Relatore
Correlatore |
Candidato Andrea Lonardo |
La tesi è stata pubblicata con alcuni miglioramenti e modifiche. Questi sono i riferimenti:
Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano
a Zaccaria (604-752), Roma, Edizioni Antonianum, 2012.
Questa tesi nasce, innanzitutto, da un grande amore per la città di Roma e dalla constatazione che uno
degli eventi più importanti della sua storia - quello dell’origine del potere temporale della chiesa
- non riceve quasi mai una adeguata presentazione nei curricula formativi. Infatti, tale questione
è sostanzialmente ignorata nelle scuole italiane ed anche nei percorsi ulteriori di studio resta ai
margini dell’insegnamento. L’alto medioevo è stato, a lungo, uno dei periodi meno frequentati
nella formazione delle nuove generazioni e solo raramente ha ricevuto l’attenzione che meritava anche la
questione dell’evoluzione che portò il vescovo di Roma ad essere investito di un vero e proprio
ruolo di governo sull’urbe e sul territorio laziale. Se ogni studente delle superiori viene edotto della
vicenda di Lorenzo Valla, l'istituzione scolastica non lo aiuta, però, ad approfondire le cause reali
dell’instaurarsi dell’autorità temporale del pontefice, che ha ovviamente altri motivi dato
che essa non può essere fatta risalire ad una “donazione” del IV secolo.
Da questa deficienza di insegnamento consegue una ignoranza diffusa in materia. Se si domanda ad una persona di
media cultura quando sia nato il potere temporale della chiesa, è immediatamente evidente l'imbarazzo
della riposta. Ancor più se si chiede di spiegarne le cause. Non è infrequente sentire ancora
ripetere che l’impero romano terminò con la deposizione di Romolo Augustolo: pochissimi immaginano
che ancora nel 663 un imperatore venne a risiedere nel palazzo imperiale al Palatino, come sovrano nella propria
casa.
Le conoscenze approssimative in merito divengono ancora più paradossali in Roma, dove il fatto meriterebbe
più attenzione nella sua veste di evento decisivo della storia locale oltre che di quella europea.
A fronte di questa “smemoratezza” culturale diffusa, gli ultimi decenni hanno visto un crescere di
interesse negli studi specialistici che hanno apportato notevoli contributi ad una comprensione degli eventi
verificatisi nel VII e nell’VIII secolo. La necessità di tentare una prima sintesi di queste nuove
ricerche costituisce il secondo motivo di questa tesi, di ordine più propriamente scientifico.
Fra questi studi - che saranno analizzati in dettaglio nel corso di questa tesi - si segnalano innanzitutto i
lavori di Jean Durliat[1] e,
più in generale, degli studiosi legati in vario modo all’École Française di Roma, di
cui fu direttore il grande Louis Duchesne, editore del Liber pontificalis. In particolare, Durliat ha
dimostrato come dall’età romana a quella carolingia l’apparato amministrativo statale non
abbia mai cessato di funzionare, permettendo la trasmissione di tecniche e competenze da una generazione
all’altra di funzionari. Dopo le sue ricerche, deve essere considerata come definitivamente accertata la
continuità fra tardo antico ed alto medioevo nei modi dell’esazione delle tasse come nei pagamenti
degli stipendi, nell’organizzazione dell’esercito come nell’approvvigionamento della
città, nella manutenzione degli edifici pubblici come nella trasmissione della cultura. Le nuove
prospettive aperte dalle sue ricerche hanno permesso di riformulare la questione delle responsabilità
temporali del vescovo di Roma, sottolineando che i pontefici non crearono un apparato burocratico ecclesiastico
concorrenziale a quello imperiale, bensì divennero progressivamente i referenti ed i garanti
dell’amministrazione tout court, nella quale i funzionari civili erano sottoposti alla supervisione
del vescovo ed il personale ecclesiastico era soggetto all’autorità civile, da cui riceveva il
proprio stipendio. Gli studi di Durliat hanno mostrato come il pontefice accrebbe la sua autorità in campo
civile relativamente più tardi degli altri vescovi dell’impero, a motivo della presenza in Roma del
senato, ma lo conservò poi in maniera ben più duratura, mentre il potere dei presuli delle diverse
diocesi dell’impero e dei regni veniva ridimensionato.
Un secondo indirizzo di studi si è sviluppato in Italia grazie agli storici che, a partire dalle
intuizioni di Arnaldi[2],
hanno approfondito gli studi sulla storia economica e materiale della città di Roma. In questa direzione
preziose sono state le nuove investigazioni archeologiche assunte a criterio di verifica di quanto era affermato
dalle fonti letterarie. In particolare due seminari sulla storia economica di Roma, tenutisi nel 1992, sotto la
guida di Lidia Paroli e Paolo Delogu[3], e nel 1996, sotto la guida dello stesso Delogu[4], hanno cercato di presentare una sintesi di questo indirizzo
di studi, sottolineando come, nonostante le difficoltà dei tempi, la città di Roma non abbia mai
conosciuto un’interruzione della sua vita organizzata nei secoli VII ed VIII, ed anzi come la storia
materiale attesti una permanente vitalità dell’urbe, testimoniata dai suoi scambi commerciali con il
resto dell’impero. In particolare, Federico Marazzi[5], a partire dall’evidente cesura rappresentata dalla mutata normativa fiscale
imposta dall’imperatore al sud d’Italia intorno all’anno 730, ha indirizzato le sue ricerche a
comprendere il significato del rinnovato interesse della sede apostolica per i patrimonia che essa aveva
nel Lazio nel periodo in cui doveva subire la perdita delle rendite meridionali.
Sempre in Italia, il Centro di studi italiani sull’alto medioevo di Spoleto, che dalla sua fondazione
promuove la ricerca storica sul periodo, dopo aver espressamente affrontato in un convegno del 1970 la questione
della storiografia altomedioevale, è tornato indirettamente sulla questione dell’origine del potere
temporale della chiesa con due convegni dedicati alla città di Roma ed al suo rapporto con l’oriente
nell’alto medioevo[6].
I due convegni hanno, da un lato, confermato la necessità di uno studio approfondito delle relazioni fra
l’urbe e Costantinopoli per meglio comprendere le condizioni che portarono al sorgere del potere temporale
della chiesa, dall’altro, hanno sottolineato come sia necessario indagare quale coscienza abbia avuto la
sede apostolica dell'emergere del suo ruolo civile. Particolare attenzione alla valutazione del valore del
Liber pontificalis, come espressione dell’autoconsapevolezza dello scrinium pontificio,
è stata dedicata nel corso del convegno svoltosi a Todi nel 1991 e dedicato al pontificato cruciale di
Martino I[7]. Nel corso di
quell’incontro, gli studiosi si sono misurati con i recenti studi di Rudolf Riedinger[8], che hanno ormai dimostrato come gli
atti del sinodo Lateranense del 649 che condannò il monotelismo non rispecchino lo svolgimento di
quell'assise, poiché sono in realtà la retroversione latina di documenti prodotti a tavolino in
greco probabilmente da Massimo il Confessore e dalla sua cerchia di monaci. Questa constatazione ha posto
nuovamente la questione di quale sia l'effettivo valore storico da attribuire alle fonti di provenienza romana
ed, in particolare, al Liber pontificalis, sottolineando la peculiare natura delle biografie pontificie
che vennero scritte per presentare ai lettori le posizioni romane.
Il nuovo interesse suscitato dal Liber pontificalis è testimoniato anche dal recente progetto che
è stato proposto da Herman Geertman[9] per giungere ad una nuova edizione critica delle biografie pontificie, rivedendo
quella curata dal Duchesne. Geertman ha diretto un primo convegno di studi interdisciplinari in merito,
privilegiando la prospettiva del confronto dei dati letterari con quelli relativi all’edilizia
ecclesiastica, come chiave per affrontare la questione dell'effettivo valore del Liber come fonte
storica.
In area anglosassone, è stato, invece, l’americano Thomas F. X. Noble a tentare una lettura globale
degli eventi che portarono alla nascita di quella che egli ha proposto di chiamare la “repubblica di San
Pietro”[10],
proponendo di collocare intorno al 730 il momento a partire dal quale si ebbe una effettiva indipendenza della
nuova entità territoriale.
Infine, il recente studio di Lidia Capo[11] ha cercato di chiarire il motivo dell’avversione della sede apostolica nei
confronti della gens Langobardorum, suggerendo di vedere nel Liber, almeno per le biografie del VII
secolo, non l’espressione dei pontefici stessi, quanto piuttosto una testimonianza degli indirizzi dello
scrinium pontificio in quanto distinto dagli stessi vescovi di Roma. La Capo ha, inoltre, riproposto
l’esigenza di una nuova edizione critica del Liber pontificalis, proponendo l’ipotesi che le
differenze presenti nelle diverse famiglie testuali delle biografie pontificie siano da imputare non ad errori
dei copisti, ma piuttosto alla natura peculiare del testo stesso che andava modificandosi col tempo, con
l'aggiunta delle nuove vite. La studiosa ha ipotizzato allora che non sia mai esistito un testo originario del
Liber, ma piuttosto diversi archetipi che avrebbero dato origine alle diverse famiglie testuali.
La presente ricerca si inserisce in questo rinnovato interesse per la questione, proponendosi di tentare una
sintesi dei diversi contributi. La complessità dell’argomento è evidente anche solo dai brevi
cenni appena esposti, a motivo della compresenza di fattori molto diversi che giocarono un ruolo determinante
nell'origine del potere temporale dei vescovi di Roma, fra i quali sono certamente da considerare sia
l’evoluzione che conobbe il mondo bizantino, sia la comparsa sulla scena mondiale della nuova potenza
araba, sia la maturazione del mondo longobardo, sia le spinose questioni teologiche che furono via via
affrontate, sia il protagonismo della stessa sede apostolica, in un continuo intrecciarsi della dimensione
economica, di quella politica, militare, amministrativa, culturale e teologica.
Infine un terzo motivo, eccedente la pura considerazione scientifica, è all’origine di questo
lavoro: il desiderio di verificare se l’origine del potere temporale della chiesa sia un evento originato
da torbidi motivi, oppure un’espressione di vitalità di un mondo che si trovava ad affrontare nuove
condizioni di vita, o forse ancora, come ogni evento storico, un insieme di luci ed ombre. È stato
l’allora cardinal Joseph Ratzinger a sottolineare la paradossale situazione del tempo presente che non
riesce a raggiungere un'equilibrata valutazione degli eventi storici che hanno determinato il sorgere della
civiltà occidentale: «c’è [...] un odio di sé dell’Occidente che è
strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì in
maniera lodevole ad aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua
propria storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è
più in grado di percepire ciò che è grande e puro»[12].
L’estensione cronologica della tesi prende inizio dalla morte di Gregorio Magno, dopo il quale si
succedettero alcuni pontefici che ebbero un regno molto breve. Proprio la statura meno significativa di tali
figure permetterà di cogliere alcuni elementi che sono decisivi per ricostruire l’evoluzione del
rapporto fra il vescovo di Roma e la sua città, indipendentemente dalle interpretazioni personali del
ruolo petrino.
La tesi si arresta al predecessore di Stefano II, il pontefice che, nel corso del viaggio che lo vide giungere
alla corte franca al di là delle Alpi, ottenne l’appoggio di quel regno contro i longobardi,
segnando una delle tappe che si rivelerà decisiva nell’arresto dell’avanzata longobarda e nel
progressivo distacco dell'urbe dall’impero bizantino[13]. L’analisi dei pontificati che precedettero quello di Stefano II
permetterà così di fotografare la situazione esistente in Roma prima che si giungesse alla svolta
impressa da Stefano II, per meglio valutare quale fosse l’autorità temporale raggiunta dal pontefice
un secolo e mezzo dopo la morte di Gregorio Magno e per quali vie essa fosse maturata fino a tal punto.
Il 12 marzo 604 morì Gregorio Magno (590-604) e nello stesso mese fu eletto alla sedes
apostolica[14] il suo
successore, Sabiniano (604-606), che dovette attendere, però, il 13 settembre per poter essere consacrato,
quando arrivò da Costantinopoli l’autorizzazione imperiale.
Il periodo che seguì fu caratterizzato da pontificati brevi, dopo quello lungo e fortemente
caratterizzato, pur nell’instabilità dei tempi, di Gregorio Magno, con lunghe vacanze fra un papa e
l’altro, dovute al protrarsi dei tempi in attesa della ratifica imperiale necessaria per procedere alla
consacrazione episcopale che segnava l’effettivo inizio del pontificato.
Sabiniano morì il 22 febbraio 606 ed il suo successore, Bonifacio III (607) fu consacrato quasi un anno
dopo, il 19 febbraio 607[15]. Il suo pontificato fu ancora più breve di quello di Sabiniano,
poiché morì il 10 novembre 607. I suoi successori, Bonifacio IV (608-615), Deusdedit[16] (615-618), Bonifacio V (619-625),
divennero papi rispettivamente dopo nove mesi, dopo cinque mesi e dopo oltre un anno di vacanza.
Solo con Onorio I (625-638), divenuto papa due giorni dopo la sepoltura di Bonifacio V, Roma poté godere
nuovamente della pronta consacrazione e della lunga durata di un pontefice.
La debolezza di queste figure di pontefici, a motivo innanzitutto della brevità del loro regno, offre la
possibilità, come si vedrà in questo capitolo, di osservare oggettivamente il loro ruolo,
indipendentemente dall’interpretazione personale che di esso ne fornirono.
Se i primi decenni del VII secolo furono caratterizzati dal veloce avvicendamento dei vescovi di Roma, sul seggio
imperiale costantinopolitano sedettero, invece, in successione due figure le cui scelte saranno gravide di
conseguenze storiche.
Foca fu imperatore dal 602 al 610, Eraclio dal 610 al 641, per ben 31 anni. Gli studiosi di storia bizantina sono
soliti porre proprio nel passaggio dal primo al secondo la cesura tra l’ultima fase dell’impero
tardo-romano che ha ricevuto il nome convenzionale di “primo periodo bizantino” (e che comprende il
lasso di tempo che intercorre tra la scelta costantiniana di risiedere in Oriente nel 324 e la morte di Foca) e
l’inizio della storia bizantina propriamente detta che concerne l’impero greco
medioevale[17].
Gli scenari che si aprirono subito dopo la morte di Giustiniano, confermarono in quegli anni come fosse stato
effimero il suo tentativo di restaurare un impero che comprendesse tutte le coste del Mediterraneo.
In Italia, a partire dal 569, i longobardi conquistarono gran parte dei territori della penisola, quei territori
che da poco Giustiniano aveva restituito all’impero, obbligando le restanti regioni a vivere in una
condizione di continua insicurezza a motivo di possibili ulteriori avanzate militari.
In Spagna la controffensiva dei visigoti strappò nuovamente ai bizantini Cordova, il principale caposaldo
nel sud della penisola iberica; ciò avvenne una prima volta nel 572 e, definitivamente, nel 584. Solo in
Africa l’impero riuscì a conservare i territori riconquistati da Giustiniano.
Il baricentro dell’impero si spostò così nuovamente, poco dopo la morte di Giustiniano, verso
oriente. Maurizio (582-602), predecessore di Foca, creò gli esarcati di Cartagine e Ravenna nel desiderio
di riorganizzare i territori occidentali rimasti in mano bizantina e diede così inizio ad una crescente
militarizzazione dell’amministrazione. Il suo testamento, redatto nel 597 durante una grave malattia,
testimoniò ancora, per l’ultima volta, il sogno imperiale di uno stato che comprendesse oriente ed
occidente, come due parti complementari di un tutto: con quel documento Maurizio fissò per iscritto il suo
desiderio che il figlio maggiore regnasse da Costantinopoli sulla pars orientalis e che il figlio minore
governasse da Roma quella occidentale. La pressione crescente degli avari e degli slavi sui Balcani lo distolsero
da quel sogno.
Infatti, Foca, che guidava nel 602 una delle armate che doveva svernare oltre il Danubio per una contro-offensiva
volta ad ostacolare gli slavi, si pose a capo del malcontento e rovesciò Maurizio nello stesso anno,
facendolo uccidere con i suoi figli. Il governo di Foca si caratterizzò per una serie successiva di
omicidi a danno delle famiglie più eminenti, nel tentativo di assicurarsi più saldamente il potere.
Ma, già nel 605, l’esercito persiano di Khusraw II[18] irruppe nell’Asia minore, mentre contemporaneamente
gli slavi discendevano in gran numero nei Balcani per prenderne stabilmente possesso.
L’esarca di Cartagine Eraclio si decise allora a sostenere il proprio figlio, che portava il suo stesso
nome, perché guidasse una spedizione su Costantinopoli. Il giovane Eraclio, giunto nella capitale nel 610,
venne accolto come un liberatore dalla città, ricevendo la corona imperiale dal patriarca e subito
decretando la morte di Foca.
Eraclio riuscì non solo a salvare l’impero dai nemici che lo insediavano, ma soprattutto a fornire
allo stato bizantino quelle solide basi economiche, amministrative e militari che avrebbero permesso
all’impero di durare per secoli. Gli avari e gli slavi attaccarono per due volte Tessalonica ed arrivarono
in Tracia fin sotto le mura di Costantinopoli, ma la città, guidata da Eraclio, resistette
all’attacco. Ad oriente nel 614 Gerusalemme cadde in mano dei persiani e nel 619 anche l’Egitto;
l’impero perdette così quei territori che rappresentavano il granaio della stessa
Costantinopoli.
Nonostante questa grave perdita, Eraclio riuscì però a proseguire quell’opera di profonda
riorganizzazione, in chiave militare, dell’amministrazione che già Maurizio aveva iniziato con la
creazione degli esarcati. Per sottrarsi alle ingenti spese di un esercito mercenario, Eraclio suddivise
l’Asia Minore - le restanti parti dell’impero seguiranno progressivamente questa strutturazione - in
unità territoriali militari cui dette il nome di themi, affidate ad uno stratega. Ai soldati
di un thema veniva garantita la proprietà ereditaria di terreni in cambio della prestazione del
servizio militare. La precedente amministrazione provinciale, in un processo di continuità e di
rinnovamento, vide emergere la figura dello stratega come autorità superiore a quella dell’antico
proconsole, poiché i themi erano più grandi delle antiche province. Scomparve anche la
prefettura del pretorio, che aveva caratterizzato ancora il primo periodo bizantino[19], e con essa gradatamente l’intero ordinamento
prefettizio cessò di esistere. Le cancellerie con funzioni finanziarie, un tempo guidate dal prefetto del
pretorio, vennero regionalizzate ed i loro nuovi responsabili, chiamati logoteti, divennero i referenti
amministrativi delle nuove unità costituite dai themi.
La chiesa stessa, attraverso il patriarca di Costantinopoli, mise a disposizione i suoi beni per venire in aiuto
della compagine imperiale in questo difficilissimo frangente. Nel 622 l’imperatore riuscì, una volta
riorganizzata l’amministrazione dello stato, a passare all’offensiva. In quell’anno
iniziò una campagna contro i persiani che si prolungò per ben sei anni, nei quali Eraclio non
rientrò mai a Costantinopoli - la capitale fu affidata in quel frangente al figlio Costantino ed al
patriarca Sergio. Nel 626, mentre l’imperatore era lontano, la capitale resistette ad un nuovo attacco
congiunto degli avari, degli slavi e dei persiani. Il fallimento di questa impresa portò allo sfaldamento
della potenza avara nei Balcani ed al ridimensionamento di quella slava. Nel 627 Eraclio conquistò Ninive
e, mentre si preparava ad attaccare Khusraw, quest’ultimo venne ucciso. Tutti i territori perduti, compresa
la Siria con Gerusalemme e l’Egitto, furono così restituiti all’impero ed Eraclio, nel 630,
poté trionfalmente riportare a Gerusalemme le reliquie della Santa Croce che Khusraw aveva precedentemente
fatto depredare.
In questo contesto, Eraclio si adoperò per una completa grecizzazione dell’impero. Se il numero
delle persone che parlavano latino, in oriente, era progressivamente diminuito negli anni, il bilinguismo era
stato conservato nelle cancellerie a livello ufficiale. Eraclio determinò il passaggio ad un utilizzo
esclusivo della lingua greca nella pars orientalis dell’impero. Il segno più evidente di
questa evoluzione, come è stato sottolineato unanimemente dalla storiografia, fu la mutazione dello stesso
titolo dell’imperatore che passò dalle antiche titolature latine di imperator, caesar,
augustus al nuovo nome greco di basileus[20]. Da Eraclio in poi tutti coloro che salirono sul trono di Bisanzio portarono
questo nuovo nome.
Nel Liber pontificalis le biografie dei pontefici da Sabiniano ad Onorio I, con la sola eccezione
dell’ultima, sono brevi come quelle immediatamente precedenti di Pelagio II e di Gregorio Magno. Gli studi
critici propendono ad attribuirle alla stessa mano a partire da alcuni particolari stilistici, come la medesima
formula con cui tutte chiudono le vite: quo defuncto, sepultus est[21]. Le due biografie precedenti, invece, di Pelagio II e
Gregorio Magno sarebbero di una diversa mano[22].
Con quella di Onorio I, invece, si assiste ad una svolta, poiché da quel momento in poi le vite risultano
scritte una per una da un contemporaneo del pontefice. Ne è prova il progressivo allungarsi delle
biografie stesse, l’apparire di un elenco di elogi indirizzati al pontefice, subito dopo le sue
generalità, e, soprattutto, una redazione in due tempi, con una narrazione iniziata evidentemente mentre
il pontefice è ancora in vita ed una seconda parte, più breve, con i dati della morte e della
sepoltura ed, eventualmente, rapide aggiunte su fatti mancanti[23].
Nonostante la redazione di queste prime biografie del VII secolo sia attribuita ad una mano diversa dalle ultime
del secolo precedente, è immediatamente evidente che le vite vengono composte in linea con quelle
precedenti, nel desiderio di conservare la medesima formula compositiva.
Si potrebbe anzi parlare di una vera e propria “formula papale”, creata non a tavolino, ma accolta
sempre più consapevolmente dalle diverse generazioni di redattori e divenuta così come una griglia
nella quale sistemare i diversi elementi che si volevano narrare. È proprio la costanza di questo schema
che rende il Liber unitario, pur nel variare dello stile delle diverse biografie, come ha sapientemente
scritto Lidia Capo: «a collegare al periodo precedente questo Liber che proviene da una
realtà così diversa è la formula della memoria papale che era stata creata agli inizi del VI
secolo [...]; è questa formula il vero elemento unificante della vicenda del Liber ed è
possibile perfino che sia da considerare il prodotto più durevole dell’età gotica in Italia.
Da allora infatti il Liber mantiene, fin quasi alla sua interruzione nella seconda metà del IX
secolo, lo schema assolutamente costante, costituito da nome, origine e formazione del papa, durata del
pontificato, azione dottrinale e normativa, avvenimenti naturali e politici del tempo, opere a favore della
chiesa, dei poveri e della città, ordinazioni, morte e sepoltura, vacanza»[24].
Le notizie delle prime biografie del VII secolo non si diffondono ampiamente sugli eventi avvenuti nel corso dei
diversi pontificati non tanto a motivo della brevità del loro regno, quanto per una consuetudine che solo
a partire dalla vita del successore di Onorio I, Severino, sarà modificata, iniziando a prevedere una
maggiore ampiezza della narrazione. Che l’estrema brevità di queste vite sia una regola risulta
evidente dal fatto che la vita di Gregorio Magno conta solo quattordici righe, nell’edizione del
Duchesne[25], contro le sei
del suo successore Sabiniano[26]. Ovviamente gli eventi della vita di Gregorio Magno furono di enorme importanza
nella storia dell’urbe e della penisola italiana, come testimonia il suo ricchissimo epistolario, ma il
Liber si limita a ricordare in maniera lapidaria l’azione dell’esarca Romanus contro i
longobardi in una riga, l’invio di monaci ad gentem Angulorum in due righe ed alcune opere
letterarie e di edilizia religiosa del grandissimo pontefice: solamente otto righe in più rispetto alla
vita di Sabiniano che fu papa solo per due anni.
Questo atteggiamento manifesta nei redattori di queste prime vite del VII secolo una scarsa consapevolezza
dell’importanza della propria opera, mentre nelle vite successive sarà sempre più evidente la
maturazione di una coscienza nuova che contraddistinguerà il Liber.
Ha scritto in proposito la Capo: «nel periodo tra fine VI e prima metà del VII secolo il
Liber denuncia nei suoi autori non solo un livello culturale modesto ma anche un atteggiamento molto
tradizionalista, più di quanto sia lecito attribuire ai loro papi, come indica soprattutto
l’orizzonte di riferimento del testo, che è esclusivamente imperiale, o addirittura solo italiano,
pure quando i papi stessi pensavano un po’ più in grande e guardavano un po’ più in
là: in particolare [...] in direzione dell’Occidente. E dimostra pure che essi attribuivano alla
propria opera una funzione altrettanto poco ambiziosa, facendone il luogo di conservazione di una memoria
storico-archivistica ridotta ai minimi termini»[27].
Data la brevità di queste biografie, si è preferito, in questa tesi, non analizzarle ad una ad una,
come avverrà nei capitoli seguenti per le vite successive, ma considerarle piuttosto nel loro insieme.
Una prima situazione tipica che permette di valutare alcuni aspetti importanti della relazione fra il vescovo di
Roma e l’autorità imperiale è l’elezione del nuovo pontefice alla morte del
predecessore, elemento ovviamente costante che caratterizza la successione apostolica e la sua concreta
determinazione.
Il Liber pontificalis mostra come esistesse una chiara distinzione fra il momento dell’elezione e la
successiva consacrazione a vescovo del nuovo eletto. Se entrambi questi due atti erano di stretta pertinenza
ecclesiale, il passaggio dal primo al secondo non poteva avvenire senza la ratifica imperiale. Il vescovo appare
così essere, già a partire da questo primo rilievo, una persona privata ed, insieme, una
personalità riconosciuta dallo stato.
La differenza fra elezione ed ordinazione appare chiara anche solo considerando i dati cronologici. Di ogni
pontefice il Liber ricorda, immediatamente dopo le brevi note relative alle sue ascendenze familiari, la
durata del regno, utilizzando la forma verbale sedit[28] seguita dall’indicazione degli anni, dei mesi e dei giorni del
pontificato.
Recita, ad esempio, il Liber a proposito di Sabiniano: Sabinianus [...] sedit ann. I mens. V dies
VIIII[29]. La
consacrazione di Sabiniano avvenne il 13 settembre 604 e la sua morte il 22 febbraio 606. Ma la sua elezione
doveva già essere avvenuta nel marzo 604 - Gregorio Magno, suo predecessore, era morto il 12 marzo 604. I
sei mesi intercorsi tra il marzo ed il settembre 604 furono necessari per attendere l’autorizzazione
imperiale necessaria per la consacrazione a vescovo. Questi mesi non sono computati dai redattori del
Liber, perché l’eletto non è ancora vescovo di Roma, mancando del requisito necessario
che è l’ordinazione sacramentale: questa può avvenire solo dopo un esplicito permesso di
Costantinopoli.
Le vacanze fra un pontefice e l’altro sono fornite dallo stesso Liber con l’espressione et
cessavit episcopatus cui segue l’indicazione del lasso di tempo in anni, mesi e giorni che intercorse
fra la morte di un papa e la consacrazione del suo successore. Si ha così l’indicazione di circa un
anno fra Sabiniano e Bonifacio III, dieci mesi fra Bonifacio III e Bonifacio IV, quasi sette mesi fra Bonifacio
IV e Deusdedit, oltre un mese fra Deusdedit e Bonifacio V, tredici giorni fra Bonifacio V e Onorio I[30].
L’oscillare dei tempi necessari alla consacrazione - che sono inizialmente lunghissimi e divengono poi
brevissimi nel caso di Onorio I che divenne papa due giorni dopo la sepoltura del suo predecessore - hanno
portato gli storici alla conclusione che la ratifica dovesse venire in alcuni casi direttamente
dall’imperatore, mentre in altri fosse stata demandata all’esarca e, quindi, potesse giungere
più rapidamente da Ravenna[31]: non sarebbe possibile altrimenti spiegare la rapidità di ordinazioni,
come quella appunto di Onorio I.
Ma tale ratifica era necessaria. Nella biografia di Bonifacio V non si riscontra eccezione neanche a motivo di
una grave situazione che si verificò quando il pontefice era già stato eletto, ma non ancora
consacrato. Il patrizio ed eunuco Eleuterio - come si vedrà dettagliatamente più avanti -
adsumpsit regnum, si ribellò cioè all’imperatore, proclamandosi re dei territori
dell’esarcato, ante dies ordinationis eius[32], cioè di Bonifacio.
In questo frangente, il fatto che l’autorizzazione alla consacrazione non fosse ancora giunta al momento
della rivolta, sia che dovesse giungere attraverso l’esarca che in quel momento si era ribellato, sia che
dovesse arrivare direttamente da Costantinopoli, obbligò il pontefice ad affrontare l’emergenza
senza che gli fosse possibile ricevere previamente l’ordinazione: essa avvenne solo dopo l’uccisione
del ribelle, Eleuterio.
Ma, d’altro canto, è certo che lo stato non potesse, a norma di legge, interferire in alcun modo
nell’elezione stessa, bensì solamente controllarne la correttezza procedurale. Alcune note relative
al pontificato di Bonifacio III, infatti, chiariscono come la designazione del nuovo vescovo di Roma avvenisse in
una forma assolutamente diversa da quella delle altre cariche riconosciute dallo stato, alle quali si poteva
accedere per carriera interna o per una libera designazione imperiale. Il Liber pontificalis riferisce che
Bonifacio III fecit constitutum [...] ut nullus pontificem viventem aut episcopum civitatis suae praesumat
loqui aut partes sibi facere, nisi tertio die depositionis eius, adunato clero et filiis ecclesiae, tunc electio
fiat, et quis quem voluerit habebit licentiam elegendi sibi sacerdotem[33].
Evidentemente dovevano esserci stati tentativi di interferenza nelle elezioni precedenti ed il pontefice, in un
sinodo tenutosi a Roma del quale gli atti sono perduti[34], volle ulteriormente chiarire che nessuna discussione e soprattutto nessun
accordo potevano essere messi in atto, se non tre giorni dopo la morte del papa. Si doveva seguire così la
prassi antica della convocazione del clero e dei filii ecclesiae[35] che avrebbero poi proceduto liberamente
all’elezione. Non era necessario un decreto imperiale che autorizzasse il clero a riunirsi per
l’elezione. I tempi strettissimi dell’electio manifestano chiaramente che la prassi non lo
esigeva, a differenza della ratifica.
Il Liber diurnus romanorum pontificum, che raccoglie le formule in uso nella cancelleria della curia
papale[36], fornisce alcuni
dettagli sugli atti che si dovevano espletare in questi frangenti. Alla morte del papa, l’arcipresbitero,
l’arcidiacono ed il primicerio dei notai di Roma, detti servantes locum Sanctae Sedis
Apostolicae[37] -
espressione che individua in essi il consiglio di reggenza operante nella vacatio sedis[38] - informavano con una lettera
le autorità di Ravenna dell’avvenuto decesso.
Una volta avvenuta l’elezione del nuovo papa, una delegazione composta da un vescovo, un presbitero, un
diacono ed un suddiacono regionarii, con rappresentanti delle varie classi civili e militari che avevano
partecipato all’elezione, dovevano presentare all’esarca il decretum relativo[39]. Nel testo si affermava che le
virtù di Cristo e di San Pietro li avevano guidati nell’elezione e che ora pregavano l’esarca
di voler concedere presto l’autorizzazione per la consacrazione poiché era necessario tenere a
freno, grazie al ministero del nuovo pontefice, propinquantium inimicorum ferocitatem.
Se si confrontano questi dati con le procedure che gli studi storici recenti hanno messo in luce relativamente
all’elezione degli altri vescovi nelle diverse diocesi dell’impero (ed anche nei diversi regni
indipendenti dall’impero) nel passaggio dal VI al VII secolo, è facile concludere che il triplice
passaggio che si verificava a Roma era norma anche nelle altre sedi. Ma la peculiarità romana appare
proprio nelle lunghe attese prima della consacrazione che rendono evidente come l’elezione avvenisse
indipendentemente dalle indicazione del sovrano così distante dall’urbe.
