostolico a Listra (At 16,1-3) e, da allora, egli divenne il più fedele collaboratore dell’apostolo, fondando con lui le chiese di Filippi, Tessalonica, Berea e Corinto e ricevendo poi incarichi nei confronti delle stesse (1 Ts 3,2.6; 1 Cor 4,17; 16,10; Fil 2,19). Molte delle lettere lo indicano come mittente insieme all’apostolo (1-2 Ts, 2 Cor, Fil, Flm, Col). Le lettere a lui indirizzate mostrano che Paolo lo incaricò infine di guidare la chiesa di Efeso. Tito non è nominato negli Atti, ma dall’epistolario paolino sappiamo che fu incaricato di importanti missioni come quella verso la chiesa di Corinto (2 Cor 2,12-13; 7,5-6; 8,6.23) riuscendo a raggiungere la pacificazione fra quella comunità e Paolo stesso e lavorando per la colletta a beneficio della chiesa di Gerusalemme. La lettera a lui indirizzata lo presenta a capo della comunità cristiana di Creta.
Le tre lettere sono dette tradizionalmente ‘pastorali’ perché trattano del ministero di pastore, di guida, ricevuto da Timoteo e Tito. Si presentano come scritte dalla prigionia di Roma, in particolare la II a Timoteo che fa riferimento al martirio ormai prossimo (2 Tm 6,8). Gli studiosi propendono a vedere nelle ‘lettere pastorali’ l’opera di un discepolo di Paolo che ha avuto a disposizione del materiale originario dell’apostolo e lo ha reinterpretato alla luce della nuova situazione che i cristiani andavano vivendo dopo il martirio di Paolo. L’ipotesi recentemente avanzata che sia stato lo stesso Timoteo a compiere tale redazione è senz’altro suggestiva. Le pastorali mettono il lettore in contatto con una comunità che affronta il trascorrere del tempo preoccupandosi di trasmettere la fede di generazione in generazione. L’apostolo ricorda che Timoteo ha ricevuto la fede tramite la nonna Lòide e la mamma Eunìce che sono state anch’esse credenti (2 Tm 1,5); se la prima generazione cristiana ha ricevuto la fede da adulta, già la seconda e la terza ricevono la fede sin da bambini dalla testimonianza dei genitori. Timoteo è stato educato nella conoscenza delle Sacre Scritture fin dall’infanzia (2 Tm 3,14-16). Gli anni trascorsi dal primo annuncio della fede hanno portato alcuni ad allontanarsi dalla fede apostolica ed a seguire dottrine nuove, per il prurito di udire qualcosa (2 Tm 4,1-5). Paolo scrive invece al suo discepolo: «Io so a chi ho creduto» (2 Tm 1,12). Lo invita, pertanto, a conservare il buon deposito della fede che ha ricevuto (2 Tm 1,14).
Le lettere ‘pastorali’ esortano i vescovi, i presbiteri ed i diaconi ad esercitare con senso di donazione il ministero ricevuto (1 Tm 3,1-10; 1 Tm 5,17-25) ed invitano gli sposati a curare con grande responsabilità la propria famiglia (Tt 2,1-10). Paolo affronta anche il problema delle vedove – nel corso degli anni la comunità ha avuto i primi lutti - invitandole a vivere nella fede la scelta di entrare nel collegio delle vedove per dedicarsi al Signore o quella di risposarsi (1 Tm 5,3-16).
Le lettere pastorali mostrano, insomma, che non si tratta solo di iniziare a credere, ma anche di essere poi costanti nella fede, per donarla a persone che a loro volta siano in grado di trasmetterla ancora (2 Tm 2,1-2).

