“Ultimo fra tutti Cristo risorto apparve anche a me come a un aborto” (1 Cor 15, 8). Paolo descrive
      qui se stesso, prima della conversione sulla via di Damasco, come una vita non nata, come
      un’esistenza non giunta alla gioia della nascita. Egli ha cominciato a vivere solo dopo l’incontro
      con il Signore.
      
      Chi è stato veramente Paolo e qual è la radice ultima che lo portò alla decisione di
      arrivare a Roma e di giungere fino al martirio nell’urbe? Per chi vorrebbe, snaturando gli scritti
      neotestamentari, che Cristo sia stato solo un rabbino fra i tanti maestri del suo tempo, non resta che
      affermare che Paolo è il secondo fondatore del cristianesimo o ne è addirittura l’iniziatore
      stesso, colui che ha ellenizzato il cristianesimo, colui che ha portato a tutti – contro le stesse
      intenzioni di Gesù, a loro dire – il messaggio del rabbì di Galilea.
      
      Secondo altri egli avrebbe, invece, giudaizzato il cristianesimo, reinserendo in esso gli elementi
      liturgici e ministeriali dei quali un Gesù in versione liberale avrebbe fatto piazza pulita in episodi
      come la cacciata dei mercanti del Tempio (il tutto sostenuto con un’esegesi a dir poco approssimativa di
      quel passo). Altri ancora, invece, sulla scia di una certa interpretazione della Riforma, lo vedrebbero come
      l’unico vero interprete di Gesù, a motivo dell’accentuazione paolina dei temi della grazia e
      della misericordia che renderebbero superflua – a loro dire – ogni esigenza morale del
      cristianesimo.
      
      La testimonianza stessa di Paolo indica, invece, con precisione una via totalmente differente: non è
      stato l’apostolo a trasformare il Signore, ma è stato Gesù a cambiare Paolo! Egli che non
      aveva mai vissuto, ha trovato la vita sulla via di Damasco.
      
      La cecità fisica, sperimentata da Paolo in quell’occasione, ha un suo corrispettivo interiore
      nell’accorgersi in quel giorno di non aver mai visto niente nel giusto modo. È solo l’incontro
      con la chiesa, l’invio a lui di Anania ed il dono sacramentale del battesimo, a far sì che egli
      cominci a vedere, che egli abbia la vista.
      
      Il cavallo che la tradizione iconografica ha voluto aggiungere al racconto degli Atti non è in
      dissonanza con questo, ma rappresenta in maniera straordinaria e vera l’accaduto a partire dal simbolo.
      L’elegante e possente animale è sempre stato immagine di potenza. Gli imperatori, i re, i nobili,
      hanno sempre voluto essere rappresentati in sella – si pensi solo al Marco Aurelio del Campidoglio –
      a manifestare la loro autorità. Caravaggio e Michelangelo a Roma, insieme a tanti altri prima e dopo di
      loro, hanno voluto sottolineare il rovesciamento dei valori avvenuto nell’esistenza di Paolo in quel
      giorno. Cristo lo aveva disarcionato, smontato dalla sua sicurezza. Gli aveva rivelato il suo essere ‘come
      un aborto’.
      
      Questo non significa dimenticare i tratti ebraici o greci di Paolo, ma tutto, in quel giorno, assunse un diverso
      significato. Paolo era ancora ebreo, Paolo era ancora greco e romano. Ma Paolo era divenuto cristiano.
      
  Vengono qui in mente le famose espressioni di G. K. Chesterton quando scriveva 
  che l’eresia non è necessariamente una affermazione falsa, ma più 
  spesso è una verità che dimentica tutte le altre verità. 
  E continuava sostenendo che il cattolicesimo è l’unico luogo dove 
  tutte le verità si danno appuntamento. Ha senso parlare di un Paolo ebreo, 
  di un Paolo che conosce a menadito le Scritture, è lecito parlare di 
  un Paolo impregnato di cultura ellenistico-romana, pensando ad episodi come 
  la discussione avvenuta all’Areopago di Atene o ancora all’uso della 
  Bibbia nella sua versione greca elaborata dai rabbini di Alessandria d’Egitto. 
  Ma l’evento che è la chiave di volta per capire l’uno e l’altro 
  è ormai il suo rapporto con il Signore Gesù, è l’incontro 
  sulla via di Damasco.
      
      È così importante quella svolta nella vita di Paolo che Luca, negli Atti, la descriverà ben
      tre volte (At 9, 1-18; 22, 1-21; 26, 2-23). Paolo stesso nel suo epistolario vi farà continuamente
      riferimento (1 Cor 9, 1; 1 Cor 15, 8; 2 Cor 4, 6; Gal 1, 11-16; Fil 3, 7-14; Ef 3, 1-12; 1 Tim 1, 11b-17). Se
      Paolo fu per nascita ebreo e romano, formato nella tradizione ebraica e nella cultura greca, ciò che lo
      segnò in maniera radicale fu il suo diventare cristiano.
      
      Quel giorno nacque in lui la vocazione che lo spinse poi fino a Roma. Come gli disse sulla via di Damasco
      il Signore: «Va’, perché io ti manderò lontano, tra i pagani» (At 22, 21).