Gli studi recenti hanno, in effetti, sottolineato l’intimo legame esistente fra il ruolo episcopale e la
compagine imperiale. Jean Durliat ha così sintetizzato questo rapporto nel contesto dell’impero
tardoantico: «on sait maintenat que les évêques, partout nommés par le souverain comme
d’autenthiques fonctionnaires du culte, émargeaient en tant que tels au budget de l’Etat et
disposaient du droit de rendre la justice; dans ces conditions, l’hypothèse d’une
indépendence du pouvoir épiscopal, suffisante pour qu’il ait pu s’imposer au souverain,
manque de base. D’ailleurs, les nominations étaient effectuées sous le contrôle strict
de l’administration civile et, au moins dans l’Empire, l’État avait le droit de
destituer un prélat sans que personne y trouvât à redire, surtout pas la
“victime” d’une injustice»[40].
Non diversamente avveniva al di fuori dei confini imperiali, nei diversi regni occidentali, come afferma
Élisabeth Magnou-Nortier: «pour ne s’en tenir qu’aux évêques de Gaule au
VIe siècle, on s’aperçoit très vite que l’emprise du pouvoir royal sur leur
nomination et les fonctions qu’ils assument dans leur cité tend à en faire un corps de
fonctionnaires au service du roi s’il reste puissant. Bien que la législation conciliaire
contemporaine soit assez discrète sur ce point, il suffit de lire Grégoire [di Tours] pour se
rendre compte que les rois mérovingiens contrôlent de très près
l’épiscopat, interviennent constamment dans le choix des évêques sans que ce grand
prélat n’élève jamais une critique de principe à ce sujet, ce qui ne signifie
nullement, pensons-nous, qu’il ait approuvé sans réserve cette procédure. Pour lui, il
est clair qu’il existe trois étapes dans la promotion d’un évêque: un choix
canonique “avec le clergé et le peuple” qui doit se porter sur un clerc sans
qu’interviennent des “cadeaux”, puis l’approbation royale, enfin la consécration
épiscopale. Mais la deuxième étape était de fait l’étape
décisive»[41].
Nell’urbe, però, la situazione era diversa. La distanza temporale che intercorreva tra
l’elezione, che appare immediata a Roma, ed il sopraggiungere della ratifica necessaria per la
consacrazione pontificia, permette di concludere che, per quanto riguarda il vescovo di Roma, l’intervento
statale, nel frangente dell’elezione, doveva essere minimo. In questo senso non valgono, per Roma, le
affermazioni della Magnou-Nortier sulla capacità civile di condizionare la scelta della persona che
avrebbe ricevuto la dignità episcopale.
La situazione che si verificherà allo scoppiare della crisi monotelita - come si vedrà -
mostrerà chiaramente il tentativo imperiale di condizionare la propria ratifica ad espliciti impegni presi
da parte del nuovo pontefice, ma nondimeno permetterà di verificare ancora una volta
l’impossibilità da parte imperiale di prendere decisamente in mano le redini dell’elezione,
che viene gelosamente custodita dal clero - e dal popolo - e che si rivela il momento realmente decisivo della
designazione.
Certo anche i vescovi delle diverse diocesi venivano eletti con procedure canoniche differenti da quelle
necessarie per la designazione dei membri dell’amministrazione civile, come ha sottolineato Elio Dovere
nelle sue ricerche sull’episcopato e sulle sue connotazioni giuridiche[42]. Lo studioso italiano ha evidenziato come, se da un lato
dal IV al VI secolo andavano via via crescendo le responsabilità civili del vescovo nella propria
città, dall’altro, a livello formale e giuridico, egli rimaneva una persona privata e non veniva mai
insignito di titoli propri dell’amministrazione civile. Infatti, nel Codex Theodosianus, la raccolta
legislativa curata dall’imperatore Teodosio II e promulgata nel 438, e nel Codex di Giustiniano,
pubblicato con il Digesto nel 533 ma ampliato poi con le emanazioni successive delle Novellae, non
si registra mai l’attribuzione al vescovo del rango di illustris, spectabilis o
clarissimus, cioè delle titolature onorifiche degli alti funzionari imperiali. Ancor di più,
coloro che ne erano rivestiti precedentemente - per ragioni familiari o a motivo delle alte cariche civili
rivestite all’interno dell’impero prima di assurgere al ruolo episcopale - non venivano più
appellati con i titoli precedenti. Divenivano sempre e solamente episcopus, antistes,
sacerdos, pontifex. Dovere afferma esplicitamente, in proposito: «poiché i
sacerdotes non dovevano essere selezionati dal sovrano, ma venivano scelti direttamente dal popolo e dallo
stesso clero, essi non potevano che essere qualcosa ‘d’altro’ relativamente alla
potestas amministrativa, rispetto ai membri dell’apparato burocratico
dell’imperium»[43].
Se ne deduce che ogni vescovo - e così pure il pontefice romano - era cittadino imperiale, fedele suddito
dell’imperatore ed a lui vincolato da uno speciale atto giuridico rappresentato dalla ratifica
all’elezione, ma allo stesso tempo era rivestito di un’autorità la cui designazione (e
conseguentemente il suo prestigio e ruolo) non originava semplicemente da una designazione statale, ma
dall’elezione avvenuta secondo canoni ecclesiastici e dall’ordinazione sacramentale ricevuta.
Certamente, però, tutto questo, nel caso del vescovo di Roma, acquistava un rilievo differente, sia a
motivo della lontananza geografica del potere imperiale che non aveva la possibilità di intervenire nella
designazione del candidato, sia a motivo del prestigio di cui godeva la sede apostolica. L’autorizzazione
imperiale non poteva mancare per accedere all’ordinazione episcopale, ma, comunque, nel VII secolo, di
fatto, non poteva non essere concessa.
Se già la necessità di attendere la ratifica imperiale da parte del nuovo eletto caratterizzava il
pontefice come cittadino dell’impero, pur nel suo ruolo peculiare di persona non scelta direttamente
dall’amministrazione imperiale, la sua appartenenza all’orizzonte culturale dello stato emerge ancor
più dall’analisi dell’effettivo esercizio della sua auctoritas, analisi che consente di
approfondire ulteriormente la conoscenza dei rapporti fra il vescovo di Roma e lo stato agli inizi del VII
secolo.
L’imperatore di Costantinopoli appare nelle fonti romane di questo periodo come l’unico e legittimo
imperatore romano, detentore ideale di ogni potere politico sul mondo allora conosciuto e sull’urbe stessa.
È quasi pleonastico sottolineare che nella mentalità di cui le fonti romane del VII secolo sono
espressione, l’impero non aveva conosciuto alcuna interruzione, nonostante la morte dell’ultimo
imperatore d’occidente. Non è possibile, allo stato attuale delle fonti, verificare come sia stata
avvertita a Roma la progressiva grecizzazione voluta da Eraclio, ma certamente egli è, per la sede
apostolica, il legittimo successore degli antichi imperatori che un tempo risiedevano nell’urbe. Questo
appare evidente già dalla stessa titolatura. Il Liber pontificalis non esita a designarlo
costantemente con due titoli: princeps ed imperator.
Il primo termine - princeps - è utilizzato nelle biografie di Bonifacio III[44], di Bonifacio IV per due
volte[45], di Bonifacio
V[46], mentre
imperator è presente nella biografia di Onorio I in relazione ad Eraclio[47].
L’imperatore detiene una autorità universale, proprio in quanto legittimo erede dello stato romano.
Il Liber diurnus indica con una precisa terminologia questo ruolo ecumenico dell’imperatore.
Conserva, infatti, all’interno del formulario di cancelleria utilizzato per comunicare all’esarca di
Ravenna l’avvenuta elezione del nuovo pontefice[48], una preghiera rivolta a chiedere a Dio di concedere all’imperatore di
trionfare sulle gentes, così da reintegrare, come era anticamente, il Romanum imperium nella
sua pienezza. In questo modo il formulario del Liber diurnus chiama gentes i regni non sottoposti
al governo dell’impero, comprendendo con questo termine sia il regno dei franchi, cattolico già da
tempo, sia quello degli angli appena cristianizzato, sia quello ancora in parte ariano dei longobardi, sia quello
dei visigoti in Spagna.
In due lettere di Gregorio Magno[49], immediatamente precedenti quindi il periodo che si sta considerando, si trova
una distinzione che specifica ulteriormente la qualità dell’autorità romana:
l’imperator reipublicae o imperator Romanorum viene definito dominus liberorum, mentre
i reges gentium sono chiamati domini servorum. Agli inizi del VII secolo - le due lettere sono del
600 e del 603 - ancora è viva, almeno come reminiscenza letteraria, la mentalità propria della
romanità imperiale nella quale l’autorità del princeps veniva ritenuta fondata su di
un diritto universale e dotata di una preminenza rispetto ad ogni altra autorità che pure governava gli
altri popoli.
L’appartenenza di Roma all’impero era motivata, al livello più profondo, non solamente dalle
ovvie ragioni politiche, amministrative, giuridiche ed economiche che vedevano l’urbe come una città
pienamente integrata nella compagine statale, ma molto più da quella perdurante consapevolezza che Roma
era all’origine storica e culturale di quell’unica respublica romanorum che da lei prendeva il
nome. Così si esprime F. Marazzi al riguardo: «come Ravenna, Roma - e i papi in particolare - ha
vissuto, dal 553 in poi, nell’unica prospettiva oggettivamente possibile per la città che
dell’Impero era stata il cuore: vale a dire quella di preservare i legami con quanto dell’Impero
(i.e. della “civiltà” in assoluto) era sopravvissuto, nel rovinoso e incerto panorama (sempre
da un punto di vista “romano”) dell’Europa barbarica»[50].
Recentemente è stato Claudio Azzara, nella sua ponderosa ricerca sulla visione che del potere imperiale ha
avuto il papato altomedioevale[51], a sottolineare questa ininterrotta continuità dell’impero romano
nello sguardo dei vescovi di Roma prima dell’VIII secolo: «la consapevolezza dell’avvenuta
elaborazione, nel corso dell’VIII secolo, dei concetti di imitatio e poi di translatio
imperii da parte di Roma, culminata nel trasferimento della dignità imperiale dal basileus di
Costantinopoli al re dei Franchi, ha frequentemente indotto a retrodatare in modo indebito il momento della
rottura, “ideologica” prima ancora che politica, tra la Sede romana e Bisanzio e della contestuale
“svolta franca” del papato, rintracciandone una prima espressione soprattutto nel pontificato di
Gregorio Magno, il quale, tra la fine del VI secolo e l’inizio del VII - secondo questa chiave
interpretativa - avrebbe già manifestato la predilezione di Roma per i sovrani merovingi e, più in
generale, la disponibilità ad avvalersi del mondo occidentale in via di progressiva cristianizzazione come
di un punto di appoggio cui ricorrere di fronte all’approfondirsi del solco con l’impero
orientale»[52].
Il punto di riferimento critico di questa posizione è la tesi di Walter Ullmann[53], secondo il quale la cosiddetta
svolta franca del papato dell’VIII secolo sarebbe già presente in nuce addirittura alla fine
del V secolo, nel pontificato di Gregorio Magno. Azzara dimostra, invece, come non sia condivisibile una lettura
del VII secolo come di un periodo di riluttante sottomissione romana ad un impero sentito come estraneo a motivo
del fatto che ormai da secoli la sua capitale è in Costantinopoli: «la coscienza dei toni che
avrebbe assunto nel pieno e tardo medioevo il contrasto tra sacerdotium ed imperium circa il nodo
cruciale della preminenza nel governo della cristianità, la definizione delle rispettive competenze e
prerogative e, in ultima istanza, la subordinazione dell’una autorità all’altra, ha generato
una diffusa tendenza a leggere le vicende del papato nei secoli VI e VII nei termini, un po’ troppo
semplificati, di un’umiliante sottomissione, di un vero e proprio stato di cattività, nei confronti
di un impero “cesaropapista”, interpretando tra l’altro, i ripetuti casi di intervento
imperiale in materia religiosa ed ecclesiastica esclusivamente come l’imposizione di una serie di atti di
forza a danno di un interlocutore particolarmente debole, piuttosto che riconoscerne la rispondenza ad un modello
di sovranità di matrice cristiano-ellenistica che, sebbene non scevro di elementi di ambiguità,
destinati ad alimentare i futuri contrasti, era all’epoca, in buona sostanza, universalmente
accettato»[54].
Il ruolo universale dell’imperatore non toglie rilevanza ai re delle gentes che sono continuamente
presenti nell’orizzonte della chiesa di Roma. Anzi il paragone con essi specifica ancor più la
differenza della relazione che Roma intrattiene con Costantinopoli, rispetto alle relazioni con i differenti
reges gentium.
I loro re governavano regni effettivamente indipendenti da Costantinopoli, ma le fonti romane utilizzano talvolta
una titolatura che, con una sorta di finzione giuridica, attribuiva loro il ruolo di funzionari imperiali di
altissimo grado sottomessi al princeps e godenti di autorità pari a quelle bizantine. Si esprimeva
così la visione culturale dei pontefici nella quale non era assolutamente tramontata una unità
ideale del mondo che avesse l’imperatore come unico capo politico universalmente riconosciuto ed ogni altro
sovrano come suo collaborazione. Se la realtà dei fatti rendeva ormai impossibile una restaurazione degli
antichi confini dell’impero, le gentes erano viste ancora come idealmente inserite in un quadro di
riferimento che restava immutato.
Già nell’epistolario gregoriano è testimoniato un modo di rivolgersi ai re secondo il
tradizionale formulario riservato alle alte cariche bizantine. Gregorio Magno si indirizza ai reges nei
saluti introduttivi o finali delle sue lettere, con titoli che li accomunano ai magistri militum o allo
stesso esarca: gloria vestra, excellentia vestra[55]. La stessa formulazione è testimoniata
all’inizio del VII secolo nelle lettere rivolte ai re degli angli. Bonifacio V si indirizza ad
Eduvinus[56], il re,
chiamandolo gloria vestra ed a sua moglie Edelburga[57] con identico formulario.
Se nei confronti del lontano regno degli angli la preoccupazione pontificia è quella della diffusione del
cristianesimo, la tensione esistente nei rapporti con il regno longobardo, l’unico regno confinante con i
territori imperiali, è appena accennata nel Liber pontificalis.
Nel 603, un anno prima della morte di Gregorio Magno, si era giunti ad una nuova tregua fra l’impero ed il
regno longobardo. Ma, durante il pontificato di Sabiniano, nell’aprile 605, le forze longobarde passarono
nuovamente all’azione[58], conquistando Orvieto e Bagnoregio e stringendo da presso la via Amerina - gli
storici hanno preso l’abitudine di chiamarla con il nome di “corridoio bizantino”[59] - che, dopo la conquista longobarda
della via Flaminia, era rimasta l’unico canale di comunicazione fra Roma e Ravenna. È solo nel
novembre dello stesso anno che si giunse ad una nuova tregua con il re Agilulfo. Smaragdo, l’esarca,
dovette pagare una somma di 120.000 solidi d’oro per ottenere l’arresto della nuova avanzata
longobarda.
Nel Liber tutti questi particolari sono taciuti: l’episodio è citato, nella vita di
Sabiniano, in un brevissimo passaggio che afferma, come proemio dell’azione successiva: tunc facta pace
cum gente Langobardorum [...][60].
Evidente è qui che la biografia, tacendo gli altri attori della vicenda - non viene riferito il nome
né del re longobardo con cui fu stipulata la pace, né delle autorità bizantine che furono
protagoniste nella vicenda -, voglia attribuire la stipulazione della pace all’operato del pontefice, anche
se l’utilizzo dell’ablativo assoluto nella sua forma passiva lascia aperta, dal punto di vista
letterario, la possibilità che anche l’esarca abbia partecipato agli accordi. Deve essere comunque
ammesso che il papa stesso, così come era già avvenuto per Gregorio Magno, sia intervenuto a
perorare la causa della pace ed a stipularla effettivamente, anche se in collaborazione con altri.
Risulta, inoltre, indubbio da questa brevissima notazione che i longobardi erano avvertiti da Roma come un potere
esterno all’impero ed anzi nemico: la pace sancita con loro è presentata come un desiderio
finalmente realizzato.
Da questo momento fino agli inizi dell’VIII secolo «i Longobardi spariscono dalle pagine del Liber
pontificalis bruscamente come vi erano entrati» - afferma Gasparri nella sua recente
sintesi[61]. Ma, come per
le biografie precedenti, il silenzio su di loro è dovuto piuttosto alla prospettiva degli estensori del
Liber che tacciono gli eventi riguardanti i longobardi, come pure gli altri regni occidentali.
Bertolini ha sottolineato che questa assenza dei longobardi dalle biografie pontificie è una costante del
Liber fino all’VIII secolo e che questo disinteresse letterario - che deve essere tenuto ben
distinto dalla questione delle relazioni storiche fra la sede apostolica e la gens langobardorum - risulta
anche per il periodo precedente, quello della discesa longobarda in Italia nella seconda metà del VI
secolo: «degli avvenimenti che portarono ad insediarsi in Verona, in Milano ed in Pavia il fondatore del
terzo regno germanico in Italia, il longobardo Alboino, la vita di Giovanni III (561-574) ci dà soltanto
un riflesso preliminare, accogliendo la tradizione di Narsete che, venuto in odio ai romani, scripsit genti
Langobardorum ut veniret et possiderent Italiam. Di Alboino neppure il nome. Delle biografie da Benedetto I
(575-579) a Sergio I (687-701), solo in quelle dei papi del periodo che va dagli ultimi decenni del sec. VI al
primo del VII - Benedetto I, Pelagio II (579-589), Gregorio I (590-604), Sabiniano (604-606) - e solo
occasionalmente troviamo registrate devastazioni ed occupazioni operate dagli invasori, e solo una delle tregue
con loro stipulate. Ed anche in queste notizie occasionali, dei Longobardi si parla sempre come se la loro
gens non avesse mai avuto propri re e propri duchi»[62].
Il Liber aveva raccontato la devastazione longobarda nel corso della vita di Benedetto I[63], la consacrazione di Pelagio II
absque iussione principis[64] per l’impossibilità dei contatti con Costantinopoli a motivo
dell’invasione longobarda e la riconquista imperiale di alcune città che erano cadute in mano
longobarda, nella biografia di Gregorio Magno[65], ma degli «attacchi dell’età di Agilulfo, quando Gregorio
Magno nei suoi scritti poteva drammaticamente descrivere la scena dei prigionieri romani portati via con la corda
al collo more canum, e degli abitanti delle campagne che affluivano disperati entro Roma con le mani
mozzate»[66], e di
ulteriori pericoli e malversazioni il Liber non aveva registrato alcunché. Nemmeno vi è
alcun riferimento nelle biografie pontificie al fatto che i longobardi fossero giunti a sud di Roma, fondando i
due ducati di Spoleto e Benevento[67].
Le altre fonti attestano, invece, la presenza di frequenti relazioni fra la sede apostolica e la gens
langobardorum. Gli studi di storia longobarda hanno dimostrato che al tempo di Arioaldo (626-636) dovette
essere stipulata una pace più duratura, che pose fine per lungo tempo ad ogni progetto di ulteriore
avanzata longobarda, giungendo così ad una stabilità e sicurezza dei confini[68] e questo non poté avvenire
senza ulteriori contatti. Inoltre sono attestati specifici scambi epistolari di papa Onorio I con i longobardi
nel 625 e nel 628 prima per perorare la riconquista del potere del figlio di Agilulfo, Adaloaldo, e poi per
stringere, invece, rapporti benevoli con Arioaldo che era risultato vincitore sul trono del regno[69]. È attestato che lo stesso
Onorio I ebbe relazioni diplomatiche anche con il duca Arechi I di Benevento[70]. Al di là di questi dati certi, il rapporto dovette
essere continuo e dovettero giocarvi un ruolo decisivo, come si vedrà successivamente, i vescovi cattolici
del regno longobardo che non potevano non essere in relazione con gli stessi pontefici. Fra l’altro solo
una consuetudine stabilitasi progressivamente può spiegare l’ossequio che registreranno le relazioni
dei re e dei duchi longobardi con la sede apostolica alla fine del VII secolo e nella prima metà
dell’VIII.
Il silenzio sui longobardi va, d’altronde, di pari passo nel Liber di questo periodo con
l’analoga assenza di ogni riferimento ai regni occidentali, cui già si è fatto cenno: anche
di scambi epistolari con loro, attestanti la consuetudine di relazioni ecclesiastiche e diplomatiche, le fonti
conservano memoria. Per i regni valgono così considerazioni analoghe a quelle che riguardano i longobardi.
L’ultimo riferimento alle gentes del nord Europa compare nella vita di Gregorio Magno, quando il
biografo narra dell’invio di missionari presso gli angli[71]: esse riappariranno solo alla fine del secolo, nella vita
di Sergio I, la stessa nella quale riappariranno i longobardi, pur senza essere esplicitamente citati, in
occasione del ritorno nella comunione cattolica della sede di Aquileia.
In particolare è l’epistolario di Onorio I ad aver conservato testimonianze dell’interesse
della chiesa di Roma per l’occidente - ed, in particolare, per i regni delle isole britanniche[72] - ma anche altre fonti ne danno
conferma[73].
Anche se il Liber lascia nell’ombra i longobardi, come le altre gentes, il rapporto
privilegiato di Roma con Costantinopoli è comunque confermato anche da questo punto di vista. Eraclio
proseguì una politica conciliante con i longobardi, a motivo soprattutto della necessità di
rivolgere tutte le proprie forze per riorganizzare l’impero ad oriente, dovendo contrastare gli attacchi
degli avari, degli slavi e dei persiani e Roma poté avvantaggiarsi del periodo di pace che ne
seguì.
Gli storici sono concordi nell’individuare, come si è già visto, nel passaggio da Maurizio a
Foca ed, infine, ad Eraclio una svolta nell’organizzazione amministrativa e militare dell’impero,
resasi necessaria per l’accrescersi dei pericoli esterni. Le fonti romane attestano questa evoluzione in
occidente, nel trapasso tra la fine del VI secolo ed i primi decenni del VII.
Fra gli attori della scena romana non appaiono più, ormai, né il senato, né il praefectus
urbis. L’ultima comparsa del senato romano della quale si abbia notizia certa è relativa al
penultimo anno di pontificato di Gregorio Magno: il 25 aprile 603 il senato si riunì insieme al papa ed al
clero, nella basilica Iulii del palazzo lateranense, per acclamare con il polichronion,
l’ovazione di rito, l’arrivo nell’urbe delle immagini del nuovo imperatore Foca e di sua moglie
Leonzia[74]. A partire da
Sabiniano, né il senato nella sua globalità, né singole figure di senatori appariranno
più nelle lettere dei pontefici, così come nelle loro biografie.
Questo non significa necessariamente che da quel giorno il senato abbia cessato di esistere. Il Liber
pontificalis attesta che il papa Onorio I era ex patre Petronio consule[75], fornendo così un indizio di
un’ulteriore presenza di senatori in Roma, dopo il 603. Bertolini ha sostenuto, inoltre, che
l’episodio della discesa a Roma di Eleuterio nel 619 nel desiderio di diventare imperatore - evento che
sarà analizzato dettagliatamente a suo luogo - doveva implicare la sussistenza del senato, al cospetto del
quale egli avrebbe probabilmente voluto avvenisse la proclamazione ufficiale del suo potere[76].
Se il senato dovette continuare ad esistere ancora per alcuni anni, la sua assenza nel Liber manifesta
come la sua autorità fosse talmente in declino e prossima a scomparire, da non essere ormai più
rilevante. Questo fatto evidenzia il fallimento del tentativo di Gregorio Magno che si adoperò per il suo
mantenimento ed anzi per una sua rivitalizzazione e rafforzamento.
Come ha scritto Burgarella, «a nulla valsero i tentativi di Gregorio Magno di ridar nuova linfa ai ranghi
esausti del Senato romano e di radunare, a tal fine, i rampolli dispersi di questa aristocrazia. Di loro alcuni
vivevano paghi della protezione bizantina e degli agi costantinopolitani, altri alle prese con gravi ristrettezze
si chiudevano in provincia incorrendo talora nella prigionia in mano longobarda»[77].
Sono noti, a tal proposito, sia l’episodio del riscatto pagato nel 596 dal papa per ottenere la liberazione
dei nobiles che erano caduti prigionieri dei longobardi a Crotone, con l’impiego di ben metà
della donazione che Gregorio Magno aveva ricevuto da Teoctista, sorella dell’imperatore Maurizio, sia le
parole del pontefice pronunciate nel commentare le parole del profeta Ezechiele, con le quali denunciava che
l’urbe fosse ormai vacua[78]. Arnaldi ha sottolineato come, nelle parole del papa, pronunciate mentre il re
longobardo Agilulfo si avvicinava a Roma per attaccarla, proprio questa fosse la parola-chiave utilizzata:
«Roma era ormai una città “vuota”. Ma l’accento batte qui, in particolare, sui
senatori, perché erano essi e le loro famiglie a dare il tono alla città. Non era, dunque, tanto
una catastrofe di carattere demografico quella che Gregorio registra, quanto una catastrofe di carattere,
insieme, politico e sociale - una catastrofe civile»[79].
Certamente, tra i due vuoti, tra le due catastrofi, c’era ben più che una coincidenza: Roma stava
decrescendo demograficamente[80], divenendo via via meno importante, e gli esponenti delle famiglie benestanti se
ne allontanavano, portando a compimento l’esodo iniziato già al tempo della guerra
gotico-bizantina.
Il tentativo pontificio di arrestare questa emorragia senatoriale e la desolata constatazione del fallimento di
questo progetto, indicano, comunque, la totale adesione della chiesa, nel passaggio dalla fine del VI secolo agli
inizi del VII, alla visione ideale di un impero che continuasse ad essere, tramite la sua tradizione ed il suo
senato romano, ancora garante di civiltà e punto di riferimento per l’intera ecumene.
Il senato di Roma si estinse così di morte naturale, senza che alcuno ne decretasse la fine, anzi - ed
è questo un elemento decisivo per una corretta interpretazione storica della situazione[81] - nonostante da parte del papato se
ne volesse impedire la scomparsa[82].
Rilievi analoghi valgono per la figura del praefectus urbis, la magistratura preposta a tutte le altre
cariche cittadine. Gregorio Magno era stato prefetto nel 573 e, ricco dell’esperienza di quella carica,
assurse al seggio papale. La carica continuò ad essere ricoperta ancora per un certo lasso di tempo e
l’ultimo prefetto ad essere menzionato nelle fonti è un tale Giovanni, in carica nel
599[83].
La scomparsa delle tradizionali figure che rappresentavano l’imperatore in Roma - il senato ed il
praefectus urbis - si accompagnò all’emergere di nuove cariche, maggiormente caratterizzate
da un ruolo militare, in perfetta sintonia con le esigenze di un tempo nel quale Roma era ormai, di fatto,
divenuta una città di frontiera.
Se la tregua con i longobardi avrebbe retto per tutto il secolo VII, nondimeno non poteva non essere evidente
quanto precaria ormai fosse la situazione di Roma, stretta fra il regno longobardo a nord ed i due ducati di
Spoleto e Benevento ad est ed a sud. Solo l’esile corridoio della via Amerina teneva aperti i collegamenti
via terra con Ravenna ed ancor più difficili dovevano essere i collegamenti viari con Napoli, una volta
che Capua venne occupata dai longobardi nel 594.
L’imperatore dovette provvedere alla nuova situazione con mutamenti organizzativi che non riguardarono
solamente Roma, ma anche Cartagine, attraverso la creazione della nuova magistratura dell’esarca. È
certo, infatti, che tale magistratura non fu creata solo per l’Italia, poiché la si ritrova, nello
stesso periodo, anche in Africa. Due esarchi furono così creati, nelle due città di Cartagine e di
Ravenna[84], come supreme
autorità militari, dotate però di incombenze anche civili.
Il nuovo sviluppo delle strutture amministrative romane si inserì così in quel radicale mutamento
dell’amministrazione statale che permetterà all’impero non solo di sopravvivere, ma anzi di
rafforzarsi fino a riconquistare i territori perduti, nel mutato contesto internazionale nel quale in successione
regnarono Maurizio, Foca ed Eraclio[85].
La nuova magistratura dell’esarca di Ravenna, già accennata nella biografia di Gregorio
Magno[86], emerge nel
Liber con il pontificato di Deusdedit che la evidenzia nella sua rilevanza: eodem tempore veniens
Eleutherius patricius et cubicularius Ravennae, et occidit omnes qui in nece Iohanni exarchi et iudicibus
reipublicae fuerant mixti[87].
Il Liber rende così edotti che l’esarca Giovanni, patricius et cubicularius, era stato
ucciso in una rivolta e l’imperatore aveva inviato Eleuterio per ripristinare l’ordine. Una volta
regolati i conti in Ravenna, Eleuterio scese a Roma, dove susceptus est a sanctissimo Deusdedit papa
optime[88]. Il Liber
pontificalis, sottolineando con l’avverbio optime il tenore dell’accoglienza riservata dal
pontefice al nuovo esarca, annota così l’assoluta fedeltà del papa all’inviato
imperiale venuto a vendicare l’uccisione del precedente esarca, supremo rappresentante di Costantinopoli in
Italia. Il fatto che lo stesso Eleuterio porti il titolo di patricius, indica manifestamente la sua
dignità di nuovo esarca[89].
Eleuterio dovette, però, discendere fino a Napoli qui tenebatur a Iohanne Compsino[90], probabilmente il vero
mandante[91]
dell’uccisione dell’esarca e solo con la sconfitta e la messa a morte di quest’ultimo la
questione venne chiusa. Una volta che Eleuterio dette gli stipendi ai suoi soldati, facta est pax in tota
Italia[92]. Nella lotta
per il potere esarcale, Roma appare qui solo una città di transito, fedele all’imperatore ma non
protagonista, mentre gli eventi bellici si svolgono a Ravenna ed a Napoli, luoghi dove risiedono i protagonisti
politici della vicenda.
Dagli eventi narrati dal Liber risulta evidente che tutti i territori rimasti in mano imperiale nella
penisola, precedentemente suddivisi in province[93], sono ormai unificati sotto l’unica autorità esarcale.
L’esarca si muove tra Ravenna, Roma e Napoli, manifestando la sua autorità su tutta l’Italia,
ad eccezione di quei territori che erano stati persi a motivo delle conquiste longobarde nel nord e della
creazione dei ducati di Spoleto e Benevento nel centro-sud.
La carica di esarca di Ravenna è evidentemente la nuova magistratura suprema per l’Italia. Tale
magistratura ha un rilievo così ampio che gli studi moderni definiscono con il neologismo di
esarcato il territorio effettivamente dipendente dall’esarca, sebbene gli studi
sull’amministrazione bizantina dell’Italia e dell’Africa siano giunti alla conclusione che
questo termine non sia mai stato utilizzato dalle cancellerie imperiali, come scrive Brown: «exarchatus,
which no source employs until after the collapse of Byzantine power in 751»[94].
Il fatto che l’esarca risieda a Ravenna - sebbene possa raggiungere frequentemente Roma dove ha a
disposizione una residenza nel palazzo imperiale al Palatino, come apparirà dalle vite successive - indica
immediatamente il ruolo secondario che Roma rivestiva agli occhi di Costantinopoli. La città di Ravenna,
rispetto a Roma, era, infatti, il punto di approdo più diretto, grazie al suo porto situato
sull’Adriatico, per le navi che provenivano dalla capitale dell’impero e garantiva, grazie alle
paludi che la circondavano, una maggiore sicurezza militare[95].
L’importanza dell’esarca di Ravenna è nuovamente manifesta nella biografia del successore di
Deusdedit, il pontefice Bonifacio V. Il Liber afferma che il patricius et eunuchus[96] Eleuterio, proprio lui che aveva
sedato la precedente rivolta, adsumpsit regnum e si diresse verso Roma. Eleuterio è già
patricius, è cioè, come si è visto, già insignito dell’autorità
esarcale, con pieni poteri militari e civili sull’Italia.
La sua discesa a Roma avviene, come si è già visto, in un momento in cui Bonifacio V è stato
eletto, ma non ancora ordinato - ante dies ordinationis eius. Questo dato permette di fissare la data
precisa dell’evento, il 619, anno in cui il pontefice era in attesa dell’autorizzazione imperiale per
la consacrazione.