13. 1 «FIN DALL’INFANZIA CONOSCI LE SACRE SCRITTURE»

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla seconda lettera a Timoteo (2 Tm 1,1-5; 3,14-16)
Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, per annunziare la promessa della vita in Cristo Gesù, al diletto figlio Timòteo: grazia, misericordia e pace da parte di Dio Padre e di Cristo Gesù Signore nostro.
Ringrazio Dio, che io servo con coscienza pura come i miei antenati, ricordandomi sempre di te nelle mie preghiere, notte e giorno; mi tornano alla mente le tue lacrime e sento la nostalgia di rivederti per essere pieno di gioia. Mi ricordo infatti della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te.
Tu rimani saldo in quello che hai imparato e di cui sei convinto, sapendo da chi l’hai appreso e che fin dall’infanzia conosci le sacre Scritture: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura infatti è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.

Per la lettura e la riflessione personale

Dal discorso di Benedetto XVI in apertura del Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma dell’11 giugno 2007
L’esperienza quotidiana ci dice - e lo sappiamo tutti - che educare alla fede proprio oggi non è un’impresa facile. Oggi, in realtà, ogni opera di educazione sembra diventare sempre più ardua e precaria. Si parla perciò di una grande “emergenza educativa”, della crescente difficoltà che s’incontra nel trasmettere alle nuove generazioni i valori-base dell’esistenza e di un retto comportamento, difficoltà che coinvolge sia la scuola sia la famiglia e si può dire ogni altro organismo che si prefigga scopi educativi.
Possiamo aggiungere che si tratta di un’emergenza inevitabile: in una società e in una cultura che troppo spesso fanno del relativismo il proprio credo - il relativismo è diventato una sorta di dogma -, in una simile società viene a mancare la luce della verità, anzi si considera pericoloso parlare di verità, lo si considera “autoritario”, e si finisce per dubitare della bontà della vita – è bene essere uomo? è bene vivere? - e della validità dei rapporti e degli impegni che costituiscono la vita.
Come sarebbe possibile, allora, proporre ai più giovani e trasmettere di generazione in genera zione qualcosa di valido e di certo, delle regole di vita, un autentico significato e convincenti obiettivi per l’umana esistenza, sia come persone sia come comunità? Perciò l’educazione tende ampiamente a ridursi alla trasmissione di determinate abilità, o capacità di fare, mentre si cerca di appagare il desiderio di felicità delle nuove generazioni colmandole di oggetti di consumo e di gratificazioni effimere. Così sia i genitori sia gli insegnanti sono facilmente tentati di abdicare ai propri compiti educativi e di non comprendere nemmeno più quale sia il loro ruolo, o meglio la missione ad essi affidata. Ma proprio così non offriamo ai giovani, alle nuove generazioni, quanto è nostro compito trasmettere loro. Noi siamo debitori nei loro confronti anche dei veri valori che danno fondamento alla vita.
Ma questa situazione evidentemente non soddisfa, non può soddisfare, perché lascia da parte lo scopo essenziale dell’educazione, che è la formazione della persona per renderla capace di vivere in pienezza e di dare il proprio contributo al bene della comunità. Cresce perciò, da più parti, la domanda di un’educazione autentica e la riscoperta del bisogno di educatori che siano davvero tali. Lo chiedono i genitori, preoccupati e spesso angosciati per il futuro dei propri figli, lo chiedono tanti insegnanti che vivono la triste esperienza del degrado delle loro scuole, lo chiede la società nel suo complesso, in Italia come in molte altre nazioni, perché vede messe in dubbio dalla crisi dell’educazione le basi stesse della convivenza. In un simile contesto l’impegno della Chiesa per educare alla fede, alla sequela e alla testimonianza del Signore Gesù assume più che mai anche il valore di un contributo per far uscire la società in cui viviamo dalla crisi educativa che la affligge, mettendo un argine alla sfiducia e a quello strano “odio di sé” che sembra diventato una caratteristica della nostra civiltà.

Dall’omelia del Papa Benedetto XVI nella Santa Messa nella spianata di Marienfeld a Colonia del 21 agosto 2005
Insieme con la dimenticanza di Dio esiste come un boom del religioso. Non voglio screditare tutto ciò che c’è in questo contesto. Può esserci anche la gioia sincera della scoperta. Ma, per dire il vero, non di rado la religione diventa quasi un prodotto di consumo. Si sceglie quello che piace, e certuni sanno anche trarne un profitto.
Ma la religione cercata alla maniera del “fai da te” alla fin fine non ci aiuta. È comoda, ma nell’ora della crisi ci abbandona a noi stessi. Aiutate gli uomini a scoprire la vera stella che ci indica la strada: Gesù Cristo! Cerchiamo noi stessi di conoscerlo sempre meglio per poter in modo convincente guidare anche gli altri verso di Lui. Per questo è così importante l’amore per la Sacra Scrittura e, di conseguenza, importante conoscere la fede della Chiesa che ci dischiude il senso della Scrittura.

13. 2 «CONSERVA IL BUON DEPOSITO»

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla seconda lettera a Timoteo (2 Tm 1,6-14)
Io, Paolo, ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza. Non vergognarti dunque della testimonianza da rendere al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma soffri anche tu insieme con me per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio.
Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non gia in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia; grazia che ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma è stata rivelata solo ora con l’apparizione del salvatore nostro Cristo Gesù, che ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’immortalità per mezzo del vangelo, del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e maestro.
È questa la causa dei mali che soffro, ma non me ne vergogno: so infatti a chi ho creduto e son convinto che egli è capace di conservare il mio deposito fino a quel giorno. Prendi come modello le sane parole che hai udito da me, con la fede e la carità che sono in Cristo Gesù. Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi.

Per la lettura e la riflessione personale

Dall’omelia dell’allora card. J. Ratzinger nella Messa pro eligendo Pontifice del 18 aprile 2005
(N.d.R. L’Autore commenta inizialmente Ef 4,13, versetto nel quale si susseguono due termini indicanti il primo la “maturità” (elikia) ed il secondo la “pienezza” (pleroma). La traduzione letterale sarebbe “nella misura della maturità della pienezza di Cristo”)
Soffermiamoci [... sul] cammino verso “la maturità di Cristo”; così dice, un po’ semplificando, il testo italiano. Più precisamente dovremmo, secondo il testo greco, parlare della “misura della pienezza di Cristo”, cui siamo chiamati ad arrivare per essere realmente adulti nella fede. Non dovremmo rimanere fanciulli nella fede, in stato di minorità. E in che cosa consiste l’essere fanciulli nella fede?
Risponde San Paolo: significa essere “sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina…” (Ef 4,14). Una descrizione molto attuale!
Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde - gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via.
Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cfr. Ef 4,14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie.
Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. É lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. É quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede - solo la fede - che crea unità e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a questo proposito - in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle onde - una bella parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell’esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono.
La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna” (1 Cor 13,1).