Per Bertolini[97] la
circostanza assume un significato particolare, come si è visto, poiché permette di escludere
l’ipotesi che Eleuterio discendesse a Roma per ricevere un avallo ufficiale da parte del pontefice,
poiché quest’ultimo non lo era ancora ufficialmente. L’ipotesi di Bertolini è, allora,
che la notizia sia una conferma indiretta della persistenza, per quanto residuale, del senato in Roma: Eleuterio
avrebbe deciso di scendere a Roma per essere investito della carica imperiale dallo stesso Senato di
Roma[98], volendo conferire
così autorità al suo gesto secessionista.
Il fatto, però, più importante che si evince dal testo del Liber è ancora una volta
la fedeltà romana alla compagine imperiale. Eleuterio factus intarta, avendo cioè indossato
la porpora imperiale, si era arrogato l’imperium[99]. La debolezza di Costantinopoli in quegli anni lasciava spazio a
tentativi di sostituirsi al potere imperiale, così geograficamente distante sulla città sul Bosforo
e pressato dai popoli che lo accerchiavano. Eleuterio, inviato come esarca a sedare una prima rivolta, dovette
rendersi conto che c’era lo spazio per un tentativo ulteriore di ribellione.
Ma i milites Ravennates - si noti che la guarnigione più importante è quella di Ravenna e
non quella di Roma -, pur essendo alle dipendenze di Eleuterio prima egli desse inizio alla rivolta, lo uccisero
vicino al castrum qui dicitur Luciolis[100].
La difesa romana della legittimità del potere imperiale è manifesta nella conclusione della
notizia, quando il Liber afferma che il capo - ovviamente tagliato - di Eleuterio ductus
Constantinopolim ad piissimum principem[101]. La soddisfazione dell’autore del Liber per la conclusione della
rivolta dell’esarca indirizza ancora una volta a constatare come il pontefice rifiutasse ogni prospettiva,
anche ipotetica, di un distacco dell’urbe e dell’Italia dall’impero[102]. L’unità
dell’impero era per Roma un dato indiscutibile ed i tentativi di secessione da esso venivano evidentemente
avvertiti come inopportuni, mentre il Liber riaffermava implicitamente la fedeltà di Roma al
piissimus princeps.
Un ulteriore evento, riferito nella biografia di Bonifacio III, manifesta come la chiesa di Roma percepisse la
propria autorità proprio nel contesto dell’unico impero. Scrive il Liber, raccontando della
vita del pontefice: hic optinuit apud Focatem principem ut sedis apostolica beati Petri apostoli caput esset
omnium ecclesiarum, quia ecclesia Constantinopolitana prima se omnium ecclesiarum scribebat[103].
L’indicazione quia ecclesia Costantinopolitana prima se omnium ecclesiarum scribebat rimanda alla
controversia che era stata sollevata sotto i pontificati di Pelagio II e Gregorio Magno[104], più che
all’ordine di precedenza già stabilito dal concilio Costantinopolitano I nel 381, quando la sede di
Roma era stata proclamata ufficialmente la prima di tutte le sedi episcopali[105]. Quando, infatti, nel 588, un sinodo tenutosi nella
città imperiale per giudicare il patriarca di Antiochia si era indirizzato al patriarca di Costantinopoli
chiamandolo patriarca ecumenico, oikoumenikòs, Pelagio II aveva elevato una viva protesta per
questo titolo, vedendovi un abuso ed un tentativo di assurgere al primo posto fra le sedi episcopali. A quanto
risulta dalle fonti, il patriarca, che allora era Giovanni IV, non rispose alle rimostranze del papa[106]. La polemica divenne ancora
più violenta con Gregorio Magno che giunse ad ordinare al suo apocrisario Sabiniano - è certamente
il futuro papa che gli succederà - di astenersi dal celebrare l’eucarestia insieme al
patriarca[107]. Proprio
il Liber ci fornisce il motivo dell’opposizione romana al titolo che la sede costantinopolitana si
era attribuito: Roma contestava alla chiesa della sede imperiale il suo farsi caput omnium
ecclesiarum[108].
Dal Liber risulta chiaro che Foca, proprio durante il pontificato di Bonifacio III[109], dovette risolvere la questione
a favore di Roma. Qui la biografia pontificia è l’unica fonte superstite e se ne deve dedurre, come
esplicita il Magi[110],
che Foca riaffermò «quanto era già stato affermato da Giustiniano e inserito nella
legislazione imperiale, precisamente nella Novella 131 del 14 marzo 545, e cioè che alla chiesa romana
rinveniva il primo posto della gerarchia ecclesiastica, a Costantinopoli il secondo dinanzi agli altri tre
patriarcati».
Il Liber pontificalis, affermando che Bonifatius [...] optinuit apud Focatem principem[111] il riconoscimento pubblico
della preminenza della chiesa di Roma, lascia chiaramente intendere che tale pubblica dichiarazione non andava
interpretata come una concessione imperiale: se l’imperatore era il legittimo governante dell’urbe,
altrettanto legittimamente la chiesa di Roma era caput di tutte le altre chiese per un dato che era
ritenuto di origine divina e che l’imperatore doveva riconoscere e non concedere. Il Liber
sottolinea, infatti, che era stata la chiesa di Costantinopoli ad appropriarsi indebitamente di un titolo e di un
ruolo che non le competevano.
D’altro canto il Liber omette di dire che, se il patriarca di Costantinopoli aveva assunto quella
posizione, ciò non poteva essere avvenuto senza il consenso o addirittura l’ispirazione imperiale.
Come si vedrà più volte, il Liber manterrà a lungo la linea di condannare il vescovo
di Costantinopoli e non l’imperatore nelle questioni teologiche che opporranno più volte le due
città, per non esprimere un aperto dissenso verso il potere statale.
È altresì evidente che, sebbene il primato della sede apostolica del beato Pietro e la sua
presidenza di tutte le chiese sia un dato che viene ritenuto derivante immediatamente dalla stessa fede e dalla
tradizione ecclesiale, nondimeno il pontefice sappia bene di doversi rivolgere all’imperatore perché
questo sia riconosciuto pubblicamente: il sovrano esercita qui il suo ruolo di custode dell’ortodossia,
chiamando i cittadini dell’impero ad osservare ciò che è stato stabilito dalla chiesa di
Roma. L’imperatore agisce così, nella visione della sede apostolica, ristabilendo nei fatti quella
recta fides che la chiesa di Roma è chiamata, invece, a stabilire.
La notizia manifesta il reciproco riconoscimento delle due autorità, che si pensano come appartenenti ad
un unico orizzonte ideale, pur nelle peculiarità dei rispettivi ruoli.
All’imperatore erano attribuiti, nei confronti della chiesa, due compiti, quello della custodia
fidei e quello della tutela della pax ecclesiae[112]. L’imperatore, come defensor fidei, era
chiamato in causa qualora serpeggiassero tendenze ereticali nei suoi territori. Come doveva difendere
l’impero attraverso il suo esercito dai nemici esterni, così doveva vegliare affinché i suoi
cittadini non cadessero preda del nemico interno, l’errore, e smarrissero la via della verità.
Doveva inoltre vegliare sulla pax ecclesiae, perché eventuali divisioni non mettessero a
repentaglio l’unità ecclesiale, poiché da questa unità e da questa pace discendeva poi
la pax reipublicae.
Il riconoscimento imperiale della posizione romana sulla questione del titolo pertinente al patriarcato di
Costantinopoli, avvenne nel corso del regno di Foca, in un periodo nel quale il rapporto con Roma, per quel che
atteneva a possibili questioni riguardanti la fede, appariva sereno.
Forse a motivo della strenua difesa in cui era impegnato l’impero dinanzi agli attacchi degli avari, degli
slavi e dei persiani, i primi decenni del VII secolo furono un periodo di quiescenza delle controversie
cristologiche in oriente; esse riesploderanno, sotto la forma delle discussioni monotelite, solo negli ultimi
anni del pontificato di Onorio I. Le chiese che non avevano pienamente accolto le definizioni di Calcedonia
erano, infatti, state conquistate dall’esercito persiano e l’impero bizantino era concentrato a
difendere la propria sopravvivenza. Le priorità erano dunque altre e non si registrarono, pertanto, in
quei decenni nuove prese di posizione in campo teologico.
Negli anni di Foca ed Eraclio la polemica cristologica era fervente solo in occidente, conoscendo ancora gli
strascichi dell’editto giustinianeo noto come Editto dei Tre Capitoli. In particolare era la chiesa di
Aquileia[113] ad essere
al centro del dibattito. Le divergenze teologiche sull’Editto giustinianeo dei Tre Capitoli continuavano a
provocare tensioni, ma queste riguardavano solo l’occidente e non erano rilevanti nei rapporti fra Roma e
Costantinopoli, poiché ormai il pontefice ed il patriarca si trovano allineati sulle medesime posizioni
teologiche[114].
In un frammento conservatosi di una lettera, indirizzata da papa Onorio I ai vescovi della Venezia e
dell’Istria, databile probabilmente all’anno 628[115], si legge la condanna dello scismatico vescovo di Grado
Fortunatus, sostenitore delle tesi tricapitoline, mentre Onorio I invita ad accogliere al suo posto il
vescovo Primogenius, fedele alla dottrina della chiesa. Nel definire lo scomunicato la
lettera[116] lo dichiara
relicta ab eo republica et abnegata concordiae unitate Deo rebellem et perfidum.
Il linguaggio è rivelativo della visione ideale della chiesa di Roma del tempo che, sentendosi pienamente
parte della compagine imperiale, afferma che Fortunatus è ribelle a Dio e perfidus per un
doppio motivo: poiché ha rotto l’unità e la concordia della chiesa, ma anche perché
è traditore della respublica, cioè dello stesso impero. Tale è il legame che lega
l’episcopato al benessere della compagine imperiale che la fuoriuscita dalla comunione ecclesiale è,
per il pontefice, ripudio automatico dell’unità civile.
La biografia di Onorio I, invece, tace completamente sulle lettere che egli inviò nel 634 a
Costantinopoli, in risposta ad una missiva del patriarca Sergio I sulla questione del monoenergismo [117].
Nel Liber pontificalis non si trova riferimento alcuno ai grandi eventi che videro Costantinopoli
affrontare una dura lotta per la sopravvivenza, sottoposta all’attacco contemporaneo di persiani, avari e
slavi.
Il Liber è concentrato, infatti, su fatti romani che implicarono direttamente la figura del
pontefice. Gli eventi civili annotati sono così quelli che ebbero una diretta rilevanza per la contingente
situazione dell’urbe, non per l’intero impero.
Nelle biografie pontificie si incontrano ripetuti accenni a catastrofi naturali e ad emergenze conseguenti. La
memoria di questi eventi nel Liber pontificalis è chiaro segno indicatore che essi avevano pesanti
implicazioni nella vita della chiesa di Roma ed è una attestazione non equivoca del coinvolgimento del
pontefice e della struttura ecclesiale nelle vicende civili della città.
Nella notizia biografica di Sabiniano il Liber pontificalis[118] ricorda una famis in civitate Romana gravis, in
quella di Bonifacio IV famis, pestilentiae et inundationes aquarum gravissime, in quella di Deusdedit un
terrae motus maior al quale seguì, come diretta conseguenza, clades in populo, percussio
scabearum, ut nullus poterat mortuum suum cognoscere.
Il Liber permette di gettare uno sguardo più approfondito su cosa avvenisse in Roma in occasioni di
catastrofi così gravi attraverso una notazione che si ritrova nella biografia di Sabiniano. La notizia
riguarda la carestia avvenuta nel corso del suo pontificato. In quella circostanza il papa non solo iussit
aperire horrea ecclesiae, ma, soprattutto, ordinò che il frumento fosse venduto ad un prezzo
determinato: iussit frumentum venumdari per solidum unum tritici modios[119] - è indicativo della novità
dell’avvenimento il fatto che nelle sei righe che il Liber pontificalis dedica a Sabiniano ci sia
spazio per il costo al quale il grano fu venduto.
Duchesne, nella sua edizione critica del Liber, ha collegato a questo evento la notizia successiva
riportata dalla biografia di Sabiniano: quo defuncto, funus eius eiectus est per portam sancti Iohannis,
ductus est foris muros civitatis ad pontem Molvium. Qui sepultus est in ecclesia beati Petri
apostoli[120]. Il
corteo funebre per le esequie del papa non attraversò quindi la città, ma giunse alla basilica di
San Pietro per un percorso esterno alle mura. Il curatore dell’edizione del Liber ha correttamente
sottolineato[121] -
seguito nella sua interpretazione da tutti gli studiosi successivi[122] - che questo modo di procedere assolutamente al di
fuori dell’ordinario per la sepoltura di un pontefice, doveva dipendere da un severo giudizio critico della
popolazione romana sull’operato del papa: la curia dovette probabilmente predisporre un itinerario
processionale che evitasse il centro della città, non permettendo i solenni onori tributati abitualmente
al pontefice defunto, ma anche evitando di dare occasione a manifestazioni di protesta popolare contro la
decisione relativa all’alimentazione frumentaria della città, innovativa rispetto alla tradizione
precedente.
Se il collegamento fra la notizia sulla vendita del grano in occasione della carestia e lo strano corteo funebre
è da tutti ammessa, più difficile è precisare quale dovette essere precisamente la questione
che scatenò il malcontento popolare, data l’esiguità dei dati forniti dal Liber
stesso. Esso non chiarisce né cosa fossero precisamente gli horrea ecclesiae, né in che
rapporto stesse la specifica distribuzione ordinata da Sabiniano con l’abituale e gratuita elargizione di
grano che l’urbe riceveva da secoli e neppure quale sia stato l’elemento specificamente innovatore
della prassi stabilita da Sabiniano.
Duchesne identifica gli horrea ecclesiae della biografia con i magazzini che la chiesa aveva da tempo
costruito per sovvenire alle necessità dei poveri, cioè per la propria azione caritativa: «le
blé emmagasiné dans ces greniers n’était pas destiné à être vendu:
il devait être distribué aux pauvres»[123]. Ma, se era questa l’effettiva identità degli horrea in
questione, come si spiegherebbe allora la pubblica e clamorosa protesta della cittadinanza? Se il grano che venne
distribuito a pagamento era quello a disposizione per i poveri che non avevano sostanze per permetterselo, a
maggior ragione costoro non avrebbero potuto acquistarlo in tempi di carestia. E se a pagare per ottenere il
grano che era stato messo da parte per i più poveri fosse stata invece la popolazione benestante, costoro
non avrebbero potuto avere nulla da ridire; infatti, con il guadagno si sarebbero reintegrati i mezzi per
sostenere i disagiati. La manifestazione di sdegno che obbligò a quella insolita sepoltura si spiega solo
a condizione che il grano che fu venduto fosse precedentemente destinato in via gratuita non ai soli poveri, ma a
tutti i romani. Ed il grano che a Roma veniva distribuito gratuitamente e che era destinato a tutti era da secoli
quello che veniva distribuito attraverso l’annona romana, per antico privilegio che non era stato perduto
neppure dopo il trasferimento della residenza imperiale a Costantinopoli.
L’autore che ha il merito di aver proposto l’identificazione degli horrea ecclesiae con le
riserve di grano annonarie - l’unica che spiega appieno le particolarità della sepoltura di
Sabiniano - è Jean Durliat. Egli ha studiato la biografia del successore di Gregorio Magno non
isolatamente, ma inserendola nella storia complessiva dell’evoluzione amministrativa che conobbero le
città dell’impero nel passaggio dal tardoantico all’alto medioevo. Il dato romano, secondo
l’autore francese, si inserisce perfettamente nell’evoluzione che vede coinvolte nello stesso
periodo, pur con peculiarità proprie, tutte le città appartenenti all’impero, sia in oriente
che in occidente.
Gli studi di Durliat sottolineano innanzitutto come l’amministrativa imperiale con la sua struttura ed i
suoi addetti non abbia conosciuto alcuna interruzione tra il V ed il VII secolo, ma semplicemente una evoluzione
per adattarsi alle mutate situazioni. Se i diversi eventi bellici - prima la guerra gotico-bizantina, poi
l’invasione longobarda, poi ancora gli attacchi persiani, slavi ed avari - certamente misero a dura prova
il complesso sistema dei servizi della città antica, questo non deve far concludere che si fosse giunti ad
una situazione caotica, sfuggita di mano all’amministrazione imperiale e che la vita cittadina fosse
affidata ormai solo all’iniziativa privata o ecclesiale. Durliat rifiuta così una lettura degli
eventi del VI e VII secolo che trascuri di misurarsi con la perdurante efficienza delle strutture amministrative
dell’impero: «la question des institutions municipales, qui est au fond celle de la cité
elle-même, a longtemps été mal posée: ou bien les anciens curiales détenaient
encore les postes-clefs et, dans ces conditions, la cité antique survivait, ou bien ils en avaient
été dépossédés par l’évêque et c’en était fait
aussi bien des institutions que des cadres sociaux dont la disparition scellait le destin de
l’Antiquité. La promotion de l’évêque ne pouvait que signifier une mutation
radicale à l’intérieur du cadre municipal et une défaite pour l’empereur,
contraint d’entériner le nouvel état de fait qui se serait établi contre sa
volonté»[124].
L’aut aut che Durliat rifiuta - e che impedirebbe una corretta comprensione del dato relativo a
Sabiniano, relegandolo allo statuto di semplice episodio, per quanto tormentato, della storia della carità
ecclesiale - è quello che vede possibile solamente un passaggio di potere dallo stato alla chiesa,
dall’imperatore ai vescovi, a motivo di un presunto collasso delle strutture civili ed amministrative
statali, che avrebbe lasciato libero campo di azione alla carità della chiesa che si sarebbe da sola
sobbarcata, attraverso opere di beneficenza, l’onere di supportare la vita quotidiana di una città
ormai non più in grado di sorreggersi con una propria amministrazione. Durliat sostiene, invece, a
ragione, che non sia mai intervenuta un’interruzione delle strutture amministrative delle città nel
trapasso dalla tarda antichità all’alto medioevo. Caposaldo dell’argomentazione dello storico
francese è l’evidenza della persistenza dell’apparato fiscale imperiale, senza il quale non
sarebbe possibile alcun intervento statale o municipale organizzato. Durliat ha, infatti, lungamente analizzato
nei suoi studi proprio lo sviluppo continuo del sistema di tassazione, concentrandosi sul complesso meccanismo
nel duplice versante delle entrate e delle uscite[125].
Anche la persistente vitalità delle città nel VII secolo è indizio chiaro nella stessa
direzione: gli agglomerati urbani, infatti, non potrebbero sopravvivere senza il persistere di
un’efficienza amministrativa. Durliat, analizzando l’evoluzione delle città nel bacino
mediterraneo nel passaggio fra tardoantico ed alto medioevo, sottolinea come esse siano, ancora nel VII secolo,
l’unità di base amministrativa nell’impero e nei diversi regni - in questi ultimi, solo alla
fine del secolo sopraggiungerà una crisi dell’urbanizzazione[126].
L’amministrazione delle diverse città dell’impero, Roma compresa, se, da un lato, manifesta
tratti evidenti di continuità con quella del V secolo, d’altro lato vede accrescersi il ruolo civile
dei diversi vescovi cittadini. Il vescovo, infatti, diviene sempre più, per un concomitante consenso della
volontà imperiale, di quella ecclesiale e del sentire popolare, il rappresentante della città
stessa, il suo punto di riferimento da tutti riconosciuto. L’intero sistema fiscale e amministrativo resta
nella sua sostanza immutato, pur avendo nuove magistrature, in particolare quella esarcale, ma accoglie, nella
crescente autorità episcopale sulle diverse città, una fonte ulteriore di garanzia e di controllo a
fianco e per volontà dell’autorità imperiale[127].
Le tre rubriche principali del perdurante sistema amministrativo continuano ad essere relative da un lato alle
entrate provenienti dal gettito fiscale, da un altro ai pagamenti dei pubblici funzionari, da un altro ancora al
funzionamento dei servizi che la città rende ai suoi abitanti. In tutti e tre questi ambiti è
evidente che il ruolo episcopale nelle città è sempre più significativo, ben al di là
del servizio cultuale e caritativo che continuano a caratterizzarlo. Le fonti analizzate da Durliat mostrano che
il vescovo del VI e VII secolo è direttamente implicato nelle questioni relative alle revisioni catastali
a partire dalle quali vengono prelevate le tasse[128], così come nella diretta riscossione di esse[129]. Il vescovo è parimenti
coinvolto sul versante delle spese pubbliche di quelle stesse entrate fiscali[130], anche relativamente ad opere
militari[131],
così come partecipa della gestione dei rifornimenti alimentari delle città[132], attraverso gli horrea
cittadini.
Durliat sottolinea altresì che questa acclarata funzione civile dei vescovi del VI e VII secolo non deve
far perdere di vista che la persistenza dell’apparato amministrativo imperiale e municipale, sebbene resti
per lo più in ombra, è la condizione indispensabile perché la supervisione dei vescovi abbia
efficacia.
Il relativo silenzio nella documentazione scritta sui funzionari civili, rispetto alla sovraesposizione del ruolo
episcopale, va attribuito, secondo gli studi del Durliat, al carattere delle fonti che sono forzatamente
ufficiali e, di conseguenza, attribuiscono direttamente al vescovo ciò che, in realtà, viene
operato dalle istituzioni municipali che continuano senza alcuna interruzione la loro attività: «les
simples curiales sont si discrets qu’on devine à peine leur action car les sources
ecclésiastiques donnent en général le beau rôle à l’évêque
et les chroniques - impériales en Orient, royales en Occident - privilégient les
événements qui concernent la cour»[133].
Nonostante il quotidiano lavoro dell’amministrazione municipale sia abitualmente sottaciuto, esso emerge
ripetutamente attraverso alcune costanti ricordate dalle fonti. In molte città, infatti, è
evidente, a fianco dell’autorità ecclesiale, la presenza di un gruppo di funzionari da tutti
riconosciuto, che potrebbe essere qualificato come la curia cittadina; costoro vengono abitualmente chiamati
nelle fonti latine i principales - ma troviamo anche, nelle fonti latine e greche, i titoli di
primates, priores, prōteuontes, prōtoi[134]. Secondo il Durliat[135], proprio il caso dei rifornimenti alimentari della
città fornisce una chiara attestazione di questo. Infatti, se dall’epoca dei Severi si assiste alla
comparsa della figura dei decemprimi (dieci personalità curiali addette ai rifornimenti, chiamate
appunto principales o primates), progressivamente il vescovo diviene uno di essi e viene infine
designato a scegliere il responsabile fra essi, chiamato in greco sitōnēs, in accordo con tre o
cinque incaricati, per giungere ad una situazione nella quale è il solo vescovo ad incaricare il
sitōnēs delle proprie funzioni. Tutto questo si sviluppa non in contrasto con
l’autorità imperiale, ma in pieno accordo con essa. Non si assiste così assolutamente ad una
scomparsa dell’amministrazione municipale, quanto piuttosto ad una cooptazione della figura episcopale nel
quadro della pubblica amministrazione, giungendo ad una situazione che è sintetizzata da Durliat con
queste parole: «dès le début du VIe siècle l’évêque est le chef de
toute l’administration locale, le porte-parole officiel de la cité»[136].
Solo questo contesto generale permette di collocare nella giusta luce le notizie relative al pontificato di
Sabiniano. Gli horrea ecclesiae citati dal Liber non rappresentano particolari depositi alimentari
di proprietà della chiesa, destinati in particolare all’alimentazione dei poveri: essi erano,
invece, molto più semplicemente i magazzini cittadini nei quali veniva stivato il frumento da funzionari
dell’amministrazione imperiale che svolgevano il loro lavoro sotto la supervisione del vescovo di Roma.
Essi erano detti horrea ecclesiae non a differenza di altri horrea cittadini, ma a motivo del fatto
che per il corretto funzionamento di essi era indispensabile la supervisione episcopale[137]. Durliat propone così di
vedere in questi horrea ecclesiae l’ultima apparizione nelle fonti dei magazzini dell’annona
imperiale gratuita. La biografia di Sabiniano sanzionerebbe così la fine dell’antico privilegio
proprio dell’urbe.
Lo storico francese ricostruisce nei suoi studi la storia del passaggio dell’annona sotto la supervisione
della chiesa di Roma, fino all’intervento di Sabiniano, avvalendosi con intelligenza degli indizi che le
fonti forniscono. La prima sicura testimonianza dell’intervento papale nella gestione alimentare di Roma
deve essere datato alla fine del V secolo, quando Gelasio I (492-496)[138], secondo il Liber pontificalis, liberò la
città di Roma dal pericolo della carestia[139]. Qual è il ruolo del papa nella carestia che si abbatté su Roma
- si chiede lo studioso francese - se le forniture alimentari, a quel tempo, erano ancora gestite dal prefetto
dell’annona, sotto la responsabilità del prefetto del pretorio? Durliat ipotizza che potesse essere
già passata sotto la diretta responsabilità della chiesa l’arca frumentaria,
cioè una riserva di grano specialmente consacrata alla gestione di emergenze eccezionali. Nella lettura
che lo storico francese propone del passaggio della biografia gelasiana - che recita testualmente: hic fuit
amator pauperum et clerum ampliavit. Hic liberavit a periculo famis civitatem romanam[140] - si sottolinea che il
pontefice non intervenne semplicemente a favore dei poveri, ma aiutò in quel frangente l’intera
città. Proprio l’interposizione della frase et clerum ampliavit mostra che, nell’azione
di Gelasio, l’attenzione ai poveri e l’intervento in occasione della carestia debbano essere
considerati come due interventi distinti: Gelasio fu, insomma, un pontefice che beneficò i poveri, ma fu
anche colui che, in occasione della carestia, sfamò l’intera città.
Dopo questo primo intervento pontificio nella gestione delle risorse alimentari dell’urbe, per un lungo
periodo le fonti tacciono eventi consimili. Roma, secondo Durliat, sembra muoversi nella direzione di un
accrescimento delle funzioni civili del proprio vescovo in ritardo rispetto alle altre città, a motivo
della presenza in città di funzionari imperiali di altissimo grado rispetto agli altri luoghi ed, in
particolare, a causa della presenza nell’urbe del senato[141].
Con le guerre gotico-bizantine, invece, l’autorità civile del vescovo di Roma dovette accrescersi
notevolmente. Gli eventi bellici, infatti, determinarono un impoverimento sensibile della città, la
partenza di molti senatori ed un forte calo demografico – basti pensare che se Teoderico si dichiarò
fiero di aver aggiunto all’annona romana 120.000 moggi di grano, contemporaneamente l’imperatore
riforniva l’annona di Costantinopoli con 24.000.000 moggi[142]. Quando, con l’avvento di Giustiniano, fu
ristabilita la supremazia imperiale in Italia, nelle fonti si rinviene nuovamente il tema dell’annona, ma
questa volta è proprio il vescovo di Roma ad interessarsene. Nella Constitutio pragmatica di
Giustiniano del 554, infatti, un paragrafo è intitolato Ut annona ministretur medicis et
diversis[143]
e così l’imperatore vi decreta in merito: annonam etiam quam et Theodoricus dare solitus
erat, et nos etiam Romanis indulsimus, in posterum etiam dari praecipiamus, sicut etiam annonas quae grammaticis
ac oratoribus vel etiam medicis vel jurispertis antea dari solitum erat. Ed è la stessa introduzione
della Constitutio[144] ad affermare che essa fu emanata su esplicita richiesta di papa Vigilio.
È qui immediatamente evidente come la Constitutio pragmatica volesse garantire la continuità
dell’amministrazione romana, con la definizione del pagamento dei pubblici stipendi, e come, al contempo,
fosse ormai rilevante il ruolo del vescovo di Roma che viene esplicitamente citato come colui il quale, in quanto
rappresentante dell’intera città, chiese all’imperatore garanzie per il mantenimento di tale
continuità.
Il testo della Constitutio già citato, inoltre, legifera su due aspetti dell’amministrazione
della città di Roma: l’“annona” in senso stretto, cioè il privilegio per i
cittadini romani di ricevere grano gratuitamente, e le “annone” in senso più largo,
cioè gli stipendi dei pubblici funzionari. Tutto questo potrebbe significare che ormai l’annona
stessa non viene elargita a partire da fondi provenienti direttamente da Costantinopoli, ma che essa era
già stata demandata, così come avveniva per gli stipendi dei pubblici ufficiali,
all’amministrazione cittadina – l’attribuzione della responsabilità di reperire i fondi
per le diverse “annone” con la raccolta delle tasse era prassi in tutte le città
dell’impero ad eccezione di Roma e di Costantinopoli[145].
Dopo un ulteriore silenzio sulla questione[146], a cavallo del secolo con il pontificato di Gregorio Magno, le fonti tornano a
parlare dell’annona. Gregorio di Tours racconta, infatti, che nel 589 il pontefice dovette intervenire
preoccupandosi di far giungere a Roma nuovi quantitativi di frumento perché, a motivo di
un’inondazione del Tevere, erano stati devastati gli horrea ecclesiae. Compare qui, per la prima
volta, il termine che il Liber pontificalis utilizzerà nella biografia di Sabiniano.
Ora l’epistolario gregoriano mostra che, in tale occasione, il papa dovette agire non perché fosse
in pericolo la semplice sussistenza del clero o dei poveri, ma perché era in questione la sopravvivenza
dell’intera popolazione romana[147]. Questo rende impossibile l’attribuzione agli horrea ecclesiae
della qualità di magazzini adibiti semplicemente ai due gruppi tradizionalmente assistiti dalla chiesa, i
sacerdoti e gli indigenti: «tout devient claire au contraire si on considère que le pape gère
désormais l’annone civile, comme les autres évêques le font pour leur ville. Les
greniers ecclésiastiques le sont parce que le pape en a la responsabilité, mais ils rest les
greniers de l’annone civile»[148].
Tutto lascia ritenere insomma, che l’annona di cui ancora tratta la Constitutio di Giustiniano sia
la stessa che appare a cavallo di secolo come annona amministrata negli horrea ecclesiae. Essa aveva
allora conservato le sue regole ed i suoi funzionari, ma, a nome della respublica, ne era divenuto ormai
supremo amministratore il pontefice stesso. Gregorio Magno doveva allora avere a disposizione, come vescovo della
chiesa, delle riserve alimentari specificamente appartenenti al patrimonio ecclesiastico, ma, al contempo, era di
fatto amministratore dell’annona cittadina, appartenente al patrimonio statale.
Ad avvalorare la tesi che la suprema responsabilità amministrativa in materia fosse demandata da tempo
alla chiesa sta la constatazione che gli interventi alimentari di Gregorio Magno non vengono mai presentati dalle
fonti come elementi di una prassi innovatrice rispetto ai pontificati precedenti e nemmeno rispetto alla prassi
amministrativa delle altre città e diocesi.
Se resta difficile determinare precisamente quando debba essere collocato cronologicamente il momento del pieno
ingresso del vescovo di Roma nella gestione amministrativa della città, se cioè sia da porre
già al tempo della Constitutio pragmatica o se sia da porsi nei decenni successivi, certamente
l’evoluzione dovette avvenire nel periodo che va dalla riconquista bizantina alla discesa longobarda in
Italia[149]. È
comunque certo che, già prima di Sabiniano, il pontefice si trovasse ormai coinvolto nella gestione
dell’annona.
La situazione romana conferma, allora, quanto proposto da Durliat in merito sia alla continuità
amministrativa con il tardo impero romano sia all’accentuazione del ruolo civile della figura episcopale
nel VI e VII secolo. In questo periodo, allora, il vescovo di Roma, così come ogni altro vescovo, non
aveva per obiettivo la sostituzione della precedente amministrazione imperiale con una propria amministrazione
ecclesiastica. Piuttosto non poteva restare estraneo all’amministrazione imperiale e limitarsi ad
interventi di carattere caritativo e di occasionale sostentamento, bensì per volontà imperiale e
per necessità storica doveva intervenire come persona ufficialmente coinvolta nella gestione del
rifornimento alimentare della città di cui era vescovo.
Se, dunque, era ormai abituale che il pontefice gestisse insieme ai funzionari statali gli horrea della
città, in cosa consiste, allora, la tanto deprecata novità introdotta da Sabiniano?
La tesi di Durliat è dunque pienamente condivisibile: Sabiniano è stato il primo pontefice ad
eliminare l’“annona”. Egli ha posto termine alla distribuzione gratuita di grano in Roma. Dal
suo pontificato in poi i romani avrebbero dovuto pagare ciò che, fino a quel momento, avevano ricevuto
gratuitamente come privilegio per il solo fatto di essere cittadini dell’urbe[150].
Il Liber, nelle scarne righe della vita di Sabiniano, racconta allora in sostanza il passaggio dalla
distribuzione fin lì gratuita del grano ai cittadini dell’urbe ad una nuova fase nella quale esso
doveva ormai essere acquistato. Roma perdeva per sempre il privilegio che l’aveva distinta da tutte le
altre città dell’impero[151].
Il Liber non fornisce una motivazione precisa per questo importantissimo cambiamento. Si limita a
giustapporre diverse affermazioni, volendo forse indicare un nesso causale esistente fra gli eventi riferiti:
eodem tempore fuit famis in civitate romana gravis. Tunc facta pace cum gente Langobardorum et jussit aperire
horrea ecclesiae et venumdari frumenta per solidum unum tritici modios[152]. Si potrebbe pensare ad un tributo pagato ai longobardi
per ottenere la pace o ancora la necessità del pagamento del grano poteva essere divenuto necessario, vuoi
per poter acquistare nuove scorte, vuoi per far fronte ad altre situazioni che potevano essersi create a motivo
della carestia, vuoi per penuria di rifornimenti. Tutto lascia presumere che almeno qualcuna di queste condizioni
si sia verificata.
Ciò che si può affermare con certezza è che da questo momento in poi a Roma si
pagherà il grano come in ogni altra città dell’impero.
L’abolizione dell’“annona” in Roma si verificò quasi contemporaneamente alla
scomparsa dell’“annona” costantinopolitana e la coincidenza comprova ulteriormente che di
questo si sia trattato nella vita di Sabiniano.
L’annona gratuita era stato, infatti, privilegio dell’urbe, finché la fondazione della nuova
capitale sul Bosforo, da parte di Costantino, aveva portato alla decisione di insignire di tutti i privilegi
della prima anche la seconda Roma, dotandola sia di un nuovo senato, sia di tutte le magistrature dell’urbe
così come della distribuzione gratuita del frumento per tutti i suoi cittadini. Questo fattore era stato,
fra l’altro, uno degli elementi decisivi nella crescita demografica delle due città.
Orbene le fonti storiche datano con certezza la fine dell’annona gratuita a Costantinopoli appena un
decennio dopo il termine di quella romana e, precisamente, nel 618. In quell’anno, infatti, i persiani
strapparono all’impero l’Egitto, che era il principale granaio di Bisanzio, e, nello stesso anno,
Eraclio fu costretto ad abolire ogni distribuzione gratuita nella capitale[153]. Anche qui l’emergenza economica, dovuta
soprattutto alla difficile situazione militare, obbligò evidentemente a provvedimenti analoghi a quelli
romani[154].
La biografia di Sabiniano non si limita, però, a segnalare la novità della fine della distribuzione
annonaria gratuita del grano, perché, al contempo, rende evidente la permanenza della struttura
amministrativa pubblica. L’acquisto, il trasporto, la conservazione e la vendita del grano, se avvenivano
tramite gli horrea ecclesiae, non avvenivano perciò in forma privata. Era la compagine
organizzativa dello stato che continuava ad occuparsene, anche se era la chiesa che assicurava il controllo
dell’intero processo[155], in una compenetrazione tale di ruolo che il pontefice veniva indicato come
responsabile agli occhi dell’intera popolazione della cessazione della distribuzione gratuita del grano e
né l’imperatore, né altri funzionari venivano esplicitamente indicati al suo fianco come
corresponsabili di questo cambiamento.
I dati storici invitano così a rinunciare ad una visione ingenua e semplicistica di una città nella
quale le difficoltà dei tempi potevano avere scompaginato ogni struttura amministrativa ed ognuno
provvedeva indipendentemente alla propria sussistenza. Il quadro che emerge è sensibilmente diverso: la
struttura organizzativa statale persisteva, come filiazione diretta di quella dei secoli precedenti,
conservandone i metodi, la prassi, la tradizione, ma adattandoli forzatamente alle nuove difficili condizioni
militari ed economiche. I pubblici ufficiali che gestivano questa amministrazione, mentre erano precedentemente
reclutati direttamente dalla compagine statale, ora sono, probabilmente, selezionati e formati in collaborazione
con la curia del vescovo ed esercitano il loro mandato sotto la sua supervisione.
La novità dell’impostazione che viene proposta da Durliat, a partire dalle considerazioni sopra
esposte sulla continuità dell’apparato amministrativo imperiale in Italia, emerge ulteriormente se
la si confronta con le tesi di Girolamo Arnaldi[156], che ha lungamente indagato la questione delle origini del potere temporale
della chiesa.
Anche Arnaldi attribuisce grande rilevanza storica alla piccola notazione del Liber pontificalis
sull’operato di Sabiniano, costretto a vendere il grano degli horrea ecclesiae e lo interpreta,
similmente a Durliat, come un segno indicatore del totale coinvolgimento della chiesa romana e del suo vescovo
nella gestione dei servizi civili dell’urbe. Ma l’analisi dello storico italiano si differenzia poi
significativamente da quella di Durliat, quando afferma: «l’anno stesso della morte di Gregorio, a
Roma tornò a mancare il pane e il suo successore Sabiniano, che si trovò anche lui a fare fronte
alla situazione con le sole risorse della Chiesa, destò il malcontento della popolazione, perché il
grano fu venduto a un prezzo che i romani giudicarono esoso (non si trattava, dunque, di distribuzioni gratuite).
Così una tipica causa di malumore popolare contro l’autorità costituita si ritorceva subito
contro chi era subentrato al posto di essa nell’esercizio di una delle sue funzioni più delicate. In
altri tempi, era contro il prefetto di città che inveiva il popolo di Roma quando era a corto di
cibo»[157].
La prima differenza che balza agli occhi rispetto a Durliat è che Arnaldi ritiene che il popolo si sia
ribellato a motivo del prezzo esoso del grano, mentre l’autore francese vi ravvisa la novità di un
pagamento che per la prima volta viene richiesto alla popolazione romana in materia - e questa diversa
interpretazione implica la questione se sia qui in gioco l’antica annona imperiale o meno. Ma
l’elemento caratteristico della lettura di Arnaldi consiste piuttosto nell’indicazione che la chiesa
fece fronte all’emergenza con le sole risorse che le appartenevano, mentre Durliat sottolinea che il
vescovo di Roma era implicato nella gestione della stessa amministrazione imperiale della città, con i
suoi introiti e le sue voci d’uscita di bilancio.
Se per Arnaldi come per Durliat, la chiesa era ormai, a cavallo del secolo, direttamente responsabile nella
gestione dei rifornimenti alimentari di Roma, fin dai tempi del predecessore di Sabiniano - afferma
esplicitamente Arnaldi che «sotto Gregorio Magno la Chiesa romana era ormai subentrata
all’amministrazione imperiale nella gestione dei servizi annonari dell’Urbe»[158] - per lo storico italiano
ciò era avvenuto, a motivo del fatto che il papa aveva cominciato a far fronte alle esigenze
dell’urbe attraverso il patrimonio appartenente alla chiesa stessa.
Arnaldi è qui erede delle tesi di Caspar, da lui citato esplicitamente: «l’economia della
capitale era già da lungo tempo passiva. Erano le province ad alimentare Roma. Ora a fare questo erano in
primo luogo i patrimoni papali, e così la capitale divenne, dapprima economicamente, una Roma
papale»[159].
Arnaldi concentra così la sua attenzione sui cosiddetti patrimonia Sancti Petri, cioè sui
patrimoni fondiari che, per ragioni diverse - a motivo di donazioni private come di lasciti ereditari, oppure a
causa di veri e propri acquisti o del subentrare della chiesa nella piena disponibilità di beni che erano
stati originariamente pubblici e, quindi, gestiti dall’impero stesso - erano proprietà privata della
chiesa di Roma. Questi patrimoni rendevano la chiesa di Roma «forse la più grande proprietaria
terriera di tutta l’Italia bizantina»[160].
L’attenzione a questo dato certamente significativo fa, però, perdere di vista ad Arnaldi che la
chiesa di Roma sovveniva alle necessità dell’urbe non principalmente con i propri mezzi,
bensì primariamente con quelli dell’impero stesso. Il vescovo di Roma aveva sì un ruolo
determinante nella gestione dei servizi cittadini, ma non sostituendosi allo stato stesso, bensì in suo
nome e con le risorse della stessa amministrazione imperiale.
Solo di passaggio Arnaldi annota che i conductores - cioè i sottoposti ai rectores
nell’amministrazione dei possedimenti ecclesiastici - fossero, da un lato, responsabili della riscossione
dell’affitto che i coloni dovevano pagare (la pensio), ma fossero, dall’altro, designati anche
a riscuotere l’imposta dovuta al fisco (la burdatio)[161], cosa che manifesta chiaramente che gli stessi terreni
della chiesa erano sottoposti a tassazione e che tali entrate erano poi versate nelle casse imperiali, venendo
inviate in parte a Costantinopoli ed utilizzate per l’altra parte per l’esercizio della vita
municipale delle diverse città e circoscrizioni nelle quali le tasse stesse erano prelevate.
Come si è già visto, Durliat trae, invece, le giuste conseguenze da questi dati storici indicanti
chiaramente il permanere di un sistema fiscale che non conosce interruzioni nel quale anche i terreni di
proprietà ecclesiastica sono sottoposti ad obbligazioni fiscali, cogliendo il ruolo dei vescovi che sono
coinvolti nell’utilizzo a vantaggio delle città delle entrate derivanti dal fisco.
La prospettiva di Arnaldi lo conduce a sostenere che gli horrea ecclesiae del Liber pontificalis
sono tout court i granai di proprietà della chiesa[162]: «tutto il grano che arrivava a Roma fosse esso
destinato all’“annona civica” (o all’istituzione che ne aveva preso il posto) o alla
“militare”, oppure provenisse da acquisti effettuati per conto del papa, andava a finire nei
“granai della Chiesa”. Alla fine dei conti il problema di vedere fino a che punto le attività
caritative gestite dalla Chiesa romana perpetuassero la tradizione dell’“annona civica” non
è così importante come può apparire a prima vista. Ciò che davvero importa è
che il papa avesse assunto in proprio la responsabilità complessiva del vettovagliamento di Roma che
andava ben al di là dell’esigenza di provvedere alle erogazioni mensili di generi alimentari
riservate ai “poveri”»[163].
La comprensione della persistenza di un quadro statale di riferimento porta invece Durliat a conclusioni
differenti: nel medesimo termine di horrea ecclesiae vengono raggruppati due diversi tipi di magazzini
frumentari, quelli propri della chiesa e quelli cappartenenti allo stato: poiché la gestione di questi
ultimi vede ormai la presenza del vescovo in funzione di controllo, anche se egli non ne è il
proprietario, anch’essi vengono catalogati con la stessa espressione.
Così la sopravvalutazione dell’impatto economico delle proprietà della chiesa di Roma porta
Arnaldi a concludere, in riferimento ai patrimonia meridionali ed insulari: «da queste due aree la
Chiesa ricavava la maggior parte dei redditi con cui provvedeva al sostentamento dei romani»[164]. Arnaldi condivide così
manifestamente la tesi che la chiesa romana degli inizi del VII secolo non si limitasse ad assistere i poveri, ma
fosse implicata nella distribuzione del frumento per l’intera città. Egli, però, non ne
coglie appieno il coinvolgimento nella struttura amministrativa della città[165].
Conseguentemente Arnaldi fa derivare unicamente dalla gestione dei patrimoni propri della chiesa quella
capacità gestionale che la chiesa dimostrerà poi successivamente: «si comprenderà
facilmente come l’esperienza acquisita dalla Chiesa romana nell’amministrazione dei patrimoni
costituì un utile apprendistato per il momento in cui si presentò per essa la necessità di
provvedere al governo di un dominio territoriale: l’uso di documenti scritti, per esempio, le sarebbe
venuto buono sia in un caso che nell’altro»[166].
La prospettiva aperta da Durliat invita, invece, a cogliere la maturazione della capacità amministrativa
della chiesa non nella semplice gestione dei propri beni, ma nell’esercizio di una responsabilità
crescente all’interno dei servizi municipali necessari alla vita della città. Il vescovo di Roma e
la sua curia, insomma, appresero la consuetudine con il funzionamento dell’apparato burocratico necessario
alla sussistenza di uno stato non amministrando semplicemente i patrimonia della chiesa stessa,
bensì nel lento tirocinio di un coinvolgimento progressivo nell’amministrazione della
respublica, come la notizia relativa a Sabiniano lascia chiaramente intravedere.
Le biografie da Sabiniano ad Onorio I forniscono una seconda indicazione che illumina, sia pure parzialmente, il
ruolo giocato nell’amministrazione civile dal vescovo di Roma nei primi decenni del VII secolo.
Infatti, il Liber, nella biografia di Bonifacio V, dopo le consuete notizie sulle origini del papa,
prosegue con l’annotazione di quattro decreti emanati dal pontefice. Se il terzo ed il quarto riguardano
materie strettamente ecclesiastiche[167], non così i primi due.
Il secondo, infatti, afferma: hic [cioè Bonifatius] constituit ut nullus trahatur de
ecclesia. L’interpretazione abituale di questo passaggio molto ellittico sembra far riferimento al
diritto d’asilo[168]. Si tratterebbe così di una conferma di una norma già emanata
precedentemente, riguardante certamente l’ordinamento della chiesa, ma con effetti anche sulla giustizia
civile: una persona postasi sotto la protezione della chiesa, sarebbe stata così salvaguardata da
eventuali danni non meglio specificati che altrimenti avrebbero potuto colpirla.
Il primo decreto è di più difficile comprensione, ma è comunque estremamente rivelativo del
ruolo che il vescovo di Roma aveva assunto all’interno della compagine imperiale. Esso recita:
[Bonifatius] constituit ut testamentum valeat secundum iussionem principis.
Duchesne[169] riteneva
che qui si facesse riferimento alle formalità dei testamenti ricevuti dai notai ecclesiastici e che
così la norma ne riconoscesse esplicitamente il valore legale. A questa interpretazione si sono poi
allineate le letture successive, riassunte da Paolo Bertolini: «il decreto relativo alla validità,
come documento ufficiale, dei testamenti rogati secondo le vigenti leggi imperiali dai notari della Chiesa romana
provava l’importanza dell’opera svolta da questi ultimi in concorrenza coi notari
laici»[170].
Se è certo che la materia del testamentum di cui qui si tratta non è prettamente religiosa,
più difficile è definirne la sua precisa identità. Infatti, di per sé, il termine,
nel latino medioevale[171] è applicabile sia ad un testamento riguardante la donazione post
mortem dei propri beni, sia, in senso più ampio, ad ogni atto scritto di carattere legale, sia anche
ad una qualsiasi attestazione testimoniale in ambito giuridico. Ma l’elemento più importante da
notare è che la norma di cui si parla viene emanata secundum iussionem principis e che, nonostante
questa forte sottolineatura, il verbo utilizzato per esprimere l’operato del papa sia lo stesso delle altre
tre norme, delle quali due prettamente ecclesiastiche: Bonifatius constituit.
Il Liber presenta così indirettamente una forma di sinergia, di reciproco riconoscimento,
dell’autorità imperiale e di quella ecclesiastica, che è caratteristica dell’epoca,
sconfessando tutte quelle letture che vogliano leggervi una concorrenza o più ancora una contrapposizione
fra i due poteri dell’impero e del vescovo di Roma. Quale che sia la precisa tipologia di documenti cui
faccia riferimento la norma, si tratta, comunque, di una disposizione che proviene nella sua forza giuridica
obbligante dall’imperatore, ma alla quale viene data concretezza operativa dal vescovo della
città[172]. Anche
in questo caso si assiste, insomma, ad un evidente coinvolgimento dell’organizzazione ecclesiastica
nell’ordinamento giuridico, non a discapito di quest’ultimo, bensì in un’ottica di
collaborazione con esso.
Questa scarna notizia del Liber concorda pienamente con ciò che è attestato dalle fonti in
merito al coinvolgimento giuridico dei vescovi nel passaggio dalla tarda antichità all’alto
medioevo, in un crescendo di norme legislative che ha le sue origini nella codificazione di Teodosio II e che
prosegue con la legislazione giustinianea e con emanazioni successive.
Bertolini ha così sintetizzato la difficile materia delle competenze giuridiche riguardanti il vescovo in
questo periodo: «per avere anche solo un’idea di quanto fosse vasta l’area temporale cui il
legislatore chiamava i vescovi a collaborare con lo Stato, basterà qui una sommaria, e forzatamente
incompiuta, enumerazione schematica. Nomine di tutori e di curatori di minori. Tutela delle vedove, degli orfani,
dei poveri, dei carcerati e deportati, dei forestieri e stranieri bisognosi, dei prigionieri in mano di barbari.
Danze e spettacolo con donne come danzatrici ed attrici. Giochi d’azzardo con dadi. Controversie tra
padroni e fittavoli in materia di diritto di proprietà e di pagamento di canoni. Ripartizione fra i
contribuenti degli oneri tributari dovuti all’amministrazione civile e per i bisogni dell’esercito.
Rispondenza alle norme legali dei campioni ufficiali dei pesi e delle misure in uso nel commercio per i
contratti, per il pagamento delle imposte, delle tasse, dei dazi. Conformità con le leggi dei procedimenti
giudiziari e delle sentenze. Elezione ed attività delle commissioni di cittadini investite dei compiti di
controllo sulla gestione dei funzionari municipali e dei governatori provinciali. Controllo sulla gestione dei
fondi pubblici destinati alla manutenzione, al restauro, alla costruzione di mura, torri, castra,
acquedotti, ponti, opere portuali. Rifornimenti di grano. Ricorsi all’imperatore contro i funzionari
disonesti. Si aggiungano le occasioni ed i motivi offerti dalla ricezione nella legislazione imperiale
dell’episcopalis audientia, e cioè dell’intervento dei vescovi nelle controversie
civili quando il convenuto era un ecclesiastico od un religioso, e quando, anche se il convenuto era un laico, vi
fosse una richiesta di parte di adire il tribunale vescovile [...] Le leggi dell’Impero avevano attribuito
ai vescovi un posto che, praticamente, li metteva al di sopra dei dignitari, dei magistrati, dei funzionari di
ogni grado, classe e rango, in quanto ne erano non soltanto collaboratori, ma anche vigili sorveglianti,
denunciatori al sovrano delle loro colpe, riparatori solleciti delle loro deficienze, che rispondevano del
proprio operato non alle autorità secolari delle gerarchie statali e municipali, ma direttamente al
sovrano»[173].
Proprio nei primi decenni del VII secolo, e precisamente nel 629[174], la legislazione imperiale rafforzò
l’istituto dell’episcopalis audientia, quando Eraclio, durante il pontificato di Onorio I,
abolì la possibilità di appellarsi al magistrato ordinario contro la decisione del vescovo.
Le scarne notizie del Liber pontificalis si inseriscono così perfettamente nel quadro
dell’evoluzione del sistema amministrativo imperiale che vede crescere significativamente il ruolo civile
dei vescovi, sempre più corresponsabili della stessa amministrazione della giustizia.
Il Liber pontificalis fornisce numerose indicazioni sullo stato degli edifici della città e sugli
interventi costruttivi pontifici, permettendo così di cogliere un ulteriore punto di vista sulla vita
nell’urbe agli inizi del VII secolo e sul ruolo giocato dalla chiesa.
La biografia di Bonifacio IV informa, innanzitutto, della trasformazione del tempio del Pantheon in edificio di
culto cristiano, nel 609. Il papa chiese l’autorizzazione per questa trasformazione all’imperatore
Foca: Bonifatius petiit a Focate principe templum qui appellatur Pantheum[175]. È probabilmente il primo tempio pagano in
Roma ad essere trasformato in chiesa, comunque il primo ad essere ricordato nel Liber[176]. La richiesta di Bonifacio IV
all’imperatore rende evidente che l’edificio appartiene alla proprietà pubblica ed è,
pertanto, pertinente alla giurisdizione imperiale. All’assenso alla richiesta del pontefice, che
poté così trasformare il Pantheon nella chiesa beatae Mariae semper virginis et omnium
martyrum, Foca aggiunse dona multa per quella chiesa[177]. Qui il verbo utilizzato per questi doni -
optulit - indica la benevolenza e la non dovuta liberalità.
L’episodio è estremamente significativo per diversi motivi. La sua menzione nel Liber,
così come il continuo riferimento nelle biografie dei pontefici ad edifici da loro costruiti ex
novo o restaurati, mostra innanzitutto la rilevanza che si attribuiva all’utilizzo di edifici per il
culto. Il cristianesimo aveva cominciato ad erigerne ben prima della svolta costantiniana, passando dalle
domus ecclesiae alla costruzione di vere e proprie chiese e basiliche. Tale attenzione all’erezione
di luoghi di culto visibili dipendeva certamente dalla natura comunitaria della fede cristiana che richiedeva
già di per sé la cura di edifici che rendessero possibile l’incontro di tutti i credenti, ma
era legata anche all’indole missionaria e, quindi, anche pubblica della fede evangelica. La tensione
missionaria spingeva per definizione verso la creazione di edifici espressamente identificabili come cristiani,
ben prima che Costantino decidesse di sostenere questa tendenza[178].
In secondo luogo l’episodio narrato dalla biografia di Bonifacio IV mostra la coesistenza di due diverse
modalità con le quali la comunità di Roma - ma lo stesso accadeva per le altre chiese del tempo -
veniva in possesso di beni: una via che si potrebbe definire “privata”, tramite la donazione da parte
di singole persone anche di alto rango, ed una che si potrebbe definire “pubblica”, cioè
l’assegnazione per decreto imperiale. Proprio l’episodio della trasformazione del Pantheon in chiesa
mostra sia la modalità pubblica, attraverso la quale l’imperatore permette l’acquisizione ed
il successivo utilizzo di un bene del demanio da parte della chiesa, sia quella privata, poiché a questo
atto il sovrano aggiunge i propri dona personali.
La seconda modalità è, forse, quella più immediatamente chiara ed ebbe sicuramente un grande
ruolo nella costituzione di quel patrimonio della chiesa senza il quale essa non avrebbe potuto svolgere le sue
funzioni: si pensi qui ai lasciti ereditari, ai doni in occasione delle celebrazioni di sacramenti, alle offerte
abituali e straordinarie, ai lasciti in occasione di voti, che hanno sempre caratterizzato la storia del
cristianesimo[179].
La prima modalità è quella che appare come decisamente più importante. Si tratta qui,
infatti, dell’assegnazione di un intero edificio templare nelle mani del vescovo. Si può facilmente
intuire come il caso non era affatto isolato: la chiesa, infatti, ricevette sempre più dallo stato, a
partire dalla svolta costantiniana, non solo esenzioni fiscali, ma, molto più, il pagamento degli stipendi
del clero, il denaro per sostenere la vita della chiesa e dei suoi ministri, l’assegnazione di rendite per
le stesse finalità o, ancora, la dotazione di terreni e delle loro rendite[180].
Durliat sostiene giustamente, a questo proposito, che «gli atti privati di generosità esistevano, ma
le risorse provenivano essenzialmente da beni di stato»[181] e sottolinea come, dato il peculiare rapporto esistente
fra lo stato e la chiesa, i beni che venivano così assegnati alle diverse chiese «divenivano
pubblici nel momento in cui divenivano proprietà della Chiesa stessa, indipendentemente dalla loro natura
(beni di totale proprietà o introiti fiscali) e dalla loro origine (doni di un privato o dotazione
pubblica); essi alimentavano un bilancio autonomo sottoposto alla sorveglianza degli agenti di
stato»[182].
Questo risulterà evidente proprio a proposito del Pantheon trasformato in chiesa, quando, come si
vedrà, l’imperatore giunto a Roma nel 663 deciderà la spogliazione del tetto
dell’edificio fatto di tegole bronzee, per fonderle a fini bellici. Il tempio, insomma, entrò con
Bonifacio IV in dotazione alla chiesa, ma lo stato ne restava pur sempre il vero possessore, poiché la
chiesa era una componente della stessa compagine statale.
Diviene evidente così l’aspetto reciproco di quanto si è visto in relazione all’annona
sulle responsabilità amministrative del vescovo di Roma nei confronti dell’urbe: come egli era
referente della dimensione civile dell’amministrazione cittadina, così parimenti, il potere civile
era determinante nella stessa amministrazione ecclesiastica.
Si deve altresì notare che la chiesa ricevette inizialmente fra i beni assegnati dallo stato edifici e
terreni più propriamente civili e solo a partire dal VII secolo edifici templari. In particolare in Roma,
questi non avevano conosciuto distruzioni, poiché dopo i diversi editti più o meno favorevoli
all’abbattimento dei templi, si era giunti alla fine del V secolo a considerarli ormai «solo un
patrimonio artistico ereditato dal passato che bisogna proteggere»[183]. I templi furono trasformati in chiese solo molto
tardivamente per la ripugnanza che i cristiani dovevano provare nel celebrare in luoghi che avevano visto culti
da essi fortemente osteggiati[184]. Proprio tale trasformazione indica che il confronto con il paganesimo non era
più una questione prioritaria della chiesa e che la memoria del precedente utilizzo degli edifici di culto
pagani andava sbiadendo.
Che la liberalità di doni, comunque, continuasse a caratterizzare la vita della comunità romana
è altresì attestato dalla stessa vita di Bonifacio IV che racconta come il pontefice domum suam
monasterium fecit, quem et ditavit[185]. Più volte nelle biografie successive apparirà la destinazione
decisa dagli stessi pontefici dei propri beni e, soprattutto, della propria residenza familiare a fini
ecclesiali, confermando indirettamente il rapporto che doveva esistere fra il celibato ecclesiastico e la
possibilità di alienare a favore della chiesa beni privati della famiglia da cui si proveniva[186].
Nella vita di Bonifacio IV, non si trovano, invece, cenni a lavori edili che non abbiano un utilizzo
ecclesiastico, mentre è noto che lo stesso imperatore Foca fece erigere nei Fori, a propria gloria, una
Colonna onorifica nel 608, l’anno precedente la richiesta di Bonifacio IV relativa al Pantheon[187]. La trasformazione del Pantheon
avvenuta solo successivamente ad una autorizzazione imperiale e l’erezione della Colonna di Foca mostrano
senza ombra di dubbio, come afferma il Delogu, che «il governo imperiale aveva conservato il controllo del
territorio urbano e degli edifici pubblici»[188]. Certo è, comunque, che, l’opera voluta da Foca fu l’ultimo
monumento imperiale ad essere eretto in Roma. Da allora nuove costruzioni nasceranno solo per volontà del
pontefice o dei maggiorenti romani, mentre l’amministrazione imperiale si limiterà alla
conservazione degli edifici esistenti.
Fra questi edifici ancora in funzione il più importante era certamente il palazzo imperiale al Palatino,
anche se le biografie dei primi decenni del VII secolo non lo nominano, come faranno invece le successive. Non
è difficile immaginare che quando l’esarca Eleuterio discese a Roma, durante il pontificato di papa
Deusdedit (615-618), avendo già messo a morte i congiurati ravennati responsabili della fine del suo
predecessore, risiedette proprio in quel palazzo. Il Liber sottolinea, come si è già notato,
che Eleuterio fu accolto nell’urbe da Deusdedit optime[189]: l’avverbio utilizzato enfatizza probabilmente la
normale osservanza di tutte le cerimonie previste ogni qual volta il rappresentante del potere imperiale si
recava nell’urbe, nella quale entrava non da ospite, bensì da suprema autorità della
città stessa. I pontefici erano tenuti per legge ad una tale accoglienza che si caratterizzava così
come atto dovuto e, pertanto, indipendente dal ben volere dei singoli pontefici.
Se, come si vedrà a suo tempo, sarà solo nel 663 che l’ultimo imperatore bizantino
visiterà Roma, abitando per diversi giorni nel palazzo imperiale al Palatino, è necessario supporre
che tale residenza restasse continuamente in attività, come sostiene a ragione Delogu:
«l’antico palazzo imperiale restava sede del governo; vi si trovavano probabilmente alcuni uffici
pubblici e vi alloggiavano gli esarchi e i loro rappresentanti in visita a Roma; nella chiesa palatina dedicata a
San Cesareo erano conservati i ritratti degli imperatori in carica. Sebbene fosse parzialmente abbandonato, il
palazzo veniva curato da un apposito magistrato»[190].
Eleuterio, essendo la suprema autorità imperiale cui era affidato il governo della penisola, venne accolto
con tutti gli onori in Roma. Anche l’urbe era città alle sue dipendenze e, di conseguenza,
l’esarca aveva il diritto di entrarvi e di portarvi a compimento gli ordini imperiali.
Ulteriori particolari sulla vita cittadina sono offerti dalla biografia di Onorio I che informa del fatto che il
pontefice poté utilizzare le tegole bronzee dal tempio di Roma[191], per concessione dell’imperatore - ex concessu
piissimi Heraclii imperatoris[192] - nel restauro della basilica di San Pietro. Viene nuovamente indicata
indirettamente la necessità dell’assenso imperiale all’utilizzo di materiale proveniente da
edifici pubblici.
Onorio I, inoltre, edificò una chiesa dedicata a Sant’Apollinare nel portico della basilica di San
Pietro, stabilendo per il futuro processioni annuali da quel luogo alla tomba del principe degli apostoli -
fecit basilicam beati Apollenaris martyris in urbe Roma, in porticum beati Petri apostoli qui appellatur ad
Palmata, a solo, ubi dona multa largitus est. Hic fecit constitutum in ecclesia et decrevit ut omnem hebdomadam,
sabbato die, exeat laetania a beato Apollenare et ad beatum Petrum apostolum cum hymnis et canticis populus omnis
occurri debeat[193].
Essendo Apollinare patrono di Ravenna, tutto orienta a vedere sullo sfondo di questo evento la creazione di una
nuova consuetudine liturgica volta a sottolineare il legame esistente fra Roma e la città
dell’esarca: la chiesa di Roma si impegnava ad intercedere per i fratelli ravennati, ma, d’altra
parte, ricordava loro il legame con la sede di Pietro[194].
Al di là di queste notizie maggiori, si deve rilevare che in ognuna delle biografie dei pontefici dei
primi decenni del VII secolo, anche se essi sedettero per brevi periodi sulla cattedra petrina, sono enumerate
opere di restauro o di costruzioni ex novo realizzate dai diversi pontefici. La maggior parte di queste
realizzazioni sono situate in Roma stessa, ma alcune riguardano edifici della campagna laziale.
Per Sabiniano il Liber indica la provvigione di luci per San Pietro, per Bonifacio IV, come si è
già visto, la trasformazione del Pantheon in chiesa dedicata a Maria e a tutti i martiri. Il papa,
inoltre, trasformò la propria casa in monastero[195].
Per Bonifacio V è riportata la notizia di lavori nel cimitero di San Nicomedio.
Per quel che riguarda il pontificato di Onorio I - l’unico che si protrasse più a lungo - le notizie
fornite dal Liber sono molto più numerose. Sono ricordati, innanzitutto, i numerosi interventi di
abbellimento e restauro in San Pietro, tra i quali la Porta mediana che fu fatta in argento ed il restauro
del tetto con l’utilizzo delle lastre di piombo dorato richieste da Eraclio, di cui si è già
fatto cenno. Il Liber si sofferma poi sul restauro della basilica di Sant’Agnese (con il suo mosaico
tuttora in situ), sulla costruzione della cappella di Sant’Apollinare di cui si è parlato, e
sui lavori che interessarono numerose chiese - sono citate esplicitamente le chiese di San Ciriaco sulla via
Ostiense, dei Santi Quattro Coronati, di San Severino a Tivoli, di San Pancrazio sulla via Aurelia, di Santa
Lucia, di Sant’Adriano in Tribus Fatis, oltre al cimitero dei Santi Marcellino e Pietro in via
Labicana. Il Liber pontificalis conclude le notizie sull’attività edilizia di Onorio I
affermando che realizzò numerose altre opere.
È importante rilevare che la chiesa di Sant’Adriano in Tribus Fatis, anche se il Liber
non fa menzione di questo, insiste, secondo gli studiosi[196], sull’antico edificio della Curia del senato, e si inserisce
così in quella progressiva cristianizzazione che toccò i Fori romani come gli altri edifici
pubblici dell’impero[197]. Il dato è un ulteriore conferma del fatto che i monumenti pubblici
preesistenti e, particolarmente, quelli delle zone più centrali, conobbero interventi di restauro e
reimpiego e che i pontefici furono implicati in tali opere[198].