14. LA LETTERA AGLI EBREI: IL NUOVO CULTO

Per la preparazione dell’incontro

La lettera agli Ebrei fu scritta probabilmente per essere inviata in Italia (e, quindi, a Roma stessa) come si deduce dalla sezione finale nella quale vengono acclusi i saluti da parte di “quelli che provengono dall’Italia” (Eb 13,24), probabilmente emigrati italiani nella città dalla quale fu spedita la lettera: essi desiderano salutare i loro connazionali rimasti in patria.
Il vocabolario della lettera fa pensare che ne sia autore qualche personaggio della scuola paolina, più che non Paolo stesso. Gli studiosi ritengono che l’epistola debba essere stata scritta prima dell’anno 70, l’anno della distruzione del Tempio da parte dei romani.
Infatti, pur essendo incentrata sulla questione del confronto fra l’antico culto veterotestamentario ed il nuovo culto cristiano, non fa alcun cenno alla cessazione dell’attività cultuale nel Tempio di Gerusalemme.
Certamente i destinatari sono degli ebrei divenuti cristiani che hanno nostalgia del culto ebraico; a loro si rivolge l’Autore con questa lettera-omelia per invitarli a comprendere la grandezza e la completezza della nuova liturgia inaugurata dal Cristo.
La lettera agli Ebrei, pur consapevole dell’importanza dell’antica liturgia nel disegno salvifico di Dio, sottolinea come il sacerdozio levitico si rivelasse alla fine inefficace, perché i sacerdoti veterotestamentari non avevano, da un lato, piena comunione con Dio a motivo del loro peccato (Eb 7,26-28) e, dall’altro, non potevano che essere lontani anche dagli uomini a motivo delle separazioni rituali a cui si assoggettavano per esercitare il culto (Eb 9,6-7).
Cristo è, invece, il sommo sacerdote della nuova alleanza, che era stato prefigurato nella figura di Melchisedek, perché è degno di fede e vicino a Dio come Figlio (Eb 3,1-6), in quanto è senza peccato, ed è misericordioso e vicino agli uomini, perché si è fatto uomo (Eb 4,15-5,10). Il suo sacerdozio non consiste più nell’offerta di cose o vittime da immolare, poiché egli offrì se stesso (Eb 10,5-10). Questa offerta acquista tutto il suo significato a motivo dell’amore filiale che la rende tale: imparando l’obbedienza dalle cose che patì (Eb 6,8), Cristo rese tutta la sua umanità una offerta a Dio, riempiendola del suo amore divino.
Solo il sacrifico di Cristo è veramente efficace perché, fatto una volta per tutte, è capace di portare gli uomini alla perfezione. Tutta la rivelazione ed il piano della salvezza si compiono così in Cristo di modo che Dio, che aveva tante volte e in tanti modi parlato agli uomini, parla ora a noi in maniera definitiva per mezzo del Figlio (Eb 1,1-4).

14. 1 CRISTO HA OFFERTO SE STESSO

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla lettera agli Ebrei (Eb 10,1-10)
Fratelli, avendo la legge solo un’ombra dei beni futuri e non la realtà stessa delle cose, non ha il potere di condurre alla perfezione, per mezzo di quei sacrifici che si offrono continuamente di anno in anno, coloro che si accostano a Dio. Altrimenti non si sarebbe forse cessato di offrirli, dal momento che i fedeli, purificati una volta per tutte, non avrebbero ormai più alcuna coscienza dei peccati?
Invece per mezzo di quei sacrifici si rinnova di anno in anno il ricordo dei peccati, poiché è impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri. Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice:

Tu non hai voluto né sacrificio né offerta,
un corpo invece mi hai preparato.
Non hai gradito
né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: Ecco, io vengo
- poiché di me sta scritto nel rotolo del libro -
per fare, o Dio, la tua volontà.

Dopo aver detto prima non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato, cose tutte che vengono offerte secondo la legge, soggiunge: Ecco, io vengo a fare la tua volontà. Con ciò stesso egli abolisce il primo sacrificio per stabilirne uno nuovo. Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre.

Per la lettura e la riflessione personale

Da A. Vanhoye, Dio ha tanto amato il mondo.
Lectio divina sul “sacrificio” di Cristo, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 2007, pp. 5-6
Per capire correttamente il sacrificio di Cristo è necessario, anzitutto, modificare il nostro concetto di “sacrificio”. Nel linguaggio corrente, questa parola ha assunto un senso negativo: è venuta a significare “privazione penosa”. Una madre di famiglia, ad esempio, dirà: “In questi tempi, il carovita ci impone molti sacrifici. Dobbiamo fare a meno di parecchie cose che ci sarebbero utili”. Di per sé, però, “sacrificio” è un termine positivo del linguaggio religioso: è il sostantivo che corrisponde al verbo “sacrificare”, il quale significa “rendere sacro”, così come “semplificare” significa “rendere semplice” e “purificare” “rendere puro”.
L’idea, quindi, non è quella di una privazione, ma, al contrario, quella di un’aggiunta di valore, di un arricchimento. Si tratta di rendere sacro ciò che non lo era e questo richiede una comunicazione della santità divina, la quale è la più positiva di tutte le realtà, la più ricca di valore. Un sacrificio può anche comportare un aspetto penoso, ma non lo si deve confondere con questo aspetto penoso, giacché il suo aspetto più importante consiste nella trasformazione positiva della realtà. Una pena che è soltanto una pena non è un sacrificio.
Lo diventa se trasformata, dall’interno, in mezzo di santificazione, di comunione più intima con Dio.
Tale trasformazione si realizza per mezzo dell’amore divino, perché la santità di Dio è una santità di amore. Il sacrificio di Cristo è consistito nel riempire di amore divino la sua sofferenza e la sua morte, al punto di ottenere la vittoria dell’amore sulla morte. La risurrezione fa parte integrante del sacrificio di Cristo, perché ne costituisce l’esito positivo. Tra la morte di Gesù sulla croce e la sua risurrezione una veduta superficiale delle cose scorge soltanto un forte contrasto. Una visione profonda, invece, percepisce una stretta continuità: con la potenza interiore dell’amore, Gesù ha trasformato la sua sofferenza e la sua morte in sorgente di una nuova vita, una vita di perfetta unione con Dio nella gloria.
La trasformazione effettuata nella passione ha prodotto la risurrezione. Il sacrificio di Cristo è l’evento più positivo che ci sia mai stato.

14. 2 IN QUESTI ULTIMI TEMPI DIO HA PARLATO A NOI PER MEZZO DEL FIGLIO

Ascoltiamo la Parola di Dio dalla lettera agli Ebrei (Eb 1,1-4)
Dio, che aveva gia parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo.
Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli, ed è diventato tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato.

Per la lettura e la riflessione personale

Da san Giovanni della Croce, Salita al monte Carmelo, Lib. 2, cap. 22, III ss.
3. Ora che la fede è basata in Cristo e la legge evangelica è stabilita in quest’era di grazia, non è più necessario consultare Dio, né che egli parli o risponda come allora (nell’Antico Testamento). Infatti donandoci il Figlio suo, ch’è la sua unica e definitiva Parola, ci ha detto tutto in una sola volta e non ha più nulla da rivelare.
4. Questo è il senso genuino del testo in cui San Paolo vuole indurre gli Ebrei a lasciare gli antichi modi di trattare con Dio secondo la legge mosaica, e a fissare lo sguardo solamente in Cristo: “Dio che aveva già parlato nei tempi antichi... in questi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,1-2). Con queste parole l’Apostolo vuole far capire che Dio è diventato in un certo senso muto, non avendo più nulla da dire, perché quello che un giorno diceva parzialmente per mezzo dei profeti, l’ha detto ora pienamente dandoci tutto nel Figlio suo.
5. Perciò chi volesse ancora interrogare il Signore e chiedergli visioni o rivelazioni, non solo commetterebbe una stoltezza, ma offenderebbe Dio, perché non fissa lo sguardo unicamente in Cristo e va cercando cose diverse e novità. Dio infatti potrebbe rispondergli: “Questi è il mio Figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo!” (Mt 17,5). Se ti ho già detto tutto nella mia Parola che è il mio Figlio e non ho altro da rivelare, come posso risponderti o rivelarti qualche altra cosa?
Fissa lo sguardo in Lui solo e vi troverai anche più di quanto chiedi e desideri: in Lui ti ho detto e rivelato tutto.
Tu infatti domandi locuzioni e rivelazioni che sono soltanto una parte, ma se guarderai Lui, vi troverai il tutto, poiché Egli è ogni mia locuzione e risposta, ogni mia visione e rivelazione in quanto io vi ho già parlato, risposto, manifestato e rivelato ogni cosa dandovelo per fratello, compagno, maestro, prezzo e premio. Dal giorno in cui sul Tabor discesi con il mio Spirito su di Lui, dicendo: “Questi è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo”, cessai di istruire e rispondere in queste maniere ed affidai tutto a Lui: ascoltatelo perché ormai non ho più materia di fede da rivelare e verità da manifestare.
Prima parlavo, ma unicamente per promettere Cristo e gli uomini mi consultavano solo per chiedere e aspettare Lui nel quale dovevano trovare ogni bene, come ora tutta la dottrina degli evangelisti e degli apostoli fa capire. Colui che ora mi consultasse in quel modo e desiderasse che io gli dicessi e rivelassi alcunché, sotto un certo aspetto mi chiederebbe di nuovo Cristo e altre verità della fede, in cui però sarebbe debole, perché tutto è già stato dato in Lui. In tal modo farebbe un grave oltraggio al mio amato Figlio poiché non solo in ciò mancherebbe di fede, ma perché lo obbligherebbe ad incarnarsi di nuovo e ad affrontare ancora una volta la vita e la morte qui in terra.
Tu dunque non desidererai né chiederai nessuna rivelazione o visione da parte mia: guarda bene il Cristo e in Lui troverai già fatto e detto molto più di quanto tu vorresti”. [...]
7. [...] Dal momento in cui Cristo crocifisso disse sul punto di morte: “Tutto è consumato” (Gv 19,30), cessavano non solo questi modi di fare, ma anche ogni rito e cerimonia dell’antica legge. Perciò dobbiamo lasciarci guidare in tutto in modo umano e visibile dalla legge di Cristo uomo, della sua Chiesa e dei suoi ministri, e per questa via porre rimedio alla nostra ignoranza e debolezza spirituale, poiché in essa troveremo abbondante medicina ad ogni nostro male. Tutto ciò che esce fuori da questo cammino è non solo curiosità, ma grande presunzione e noi non dobbiamo credere a cosa ricevuta per via soprannaturale, ma solo a quanto ci viene insegnato da Cristo uomo e dai suoi ministri, uomini anch’essi. Per tale ragione l’Apostolo scrive: “Se un angelo del cielo vi annunziasse cose diverse da quelle che vi abbiamo predicato noi, sia maledetto e scomunicato” (Gal 1,8).