La città, insomma, che il Liber presenta non appare assolutamente abbandonata a se stessa, ma
è interessata da continui interventi di risistemazione. Anche dal punto di vista edilizio, si è in
presenza di una attività municipale che non si interrompe[199], nonostante la penuria dei tempi.
Le indicazioni del Liber di un’intensa attività costruttiva nell’urbe dei primi decenni
del VII secolo hanno trovato ulteriore conferma nei recenti scavi archeologici riguardanti la Roma
altomedioevale. Anche le evidenze archeologiche, infatti, invitano ad abbandonare una visione dell’urbe
come di una città ormai condannata al disfacimento, nella quale nessuna autorità pubblica era in
grado di opporsi al degrado dovuto al decremento economico ed al tracollo demografico di Roma. Delogu ha
così riassunto i risultati delle campagne di scavo che hanno interessato diversi siti della città:
«si afferma oggi, come criterio interpretativo, il concetto di degrado urbano controllato, ossia di un uso
consapevole e perfino accorto delle strutture della città imperiale, man mano che mutavano le forme e le
condizioni di vita, e questo rinvia a sua volta alla persistenza di un’organizzazione della vita, pubblica
e privata, che non si riduce alla sopravvivenza materiale degli abitanti negli anfratti dei ruderi, sotto la
tutela della carità e del governo ecclesiastico»[200].
Se si analizzano le sepolture all’interno delle mura, il dato archeologico indica chiaramente una
evoluzione rispetto al divieto precedente di seppellire all’interno della città ed un degrado di
zone intramurarie nelle quali si comincia a seppellire, ma, insieme, evidenzia che non si assiste ad un utilizzo
indiscriminato degli spazi abbandonati: «le tombe vennero spesso isolate in edifici pubblici dismessi,
soprattutto terme, o comunque in spazi cintati [...] Sepolture isolate rispettarono comunque i tracciati stradali
senza invaderli. Gruppi consistenti di sepolture furono istituiti presso le chiese [...] Dopo gli inizi del VII
secolo non vi sono più testimonianze epigrafiche di sepoltura nelle catacombe, ma vengono meno anche le
sepolture sparse in città, probabilmente perché si generalizzò e restò in uso solo la
sepoltura nelle chiese e intorno ad esse»[201].
Dagli scavi risulta altresì che la zona dei Fori, o almeno di parte di essi, venne mantenuta sgombra e
praticabile fino all’età carolingia[202], come, peraltro, i dati che emergono dal Liber e dagli scavi
archeologici precedenti sui luoghi dell’antica Curia Senatus lasciavano già intendere
chiaramente.
È documentabile anche una cura, sebbene relativa, delle vie di percorrenza interne della città,
compresa la sistemazione di nuovi percorsi che potevano ormai attraversare edifici pubblici dismessi, come
avvenne nel caso della Porticus Minucia frumentaria[203].
Particolarmente significativi si sono rivelati gli scavi che hanno interessato l’Esedra della Crypta
Balbi. Essa, già utilizzata come laboratorio artigianale quando giunse ad esaurimento il suo scopo
originario di pertinenza del teatro di età augustea, fu nel corso del VII secolo trasformata in una
discarica di rifiuti di un edificio contiguo che si ipotizza fosse un monastero. Lo scavo, se ha provato
innanzitutto che una relativa cura delle discariche veniva esercitata per impedire che i rifiuti fossero
abbandonati all’aperto, ha portato ulteriormente ad una riconsiderazione della qualità di vita
presente nella Roma del VII secolo: «infatti, i rifiuti che vennero scaricati nel corso del VII secolo
nell’Esedra della Crypta Balbi sono costituiti in gran parte da anfore e da altra ceramica africana
orientale che appaiono giunte a Roma sino alla fine del secolo, come ha rivelato l’analisi
stratigrafica»[204].
Tutto lascia ritenere, allora, che, pur depotenziata, permanesse in Roma una cura nella conservazione del
patrimonio immobile della città così come nella costruzione di nuovi edifici. Questa
attività, a sua volta, presuppone che ci fossero autorità cittadine capaci di una guida in merito.
Delogu, al termine della sua indagine, pone questo quesito: «dopo il VI secolo, bisogna attribuire il
controllo sulla trasformazione urbana alla chiesa e all’autorità papale, come richiederebbe
l’ipotesi storiografica dell’assunzione del governo cittadino da parte del papato, oppure,
all’estremo opposto, si deve rimandare all’iniziativa spontanea della popolazione romana,
immaginando, per così dire, che ogni abitante spazzasse la strada davanti alla porta di casa?»
[205]. E risponde:
«è assai probabile che in Roma continuasse ad operare, nel VII secolo, un’amministrazione
pubblica che non si riduceva alle iniziative di supplenza del papato»[206]. Spiega poi ulteriormente[207]: «in quanto
autorità municipali, [i funzionari dell’amministrazione] agivano certamente di concerto con i papi
che, come vescovi di Roma, esercitavano in città le funzioni di sorveglianza attribuite generalmente ai
vescovi dell’impero, ma non dipendevano da loro, bensì dall’esarca che li nominava e li
inviava a Roma [...] Quest’organizzazione istituzionale spiega tra l’altro come potesse mancare in
Roma un funzionario di alto grado responsabile dell’amministrazione della città quale sarebbe stato
il duca; la città era controllata dall’esarca di Ravenna tramite i suoi inviati e in accordo con il
papa e gli ordini sociali cittadini».
La posizione di Delogu non appare sostanzialmente diversa da quella di Durliat[208]. L’autore italiano, se da un lato, infatti,
sottolinea l’importanza dei funzionari laici dell’amministrazione cittadina, che correttamente
identifica con gli iudices romani di cui parla il Liber - se ne farà menzione nel II
capitolo - d’altro canto osserva come il pontefice interagisca positivamente con loro. Gli interventi
edilizi papali, di cui fa cenno il Liber pontificalis, confermano questa visione delle cose. Il pontefice
vi appare non come un supplente del potere imperiale, né come un suo concorrente, bensì come un
collaboratore nella gestione della vita cittadina, pur dotato di un’amplissima discrezionalità di
intervento. Egli deve chiedere l’autorizzazione per intervenire su edifici di pubblica proprietà,
ma, ove la domanda, sembra poterla ottenere senza eccessive difficoltà. Gli edifici pubblici non vengono
così acquisiti dalla chiesa in vista di una loro privatizzazione, bensì proprio a motivo della loro
funzione pubblica possono essere utilizzati secondo le indicazioni del pontefice con nuove finalità
più direttamente legate al culto o alla vita della chiesa: è proprio l’utilizzo di questi
edifici da parte della chiesa che garantisce che essi continuino ad essere impiegati a servizio della pubblica
utilità, dal momento che lo stato si riconosce come cristiano.
Il Liber pontificalis è opera di redattori appartenenti allo scrinium pontificio. È,
infatti, un documento che viene redatto, aggiornato e conservato, come si vedrà, nella curia del vescovo,
composta prevalentemente da chierici e da funzionari laici che lavoravano al loro fianco. Non stupisce, quindi,
che brevi, ma frequenti accenni del Liber riguardino proprio il rapporto fra il papa ed il suo clero.
Si deve rilevare, innanzitutto, come al termine di ogni biografia il Liber immancabilmente segnali il
numero di ordinazioni celebrate dal papa ed il numero di diaconi, presbiteri e vescovi da lui ordinati. Anche
nelle notizie più brevi, spesso relative a pontificati brevissimi, non manca comunque il riferimento alle
ordinazioni, segno dell’importanza che si attribuiva loro[209]. Probabilmente i lunghi periodi di vacanza fra un papa
e l’altro rendevano necessario che il pontefice, non appena eletto, provvedesse immediatamente a nuove
ordinazioni.
Anche alcune espressioni più generali sottolineano la gratitudine che i redattori del Liber
conservavano nei confronti dei pontefici dei quali scrivevano. Di Sabiniano si dice che ecclesiam de clero
implevit[210], di
Deusdedit che clerum multum dilexit, sacerdotes et clerum ad loca pristina revocavit[211], di Bonifacio V che clerum
amavit[212] - due
delle quattro norme emanate dal sinodo da lui riunito riguardano la preminenza del clero sugli accoliti - di
Onorio I che erudivit clerum[213], poiché probabilmente migliorò gli studi che erano tenuti a
svolgere.
È evidente così come le biografie attribuiscano importanza al sostegno economico che il pontefice
garantiva ai sacerdoti. Se il termine roga appare come un termine chiave della vita civile nel momento in
cui Eleuterio riportò la pace in Italia, emettendo i pagamenti per i suoi soldati[214], durante il pontificato di
Deusdedit, la stessa espressione si ripete più volte nel Liber pontificalis in riferimento al
clero. Deusdedit, in particolare, è ricordato[215] per avere donato, in previsione della propria morte, uno stipendio intero
(roga integra) ai sacerdoti dell’urbe[216]. Il Liber pontificalis ricorda scrupolosamente che questo fatto si
verificò per tutti i pontificati successivi. È possibile ipotizzare che questo stipendio aggiuntivo
rappresentasse la sicurezza di un sussidio in attesa che il nuovo pontefice - si è visto quanto potesse
durare la vacanza fra un pontefice e l’altro - fosse eletto e consacrato.
È utile sottolineare, anche se il Liber non lo afferma esplicitamente, che gli stipendi del clero
erano pagati con le risorse che lo stato metteva a disposizione della chiesa di Roma così come delle
diverse chiese[217].
Come si è già ricordato, infatti, la maggior parte delle entrate che permettevano alla chiesa di
svolgere il proprio compito non provenivano da donazioni private, bensì da beni e, soprattutto, da rendite
che lo stato aveva assegnato a questo fine. I fondi che giungevano per il sostentamento della chiesa venivano
ripartiti, in accordo con la legislazione imperiale, in quattro parti, destinate la prima al vescovo ed alla sua
curia, la seconda al clero, la terza alla costruzione ed al mantenimento degli edifici ecclesiastici, la quarta
al servizio dei poveri[218].
La notazione che Deusdedit, così come i suoi successori, decise la destinazione di un intero stipendio per
il clero alla loro morte indica che, comunque, nell’assegnazione delle risorse e, probabilmente, anche nel
loro incrementarsi, doveva esistere un margine di discrezionalità che dipendeva dalla volontà del
vescovo stesso.
Lo stato, nell’assegnare queste risorse, continuava evidentemente a riconoscere il beneficio che proveniva
alla collettività dall’esistenza della chiesa stessa, con la conseguente decisione che
l’attività ecclesiale dovesse non semplicemente essere tollerata, bensì promossa per il bene
comune[219]. La chiesa,
dal canto suo, si trovava così a gestire, insieme agli addetti statali, due diversi tipi di bilancio, il
primo costituito dalle entrate ed uscite necessarie al proprio sostentamento, il secondo, come si è
già visto analizzando la notizia di Sabiniano, caratterizzato dalla raccolta fiscale e dalle spese
necessarie per l’amministrazione civile della città.
La sede apostolica, d’altro canto, svolgeva un ruolo che non si limitava alla sola chiesa di Roma,
bensì interagiva con i diversi vescovi, soprattutto con quelli della penisola italiana. La notizia della
celebrazione di un sinodo romano, nella biografia di Bonifacio III, che vide la partecipazione di vescovi e
presbiteri, mostra chiaramente come Roma fosse un punto di riferimento per l’episcopato della penisola,
riuscendo a radunarlo in vista di decisioni che dovevano esser prese[220].
I pochi dati che il Liber conserva in materia lasciano intuire quanto la stessa consuetudine con lo
scrinium lateranense potesse essere un elemento determinante quando si trattava di eleggere il nuovo
pontefice. Due dei papi dei primi decenni del VII secolo - certamente Sabiniano e molto probabilmente Bonifacio
III[221] - erano stati
precedentemente apocrisari[222] di Gregorio Magno a Costantinopoli, mentre l’iscrizione funebre di
Sabiniano ricorda che egli crebbe di grado in grado nella gerarchia romana: hic primam subita non sumpsit
laude coronam, sed gradibus meruit crescere sanctus homo[223]. Bonifacio III, prima dell’elezione a vescovo di
Roma, ebbe probabilmente importanti incarichi in merito alle diocesi galliche e, successivamente, fu inviato dal
pontefice presso le chiese di Antiochia e Corinto[224]. Bonifacio IV era stato, prima dell’elezione, nel corso del pontificato
di Gregorio Magno, dispensator Ecclesiae Romanae[225]; aveva cioè ricoperto l’incarico di primo amministratore
finanziario della chiesa di Roma. Deusdedit era, invece, figlio di un suddiacono - annota il
Liber[226] - ed
aveva quindi respirato l’atmosfera ecclesiastica fin da piccolo.
Insomma tutti gli elementi - dalle nuove ordinazioni all’impegno per un miglioramento degli studi, dalla
relativa sicurezza economica alle indicazioni sui percorsi personali dei pontefici - convergono nel presentare
una situazione di grande vitalità nell’organizzazione ecclesiastica romana. Se
l’amministrazione civile era certamente in attività, come si è visto, altrettanto vitale era
la gerarchia ecclesiastica, capace di formare al proprio interno nuove generazioni di chierici.
Arnaldi ha voluto precisare che non si deve esitare ad attribuire alla chiesa dell’alto medioevo
l’appellativo di civiltà dello scritto[227]. Per lo storico italiano l’utilizzo del documento
scritto in età gregoriana, come nei decenni seguenti, si rivelava necessaria anche a motivo
dell’amministrazione finanziaria dei patrimonia Sancti Petri: «l’amministrazione dei
dispersi “patrimoni di San Pietro”, come ci è dato di vederla funzionare in qualche caso
giorno per giorno attraverso il registro delle lettere di Gregorio Magno, appare fondata prevalentemente e
ossessivamente sul documento scritto».
I dati del Liber confermano le affermazioni di Arnaldi, allargandone l’orizzonte; il documento
scritto, infatti, non è necessario solo ai fini di una oculata gestione finanziaria, ma è elemento
portante della memoria e della progettualità futura nell’intero scrinium pontificio, come
evidenzia il fatto stesso dell’esistenza del Liber come documento scritto.
Con l’utilizzo del termine scrinium pontificio - e con il suo equivalente plurale scrinia
pontifici - da parte di tutti gli storici del periodo si vuole sottolineare come dietro ed accanto alla figura
dei singoli pontefici, agisse un soggetto plurale, capace di cultura. Lo scrinium pontificio garantiva la
continuità della trasmissione generazionale di tutti quei valori e quelle abilità necessari al
corretto funzionamento dell’amministrazione ecclesiastica, che permaneva nel mutare dei singoli pontefici
che si avvicendavano. Afferma in proposito Bertolini: «l’amministrazione ecclesiastica si era venuta
modellando su quella dell’Impero. Aveva i suoi uffici nel palazzo stesso dei papi, il Laterano, come nei
palazzi degli imperatori a Costantinopoli avevano sede gli uffici dell’amministrazione centrale dello
stato. I dignitari, i funzionari, gli impiegati papali, che nel Laterano lavoravano in servitium b. Petri,
avevano organici, ranghi, carriera, gradi ecclesiastici ben definiti, come avveniva nelle gerarchie statali in
servitium principis [...] Dalla terminologia in uso nella burocrazia imperiale erano presi i vocaboli
scrinia, scriniarii, per indicare in genere gli uffici, ed i loro addetti con funzioni di un certo
livello»[228]. Il
centro fisico dell’attività dello scrinium pontifico era ovviamente il palazzo del Laterano,
situato a fianco della basilica costantiniana[229].
Il Liber pontificalis fornisce un ultimo dato estremamente significativo che permette di evidenziare come
l’attività pontificia travalicasse i confini cittadini per interagire con le altre diocesi della
penisola: quello delle nuove consacrazioni episcopali celebrate dai papi[230]. Il loro numero è alto, con cifre oscillanti fra
le 20 e le 30 nuove ordinazioni episcopali per ogni pontefice. Onorio I addirittura, a motivo certamente del suo
lungo pontificato, consacrò ben 81 nuovi vescovi[231]. Il Liber permette di intuire così che il rapporto fra il
vescovo di Roma e le altre città della penisola non avvenisse solo tramite gli incaricati della gestione
dei patrimonia Sancti Petri, ma ancor più si realizzasse attraverso la relazione con i vescovi che
dal pontefice ricevevano l’ordinazione, pur essendo stati eletti nelle rispettive sedi. Non si deve
dimenticare una caratteristica ecclesiologica dell’episcopato antico che ne facilitava l’inserimento
nella compagine civile, come è stata sottolineato da Barone-Adesi. Egli, indagando, da un lato, la
legislazione ecclesiastica - ed, in particolare i canoni pre-calcedonesi e post-calcedonesi riguardanti
l’episcopato - e, dall’altro, le norme civili del Codex Teodosiano, ha sottolineato come
entrambi gli ordinamenti insistano sull’inamovibilità del vescovo una volta destinato ad una
specifica sede[232]:
«il principio dell’indissolubilità del vincolo che unisce dall’elezione il vescovo alla
rispettiva città episcopale ha costituito un parametro fondamentale per la successiva normativa canonica e
per la coscienza ecclesiale [...] Res publica ed ecclesia convergono nell’offrire alla
città un pater destinato a presiedere l’ecclesia per tutto il tempo del suo ministero.
Su questo presupposto trova fondamento tutta la legislazione imperiale intenta a promuovere le funzioni del
vescovo nella città tardoantica».
Uno scenario rasserenato sembrava aprirsi nel Mediterraneo negli ultimi anni del lungo pontificato di Onorio I,
il più lungo dei primi quattro decenni del VII secolo, mentre in realtà si preparava un nuovo
difficilissimo periodo per la sopravvivenza imperiale a motivo dell’imprevista apparizione della potenza
araba in espansione.
Al contempo stava per iniziare un periodo di tensioni gravido di conseguenze fra Costantinopoli e la sede romana.
Alcune incaute espressioni di Onorio I, inviate per lettera a Costantinopoli - come si vedrà - dinanzi
all’aprirsi dell’ultima fase delle discussioni cristologiche del primo millennio, videro
immediatamente coinvolto dalla risposta imperiale il suo successore Severino (640), eletto, ma non ancora
consacrato. La questione teologica si fece via via più incandescente con i successori Giovanni IV
(640-642) e Teodoro I (642-649), fino a raggiungere il punto più acuto di crisi con l’esilio che
vide vittima Martino I (649-654)[233], mentre la vicenda politica balzava alla ribalta.
Le biografie di questi pontefici, narrate dal Liber pontificalis, si situano dunque nell’orizzonte
più ampio delle difficili lotte per la sopravvivenza che l’impero bizantino dovette affrontare in
quei decenni[234].
L’imperatore Eraclio, infatti, non ebbe il tempo di godere della riconquistata sicurezza dell’impero,
dovuta alle sue vittorie sugli avari, gli slavi ed i persiani. La sconfitta dei suoi nemici, insieme alla
debolezza delle forze imperiali che si erano dissanguate nella lotta contro di loro, doveva aprire la strada ad
una nuova potenza, quella degli arabi. Il VII secolo si rivela così veramente un secolo decisivo per la
storia bizantina. La dinastia eraclea, iniziata nel 610, si estinguerà solo nel 711, ma dovrà prima
resistere a questo secondo periodo di guerre che metterà nuovamente a repentaglio la vita stessa
dell’impero.
Nel frattempo la riconquista dei territori orientali, che si rivelerà solo provvisoria, aveva riaperto la
questione monofisita. Le chiese dell’Armenia, della Siria, dell’Egitto erano state liberate dal
dominio persiano ed erano ritornate in seno all’impero, ma, in questo modo, si era nuovamente manifestata
la difficoltà della comunione con Costantinopoli e con Roma a motivo del concilio di Calcedonia, la cui
dottrina non era stata da loro mai pienamente accolta. Dietro la questione teologica si celava, però, un
problema politico, poiché quelle regioni mal sopportavano la presenza bizantina, ritenendola comunque
prevaricante. Eraclio cercò immediatamente di comporre la questione religiosa, perchè riteneva che
il ristabilimento di una piena comunione ecclesiale potesse rinsaldare anche i vincoli politici. Il patriarca di
Costantinopoli, Sergio, convinto dell’impossibilità di far entrare quelle chiese
nell’obbedienza calcedonese, cercò di venire loro incontro proponendo una dottrina conosciuta oggi
con il nome di monoenergismo. Egli, affermando che in Cristo ha agito una unica energheia - quella divina
- pensava di trovare consenzienti i cristiani delle regioni orientali dell’impero. Eraclio aveva aderito
alla proposta di Sergio e già nella campagna contro i persiani in Armenia aveva preso i primi contatti per
un accordo in questo senso. Terminata la guerra l’imperatore aprì le trattative a più ampio
raggio. Gli sembrò di cogliere in oriente i presupposti per una accettazione della proposta del patriarca
Sergio, poiché Armenia e Siria sembravano accettare e, soprattutto, Ciro, che era stato consacrato
patriarca d’Egitto nel 631, si dichiarò d’accordo.
Ma, all’improvviso, la questione si rivelò in tutta la sua complessità. Fu per primo
Sofronio, eletto patriarca di Gerusalemme nel 634, ad accusare la dottrina monoenergetica di monofisismo.
Costantinopoli cercò di guadagnare alla propria proposta la sede di Roma, inviando ad Onorio I le proprie
dichiarazioni e quelle di Sofronio. Onorio I rispose nel 634 con una lettera che è stata variamente
interpretata dagli storici, ma che fu certamente letta da Costantinopoli come un incoraggiamento a procedere.
Nel frattempo in Egitto, dove era il patriarca stesso ad aver aderito alla nuova dottrina, ci furono reazioni,
perché il consenso era stato ottenuto da Ciro con la forza ed egli si trovò in
difficoltà.
Allora Sergio redasse, nel 638, un testo che, rinunciando alla terminologia dell’unica energia, proponeva
la dottrina di una unica volontà divina, un unico thélema (da cui tale posizione teologica
prese il nome di monotelismo) nell’unica persona divina del Cristo. Eraclio rese ufficiale questo testo con
un editto che venne chiamato Ekthesis, intimando ad ogni cittadino dell’impero ed, in primis,
ai patriarchi ed ai vescovi, di sottoscriverlo, in quanto emanato dalla suprema autorità imperiale. Sergio
morì nello stesso anno ed ebbe come successore Pirro, che subito si schierò a difesa del
monotelismo. Fu, però, immediatamente evidente che la nuova dottrina non era accetta né agli
ortodossi, né ai monofisiti.
Mentre la questione teologica si complicava, la situazione internazionale divenne difficilissima. Già nel
638 la Siria e la Palestina caddero sotto il dominio degli arabi; è storicamente accertato che le
polemiche facilitarono l’invasione araba, perché in molti luoghi l’arrivo dei nuovi
conquistatori fu salutato imprudentemente come un’opportunità per sbarazzarsi della pesante
ingerenza costantinopolitana. La nuova potenza emerse inattesa da tutti – l’anno dell’egira, il
622, coincide con l’anno che segnò l’inizio della vittoria dei bizantini sui persiani. Morto
Maometto nel 632, solo quattro anni dopo, Eraclio venne severamente sconfitto nel 636 sullo Jarmuk, un affluente
del Giordano, e la sorte della Siria fu segnata. Antiochia si arrese senza combattere. Gerusalemme resistette in
un primo momento, pur assediata, ma nel 638 Sofronio dovette arrendersi ed aprire le porte al califfo ‘Omar
per evitare una strage. La Persia fu occupata nel frattempo e nel 639-640 fu conquistata la Mesopotamia
bizantina. Nel 640 cadde Dvin, fortezza armena. Eraclio, dopo la sconfitta in Siria, rinunciò a guidare
l’esercito, che lasciò in mano ai suoi generali. Risiedette per un breve periodo ad Antiochia, poi
si ritirò fino a Hieria, non volendo riattraversare il mare, evento che avrebbe rappresentato
simbolicamente l’ammissione della sconfitta. Tutta la sua opera di riconquista dei territori
dell’impero, strappati alla potenza persiana, era ormai stata cancellata. Mentre la fine della campagna
contro i persiani sembrava essere un preludio ad un periodo di pace e prosperità, improvvisamente
l’impero si trovò sotto un pesante attacco, senza che nessun segnale lo avesse preannunciato.
Eraclio rientrò infine a Costantinopoli per paura di una congiura, mentre le armate arabe avanzavano, e vi
morì nel 641.
Al termine di una serie di intrighi[235], salì al trono il nipote Costantino, che passò alla storia con
il suo diminutivo di Costante e con il soprannome di Pogonato (che significa barbuto): Costante II.
Il nuovo imperatore, insieme al patriarca Pirro, confermò la linea teologica monotelita dei loro
predecessori.
Ma il problema che si faceva sempre più grave era quello dell’avanzata araba. Ciro, che era stato
reintegrato come patriarca ad Alessandria[236], concluse un trattato di pace dei territori egiziani con gli arabi, accordo
che di fatto concedeva loro il potere: il 12 settembre 642 i bizantini salparono da Alessandria e gli arabi vi
poterono entrare senza combattere. L’anno successivo erano già a Tripoli sulla Sirte, dopo la
Pentapoli. Una pausa sembrò dare qualche speranza all’impero nel 644, quando il califfo ‘Omar
morì ed ‘Amr, il generale vittorioso, fu richiamato dal nuovo califfo ‘Othman. Il generale
bizantino Manuele riprese allora Alessandria, ma già nel 646 ‘Amr la strappò nuovamente
– e questa volta definitivamente – al controllo bizantino. La popolazione guidata dal nuovo patriarca
monofisita Beniamino si sottomise spontaneamente agli arabi, manifestando di preferirli ai bizantini.
Era ormai evidente che la questione monofisita non sarebbe stata risolta, poiché nuovamente tutti i
territori interessati ad essa erano fuori del dominio imperiale, finiti questa volta definitivamente in mano
degli arabi.
Nonostante questi eventi, Costantinopoli non volle recedere dalla difesa del monotelismo; la questione si
trascinò così ancora per più di trent’anni coinvolgendo, a questo punto, soprattutto
la sede cartaginese e quella romana.
Anche nell’Africa bizantina la questione teologica si intrecciò con quella politica. Emerse sulla
scena il monaco Massimo il Confessore che già nel 636 era attivo a Cartagine. Egli, secondo
un’anonima vita siriaca recentemente scoperta, sarebbe stato originario della Palestina dalla quale sarebbe
fuggito a motivo dell’invasione araba, dopo essere stato educato nel monastero di San Caritone,
raggiungendo Cizico, vicino Costantinopoli, nel 634 ed intrecciando successivamente rapporti stretti con la corte
imperiale. Sorta la questione monotelita, Massimo si schierò apertamente contro la posizione
costantinopolitana. Nel frattempo, intorno all’anno 640, papa Giovanni IV condannò il monotelismo.
Massimo nel 646 iniziò una serie di sinodi contro il monotelismo a Cartagine e nei territori da lei
dipendenti. L’esarca della città, di nome Gregorio, non solo accolse le tesi teologiche del monaco,
ma si ribellò all’imperatore, sfruttando probabilmente anche il fatto che l’intera regione
seguisse Massimo nelle sue posizioni. Prima che ci fosse la possibilità di un confronto diretto con le
truppe imperiali, fu, però, sconfitto ed ucciso nel 647 a Sufeitula dagli arabi che poi si ritirarono
dalla regione. La debolezza della compagine imperiale, ancora una volta, rendeva possibili questi colpi di mano -
come già si è constatato nel capitolo precedente per il territorio dell’esarcato
d’Italia - che, però, si rivelavano poi incapaci di consolidarsi.
Nella difficoltà di comporre teologicamente la situazione, Costante II, nel 648, decise di pubblicare un
nuovo editto, che ricevette il nome di Typos, con il quale ordinava di chiudere ogni dibattito pubblico,
mettendo a tacere eventuali dissensi sulla questione dell’una o delle due volontà in Cristo. Il
nuovo documento non la risolveva nell’uno o nell’altro senso, ma semplicemente aveva come scopo - che
si rivelò presto illusorio - di riconciliare gli animi impedendo ogni disputa. Nel 649 fu eletto papa
Martino I che immediatamente concluse un sinodo che non solo condannava ancora una volta l’Ekthesis,
ma vi univa nella condanna anche il Typos, scomunicando i patriarchi di Costantinopoli coinvolti nella
questione, ma evitando formalmente di accusare la dinastia imperiale.
Come a Cartagine, la questione si complicò presto per la concomitanza di eventi politici. L’esarca
Olimpio, inviato a Roma per arrestare il papa, si ribellò all’imperatore e rese indipendenti per un
breve periodo i territori d’Italia dal resto della compagine statale. Anch’egli, però, dovette
scendere in battaglia contro gli arabi che, per la prima volta, attaccarono la Sicilia. Durante la spedizione,
nel 652, una epidemia fece strage delle sue truppe ed egli pure morì. Con la sua scomparsa la rivolta
terminò e l’imperatore poté inviare a Ravenna un nuovo esarca a lui fedele.
Quest’ultimo, di nome Teodoro Calliopa, si presentò immediatamente nel 653 a Roma ed accusò
il pontefice di aver appoggiato la sedizione di Olimpio. Per ordine dell’imperatore lo prelevò e lo
fece imbarcare per Costantinopoli, dove - come si vedrà - egli fu umiliato e condannato all’esilio.
Martino I morì, così, lontano dalla capitale, abbandonato da tutti, nel 656. La stessa sorte
toccò a Massimo il Confessore, accusato anche in merito alla rivolta dell’esarca Gregorio a
Cartagine: esiliato, morì nel 662, vicino l’odierna Muri.
L’imperatore Costante II si assicurò così l’obbedienza politica dei due esarcati di
Ravenna e di Cartagine, ma si trovò a dover affrontare ancora la pressione araba che fu costante fino al
659.
In quegli anni, infatti, la situazione della compagine imperiale peggiorò progressivamente: nel 647 il
generale Mu‘awiya irruppe in Cappadocia ed occupò Cesarea. Dal 649 gli arabi ebbero a disposizione
per la prima volta una flotta consistente con la quale presero Cipro. Nel 654 assediarono Rodi, poi conquistarono
Coo, finché nel 655 si venne al primo scontro navale con la flotta bizantina che uscì
inaspettatamente sconfitta. Tutto mostrava già chiaramente che l’avanzata araba si muoveva ormai
nella direzione della capitale e che il suo obiettivo era la conquista di Costantinopoli.
In questo ampio e difficile scenario storico si collocano le vicende narrate dal Liber pontificalis,
relativamente ai papi che vanno da Severino a Martino I. Già la biografia di Severino, che fu papa solo
per due mesi, rivela tutta la drammaticità degli eventi che sarebbero seguiti.
Il Liber non fa alcun accenno alle due lettere che Onorio I inviò al patriarca di Costantinopoli
Sergio sulla questione del monoenergismo nel 634[237], così come non registra la pressante richiesta che l’imperatore
fece giungere al suo successore, Severino appunto, nel 638, tramite gli apocrisari romani, perché egli
sottoscrivesse l’editto da lui promulgato, come condizione previa per essere consacrato
pontefice[238]. Si
limita, invece, a descrivere la difficilissima situazione che ne conseguì poiché, mentre Severino
non era ancora stato ordinato - dum adhuc electus esset domnus Severinus[239] - le truppe imperiali decisero l’occupazione
dell’episcopio lateranense e la depredazione dei suoi beni. L’evento, senza precedenti, avvenne nella
lunghissima attesa del beneplacito di Eraclio all’ordinazione di Severino che durò ben diciannove
mesi, dall’ottobre 638, mese nel quale avvenne l’elezione, al 28 maggio 640, giorno della
consacrazione[240]. Il
pontefice morì solo due mesi dopo, il 2 agosto 640.
Ma i fatti che il Liber racconta[241] non sono casuali; essi vanno piuttosto letti nei dati che raccontano e nel non
detto che lasciano intravedere. L’iniziatore materiale della devastazione dell’episcopio di Roma
viene indicato nel cartulario Maurizio, ma, subito, prima ancora di raccontare il fatto, il Liber aggiunge
al suo nome quello dell’esarca Isacio. Infatti, la successiva azione che vede il cartulario preparare il
terreno inizia con l’espressione antequam veniret Isacius patricius[242]. Se, insomma, Maurizio appare
l’esecutore materiale, il Liber lascia intuire che il mandante è più in alto e, forse,
non potendo risalire esplicitamente sino all’imperatore stesso, si arresta all’esarca di Ravenna.
Inoltre subito si indica che Maurizio agì dolo ductus adversus ecclesiam Dei[243] e l’espressione
adversus ecclesiam Dei si ripete poche righe dopo. Tutto l’episodio viene così visto nella
luce di una esplicita ed intenzionale azione mirante ad osteggiare la chiesa di Roma.
Maurizio - racconta il Liber[244] - dopo essersi consigliato quibusdam perversis hominibus eccitò
gli animi dell’exercitus Romanus contro la curia pontificia non solo insinuando il dubbio che nelle
casse del Laterano ci fossero eccessive ricchezze, ma, ancor più, che lì fossero nascoste -
reconditas - le paghe che i soldati attendevano - rogas vestras quas domnus imperator vobis per vicem
mandavit. L’azione sobillatrice riuscì al punto che tutti gli armati dell’urbe, a puero
usque ad senem, cercarono di forzare gli accessi dell’episcopio lateranense, nel quale si era nel
frattempo asserragliato Severino con la sua curia. Maurizio - il Liber ripete qui l’espressione
dolo ductus[245]
- pose con i soldati un assedio di tre giorni nel quale le truppe furono fatte risiedere intro episcopio
Lateranense. Vinta infine la resistenza, Maurizio poté entrare con gli iudices che aveva
trovato in consilio consenzienti alla sua azione e fece porre i sigilli al vestiarium ecclesiae seu
cymilia episcopii, il luogo del patriarchio lateranense destinato alla custodia dei beni. Il
Liber[246] subito
sottolinea che in esso si trovavano i doni che diversi christianissimi imperatores seu patricii et consules
pro redemptione animarum suarum beato Petro apostolo derelinquerunt, oltre che per l’aiuto dei poveri e
per la liberazione dei prigionieri. A questo punto Maurizio inviò una lettera ad Isacio informandolo
dell’accaduto. Non appena l’esarca arrivò, subito esiliò tutti i maggiorenti della
chiesa - misit omnes primates ecclesiae singolos per singulas civitates in exilio - affinché non ci
fosse più chi potesse resistere nel clero - ut non fuisset qui resistere debuisset de clero. Poi
Isacio depredò tutte le sostanze custodite nell’episcopio e ne mandò parte a Costantinopoli -
direxit exinde parte ex ipsa substantia in civitate regia ad Heraclium imperatorem[247]. Solo a questo punto - prosegue
il Liber[248] -
acconsentì che Severino fosse ordinato vescovo di Roma e, dopo la consacrazione, tornò a
Ravenna.
Nella descrizione di questi drammatici eventi, è possibile, innanzitutto, scorgere quali fossero le
autorità che allora governavano Roma insieme al pontefice e che erano rimaste in ombra nelle notizie
biografiche dei pontificati precedenti.
Appare per la prima volta il termine exercitus romanus ed esso è guidato da un cartularius,
Maurizio appunto, che risiede nell’urbe. È, soprattutto, il primo termine ad indicare come si stesse
configurando in maniera nuova la presenza militare in Roma alle dipendenze, certo, dell’esarca di Ravenna,
ma con una crescente specificità territoriale – si è già visto come, simmetricamente,
nell’episodio dell’uccisione del rivoltoso esarca Eleuterio, durante il pontificato di Bonifacio V, i
soldati intervenuti a porre termine alla sua rivolta fossero indicati come milites Ravennates.
Evidentemente la difficoltà dei tempi e delle comunicazioni fra Ravenna e Roma dovevano consigliare questa
diversificazione e gli estensori del Liber testimoniano come il contingente fosse ormai legato stabilmente
alla città e, conseguentemente, sempre più composto da milizie reclutate a livello locale.
Compaiono anche, nella breve notizia biografica, pubbliche autorità definite con il termine di
iudices. È insieme ad essi che, dopo i tre giorni di assedio, Maurizio entra nel vestiarium
del Laterano. Essi, evidentemente, non appartengono alla curia, ma sono funzionari civili. Il particolare
testimonia, in piena sintonia con quanto si è già visto per i primi decenni del VII secolo, come
Roma non sia priva di funzionari statali, ma che precise, anche se per la scarsezza di dati non ulteriormente
precisabili, cariche esercitano a nome dell’imperatore la giurisdizione sulla città[249]; rende altresì avvertiti
del fatto che questi iudices possono prendere posizione dinanzi alla curia ecclesiastica in piena
fedeltà al cartularius che rappresenta direttamente l’esarca e, quindi, l’imperatore
nell’urbe.
Un ulteriore elemento deve essere sottolineato in tutta la sua importanza: la non smentita affermazione che nel
vestiarium pontificio siano custodite le paghe dei soldati. Maurizio, per eccitare le truppe, si limita a
ricordare loro che il denaro del loro stipendio è nelle casse del Laterano. Si incontra così qui
una testimonianza non dissimile da quella che già si è avuto modo di porre in evidenza in merito a
Sabiniano ed agli horrea ecclesiae, in occasione della carestia di inizio secolo. Il vestiarium
evidentemente conservava non solo i beni di proprietà della chiesa di Roma, ma custodiva anche il denaro
appartenente allo stato e che doveva essere utilizzato per il pagamento delle truppe e, probabilmente, di tutti i
pubblici impiegati. Poiché il sistema fiscale, come si è già visto, era funzionante e
strutturava la vita civile dell’impero, il denaro non era stato probabilmente inviato dall’imperatore
per il pagamento dei militari, ma era stato semplicemente raccolto, attraverso le diverse forme di tassazione in
vigore, per essere utilizzato ai fini di legge. Dovette, però, essere facile per Maurizio convincere i
soldati di un abuso da parte del papa, poiché i due bilanci convergevano di fatto nell’unico
forziere custodito nell’episcopio, cioè nel vestiarium ecclesiae, che custodiva il denaro
pubblico[250] insieme
alle risorse della chiesa. Il Liber sottolinea, quasi a gettare un’ombra sul più alto
responsabile dell’episodio, che, una volta esiliati i primates ecclesiae, una parte dei beni del
vestiarium venne inviata a Costantinopoli, ad Heraclium imperatorem. Se gli estensori del testo
volevano così specificare che gli ordini arrivavano direttamente da Costantinopoli, allo stesso tempo
senza ombra di dubbio Isacio, con questo suo gesto, voleva significare che il tesoro del vestiarium era
sì gestito dall’autorità papale, ma era di diretta pertinenza dell’autorità
imperiale la quale non perpetrava un saccheggio, ma, semplicemente, a norma di legge, disponeva diversamente
delle entrate fiscali raccolte, per le necessità dell’impero; nella specifica circostanza è
lecito ipotizzare che tutto sia stato poi utilizzato per le nuove esigenze belliche nella lotta di difesa contro
l’aggressione araba.
Fin qui i dati che vengono forniti dalla biografia di Severino. L’episodio, però, come si è
visto, assume un significato che va ben oltre l’evento materiale, come il Liber stesso lascia
intuire senza arrivare ad affermarlo esplicitamente. È la casa imperiale che è sotto accusa,
poiché Maurizio non agisce di propria iniziativa, come se stesse affrontando una semplice questione
interna alla gestione delle cose romane, ma dietro di lui si intravede l’ombra dell’esarca ravennate.
A sua volta, il termine ultimo dell’azione è la consegna all’imperatore di parte delle
sostanze del vestiarium lateranense. Solo allora l’azione ha termine. Non solo, ma il nome imperiale
viene posto in risalto anche per contrapposizione, quando si afferma che nel tesoro pontificio sono custoditi i
beni che i christianissimi imperatores avevano donato ai vescovi di Roma. Questa esaltazione dei
predecessori di Eraclio fa da contraltare al comportamento dell’attuale sovrano che non viene preceduto
dall’abituale aggettivo di piissimus, come altre volte nel Liber.
Il vestiarium, insomma, insieme a tutto l’episcopio, viene presentato come un luogo che si vorrebbe
intangibile. Esso appartiene certamente, in qualche modo, all’impero, in quanto vi sono custoditi oltre ai
beni privati della chiesa anche i gettiti della tassazione pubblica, ma, d’altro canto, solo i legittimi
rappresentanti della chiesa possono autorizzare l’ingresso in esso per un eventuale controllo. Senza questo
assenso, l’accesso al patriarchio delle autorità pubbliche, rappresentanti dell’esarca di
Ravenna, si configura come una violazione alla quale è possibile, anzi lecito, opporsi, certo non con la
violenza, ma comunque almeno fisicamente, barricando l’edificio.
Un ulteriore dato che sottolinea il conflitto in atto tra la chiesa e l’impero è da individuarsi non
solo nella ripetuta affermazione che l’azione è adversus ecclesia Dei, ma, ancor più,
nella notazione finale dell’esilio dei responsabili della chiesa di Roma, singulos per singulas
civitates. È, nella lettura che ne propone il Liber, la descrizione di un vero e proprio
scompaginamento della gerarchia e dell’organizzazione ecclesiastica dell’urbe. Non è
difficile, allora, cogliere il braccio di ferro che si esercitò in quella circostanza, quando
l’imperatore decise di ritardare a bella posta l’assenso all’ordinazione del pontefice eletto,
per ottenerne l’assenso all’Ekthesis. Per la prima volta nel VII secolo si trovarono una
dinanzi all’altra, in uno scontro frontale, Costantinopoli e la sede romana. La questione nasceva in ambito
teologico, nella definizione di cosa comportasse la piena umanità di Cristo, se essa esigesse o meno una
volontà umana pienamente operante nel Figlio di Dio incarnato, ma essa ebbe una immediata ricaduta civile
poiché l’imperatore decise di utilizzare la sua autorità sulla gestione delle imposte e degli
stipendi per esercitare una durissima pressione nei confronti della Sede apostolica, perché essa
rinunciasse a sostenere una linea teologica differente da quella costantinopolitana. L’unità
teologica dell’impero era ritenuta necessaria a Costantinopoli come base dell’unità politica
ed ogni chiesa, compresa quella romana, era tenuta ad uniformarsi alle decisioni di Eraclio che faceva valere
così le sue prerogative di custode della fede. Roma attribuiva a sé, invece, il compito di
determinare ultimamente la retta fede, pur riconoscendo, ovviamente, all’imperatore, il compito di rendere
operante poi dal punto di vista legislativo tale definizione.
Appare in nuce una tensione che avrà conseguenze di grande portata nel prosieguo dei fatti.
La notizia del Liber su Giovanni IV[251] è incentrata nel racconto sul suo sforzo per la liberazione di
prigionieri catturati dagli avari e dagli slavi in Dalmazia ed in Istria - della Dalmazia era originario lo
stesso pontefice - regioni nelle quali l’impero combatteva contro questi popoli, fino a giungere a
ricordare poi la costruzione della cappella annessa al battistero lateranense.
Già nella precedente notizia su Severino si diceva che il denaro presente nel vestiarium, donato
dai diversi christianissimi imperatores seu patricii et consulares pro redemptione animarum suarum era
lì conservato ut pauperibus singulis temporibus pro alimonia erogarentur, seu propter redemptionem
captivorum[252]. Il
Liber mostra nella biografia di Giovanni IV che effettivamente le finanze della chiesa, o comunque da essa
amministrate, raggiungevano il loro scopo e che, in particolare, in questa direzione si era distinto il nuovo
pontefice; egli aveva, infatti, inviato tramite l’abate Martino multas pecunias propter redemptionem
captivorum qui depraedati erant a gentibus[253].
Nessun accenno è invece presente nel Liber in merito alla questione della necessaria approvazione
da parte imperiale dell’elezione pontificia, questione che aveva travagliato il pontificato di Severino. Si
deduce dalla cronologia che Giovanni IV fu eletto in agosto e consacrato in dicembre, quindi dopo un periodo
lungo, ma decisamente inferiore a quello che dovette attendere il suo predecessore, con le conseguenze che si
sono appena analizzate[254].
L’indicazione della professione di scholasticus[255], esercitata dal padre del pontefice, di nome Venanzio, suggerisce come
le origini familiari di Giovanni IV debbano essere individuate in ambienti vicini all’esarca[256].
Il Liber tace anche delle prese di posizione di Giovanni IV in merito alla questione monotelita e non fa
menzione né della convocazione di un sinodo nel gennaio 641, celebrato non appena egli fu consacrato papa,
né della successiva lettera a Costantino III, l’Epistola II dell’epistolario del
pontefice, inviata ad Costantinum imperatorem, filium Eraclii, dopo la morte di Eraclio nel
641[257].
La notizia del Liber su Teodoro I allarga nuovamente lo sguardo alla situazione dell’esarcato ed
affronta poi esplicitamente, per la prima volta, la questione monotelita.
La biografia afferma innanzitutto che Teodoro I proveniva dalle regioni orientali dell’impero, natione
Grecus e specifica poi la sua origine de civitate Hierosolima[258]. Niente è detto di una sua precedente
conoscenza, che è stata da molti ipotizzata, con Sofronio patriarca di Gerusalemme ed acerrimo nemico
delle tesi monotelite, o almeno con il suo ambiente teologico, come niente indica esplicitamente che Teodoro I -
o forse già suo padre con lui - potrebbe essere fuggito da Gerusalemme a motivo dell’invasione araba
appena avvenuta. Entrambi i dati sono, però, ritenuti altamente probabili da tutti gli studi recenti.
Secondo la sua abitudine, il Liber non fornisce dati precisi sull’autorizzazione alla consacrazione
di Teodoro I una volta eletto, ma unanimemente gli studi concordano nell’ipotesi che l’imperatore
l’abbia demandata all’esarca, dato il tempo relativamente breve intercorso fra elezione e
consacrazione[259].
Subito dopo questi dati, il Liber narra del tentativo operato da Maurizio cartularius per prendere
il potere in Roma, strappandolo all’esarca Isacio[260]. Maurizio appare insignito dello stesso titolo di cartularius che
già gli era attribuito nella notizia biografica di Severino ed il biografo di Teodoro I ricorda il suo
grado di sottoposto ad Isacio, del quale era stato il braccio armato nell’episodio dell’assalto al
vestiarium lateranense: viene, infatti, descritto come colui per quem multa mala operatus est Isacius
patricius[261].
La biografia di Teodoro I racconta che Maurizio intartizavit adversus Isacium patricium; il Liber
utilizza qui la forma verbale, intartizavit, del termine che, nella forma sostantivale intarta, era
già stato utilizzato in merito alle ribellioni di Giovanni di Conza e successivamente di
Eleuterio[262].
Un particolare riferito dal Liber permette di precisare ulteriormente l’evoluzione
dell’organizzazione statale che si è intravista nella notizia su Severino: Maurizio misit per
omnes castra qui erant sub civitate Romana per circuitum et congregavit eos et constrinxit se cum ipsis in
sacramento. Il cartulario, cioè, per dare inizio al suo tentativo di sedizione, cercò di
assicurarsi la fedeltà di quella parte dell’esercito che dipendeva dal comando di Roma. Il
Liber aggiunge subito che così Maurizio trovò alleanza cum omnem exercitum Italiae,
ma è chiaramente un’esagerazione. Infatti la notizia prosegue affermando che, dopo questi accordi,
Maurizio si presentò a Roma ed erano con lui omnes iudices seu exercitus Romanus. Tutti costoro,
però, non appena seppero che l’esarca aveva inviato il magistrum militum et sacellarium suum
Dono con l’esercito di Ravenna, abbandonarono il ribelle. Maurizio si rifugiò presso la basilica
dedicata alla beata Maria ad Praesepe, cioè Santa Maria Maggiore, dove Dono, evidentemente
incurante della legislazione sul diritto di asilo, lo fece prelevare, incatenare e condurre prigioniero a
Ravenna, per manus Marini scriboni et Thomati cartularii, due autorità, una delle quali di grado
equivalente a quella di Maurizio, evidentemente direttamente dipendenti dall’esarca e, quindi,
probabilmente ravennati. Prima dell’ingresso in Ravenna, Maurizio fu decapitato ed Isacio pose il capo
mozzato del ribelle ad exemplum multorum in circo Ravennate in stipitem. Solo la successiva morte di
Isacio, nella quale i redattori del Liber videro un intervento divino per punire i mali di cui si era
macchiato l’esarca prima della consacrazione di Severino, fece sì che gli altri cospiratori
reversi sunt singuli per loca sua. Immediatamente l’imperatore provvide ad inviare un nuovo esarca,
Teodoro Calliopa ad regendam omnem Italiam.
Da tutta la vicenda appare ancora una volta come l’organizzazione civile e militare dell’esarcato
prosegua efficacemente la sua azione di governo su tutti i territori imperiali, urbe compresa, sebbene continuino
a manifestarsi evidenti segni di crisi, dal momento che ci sono spazi per sempre nuove insurrezioni.
Roma, in particolare, appare strutturata in relazione ad una serie di castra che da lei dipendono e che
sottostanno, in particolare, al cartularius che è evidentemente ancora l’ufficiale di
più alto grado in Roma. È da sottolineare, in questo contesto, la seconda menzione, dopo quella
della biografia di Severino, di un exercitus romanus capitanato appunto dal cartularius romano, ma
che ha nell’esarca un comandante di grado maggiore, dipendente, a sua volta, solo dal sovrano
costantinopolitano. L’assoluto primato civile e militare di Ravenna su Roma è altresì
evidente: l’esarca non ha nemmeno bisogno di muoversi, ma gli basta inviare il magistrum militum et
sacellarium suum Dono il cui arrivo sbaraglia l’opposizione senza che ci sia bisogno di combattere. Il
fatto che la punizione esemplare della decapitazione e l’esposizione della testa mozzata avvenga a Ravenna
e non a Roma conferma ulteriormente l’importanza politica della città che è residenza
dell’esarca.
La chiesa, la sua gerarchia ed, in particolare, la figura del pontefice non appaiono minimamente coinvolte nella
rivolta. Il Liber si limita a ricordare l’esecrabilità agli occhi romani di entrambe le
figure, quella dell’esarca e quella del cartularius di Roma, a motivo dei fatti avvenuti sotto
Severino, ma questa valutazione non intacca la comprovata fedeltà romana alla compagine imperiale.
La tensione con Costantinopoli balza, invece, in primo piano, nelle righe immediatamente successive della
biografia, quando il Liber, per la prima volta, affronta la questione del monotelismo. Gli studi recenti
hanno confermato che le notizie del Liber in merito sono letterariamente dipendenti dal discorso
attribuito a Martino I, successore di Teodoro I sul soglio pontificio, nel sinodo Lateranense del
649[263] - gli stessi
documenti del sinodo, come si vedrà, sono stati a loro volta oggetto di una profonda reinterpretazione
critica.
Il Liber, parlando di Teodoro I, si sofferma unicamente su due episodi della crisi monotelita, quello
dell’arrivo in Roma del deposto patriarca di Costantinopoli Pirro per ritrattare le sue tesi[264] e quello dell’invio della
lettera del pontefice al patriarca Paolo con l’invito a tornare alla fede cattolica[265].
Pirro è descritto semplicemente come proveniente ex Africa. In questa maniera il testo omette di
fare esplicito riferimento alla vicenda politica che aveva accompagnato in quella regione il divampare della
questione monotelita. Si è già accennato al fatto che l’esarca di Cartagine Gregorio, in
concomitanza con la scelta dell’episcopato dei suoi territori di sposare le tesi anti-monotelite romane
rigettando quelle costantinopolitane[266], si era dichiarato indipendente da Costantinopoli. Il suo tentativo era poi
fallito dinanzi alle prime avvisaglie della invasione che si andava preparando: gli arabi, infatti, lo avevano
ucciso sconfiggendolo in battaglia a Sufeitula nel 647. Nella prospettiva del Liber non si fa menzione di
questi episodi e la questione politica non viene nemmeno evocata.
Lo sguardo si concentra, invece, sulle autorità religiose ed, in particolare, su Pirro. Quest’ultimo
era una figura di rilievo perché, dopo essere stato eletto patriarca di Costantinopoli nel dicembre 638
sotto l’egida di Eraclio, era il diretto estensore dell’Ekthesis che era stata poi inviata,
una volta approvata dall’imperatore, per ben due volte a Giovanni IV con la richiesta che egli
l’approvasse e con la minaccia di scomunica se egli l’avesse rifiutata. L’ascesa al trono di
Costante II ed il mutamento del clima politico e teologico avevano poi indotto Pirro a rinunciare alla sede
costantinopolitana nell’ottobre 641 per divenire monaco appunto in Africa. Al suo posto era stato eletto
Paolo II, che era quindi patriarca della città regia già da alcuni anni quando fu eletto Teodoro
I.
La terminologia del Liber nei confronti di Pirro pone in risalto la consapevolezza della assoluta
autorità della sede romana in campo disciplinare e canonico, quando è questione delle conseguenze
di scelte relative al dogma della chiesa. Si sottolinea, innanzitutto, che Pirro giunse ad limina
apostolorum e che libellum obtulit cum sua subscriptione apostolicae nostrae sedis, dove è
forte il riferimento all’origine della sede romana. In particolare, quando Pirro in un primo tempo
sembrò manifestare il ripudio delle sue primitive prese di posizione condempnans in eodem libello omnia
quae [...] scipta vel acta sunt adversus inmaculatam nostram fidem il pontefice lo riconobbe come vescovo di
Costantinopoli, honorans eum ut sacerdotem regiae civitatis. La notizia dichiara così
l’autorità di Teodoro I e non dell’imperatore nel riconoscimento della retta fede della sede
di Costantinopoli, con le conseguenze canoniche che ne derivavano. Ed anche i fatti che sono raccontati dopo il
repentino ripensamento di Pirro manifestano come la sede romana fosse convinta della propria autorità non
solo in campo teologico, ma anche riguardo alle conseguenze che da esso derivavano.
Infatti, non appena fu evidente che Pirro ritornava al monotelismo, il pontefice come lo aveva, in un primo
momento, riconosciuto sacerdotem regiae civitatis così ora in ecclesia beati Petri apostolorum
principis, condempnavit eum sub vinculo anathematis, iuxta mercedem ac retributionem propriae trasgressionis,
canonicam penam sive depositionem decerpens: Teodoro I ne decretò così l’immediata
deposizione. Pirro, nell’ottica romana, dopo essere stato restituito agli onori del patriarcato, ne venne
subito deposto, mentre era Paolo II a continuare a sedere concretamente sulla sede costantinopolitana. Il
Liber vuole così mostrare che la questione della legittimità della deposizione dipende,
nella prospettiva romana, dalla retta fede e questa, a sua volta, dipende dalla comunione di fede con quanto
viene professato dalla sede apostolica.
Si deve qui notare che l’imperatore non viene mai nominato: non compare alcun riferimento alla sua
autorità politica[267]. L’accento è posto integralmente sulla questione della dipendenza
dogmatica e canonica del vescovo di Costantinopoli da quello di Roma.
Dello stesso tenore sono le espressioni del Liber che riguardano la vicenda di Paolo II, successore di
Pirro. Il Liber racconta che Teodoro I gli inviò una lettera affinché ad hortodoxam fidem
catholicae ecclesiae remearet[268]. Anche qui non ci si sofferma ad esplicitare le affermazioni teologiche
che sono in gioco. Il Liber si limita ad annotare le conseguenze canoniche che tennero dietro al rifiuto
del patriarca di accogliere la lettera del pontefice: propter quod iusta ab apostolica sede ipse depositionis
ultione perculsus est. Come con Pirro, così con Paolo II: il pontefice decretò la deposizione
del vescovo costantinopolitano.
Il Liber cerca così di mantenere la questione su di un piano strettamente canonico, senza mai
chiamare in causa l’imperatore ed attaccando propriamente solamente il patriarca. Ovviamente questo modo di
procedere, come il prosieguo della vicenda mostrerà, è antitetico a quello imperiale, dove ben
altra è la visione che si ha dei rapporti fra il sovrano ed i suoi vescovi: questi ultimi - in particolare
il patriarca, ma anche lo stesso vescovo di Roma - sono visti come personalità chiamate ad ottemperare al
volere del sovrano, anche in materia religiosa.
La biografia di Martino I descrive l’apice dello scontro tra il pontefice e l’impero, forse il
momento di crisi maggiore di tutto il VII secolo: si giungerà, infatti, alla morte in esilio del pontefice
che il Liber stesso, al termine della notizia, dichiarerà Christi confessor[269].
Anche in questa occasione il testo deve essere valutato nel rapporto fra ciò che è esplicitamente
affermato, ciò che si vuole lasciare intuire e ciò che si tace[270].
Come di consuetudine, anche per Martino I niente è detto riguardo all’approvazione imperiale
necessaria dopo l’elezione per l’ordinazione del pontefice. Gli studiosi concordano sulla data di
tale consacrazione che fissano, sulla scorta di Duchesne, al 5 luglio 649, mentre la morte di Teodoro I è
posta al 14 maggio[271];
è conseguentemente facile determinare che la distanza fra elezione ed effettivo inizio del ministero
petrino di Teodoro I fu di quasi due mesi. Di per sé, il lasso di tempo intercorso tra l’elezione e
la consacrazione del papa potrebbe far pensare ad una procedura identica a quella del suo predecessore Teodoro I.
Il lasso di tempo relativamente breve necessario per poter consacrare vescovo di Roma il nuovo eletto sarebbe
così dovuto all’attesa di un assenso giunto da Ravenna e non da Costantinopoli; per Martino I anzi
si attese qualche giorno in più che per Teodoro I, segno evidente che la consacrazione non fu
immediata.
Gli studiosi sostengono, però, senza eccezione alcuna, che la consacrazione avvenne per la prima volta
senza la iussio imperiale, anche se l’esiguità delle fonti non permette di essere certi a
questo riguardo. Il Liber non fornisce alcun dato in merito, lasciando intendere che nell’ottica
romana tutto sia avvenuto secondo tradizione e conformemente alla legge. Contemporaneamente, però, riporta
un indizio che lascia intravedere come Costantinopoli ritenesse invalida la procedura. Riferisce, infatti, che,
una volta che fu celebrato il sinodo Lateranense, l’esarca Olimpio fu inviato per ordine
dell’imperatore a far sottoscrivere a tutti i vescovi il Typos; le consegne che Olimpio ricevette
riguardavano anche la cattura del pontefice che è definito Martinum qui hic [cioè a
Costantinopoli] erat apocrisarius in regia urbe[272]. Il tenore del testo, nel quale manifestamente nelle parole imperiali
Martino I non è indicato come vescovo di Roma bensì con la sua precedente titolatura di
apocrisario, potrebbe rimandare ad un documento imperiale che accreditava l’esarca nel quale Martino I
poteva non essere considerato come pontefice legittimo; certamente qui il biografo pontificio è –
probabilmente con piena volontà - molto ellittico.
Lo stesso Martino I, nella lettera ad Theodorum, Noscere voluit[273], riferendosi alla decisione che era stata presa di
eleggere un nuovo pontefice, scrisse: jussio a Calliopa porrecta est presbyteris et diaconibus, in qua
humilitate meae abjectio continebatur, quod irregulariter et sine lege episcopatum subripuissem, et non essem in
apostolica sede dignus institui, sed omnimodis in hanc regiam urbem transmitti subrogato in loco meo
episcopo[274].
Ovviamente non era questa la posizione della sede romana che considerava Martino I il legittimo pontefice
ingiustamente destituito. Il Liber non entra così nel merito della questione e non fornisce
elementi che possano dirimere la questione se si sia di fronte ad un pretesto cercato dall’imperatore
oppure ad una vera e propria violazione del diritto, con una consacrazione avvenuta senza iussio
imperiale.
Per una valutazione storica della questione non si deve trascurare il fatto che, nelle fonti superstiti, la
principale accusa rivolta a Martino I in Costantinopoli fu, come si vedrà immediatamente, quella di aver
sposato la causa dell’esarca Olimpio quando quest’ultimo si dichiarò indipendente dal potere
imperiale, ergendosi per circa tre anni a signore dell’esarcato d’Italia.
Ma è ancora più rilevante per la questione della legittimità o meno della consacrazione di
Martino I un documento di prima mano che pone nella giusta prospettiva tutto l’accaduto, che fa dubitare
del fatto che il pontefice possa essere stato consacrato senza l’autorizzazione imperiale: si tratta della
lettera scritta dal pontefice all’imperatore[275], al termine del sinodo Lateranense, l’Epistola ad Constantem
imperatorem[276],
nella quale Martino I, firmandosi episcopus servus servorum Dei, unitamente all’universa synodus
in hac urbe Roma congregata, si rivolge all’imperatore per rendergli note le decisioni dogmatiche che
sono state assunte. Il pontefice paragona il suo ruolo e quello dei padri sinodali a quello dei magi che
portarono oro, incenso e mirra al Bambino Gesù e così si rivolge a Costante II: edocemus igitur
pium vestrum ac serenum imperium, quod in hac Dei amante et cultrice vestra urbe Roma convenientes nos omnes, qui
ad mansuetudinem vestram confugimus. La lettera prosegue affermando che il sinodo ha confermato la fede dei
padri, stabilendo che si debba parlare di due volontà in Cristo, quella divina e quella umana. Al termine
dello scritto inviato a Costantinopoli, Martino I condanna coloro che affermano una sola volontà in
Cristo, facendo esplicitamente i nomi di Teodoro di Faran, di Ciro di Alessandria e di Sergio, Pirro e Paolo,
patriarchi di Costantinopoli ed invita l’imperatore a fare in modo che la decisione presa a Roma sia
accolta in regia urbe insieme alle conseguenze che ne derivano per l’imperatore, chiamato ad essere
il custode dell’ortodossia cattolica, e cioè che egli condanni i monoteliti ed impedisca loro di
sostenere la loro erronea tesi teologica. L’argomento che è adoperato per questa invocazione, oltre
alla necessità di custodire la retta fede, è quello che mira ad incolumitatem reipublicae
vestrae, Christum amantis, ipsique servientis. Solet enim una cum orthodoxa fide status reipublicae florere.
Insomma Martino I non si pone assolutamente come un ribelle all’interno della compagine statale. Egli,
anzi, rovesciando gli argomenti costantinopolitani che vedevano nell’accoglienza del Typos la chiave
della cessazione delle divisioni all’interno dell’impero, propugna lo stesso obiettivo, quello
dell’unità religiosa necessaria a sostenere la concordia nella compagine imperiale, ma a partire da
quella che ritiene essere la vera ed unica dottrina, quella della duplice volontà del Cristo. La lettera
rende manifesto che l’operato di Martino I non si poneva lo scopo di operare in segreto, bensì di
coinvolgere esplicitamente l’imperatore nella difesa delle tesi romane. Tale obiettivo si
manifesterà come assolutamente ingenuo, relativamente alle immediate conseguenze, ma risulterà
vincitore nel lungo periodo. Sembra comunque evidente che Martino I non avrebbe potuto rivolgersi in questo modo
all’imperatore, se fosse stato consacrato senza la sua autorizzazione.
Non c’è così opposizione fra la linea tenuta nella lettera rivolta direttamente
all’imperatore perché non solo accolga, ma addirittura difenda le posizioni romane, e la linea di
condotta che si manifesta nella biografia di Martino I, dove il pubblico accusato è il patriarca Paolo II
e non l’imperatore. L’obiettivo esplicito è Paolo II; egli è accusato dal Liber
della scrittura del Typos, cioè del nuovo documento sulla questione monotelita redatto nel 648,
quindi ancora vivente Teodoro I, del quale il Liber sintetizza la posizione dogmatica: nec unam nec
duas voluntates aut operationes in Christo domino nostro definiens[277]. Il Liber non si dilunga, però, come
avrebbe fatto un documento interessato alle questioni dogmatiche, a confutare queste asserzioni. Descrive,
invece, il comportamento di Paolo che inflatus superbie spiritu adversus rectum sanctae Dei ecclesiae
dogma si rivolse all’imperatore ut et clementissimo principi suadere typum exponere qui catholicum
dogma distrueret[278]. Qui l’imperatore è esplicitamente nominato, ma con
l’aggettivo clementissimus, ed è soprattutto presentato come persuaso, quasi suo malgrado,
dal patriarca.