II PARTE

CELEBRAZIONE DELLA PAROLA

I fedeli si radunano in chiesa. Il sacerdote (o il diacono) che presiede la preghiera, in camice, stola e piviale (stola e dalmatica), preceduto dai ministri che portano la croce e le candele, si reca alla sede e dà inizio alla preghiera. Frattanto l’assemblea esegue un canto adatto.

SALUTO E MONIZIONE

Celebrante:
Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

Assemblea:
Amen.

Celebrante:
La grazia del Signore nostro Gesù Cristo,
l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo
siano con tutti voi.

Assemblea:
E con il tuo spirito.

Celebrante
In questo anno, che il Papa ha voluto particolarmente dedicato a San Paolo nel bimillenario della nascita, ci riuniamo per ascoltare le lettere dell’Apostolo, che diventano per noi stimolo a riflettere sulla fede che abbiamo ricevuto, per annunciarla con la gioia e la sollecitudine di chi ha trovato la perla preziosa, il tesoro che vale il sacrificio di ogni altro bene. La Chiesa da sempre accoglie gli scritti di san Paolo come divinamente ispirati, Come Parola che Dio rivolge alla sua Chiesa attraverso l’intelligenza e il cuore di un uomo che ha saputo convertirsi a Dio, cambiare vita, mettere ogni energia a servizio dell’annuncio del Regno.
Disponiamoci all’ascolto e chiediamo all’apostolo Paolo di intercedere per noi, perché anche noi apriamo la mente e il cuore all’azione della grazia.

Tutti pregano in silenzio, quindi il Celebrante pronuncia la preghiera.

Al posto della precedente monizione, si può introdurre la preghiera con l’invocazione dello Spirito Santo.

Celebrante:
Fratelli e sorelle, invochiamo lo Spirito di Dio, che ha toccato il cuore dell’apostolo Paolo trasformandolo da persecutore in apostolo e martire del Vangelo: la Parola di Dio sia accolta dalla mente e dal cuore e ci renda uomini nuovi, trasformati dalla grazia che salva.

Celebrante:
Preghiamo.
O Dio, che hai illuminato tutte le genti con la parola dell’apostolo Paolo, concedi anche a noi di essere testimoni della tua verità e di camminare sempre nella via del Vangelo.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.

Assemblea:
Amen.

Assemblea:

Vieni, Santo Spirito,
manda a noi dal cielo
un raggio della tua luce.