Un particolare deve essere adeguatamente valorizzato per una piena comprensione dell’intera
vicenda[279] e,
cioè, che l’imperatore Costante II, divenuto sovrano nel 641 all’età di undici anni,
aveva al momento della promulgazione del Typos circa diciotto anni - ne avrà diciannove al momento
della decisione di intervenire con la forza contro papa Martino I. I torbidi che avevano preceduto la sua ascesa
al trono avevano visto in lotta il senato contro Martina, nipote e moglie di Eraclio, che voleva che assurgesse
al potere il figlio Eracleona. Il senato era risultato vincitore ed aveva imposto Costante II come legittimo
imperatore, giocando un ruolo decisivo nella partita.
Non è da escludere, pertanto, che anche la giovanissima età dell’imperatore abbia giocato un
ruolo nell’attribuzione delle responsabilità da parte della sede romana che metteva sotto accusa
direttamente la figura del patriarca e non quella dell’imperatore. La sede apostolica doveva ritenere che
il giovanissimo imperatore dipendesse ancora dagli ambienti della corte costantinopolitana ed, in particolare,
dal patriarca della città. D’altro canto, la linea di evidenziare le responsabilità dei
diversi patriarchi, evitando di criticare direttamente gli imperatori, è costante nelle biografie dei
pontefici del VII secolo e la notizia di Martino I appare, da questo punto di vista, perfettamente in linea con
le precedenti e le successive. Il Liber, infatti, conferma la linea che era già stata assunta da
Teodoro I, nella vicenda di Pirro e di Paolo II, scegliendo ancora la via di attribuire tutte le
responsabilità al patriarca tacendo quella dell’imperatore. Questa volta, però, la via di
sostenere con nettezza sempre maggiore la posizione ditelita, professando al contempo piena fedeltà
all’imperatore, pretendendo anzi che egli si comportasse come primo difensore della sede apostolica in
materia di fede, si rivelerà impraticabile. Nella vicenda di Martino I emergeranno così, alla
metà del VII secolo, tutte le questioni storicamente irrisolte dei rispettivi ruoli dell’imperatore
e del pontefice all’interno dell’unica respublica.
È difficile, in conclusione, affermare con certezza se Martino I e la curia romana si siano attenuti alla
legislazione vigente che prevedeva l’attesa della iussio, ma certo questa sembra l’ipotesi
più probabile.
Lo strappo grave che, invece, certamente avvenne dipendeva piuttosto dalla ferma risoluzione di Martino I nel
sostenere la fede ditelita, in esplicito contrasto con la linea che era stata di Eraclio ed in altrettanto
esplicito contrasto con il Typos di Costante II che invitava al silenzio sull’intera questione. La
vicenda pone, infatti, in risalto un reale e profondo contrasto fra la sede imperiale e quella romana. È
questo, in fondo, ad essere certo: che Martino I venne denunciato da Costantinopoli come un ribelle
all’autorità imperiale.
Il Liber, dopo le righe iniziali, descrive l’immediata reazione costantinopolitana non appena fu
evidente la posizione della sede romana che non accettava il silenzio imposto dal Typos sulla questione
monotelita, ma anzi richiedeva all’imperatore una esplicita dichiarazione che sconfessasse pubblicamente il
monotelismo. La biografia di Martino I si sofferma così sulle conseguenze che i rappresentanti di Roma ed
in primis l’apocrisario dovettero subire. Come si è appena detto, mai viene menzionato
l’imperatore come mandante degli atti ostili ai delegati romani, sebbene della sua responsabilità
gli autori del Liber pontificalis dovevano essere ben consci. Costante II non appare mai protagonista
dell’azione ed il testo si appunta contro un unico nominativo, Paulus, Constantinopolitanae urbis
episcopus: ipse inlicite praesumere studuit, in tantum ut altare sanctae nostre sedis qui erat in domo
Placidiae sacratum in venerabili oraculo subvertens deripuit[280]. Il Liber continua ricordando come
all’apocrisario di Roma fu interdetta la celebrazione e come gli esponenti della teologia ditelita furono
perseguitati con l’esilio o puniti con nerbate.
A questo punto Martino I fecit synodum secundum instituta Patrum orthodoxorum in ecclesia Salvatoris e
tutti i convenuti condemnaverunt Cyrum Alexandrinum, Sergium, Pyrrum et Paulum patriarchas
Constantinopolitanos, anatematizzandoli[281].
Con particolare insistenza si sottolinea la documentazione che venne prodotta e successivamente inviata: Quem
synodum hodie archive ecclesiae continetur.Et faciens exemplaria, per omnes tractos Orientis et Occidentis
direxit, per manus orthodoxorum fidelium disseminavit[282].
Come è noto l’edizione critica degli atti del sinodo Lateranense del 649, ad opera del monaco
benedettino Rudolf Riedinger, ha portato ad una radicale reinterpretazione di quanto avvenne durante il primo
anno di pontificato di Martino I[283]. Risulta, infatti, assodato, dopo i suoi studi filologici, che il testo greco
di quegli atti non è la traduzione di un presunto originale latino, bensì l’originale stesso.
Il materiale non sarebbe stato prodotto ad hoc durante il Concilio, bensì preparato durante il
precedente pontificato di Teodoro I, poiché solo questa preparazione remota spiegherebbe la sua
disponibilità in un lasso di tempo così breve, immediatamente dopo l’estate del 649. Il
principale ispiratore e, probabilmente, l’estensore stesso di alcuni dei passaggi più significativi
degli atti conciliari fu Massimo il Confessore, di cui si è già parlato. Dall’analisi
filologica del Riedinger emerge così che il sinodo Lateranense che nel 649 condannò il monotelismo
non si svolse con sedute e dibattiti successivi, secondo la sequenza degli eventi che gli atti stessi descrivono,
ma fu piuttosto un momento di ratifica della posizione romana in materia che era stata precedentemente messa per
iscritto.
Ai fini di questa ricerca[284] ciò che è importante innanzitutto sottolineare, prima di
analizzare le conseguenze che il sinodo ebbe nei rapporti fra Roma e l’impero, è la grande
capacità della cancelleria romana di lavorare in questa circostanza nelle due lingue greca e latina. La
notizia del Liber sulla conservazione in archivio e la diffusione degli atti del Concilio, sebbene in
prima battuta sia tesa a garantire l’autenticità della decisione assunta, lascia nondimeno
trasparire la fierezza dello scrinium pontificio, del quale gli estensori del Liber fanno parte,
capace di una mole così grande di lavoro e dotato di un sistema di archiviazione che conserva traccia per
i posteri dell’operato della sede apostolica. La produzione in due lingue di una mole così ingente
di materiali come è la documentazione del sinodo è chiaro indizio della permanenza della
capacità di produrre cultura nella Roma della metà del VII secolo. La curia pontificia si rivela
così una struttura importante di continuità che trasmette alle generazioni successive il patrimonio
culturale ereditato dall’antichità o prodotto ex novo, attraverso l’elaborazione di
documenti scritti ed, ancor prima, attraverso l’insegnamento dei metodi propri di questa tradizione
manoscritta e della sua archiviazione. La produzione della documentazione del sinodo Lateranense del 649 è
un chiaro segnale dell’alta qualità delle capacità scrittorie che lo scrinium
pontificio aveva ereditato dalla Roma tardoimperiale; tali abilità costituivano un presupposto
imprescindibile dell’amministrazione dell’urbe come dei territori circostanti ed insieme la
condizione per la tessitura di tutte le relazioni diplomatiche intrattenute dalla sede romana. In questa
prospettiva le tesi del Riedinger, che vedono gli atti del sinodo Lateranense come un prodotto nato a tavolino
dalla collaborazione dei monaci greci capeggiati da Massimo con i pontefici Teodoro I e Martino I ed il loro
entourage, non solo non diminuiscono, ma anzi, per un certo verso, accrescono ancor più la
considerazione che si deve avere dell’organizzazione lateranense del tempo, capace di giovarsi dei
contributi ad essa conformi, in questo caso gli scritti in greco di Massimo e dei suoi monaci, e di rivolgerli
nella prospettiva considerata la più congrua.
Si è già detto come fin qui, nella notizia su Martino I, il Liber cercasse di minimizzare
l’opposizione con il sovrano. Il prosieguo del racconto non può, però, tacere l’ordine
proveniente direttamente da Costante II che organizzò una azione di forza contro il pontefice, anche se,
ancora una volta, la biografia non trascura di porre in rilievo il nefasto consiglio del patriarca Paolo II,
quasi a sminuire, per quanto possibile, le responsabilità imperiali.
Scrive, infatti, il Liber che l’imperatore inviò l’esarca e cubiculario Olimpio ad
regendam omnem Italiam[285]. Questa espressione manifesta ancora una volta come i possedimenti imperiali
nella penisola siano considerati come appartenenti ad un’unica entità, sotto la
responsabilità dell’esarca. Il Liber non si oppone assolutamente a questa visione
politica[286]: essa non
è enfatizzata, ma accolta come un dato di fatto indiscutibile. L’accento cade, invece, sulle precise
disposizioni in materia religiosa che Olimpio ricevette. Egli doveva far sì che tutti sottoscrivessero il
Typos. Il comando che egli ricevette proveniva dalla bocca dell’imperatore, ma il Liber
subito aggiunge sicut suggessit Paulus patriarcha[287], nell’evidente tentativo diplomatico di non rompere completamente con
l’imperatore.
L’azione di Olimpio dipendeva, però, da una valutazione della situazione che egli doveva previamente
definire: egli doveva, prima di agire, valutare si potueritis suadere exercitu... si inveneritis
contrarium...[288].
La richiesta di una previa analisi delle possibili reazioni dell’esercito proveniva, a dire del
Liber, dall’imperatore stesso, ma, al contempo, dal consiglio del precedente esarca Platone e del
suo collaboratore Euprassio: quomodo nobis suggessit Platon gloriosus patricius, Eupraxius gloriosus. Il
fine di questa prudenza è chiaramente indicato dall’imperatore: donec optinueritis provinciam et
potueriritis vobis exercitum adgregare, tam Romane civitatis atque Ravennate, ut ea quae vobis praecepta sunt
quantocius explere valeatis[289].
La terminologia manifesta ancora una volta che l’esarcato d’Italia comprendeva senza soluzione di
continuità il territorio che andava da Roma a Ravenna, ma che, nonostante questa unità, non vi era
alcuna certezza che un intervento contro il pontefice trovasse consenziente tutto l’esercito.
L’imperatore, insomma, doveva avere la consapevolezza che l’exercitus romanus,
quell’esercito che era alle sue dipendenze ed al suo soldo, avrebbe potuto essere contrario ad una azione
contro la chiesa di Roma. È qui evidente che gli armati erano sempre più legati al territorio ed,
in qualche modo, indipendenti dal governo centrale. Se, formalmente essi difendevano il potere
dell’imperatore nell’esarcato, in realtà, essi si sentivano ormai fortemente legati al
benessere delle diverse città e regioni dove erano di stanza ed, in particolare, dovevano essere
particolarmente legati alla figura stessa del papa.
Il passaggio obbligato indicato da Costante II ad Olimpio per ottenere che i vescovi d’Italia
sottoscrivessero il Typos era quello di tenere Martinus. Niente è detto di una eventuale
influenza di Martino I stesso sull’exercitus, almeno quello di stanza nell’urbe[290], ma certo la necessità
di ridurre all’impotenza Martino I per poter poi agire liberamente dipendeva dalla consapevolezza che
l’episcopato doveva essere in piena sintonia con lui, di modo che senza una diretta azione sul pontefice,
gli obiettivi prefissati dall’imperatore sarebbero stati irrealizzabili.
Il Liber prosegue, non descrivendo dettagliatamente lo svolgersi degli avvenimenti, ma evidenziando le
diverse forze in campo. Afferma che Olimpio, armans se cum virtuti exercitu[291], cercò di dividere coloro che erano
favorevoli a Martino I, senza riuscirvi. Hoc per plurimum tempus actum est, accrescendo la consapevolezza
che non si sarebbe giunti facilmente ad una resa dei conti. Dall’insieme si concentra poi sui due
protagonisti, Olimpio ed il pontefice: l’esarca, non riuscendo ad imporre la propria autorità
attraverso le forze armate a lui fedeli, decise subreticio modo di inviare il suo spatarius ad
uccidere il pontefice, avvicinandolo mentre celebrava l’eucarestia ed eliminandolo così durante la
liturgia. Ma, contro questo progetto, il Liber racconta che lo stesso Dio onnipotente excecavit
spatarium Olympii exarchi, et non est permissus videre pontificem, quando exarcho communionem porrexit vel pacem
dedit[292].
L’esarca, allora, vedendo che Dio stesso proteggeva Martino I, decise cum pontifice concordare e,
facta pace cum sancta Dei ecclesia, colligens exercitum, profectus est Siciliam adversus gentem Saracenorum,
qui ibidem inhabitabant[293]. La svolta appare qui repentina: Olimpio passa dal conato omicida ad una
pace con il pontefice. In realtà è più probabile che il lungo lasso di tempo trascorso senza
che fosse possibile portare a compimento gli ordini ricevuti dall’imperatore fu dovuto al larghissimo
consenso che il papa godeva non solo fra la popolazione romana, ma ancor prima nell’exercitus
romanus stesso, di modo che un intervento contro Martino I avrebbe significato lo scoppio di una insurrezione
popolare e, forse, militare. Il pontefice, anche se la notizia è colorita con tratti leggendari, appare
avvicinabile a tu per tu solamente nel momento in cui, durante la celebrazione eucaristica, distribuisce la
comunione o offre lo scambio di pace, mentre altrimenti appare saldamente circondato da persone di sua
fiducia.
L’exercitus romanus e la popolazione dell’urbe dovevano essere talmente contrari alla
realizzazione delle decisioni imperiali contro Martino I che Olimpio decise allora di utilizzare la situazione
per fini personali, proclamandosi signore dell’esarcato. Il Liber non racconta apertamente di questo
tentativo di sedizione di Olimpio, che è noto da altre fonti, poiché il più grave capo di
accusa che di fatto sarà rivolto a Martino I, durante il processo, riguardò proprio il suo rapporto
con Olimpio, quando quest’ultimo si rese indipendente dall’imperatore.
Della rivolta dell’esarca tratta esplicitamente la Commemoratio[294] che, insieme alle lettere che Martino I inviò
dall’esilio, è una delle fonti più importanti per ricostruire gli avvenimenti. Martino I fu
interrogato sprezzantemente con la domanda: Qualis homo es tu, quoniam cernens et audiens talia contra
imperatorem nitentem effondiendum Olympium, non prohibuisti eum, sed e contra consensisti ei? La
Commemoratio sostiene inoltre che accusatori del pontefice furono proprio alcuni militari che si erano
schierati con Olimpio e che, evidentemente, lo avevano abbandonato una volta caduto in disgrazia.
Martino I rispose alle accuse, secondo la Commemoratio, affermando che era impossibile opporre resistenza
all’esarca, dal momento che nemmeno gli ufficiali imperiali vi erano riusciti: Cum praecepto imperatoris
indutus est purpura, et consedit ei, quo ieratis vos? Non eratis hic? Cur ergo non prohibuistis eum dicenteas:
Non attingas res non opportunas tibi? Nonne omnes e contra convenistis ei? Quomodo habeam ego tali viro adversus
stare, habenti praecipue brachium universae militiae Italicae? An potius ego illum feci exarchum?
La Commemoratio è un documento apertamente schierato a favore del pontefice. Ne è una difesa
ed una apologia che lo presenta come un alter Christus con espliciti riferimenti al processo di
Gesù narrato nel Nuovo Testamento; nondimeno sembra indubitabile che la principale accusa rivolta a
Martino I fu proprio quella del suo presunto appoggio ad Olimpio, proclamatosi sovrano. Questo capo di
imputazione dovette essere scelto a Costantinopoli per imbastire il rapidissimo processo il cui esito era
già determinato in partenza, senza affrontare la questione del rifiuto di Martino I di osservare il
Typos ed il conseguente atto di convocare un sinodo in merito, diffondendone gli atti. Anche la questione
della presunta illegittimità dell’elezione, come si è già vista, non sembra sia stata
sollevata come principale capo di imputazione.
La rivolta di Olimpio si inserisce nel contesto dei precedenti tentativi insurrezionali cui il Liber aveva
dato grande risalto e, precisamente, quello di Giovanni di Conza durante il pontificato di Deusdedit, quello di
Eleuterio durante il pontificato di Bonifacio V, quello di Maurizio durante il pontificato di Teodoro I. Due
delle precedenti ribellioni erano state opera di alti ufficiali che si erano rivoltati contro l’esarca -
è il caso di Giovanni di Conza e di Maurizio - mentre il caso di Olimpio è simile a quello di
Eleuterio che, come si è visto, si era dichiarato sovrano in Italia, ed a quello, ancor più vicino
cronologicamente, dell’esarca di Cartagine Gregorio il cui tentativo di reggere l’esarcato
d’Africa si era spento nel 647[295].
Dell’azione di Olimpio, il Liber si limita a descrivere la fine[296]: l’esarca dovette scendere nel sud d’Italia
a combattere la gens Saracenorum, che già premeva sulla Sicilia[297]; l’episodio manifesta che l’isola
apparteneva pienamente all’esarcato, anzi che era regione di importanza strategica per il benessere
dell’Italia imperiale, poiché da essa provenivano molti degli approvvigionamenti alimentari.
Come nel caso di Cartagine, anche qui l’esito della rivolta fu deciso dalla nuova potenza emergente degli
arabi, descritti dal Liber come coloro qui inhabitabantSiciliam[298].
Nella campagna contro i saraceni, Olimpio morbo interiit. L’intera spedizione non ebbe successo,
secondo il dettato del Liber, a motivo del peccato precedentemente commesso: peccato faciente maior
interitus in exercitu Romano provenit. L’espressione è ambigua ed evita di chiarire a quale
peccato si faccia riferimento. Il redattore della biografia, certamente a conoscenza delle accuse rivolte a
Martino I, potrebbe aver utilizzato questa espressione perché il lettore potesse pensare al peccato di
sedizione dall’impero. Più probabilmente, però, il peccato in questione è il tentativo
di uccisione del pontefice: per il Liber la pestilenza che colpì l’esercito e lo stesso
esarca, ponendo fine alla rivolta di Olimpio, ebbe come causa l’ira divina contro i nemici del pontefice,
sebbene essi non fossero stati in grado di portare a compimento le trame ordite contro il papa. Certamente, il
Liber vuole segnalare una distanza tra Martino I e l’esarca, nonostante la pace stabilitasi tra i
due dopo il fallimento del tentativo di uccisione del pontefice: Olimpio è gravato dalla colpa, mentre
Martino I è il protetto di Dio.
Terminò così nel 652 con una morte improvvisa il breve regno di Olimpio, ma non ebbero termine le
tensioni fra Roma e Costantinopoli. L’imperatore, alla notizia della morte di Olimpio, inviò un
nuovo esarca, Teodoro Calliopa, già noto al Liber dalla vita di Teodoro I[299]. Questa volta gli ordini
imperiali furono portati a compimento: tollentes sanctissimum Martinum papam de ecclesia Salvatoris, qui et
Constantiniana appellatur, quem perduxerunt Constantinopolim[300].
Si noti l’enfasi posta nell’indicare che la basilica del Laterano, nota anche come basilica del
Santissimo Salvatore, portava anche l’antico nome di Constantiniana; con questa menzione, che
precede immediatamente il nome della capitale dove fu tradotto prigioniero il pontefice, si vuole probabilmente
alludere al fatto che il disprezzo che l’imperatore aveva mostrato verso Martino I, lo poneva in una linea
che era in profonda dissonanza da quella inaugurata dal suo illustre predecessore Costantino che proprio quella
basilica aveva donato alla chiesa di Roma[301].
La seconda lettera del pontefice dall’esilio lascia, comunque, intuire che anche questa volta Martino I
avrebbe potuto contare su di un forte appoggio non solo del clero, ma della popolazione stessa della
città. Non è chiaro, invece, come fossero schierate le magistrature cittadine, gli iudices,
dopo la fine di Olimpio e del suo progetto di indipendenza.
Nella lettera Noscere voluit[302] è lo stesso Martino I a ricordare che il Calliopa, giunto di sabato
nell’urbe cum Ravennati exercitu, immediatamente si insediò in palatio. Il particolare
è una conferma della riconosciuta legittimità della presenza dei rappresentanti imperiali
nell’urbe. Il palazzo del Palatino è a tutti gli effetti ancora il palazzo imperiale – e, come
si vedrà, sarà ancora dimora proprio dell’imperatore Costante II, nell’ultima visita di
un imperatore di Costantinopoli a Roma. È da quel palazzo, che continuava ad essere la residenza degli
imperatori romani e dei loro ufficiali, che gli esarchi, quando risiedevano in Roma, disbrigavano gli affari che
ordinariamente, per comodità, gestivano dalla più lontana Ravenna. Evidentemente addetti militari e
esponenti della corte dovevano risiedervi stabilmente, perché il palazzo fosse sempre in ordine ed in
condizioni tali da poter accogliere l’esarca non appena lo desiderasse. Per il Liber è
così assolutamente naturale che Teodoro Calliopa attenda il maturare degli eventi dal palatium del
Palatino.
La lettera Noscere voluit sottolinea, però, che l’esarca non si recò subito a
prelevare il pontefice per deportarlo. Preferì lasciar passare il sabato e la domenica, suspicatus ille
turbam magnam colligi propter diem; Martino I fa certamente riferimento alla grande folla che doveva sempre
accorrere per le celebrazioni domenicali, ma il fatto che egli si fosse fatto porre, malato, disteso su di un
letto, dinanzi all’altare maggiore del Laterano, non poteva non rendere evidente alla popolazione romana
che egli chiedeva loro di manifestargli la propria solidarietà nella speranza che, dinanzi a a tanto
accorrere di popolo, l’esarca non avrebbe profanato la basilica, usandogli violenza e catturandolo.
L’esarca, invece, inviati dei militi nel giorno di domenica a controllare che non ci fossero armi in
basilica, portò a termine l’azione contro Martino I nella notte, evidentemente proprio per evitare
che la popolazione si opponesse ai disegni imperiali. Non solo ma, una volta condotto Martino I al
palatium, preferì che egli sempre di notte fosse fatto uscire dalla città, le cui porte
furono subito chiuse et sic remanserunt, ne exirent a civitate aliqui, et veniret ad nos in portu, donec
illinc navigassemus. Tutto è approntato dall’esarca per impedire una azione della popolazione,
che egli doveva temere, in favore del pontefice.
Il Liber informa poi con sobrietà[303] dell’esilio e successivamente della morte di Martino I: vitam finivit
in pacem, Christi confessor[304]. Le lettere dall’esilio fanno comprendere chiaramente come si volle non
solo una esplicita condanna del pontefice, ma molto più radicalmente una sua profonda umiliazione. Si
pensi solo ai quadraginta et septem dies nei quali, come Martino I stesso racconta nella lettera
Noscere voluit[305], gli fu impedito di lavarsi o ancora ai nonaginta tres dies, enumerati
dall’autore della Commemoratio, che il pontefice dovette vivere in carcere in attesa del processo
che decise in un solo giorno la sua condanna a morte, o ancora all’apparizione cui fu costretto Martino I
in solarium expositionis, ad hippodromium, dove, dinanzi alla multitudo populorum ed in
praesentia totius senatus fu pronunciata la condanna a morte Ecce dereliquisti Deum et dereliquit te
Deus, dopo la quale gli furono stracciati al cospetto di tutti gli abiti pontificali che portava. La pena di
morte fu infine commutata, per intercessione del patriarca Paolo che era gravemente malato, in esilio. Anche
quest’ultimo fu durissimo ed il pontefice visse di stenti a Cherson nell’odierna Crimea, abbandonato
da tutti, fino alla morte avvenuta nel 655.
La notizia si conclude, prima di fornire l’abituale elenco delle ordinazioni, con un accenno ai miracoli
operati dal pontefice: qui et multa mirabilia operatur usque in hodiernum diem[306]. La menzione dei miracoli li
presenta come una conferma divina dell’assoluta bontà dell’operato di Martino I che nella
biografia è definito ben cinque volte sanctissimus. Come il miracolo divino, accecando lo spatario
che doveva uccidere il pontefice, aveva convinto Olimpio di essere a sancta catholica et apostolica ecclesia
superatum, poiché Dio onnipotente solitus est servos suos orthodoxos circumtegere et ab omni malo
eripere, così ora i miracoli erano segno evidente della veracità delle posizioni di Martino I e
dell’enorme ingiustizia che egli aveva dovuto subire. Era dunque necessario per tutti - ed, in
primis, per la casa imperiale - rileggere tutto ciò che era accaduto con quegli occhi nuovi che
già Olimpio aveva ricevuto dopo il prodigio della cecità del suo servo: videns ergo Olympius
exarchus quia manus Dei circumtegebat Martinus sanctissimum papam, necesse habuit se cum pontifice
concordare.
Le vite dei pontefici che vanno da Severino a Martino I lasciano chiaramente intravedere lo sviluppo storico
delle diverse istituzioni che sono già state evidenziate nel primo capitolo di questo lavoro e, al
contempo, permettono di individuare l’evoluzione dei rapporti che intercorrono tra esse.
Si è visto come un primo elemento per comprendere quale fosse l’effettiva autonomia del vescovo di
Roma sia quello dell’elezione pontificia stessa e della successiva ratifica imperiale che permetteva
all’eletto di giungere all’ordinazione episcopale e così all’effettivo inizio del
ministero papale.
Con il pontificato di Severino il Liber segnala esplicitamente, per la prima volta, il ritardo della
iussio imperiale, a motivo del quale l’eletto non ancora consacrato si trova a dover affrontare in
una posizione di debolezza l’assedio del patriarchio da parte dell’exercitus[307].
Nelle due vite successive, quelle di Giovanni IV e di Teodoro I, si torna al silenzio su questa complessa
questione, anche se l’autorizzazione giunse rispettivamente dopo circa sei e due mesi.
Nella vita di Martino I il Liber non è esplicito in merito, lasciando intravedere che il
Liber, pur rifiutando che la procedura della consacrazione del pontefice fosse stata illegittima, sembra
essere consapevole che a Costantinopoli si fosse di diverso parere.
Certo è che con il pontificato di Martino I l’impero si intrometterà ancora più
pesantemente nella questione, deponendo il pontefice ed autorizzando l’elezione di un nuovo candidato
mentre Martino I era ancora in vita.
Tutto conferma ciò che si è già visto per il periodo immediatamente successivo a Gregorio
Magno. L’elezione del vescovo di Roma avviene immediatamente dopo la morte del precedente pontefice,
indipendentemente da una supervisione imperiale, ma l’effettivo inizio del ministero non può avere
principio senza che il sovrano esprima il suo consenso.
Nel caso di Severino balza all’evidenza come l’autorizzazione imperiale non sia una pura
formalità, ma come il ritardo della iussio sia utilizzato come forma di pressione perché il
pontefice aderisca previamente alla linea teologica costantinopolitana.
Se l’episodio dell’assedio del Laterano e del saccheggio del vestiarium si conclude senza che
il papa sia obbligato a prendere posizione sul monoenergismo, quasi ci si fosse limitati ad una seria messa in
guardia per l’avvenire, ben più lontano giungono gli interventi dell’imperatore nel caso di
Martino I. Il Liber dichiara, come si è visto, che subito l’esarca Olimpio ricevette
l’ordine di tenere Martinum[308]. Immediata appare in questo caso la reazione imperiale alla elezione del
pontefice; la decisione di sbarazzarsi della figura di Martino I viene presa prima ancora di ricevere notizia
della conclusione del sinodo Lateranense. Stando alle parole del Liber, la volontà di intervenire
nei fatti della Sede romana prevede anche la possibilità dell’uccisione del pontefice stesso, che
viene affidata allo spatarius dell’esarca.
Se anche l’episodio contiene dei tratti leggendari con l’esaltazione della protezione divina che
libera il pontefice dai pericoli, certo l’intento della sua deportazione è antecedente alla rivolta
di Olimpio ed è implicito fin dall’inizio dell’intervento imperiale. Si può ipotizzare
che la visione costantinopolitana resti fedele ad una prospettiva che non pretende di imporre una propria
candidatura per l’elezione a vescovo di Roma, ma si attende piuttosto che, chiunque sia l’eletto, sia
sottomesso in tutto all’imperatore, anche nelle decisioni riguardanti il dogma.
Il successivo invio del Calliopa ripete la missione già fallita con Olimpio e segnala, ulteriormente, che,
alla metà del VII secolo, ove l’imperatore volesse far pesare la propria autorità sui suoi
sudditi, ivi compreso il pontefice stesso, nessuno fosse, alla resa dei conti, in grado di opporre resistenza. Il
vescovo di Roma ed i suoi elettori godono quindi di una amplissima libertà al momento dell’elezione,
ma all’eletto è chiesto da Costantinopoli di conformarsi poi alle direttive imperiali.
Nonostante le pesanti accuse rivolte a Martino I, per le presunte irregolarità in merito alla sua
consacrazione e per il sostegno dato ad Olimpio che le fonti non permettono con certezza né di avallare
né di escludere, non può essere messo in dubbio che l’appartenenza all’unico impero,
all’unica res publica, è ancora l’unico orizzonte presente e, più ancora,
l’unico possibile nella mens della sede apostolica.
Già nella notizia su Severino, se da un lato il Liber attesta la convinzione che, nell’ottica
romana, l’intervento del cartulario Maurizio sia ascrivibile alla responsabilità dell’esarca
Isacio e questa, a sua volta, dipenda dall’imperatore Eraclio stesso, al quale perviene infine parte del
bottino del saccheggio dell’episcopio lateranense, nondimeno si sottolinea esplicitamente che questa azione
si pone in esplicita antitesi con ciò che diversi christianissimi imperatores e, con loro,
patricii et consules avevano operato, beneficando la sede romana[309]. Questa menzione del passato richiama ad un modello che
si ritiene normativo, anche se viene smentito di fatto, ma non muta l’orizzonte al quale si invita ad
attenersi. Il fatto che, secondo la concorde interpretazione degli studiosi, la notizia attesti che le paghe dei
soldati imperiali di stanza nell’urbe erano ormai abitualmente custodite nell’episcopio lateranense
è un dato che dice di per se stesso quanto stretto fosse il nesso intrinseco che univa l’impero e la
sede apostolica.
Nella notizia su Teodoro I la condanna romana della rivolta di Maurizio contro l’esarca è evidente.
La sua azione anti-imperiale viene presentata congiuntamente al ricordo delle malvagità che lo stesso
aveva già operato al momento della depredazione del vestiarium lateranense. Egli, infatti, è
colui per quem multa mala operatus est Isacius patricius, cum iam increvisset peccata eius beato Petro
apostolo ut eos hereditaret ignis inextinguibilis[310]. La sua rivolta contro Isacio non è una ribellione giusta contro
l’ingiusto esarca che Roma sapeva responsabile dell’ordine di agire contro il patriarchio, ma
è un’ulteriore aggravante dell’operato di Maurizio. Il magister militum Dono, inviato
da Isacio a reprimere la rivolta, non ha che da presentarsi in città perché la rivolta di Maurizio
si dissolva immediatamente. L’arrivo di Dono nell’urbe è descritto con la semplicissima
espressione ingressus Romam: ancora una volta il rappresentante del potere imperiale entra a suo
piacimento, non da invasore, ma come legittima autorità, in Roma.
Nel seguito della notizia, la sede dei patriarchi Pirro e Paolo viene sempre indicata come regia civitas,
come la città cioè nella quale il rex risiede e dalla quale governa
l’impero[311].
Roma riconosce come legittimo patriarca Pirro, poi lo anatematizza, scrive a Paolo e giunge infine a deporre
formalmente anche lui, ma tutto questo avviene, nell’ottica della sede romana, a motivo della legittima
cura che il pontefice deve avere della retta dottrina dell’intera chiesa e, conseguentemente, senza che
questo comporti una minima menomazione dell’autorità imperiale. Il fatto che il sovrano, come si
è visto, a motivo dell’età sia probabilmente ancora profondamente influenzato dalla corte che
lo circonda non è minimamente menzionato; mai, in alcun modo, una parola è rivolta contro
l’autorità imperiale che è a capo dell’intero impero e, con esso, dell’Italia, di
Ravenna e di Roma stessa.