Vieni, Padre dei poveri,
vieni, datore dei doni,
vieni, luce dei cuori.

Consolatore perfetto,
ospite dolce dell’anima,
dolcissimo sollievo.

Nella fatica riposo,
nella calura riparo,
nel pianto conforto.

O luce beatissima,
invadi nell’intimo il cuore
dei tuoi fedeli.
Senza la tua forza
nulla è nell’uomo,
nulla senza colpa.

Lava ciò che è sordido,
bagna ciò che è arido,
sana ciò che sanguina.

Piega ciò che è rigido,
scalda ciò che è gelido,
drizza ciò che è sviato.

Dona ai tuoi fedeli,
che solo in te confidano,
i tuoi santi doni.

Dona virtù e premio,
dona morte santa,
dona gioia eterna.

Altre orazioni a scelta:

Celebrante:
Preghiamo.
Signore nostro Dio, che hai scelto l’apostolo Paolo per diffondere il tuo Vangelo, fa’ che tutta l’umanità sia illuminata dalla fede, che egli annunciò davanti ai re e alle nazioni, e la tua Chiesa si edifichi sempre come madre e maestra dei popoli.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.

Assemblea:
Amen.

Oppure:

Celebrante:
Preghiamo.
O Dio, fa’ che la tua Chiesa segua sempre l’insegnamento degli Apostoli dai quali ha ricevuto il primo annuncio della fede.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.

Assemblea:
Amen.

PROCLAMAZIONE DELLA PAROLA E MEDITAZIONE

Tutti siedono. Un lettore proclama il brano scelto.
La proclamazione può essere seguita dal canto di un salmo.
Chi presiede tiene una riflessione, che viene seguita da un congruo tempo di silenzio. La meditazione personale può essere sostenuta dalle riflessioni contenute nel presente sussidio, come pure da alcuni canti (o brevi versetti e canoni).

PREGHIERA UNIVERSALE

Al termine del tempo di meditazione, tutti si alzano in piedi.

Celebrante:
Fratelli carissimi, preghiamo per le necessità della Chiesa e del mondo, invocando l’intercessione dell’apostolo Paolo nel desiderio sincero di lasciarci convertire dalla Parola di Dio.

Si prepareranno in anticipo alcune intenzioni di preghiera, che vengono proposte dai fedeli.

Celebrante e Assemblea:
Padre nostro.

Celebrante:
Ascolta, o Padre, le nostre preghiere, e concedi a noi, per l’intercessione di san Paolo apostolo, di lavorare sempre al servizio del Vangelo per l’unità del tuo popolo. Per Cristo nostro Signore.

Assemblea:
Amen.

BENEDIZIONE E CONCLUSIONE

Celebrante:
Il Signore sia con voi.

Assemblea:
E con il tuo spirito.

Celebrante:
Vi benedica Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo.

Assemblea:
Amen.

Celebrante:
Glorificate il Signore con la vostra vita. Andate in pace.

Assemblea:
Rendiamo grazie a Dio.

La celebrazione si conclude con un canto di lode.

ALCUNE INDICAZIONI PER LA LECTIO DIVINA

La lectio divina, cioè la lettura della Bibbia fatta al fine di contemplare il ‘mistero’ di Dio ed accogliere la sua volontà nella nostra vita, è uno dei tesori che ci consegna la tradizione della chiesa. Il termine è latino e ci ricorda che la lectio è stata alimento dei credenti fin dai tempi dei padri della chiesa per essere poi approfondita nel corso del Medio Evo. Praticata nei secoli essa è giunta fino a noi ed il Concilio Vaticano II ne ha riproposto l’attualità (Dei Verbum 25).

Il Santo Padre Benedetto XVI ha presentato recentemente con queste parole la lectio divina anche ai giovani, illustrando le quattro tappe in cui tradizionalmente si struttura:
«Cari giovani, vi esorto ad acquistare dimestichezza con la Bibbia, a tenerla a portata di mano, perché sia per voi come una bussola che indica la strada da seguire. Leggendola, imparerete a conoscere Cristo. Osserva in proposito San Girolamo: “L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo” (PL 24,17; cfr. Dei Verbum, 25). Una via ben collaudata per approfondire e gustare la parola di Dio è la lectio divina, che costituisce un vero e proprio itinerario spirituale a tappe. Dalla lectio, che consiste nel leggere e rileggere un passaggio della Sacra Scrittura cogliendone gli elementi principali, si passa alla meditatio, che è come una sosta interiore, in cui l’anima si volge a Dio cercando di capire quello che la sua parola dice oggi per la vita concreta. Segue poi l’oratio, che ci fa intrattenere con Dio nel colloquio diretto, e si giunge infine alla contemplatio, che ci aiuta a mantenere il cuore attento alla presenza di Cristo, la cui parola è “lampada che brilla in luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori” (2 Pt 1,19). La lettura, lo studio e la meditazione della Parola devono poi sfociare in una vita di coerente adesione a Cristo ed ai suoi insegnamenti» (Messaggio del 22 febbraio 2006 per la XXI GMG di Sidney).

Scandendo questi quattro momenti che la tradizione della chiesa ci consegna, si possono fornire queste ulteriori indicazioni concrete.

1/ La lectio
È bene iniziare la lectio con una invocazione allo Spirito Santo che ci ricorda che siamo alla presenza di Dio e vogliamo dialogare con Lui, ascoltando la voce del Suo Spirito. Seguirà una lettura tranquilla ed attenta del testo. È necessario comprendere bene il significato del testo e non darne interpretazioni fantasiose (per questo aiuterà una buona edizione della Bibbia con le note esplicative). A questo scopo è utile sottolineare o trascrivere i versetti più significativi o anche solo singole parole, per prestare ancora più attenzione al testo.
Il fermarsi sullo stesso brano per più di una volta permetterà anche di chiedere consiglio ad un sacerdote, o comunque ad una persona formata, su ciò che non risultasse chiaro.

2/ La meditatio
Il significato del testo si dischiude se lo vediamo nel contesto dell’intera storia della salvezza e nell’unità di tutta la Sacra Scrittura, soprattutto in relazione alla piena rivelazione di Dio in Cristo. Così proprio S. Paolo, che conosceva profondamente la Sacra Scrittura, sapeva vedervi la testimonianza dell’unico Dio e leggeva ogni brano dell’Antico testamento in relazione a Cristo. È bene soffermarsi allora sugli episodi biblici che preparano o completano il brano che si sta leggendo e sugli altri passi paralleli che aiutano a comprendere il brano che è oggetto della preghiera. Nella meditatio possono essere di guida le domande che proprio l’apostolo Paolo rivolge al Signore sulla via di Damasco. Egli vuole conoscere il vero volto di Dio: «Chi sei, o Signore?» (At 9,5). Poi continua: «Che devo fare, Signore?» (At 22,10).
Non è bene seguire qui subito tutti i pensieri che salgono alla mente; è meglio, invece, averli davanti, come se li si scrivesse su di un foglio, per vedere quali vengono veramente da Dio e sono una sua chiamata per noi.

3/ L’oratio
Dopo aver ascoltato la Parola del Signore attraverso il brano che si sta meditando è bene rendere grazie per questo. Nel momento dell’oratio si prega poi per avere la forza di mettere in pratica la Parola che il Signore ci ha rivolto. La tradizione della Chiesa consiglia di vivere questo momento di preghiera anche se la riflessione sul brano biblico è apparsa apparentemente infeconda, perché anche la maturazione del frutto è nelle mani di Dio e non dipende dall’uomo. Nell’intercessione si ricordano i fratelli nella preghiera.

4/ La contemplatio
Il momento conclusivo della lectio è la contemplazione senza frenesia dell’essere stati alla presenza di Dio. Non si tratta più di fare qualcosa di particolare, quanto di sostare a gustare i momenti di grazia appena vissuti. Questo conduce alla consapevolezza che la grazia di Dio ci accompagnerà anche nei momenti che verranno, nell’azione, nel lavoro e nell’incontro con gli altri.


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