In quest’ottica deve pure essere collocata la vicenda più significativa, quella che vide al centro
l’operato di Martino I. Tutti gli studiosi insistono sulla riverenza e l’ossequio formale
all’imperatore che traspare in ogni riga del Liber, mentre ogni responsabilità è fatta
ricadere sui diversi patriarchi ed, in particolare, su Paolo II. Se dubbi possono essere insinuati sulla
presentazione che il Liber fa della figura di Costante II, dissimulando forse la consapevolezza che egli
era il responsabile ultimo, nonostante la giovane età, dell’emanazione del Typos, certo
è che, comunque, la figura stessa dell’imperatore non viene messa in discussione e le critiche si
rivolgono, sebbene velatamente, solo al suo specifico operato. Il fatto che il Liber non metta minimamente
in dubbio la legittimità del sovrano costantinopolitano combacia perfettamente con la lettera del
pontefice all’imperatore, di cui si è scritto sopra, nella quale, appena terminato il sinodo
Lateranense, Martino I si rivolge proprio a Costante II per chiedergli di far valere in tutto l’impero le
decisioni prese dal sinodo Lateranense. Roma, insomma, non si pone al di fuori dell’unica
respublica, ma anzi, pretende che le conclusioni sinodali siano vincolanti a Costantinopoli ed in tutti
territori sotto il controllo della capitale. I testi non permettono di scorgere altro orizzonte.
Proprio questa prospettiva che non conosce alternativa alla metà del VII secolo spiega anche la reazione
imperiale, destinata a segnare una tappa che si sedimenterà nella memoria della sede romana e che, nei
successivi pontificati, si rivelerà come un elemento decisivo di maturazione della consapevolezza romana.
L’invio in successione di due esarchi, Olimpio e Teodoro Calliopa, allo scopo di mettere a tacere con la
forza il pontefice è un evento che si pone in continuità con la politica imperiale già
chiaramente indicata nei fatti dell’assedio del Laterano sotto Severino e nel conseguente esilio dei
primates della chiesa di Roma, ma ovviamente la spinge al suo limite estremo. L’imperatore dimostra
di voler essere ancora il responsabile ultimo della vita della chiesa e di non essere disposto ad arrestarsi
dinanzi a nessuno, fosse pure lo stesso pontefice, in questa direzione.
In questo contesto appare corretto leggere nella relazione che dovette intercorrere fra il pontefice ed Olimpio
non tanto un desiderio pontificio di sganciamento politico da Costantinopoli, cosa che non appare nemmeno
pensabile nell’orizzonte ideale che si sta analizzando in questo lavoro[312], quanto piuttosto la presa di coscienza dei rischi
che poteva correre Roma all’interno dell’unica respublica.
Olimpio e Teodoro Calliopa sono, comunque, per lo scrinium pontificio i legittimi rappresentanti
dell’imperatore, sono gli esarchi ai quali il pontefice è tenuto ad essere fedele, anche se il loro
legittimo arrivo in Roma, il loro risiedere in quel palatium che è sempre pronto ad accoglierli e
che è il simbolo dell’appartenenza di Roma all’unico impero, è un evento che può
rivolgersi adversus ecclesia Dei. La sede apostolica dovette scoprire che Costantinopoli poteva non solo
essere impotente ad aiutare Roma, ma addirittura esserle nemica.
Il pontefice, comunque, insieme a tutta la sua curia è profondamente inserito nell’orizzonte
dell’unica autorità imperiale e proprio la deportazione di Martino I non è comprensibile se
non in questa prospettiva. Ma, al contempo, la vicenda di Martino I dice tutta la consapevolezza con la quale la
sede romana rivendica un proprio spazio nel quale l’imperatore può entrare solo con la
violenza[313]. Ma,
nonostante la decisione con la quale Costante II sottomise a sé la sede apostolica, con la deportazione di
Martino I, sarà proprio la posizione teologica difesa da Roma a trionfare, come si vedrà nel
prossimo capitolo; saranno le tesi ditelite a prevalere infine anche a Costantinopoli, quando sarà
celebrato il terzo concilio della nuova capitale, ulteriore segno del legame strettissimo che ancora legava
intrinsecamente il pontefice all’imperatore.
Anche l’utilizzo del latino e del greco negli atti del sinodo del 649 indica l’appartenenza di Roma
all’impero. La recente dimostrazione che quegli atti siano in realtà una retroversione dal greco al
latino, evidenzia comunque la necessità culturale avvertita dalla sede apostolica di esprimersi nei due
diversi registri. Il sinodo non può parlare la sola lingua latina, perché un’altra è
la lingua di Costantinopoli; era necessario e naturale, allora, esprimersi anche in greco. Questa esigenza appare
come un’evidenza incontrovertibile, come un portato dei tempi palesemente accettato, non come una
novità recente, anche se si riscontrano le prime difficoltà ad esprimersi nella lingua della
pars orientalis dell’impero - si pensi qui non solo all’attribuzione a Massimo ed alla sua
cerchia dei testi originali in greco del sinodo, ma, ancor più, alle difficoltà che si riscontrano
nel tentativo di difesa messo in opera da Martino I nel sommario processo di Costantinopoli. Egli, che pure era
stato apocrisario nella capitale e doveva quindi avere una conoscenza della lingua greca, evidentemente non ne
aveva una padronanza tale da poterla utilizzare in maniera sciolta in un momento di difficoltà se, come ci
riporta la Commemoratio, l’aiuto di un traduttore nel breve processo costantinopolitano gli venne
bruscamente rifiutato[314].
La fedeltà della sede apostolica all’impero appare, per converso, dal fatto che i nemici di
Costantinopoli sono descritti con evidenza come nemici di Roma.
Il Liber racconta infatti, come si è visto, che la sede apostolica dovette intervenire in aiuto di
prigionieri depraedati a gentibus[315], catturati cioè da avari e slavi in Dalmazia. Giovanni IV
utilizzò le risorse economiche a sua disposizione per la liberazione di cittadini imperiali di quelle
regioni dalla mano delle popolazioni che convergevano contro Costantinopoli nel tentativo di impossessarsene.
È evidente anche qui come il raggio d’azione del vescovo di Roma sia più largo della semplice
amministrazione del territorio dell’urbe, ma si spinga fin dove l’impero stesso è
presente.
Sul fronte meridionale è da registrare la prima comparsa nel Liber della gens
saracenorum[316],
cioè della montante invasione araba, con la quale l’impero stava ingaggiando una disperata lotta
difensiva. Il loro primo affacciarsi in Sicilia fece scattare una reazione che non provenne, in questo caso,
direttamente da Costantinopoli, bensì dall’esarca Olimpio che si era impadronito di Roma e
dell’esarcato. È lui a discendere in Sicilia, probabilmente anche a motivo dell’importanza
strategica ed alimentare della regione per tutto l’esarcato. Non è, comunque, difficile ipotizzare
che la sua discesa nel sud dell’Italia corrisponda perfettamente a quelli che sarebbero stati i suoi
compiti anche se egli fosse rimasto pienamente fedele all’imperatore Costante II.
Durante la campagna militare, Olimpio morbo interiit. Sebbene la sua morte non dipenda direttamente dal
nemico, è, comunque, la nuova presenza araba a decretare la fine dell’insurrezione, come già
era avvenuto per la ribellione dell’esarca Gregorio a Cartagine. Il parallelo rafforza l’idea che
l’opposizione militare alla gens saracenorum fosse stata guidata dai due esarchi, non in quanto
rivoltosi, ma, ben più profondamente, a motivo della debolezza di Costantinopoli che non trovava ancora le
forze necessarie, né per impedire le insurrezioni degli stessi esarchi, né, tanto meno, per
intervenire contro i nuovi invasori.
Si deve, invece, rilevare che, nelle biografie da Severino a Martino I, scompaiono dalla scena i longobardi. Di
essi non troviamo menzione nelle notizie biografiche dei pontefici di questi anni, nonostante continuassero ad
essere minacciosamente presenti appena fuori i confini imperiali, stringendo sempre dai due lati quel
“corridoio bizantino” che rendeva ancora possibile il legame fra Ravenna e Roma, continuando ad
essere l’unica via di percorrenza per gli esarchi e le altre autorità legittime, così come
per le forze che si ribellavano all’impero, ogni volta che c’era necessità di prendere la
strada per Roma.
Non si deve, però, dimenticare, a questo proposito, come la sede apostolica fosse sottoposta in quegli
anni alla fortissima pressione imperiale sulla questione monotelita, pressione che, come si è visto,
condizionò i pontificati da Severino a Martino I, fino alla deportazione di quest’ultimo: si
può facilmente immaginare che questo contesto abbia costretto i pontefici a concentrare l’attenzione
sul conflitto in atto[317].
Nonostante questo, da fonti diverse dal Liber, risulta innanzitutto che il vescovo di Milano firmò
gli atti del sinodo Lateranense del 649[318]. La sua firma di metropolita venne apposta agli atti dopo che il sinodo era
già concluso, ma la sua sottoscrizione indica che la sede apostolica cercò la collaborazione
dell’importante metropolita longobardo sulla questione. Inoltre è attestato che gli atti del sinodo
furono inviati nel regno franco, con il chiaro intento di coinvolgere, per la prima volta, quel mondo nelle
controversie teologiche ed, insieme, di ottenere l’appoggio della corte franca in difesa di
Roma[319].
Il dato appare in continuità con il periodo immediatamente precedente e con quello successivo. Attraverso
il rapporto con i presuli del mondo longobardo la sede apostolica non solo manteneva i rapporti gerarchici
religiosi, ma probabilmente partecipava, anche se a distanza, degli eventi politici ed economici di quelle
genti[320].
Il Liber continua a registrare indirettamente, negli anni che vanno dal 638 al 654, la grande importanza
delle magistrature locali, in particolare di quella dell’esarca stesso e di quelle dei comandanti militari;
sembra di assistere, anzi, ad una crescita progressiva della loro importanza. Nei primi quattro decenni del VII
secolo si era già assistito a due tentativi di rivolta avvenuti il primo, durante il pontificato di
Deusdedit, con l’insurrezione di Giovanni da Conza che aveva fatto uccidere l’esarca Giovanni, prima
di essere ucciso a sua volta da Eleuterio, inviato a ripristinare l’ordine, ed il secondo ad opera dello
stesso esarca Eleuterio che si era dichiarato indipendente, durante il pontificato di Bonifacio V. Entrambi
avevano cercato di appoggiarsi sull’esercito.
Sotto il pontificato di Teodoro I è il cartulario Maurizio che si rivolta contro l’esarca Maurizio,
mentre durante quello di Martino I è l’esarca stesso Olimpio che si rende indipendente da
Costantinopoli. D’altro canto la situazione dell’Italia non appare dissimile da quella
dell’esarcato d’Africa, dove l’esarca Gregorio si rivolta contro l’impero.
Il ripetersi di simili episodi, quattro rivolte in Italia in cinquant’anni, due delle quali avvenute per
mano degli stessi esarchi, mostra la debolezza politica della compagine imperiale. Esarchi e cartulari a capo
dell’esercito sono tutti di nomina imperiale, ma, evidentemente, non sempre l’imperatore ha ragione a
fidarsi di essi. Come già si è visto nel precedente capitolo, è stato soprattutto
Guillou[321] a porre in
rilievo una spinta ad una crescente regionalizzazione dell’impero che deve essere ravvisata in questi
eventi: evidentemente non sarebbe stato possibile accarezzare sogni di indipendenza senza la consapevolezza che
parte dell’esercito e della popolazione locale poteva esser favorevole a tale ipotesi. Guillou sottolinea
che, nel caso di Ravenna e dell’Africa, non solo l’aristocrazia del territorio, ma la stessa
compagine ecclesiale ed i vescovi in primis, in particolare quello di Ravenna, sembrano essere
consenzienti a queste imprese.
Il Liber presenta, invece, la sede apostolica come esplicitamente contraria a questi conati. Con
severità è visto il tentativo di Maurizio di aggregare intorno a sé l’exercitus
Romanus[322], come
già quello di Giovanni da Conza e di Eleuterio di rendersi indipendenti. Solo la ribellione di Olimpio
è circondata dal Liber con il silenzio[323]. Non se ne trova una approvazione, ma neanche una condanna esplicita. Il fatto
è omesso del tutto. Questo manifesta certamente un imbarazzo della curia dinanzi all’esplicita
accusa che fu rivolta a Martino I di aver appoggiato l’esarca ribelle.
Si è già visto come la Commemoratio ricordi le risposte del pontefice dinanzi alle accuse,
tese a difendere la propria posizione asserendo che se nessuna delle magistrature civili e militari in Roma si
era opposta ad Olimpio, era ingiusto attribuire a lui una responsabilità in merito. Quel che è
importante sottolineare ora, in sede di sintesi, è che l’eventuale intesa del pontefice con
l’esarca avrebbe comunque avuto di mira non l’indipendenza dell’esarcato, ma, piuttosto, il
prendere tempo nell’attesa di una evoluzione della posizione imperiale in merito al Typos e,
conseguentemente, in relazione all’incolumità del pontefice. La prospettiva della chiesa romana non
sembra essere quella di regionalizzarsi, differentemente da quello che poteva esser il desiderio di Ravenna,
bensì piuttosto quella di veder trionfare la propria posizione a Costantinopoli e, a partire dalla
capitale, sulla totalità della chiesa. Si noti qui la fierezza con cui il Liber descrive
l’invio del testo contenente le decisioni del sinodo Lateranense, presentandolo come un gesto universale di
disseminazione: et faciens exemplaria per omnes tractos Orientis et Occidentis direxit, per manum orthodoxorum
fidelium disseminavit[324].
La deportazione di Martino I, se in un primo momento decreterà la sconfitta della sede apostolica, si
tramuterà presto invece in vittoria, segno che la resistenza di Martino I e dei suoi predecessori
all’imperatore non era una scommessa destinata necessariamente alla sconfitta.
Indubbio è, però, al contempo, che la lotta che si accese in Roma intorno alla figura del pontefice
mostra come la popolazione romana avvertisse la figura del proprio vescovo come intangibile
dall’autorità imperiale, riconoscendogli un ruolo morale e civile unico: il Liber sottolinea
che l’azione imperiale dovette essere avvertita come un gravissimo sopruso, che poteva essere perpetrato
solo di notte, mentre la città dormiva. D’altro canto, il processo di identificazione della
città con il pontefice subì probabilmente un ulteriore accelerazione proprio a motivo di questi
fatti, consolidando ancor più l’autorità del pontefice sulla città. È in questo
senso che anche l’episodio di Martino I può essere letto come una manifestazione di indipendenza e
di regionalismo, anche se in senso diverso da quello proposto dalle indagini del Guillou. Mentre il pontefice
lotta per il riconoscimento di un primato sull’intera ecumene dell’impero, cresce in Roma il
riconoscimento della sua autorità locale. Come si vedrà, la morte di Martino I in esilio
avrà una forte risonanza simbolica e diverrà argomento, nei pontefici successivi, per avvalorare la
necessità provvidenziale dell’esistenza della sede apostolica e per manifestare la santità
della condotta di essa, di modo che la testimonianza di Martino I si porrà come un monito nelle future
crisi che avrebbero opposto le posizioni teologiche di Roma a quelle della sede costantinopolitana. Sia
sufficiente citare per ora solamente la lettera che papa Agatone invierà il 27 marzo 680 ai sovrani
costantinopolitani, nella quale, con evidente riferimento a Martino I, è scritto: sola est nostra
substantia fides nostra: cum qua nobis vivere summa est gloria: pro qua mori, lucrum aeternum
est[325].
Il Liber permette di individuare alla metà del secolo un ulteriore tassello che comprova la
crescente autorità del vescovo di Roma in campo civile e politico. Gli eventi obbligano i cronisti dei
pontefici a descrivere più volte il ruolo degli armati imperiali e, così facendo, sottolineano una
significativa evoluzione terminologica in materia e, ancor più, consentono di comprendere chi fosse il
responsabile dell’approvvigionamento delle truppe.
Per quel che riguarda l’evoluzione terminologica si è già visto come, nella notizia su
Severino, si trovi per la prima volta l’espressione exercitus Romanus[326]. Se esso è certamente parte
dell’esercito imperiale dislocato nella penisola, secondo l’espressione che appare nella biografia di
Teodoro I dove si parla di exercitus Italiae[327], la sua denominazione come Romanus, speculare a quella già
conosciuta dei milites Ravennates, lo indica come esplicitamente legato all’urbe. Proprio nella
notizia su Teodoro I compare una seconda volta questo exercitus Romanus. La menzione compare al momento
del terzo tentativo di indipendenza: il cartulario Maurizio si appoggia proprio sull’exercitus
Romanus[328] contro
l’esarca Isacio che ha, invece, dalla sua le milizie di Ravenna. Maurizio finirà per essere
abbandonato dagli stessi soldati di stanza in Roma e nei castra dipendenti dall’urbe. La nuova
terminologia, al di là degli eventi concreti che vengono descritti, indica una localizzazione delle truppe
che sempre più fanno riferimento alla città nella quale sono stanziate. Questo lascia presumere
anche un progressivo aumento di prestigio della gerarchia militare locale che porterà, lo si vedrà
nel prossimo capitolo, alla nuova figura del dux, di un ufficiale cioè che avrà in carico la
difesa (e l’amministrazione) di un territorio più ampio della stessa città; il territorio
alle sue dipendenze riceverà appunto, a partire dalla titolatura della nuova magistratura, il nome di
ducatus[329].
Che l’exercitus Romanus diventi costante protagonista nelle vicende romane è attestato anche
dal quarto conato di indipendenza, questa volta ancor più significativo, che si sviluppò a partire
dal momento nel quale l’esarca Olimpio venne inviato a ridurre all’obbedienza Martino I. Il
Liber lascia trasparire che proprio l’exercitus Romanae civitatis è l’elemento
del quale non è possibile prevedere a Costantinopoli la reazione. Olimpio ricevette infatti il suo
incarico con l’ordine di agire con estrema prudenza, per essere in grado di valutare se, oltre a quella del
pontefice e dei vescovi, avrebbe trovato o meno opposizione nelle milizie legate all’urbe. Se la salvezza
del pontefice è attribuita esplicitamente a Dio che acceca lo spatario di Olimpio, il Liber parla
esplicitamente di un grande sostegno della chiesa tutta al pontefice ed in esso non può essere mancato
anche l’apporto dell’esercito di stanza a Roma, altrimenti l’esarca avrebbe potuto operare
contro il pontefice immediatamente, senza dover prendere tempo. Se, insomma, i militi di stanza a Ravenna sono
numericamente più forti, le truppe di stanza in Roma appaiono nondimeno come protagonisti che si
differenziano sempre più dal resto della compagine imperiale.
La progressiva localizzazione delle truppe e del loro comando deve aver inoltre accresciuto anche in questo
ambito il ruolo di garante del pontefice, estendendo la sua già ampia autorità di intervento nei
diversi settori della vita civile ed amministrativa. Così come egli è il referente ultimo delle
magistrature che si occupano dell’approvvigionamento del grano - lo si è visto in merito a Sabiniano
- così il Liber segnala ora per la prima volta nel pontefice una figura chiave anche nella gestione
degli eventi militari a motivo degli stipendi che egli deve erogare ai soldati.
Lo strettissimo rapporto fra l’exercitus Romanus ed il pontefice è evidenziato nella
biografia di Severino, nella quale uno squarcio si apre sul vestiarium lateranense. Se le notizie relative
a Sabiniano aveva mostrato che la cura dell’annona, cioè delle distribuzioni gratuite di grano e
conseguentemente anche della riscossione delle tasse e della devoluzione degli stipendi degli impiegati a
servizio dello stato, era ormai posta sotto la tutela della curia pontificia[330], ora un tassello ulteriore si aggiunge. Nel
vestiarium, sono custoditi anche i fondi necessari al pagamento dell’esercito. L’exercitus
Romanus ha un suo comando, indipendente dal vescovo di Roma, probabilmente già unificato e
relativamente indipendente da Ravenna, ma questo contingente riceve i suoi roga tramite
l’amministrazione pontificia. Proprio la difficile situazione che contrappose Roma e Costantinopoli nella
questione monotelita permette allo storico di essere edotto, indirettamente, di tale responsabilità che il
vescovo di Roma doveva esercitare già da tempo.
Il Liber manifesta, al contempo, la coscienza che proprio quel luogo, il vestiarium, utilizzato per
il denaro pubblico ed i roga dei militi oltre che per le sostanze proprie della chiesa veniva considerato
dalla curia papale come un luogo intangibile. I tre giorni di occupazione del patriarchio e del suo
vestiarium non dicono solo la violenza necessaria per questo ingresso, ma ancor più la violazione
che venne compiuta: Maurizio fecit ibi exercitum resedere intro episcopio Lateranense, et fuerunt ibi dies
III[331].
Proprio in questa circostanza la biografia di Severino insiste sull’origine imperiale dei lasciti lì
conservati ed, indirettamente, sull’antico riconoscimento imperiale di cui godeva l’episcopio stesso:
sigillaverunt omnem vestiarium ecclesiae seu cymilia episcopii quas diversi christianissimi imperatores seu
patricii et consules pro redemptione animarum suarum beato Petro apostolo derelinquerunt, ut pauperibus singulis
temporibus pro alimonia erogarentur, seu propter redemptionem captivorum[332]. La notizia successiva di Giovanni IV mostra, come
si è visto, l’utilizzo di queste sostanze, evidentemente in breve tempo ricostituite, per le
finalità indicate ed, in particolare, per la liberazione dei prigionieri nelle guerre contro gli avari e
gli slavi.
Ma è soprattutto da sottolineare come il Liber esprima la finalità spirituale di quel
lascito, deciso dagli imperatori e dai loro funzionari pro redemptione animarum suarum. La biografia
pontificia vuole così evidentemente porre in rilievo l’origine dei beni conservati nel
vestiarium: è per motivi religiosi che quelle ricchezze sono state deposte in quel luogo non
semplicemente a cominciare dall’imperatore felicemente regnante, ma, ben prima, dai diversi
christianissimi imperatores che lo hanno preceduto. I redattori del Liber si richiamano qui alla
storia precedente e, precisamente, si rifanno alla originaria decisione imperiale di ergersi a difensore delle
prerogative della chiesa. Il Liber non si limita così ad un semplice richiamo alla storia recente,
ma presenta piuttosto tutta la tradizione imperiale, rimandando implicitamente a Costantino stesso.
Il Liber continua a fornire, anche per questo periodo, una serie di riferimenti ad opere di abbellimento,
ristrutturazione o edificazione di luoghi di culto. In particolare sono attribuiti a Severino il rinnovamento
dell’abside di San Pietro, ex musibo quod dirutum erat[333], a Teodoro I la traslazione delle reliquie dei martiri
Primo e Feliciano entro le mura, nella basilica di Santo Stefano protomartire[334] alla quale et dona obtulit,
l’edificazione della chiesa dedicata al beato Valentino sulla via Flaminia e l’oratorio del martire
Euplo fuori Porta San Paolo[335].
Ben due opere sono ricordate in relazione al complesso lateranense. Infatti, Giovanni IV fecit ecclesiam
beatis martyribus Venantio, Anastasio, Mauro et aliorum multorum martyrum, quorum reliquias de Dalmatias Histrias
adduci praeceperat, et recondit eas in ecclesia suprascripta, iuxta fontem Lateranensem, iuxta oratorium beati
Iohannis evangelistae, quam ornavit et diversa dona optulit[336].
Teodoro I, invece, è ricordato come colui che fecit et oratorium beato Sebastiano intro episcopio
Lateranense, ubi et dona largitus est[337]. La costruzione in rapida successione di due edifici significativi,
l’uno nel battistero lateranense e l’altro nel palazzo del patriarchio indica l’attenzione
dedicata alla residenza del pontefice e della sua curia e l’intenzione di accrescerne simbolicamente
l’importanza.
Questo dato è da mettere in relazione con l’insistenza di riferimenti all’origine
costantiniana della basilica stessa, come dell’intero complesso, che proprio nelle biografie di questi
pontefici, come si è già notato, emerge in maniera nuova.
Nella violazione, sotto Severino, del vestiarium lateranense, che comportò l’insediamento dei
soldati per tre giorni nell’episcopio, come si è già visto, si trova un ampia digressione che
fa riferimento ai doni offerti da numerosi imperatori come gesto per impetrare da Dio, tramite gli stessi
pontefici, la salvezza delle proprie anime. Nella cattura di Martino I il riferimento indiretto acquista forza
quando nella descrizione della basilica viene sottolineato proprio il nome del primo degli imperatori cristiani,
quel Costantino cioè che donò quel luogo alla chiesa di Roma, quasi a contrapporlo
all’attuale regnante che si comporta ben diversamente: et tollentes sanctissimus Martinum papam de
ecclesia Salvatoris, qui et Constantiniana appellatur, quem perduxerunt Constantinopolim[338]. Due toponimi ricordano qui
l’imperatore Costantino, quello della basilica che egli donò al pontefice e quello della
città nella quale regna il legittimo successore di quel primo imperatore cristiano. Costante II,
però, pur situandosi nella linea discendente da Costantino, si comporta contro le intenzioni del suo
predecessore. Il riferimento presenta così indirettamente il gesto della deportazione del papa come un
insulto non solo alla fede cattolica, ma anche alla storia stessa dell’impero che viene ora stravolta
contro il suo disegno iniziale.
Dinanzi alla deportazione di Martino I, l’evento più drammatico che vide la chiesa di Roma e
l’impero contrapposti nel VII secolo, gli studi storici si sono più volte interrogati se le
motivazioni di fondo dello scontro fossero di tenore innanzitutto religioso o politico[339]. Ai fini della nostra ricerca,
questo è ovviamente decisivo perché equivale a domandarsi se Roma era ormai decisamente orientata
su di una linea di progressiva indipendenza politica da Costantinopoli che solo forzatamente dovette essere
rimandata al secolo successivo, oppure se un lungo tratto di strada era ancora da compiere in questa
direzione.
Recentemente Capitani ha ripreso la problematica, proponendo una lettura speculare delle fonti antiche in ordine
alle due divergenti posizioni di Roma e Costantinopoli: «della testimonianza del Liber mi interessa
comprendere se il forte sbilanciamento nel senso “teologico” che è nella presentazione degli
eventi, dei gesta del pontefice, risponda ad un disegno “speculare” ad una proiezione della
vicenda da parte ufficiale bizantina in senso “politico” e se non si possa, non per metodo
combinatorio, ma proprio mantenendo alle fonti il proprio ruolo nelle parti, cogliere il senso più intimo
di quanto si stava, per la prima volta a metà del sec. VII - dopo i grandi segnali di Gregorio Magno -
sperimentando nei rapporti non facili, non perspicui, ma sempre tenaci tra Roma e Bisanzio»[340]. Ovviamente questa impostazione
della questione più generale ne coinvolge altre di minore importanza: «si è posta la
questione se Martino I abbia pagato per la sua supposta trasgressione alla prassi di attendere la iussio
dell’imperatore circa la sua elezione oppure abbia pagato per l’assunzione della linea di condotta
che era stata a lungo preparata da Teodoro I e da Massimo, almeno nel triennio che va dal 646 al 649: ed è
stata conclusione che fosse stato il secondo corno del dilemma a rendere comprensibile la persecuzione che ebbe a
subire da parte dell’esarca Teodoro Calliopa. Mi limiterò a notare che, sul fondamento delle fonti,
così “ambigue” (è il caso di dirlo), di cui disponiamo e di cui ci dobbiamo servire,
è possibile ipotizzare anche il contrario: ma sempre su di un piano di “ricostruzione libellistica a
posteriori” della presentazione del Liber pontificalis»[341].
Il tenore del Liber pontificalis mostra, però, che questa presentazione della questione risente
troppo di una visione condizionata da categorie moderne. È indubitabile, infatti, che, alla metà
del VII secolo, nel conflitto fra l’impero e la chiesa non si tratta di un contrasto fra realtà che
si considerano esterne l’una all’altra: esse, piuttosto, si percepiscono come i due punti di
riferimento dell’unica ecumene. Nella compagine imperiale del VII secolo, le scelte politiche e quelle
teologiche sono connesse in un intreccio che è peculiare di un periodo nel quale, appunto, non esiste
ancora né uno stato della chiesa, né una rivendicazione di esso. Come si vedrà nel capitolo
successivo, niente muterà nella condizione giuridica o nelle prerogative amministrative dei successori di
Martino I, nonostante la sua deportazione. Tale continuità è una riprova del fatto che
l’imperatore non intendeva opporsi a presunte pretese politiche od economiche del pontefice:
l’imperatore non riteneva di dover intervenire a modificare per questa via l’autorità
pontifica. Il pericolo politico di un distacco territoriale veniva, agli occhi dell’imperatore,
dall’esarca e non dal pontefice stesso.
L’affronto inaccettabile compiuto dal vescovo di Roma era piuttosto quello di aver disobbedito
all’imperatore e di aver addirittura preteso l’obbedienza della sede costantinopolitana - cioè
della stessa casa imperiale - sulla dottrina monotelita. Non bisogna dimenticare che, a partire dalla svolta
costantiniana ed ancora nel VII secolo, una decisione vincolante in campo teologico aveva immediate ripercussioni
civili. Conscio di questo, Eraclio aveva fatto pubblicare l’Ekthesis, perché ad esso tutti i
vescovi, così come i cittadini dell’impero, si conformassero. Allo stesso modo Costante II lo aveva
ritirato ed aveva dato autorità di legge al Typos, credendo di scegliere una via più facile
con la proibizione di ogni discussione in materia, con l’evidente finalità di permettere ad ognuno
di mantenere la propria posizione teologica, rinunciando al contempo a pretendere qualcosa da chi sosteneva le
posizioni opposte. Anche questa imposizione del silenzio era un legiferare in ambito ecclesiale e teologico; era
un atto che atteneva alla teologia e, contemporaneamente, alla politica, nella prospettiva che era tipica del
periodo che si sta analizzando.
La reazione del vescovo di Roma avvenne nella stessa linea. Martino I, ma prima di lui Giovanni IV e Teodoro I,
intervennero con decisioni teologiche, esigendo, però, al contempo, un immediato riscontro legislativo.
L’imperatore stesso doveva ripudiare pubblicamente i documenti che aveva approvato e difendere quelli
romani.
Non si può dimenticare una peculiarità che contraddistingue il cristianesimo fin dalle origini e
con la quale già Costantino aveva dovuto fare i conti, senza riuscire a comprendere fino in fondo la
novità della nuova religione. Anche egli riunì i vescovi a Nicea, vincolandoli poi alle decisioni
che lì furono prese, ma, in un successivo momento, cercò di stemperare le discussioni e di
riconciliare le opposte fazioni che avevano acuito la loro conflittualità intorno alla questione,
proponendo una linea teologica che evitasse definizioni precise per non scontentare la parte che si rifaceva
ancora alla teologia di Ario. Questa soluzione si rivelò fallimentare proprio per quell’esigenza di
precisare il contenuto di verità della fede, che caratterizzava la fede cristiana rispetto al paganesimo.
Così Manlio Simonetti descrive la lotta cristologica che si accese dopo il concilio di Nicea del 325, con
accenti che possono ben essere applicati anche alla questione monotelita: «l’imperatore [Costantino]
rifiutava di entrare nello specifico del complesso contenzioso riguardo al quale si dibatteva e si accontentava
di imporre una soluzione di comodo che, al di là della formale adesione a una generica copertura
dottrinale, consentisse a ognuno di quanti fossero implicati nei contrasti di professare, nel suo foro interno,
più puntuali e dettagliate convinzioni religiose. A ben vedere, questo modus operandi di Costantino
continuava, mutatis mutandis, una costante che aveva a suo tempo caratterizzato, salvo rare eccezioni,
l’atteggiamento liberale degli imperatori pagani nei confronti delle convinzioni religiose dei loro
sudditi: accontentarsi, cioè, dell’ossequio formale alle divinità tradizionali, e soprattutto
al culto dell’imperatore, e lasciare che ognuno, nel proprio intimo, coltivasse le sue più personali
convinzioni. Questa politica degli imperatori precedenti era fallita riguardo ai cristiani, perché essi
avevano rifiutato anche quell’atto formale di ossequio. Quanto a Costantino, e al figlio Costanzo che
avrebbe seguito, in sostanza, la politica paterna, il fallimento sarebbe stato dovuto al rifiuto, da parte della
maggior parte degli interessati, anche se non di tutti, di distinguere tra forma e sostanza, tra
l’accettazione soltanto esteriore di una professione di fede e l’adesione intima a un’altra. Il
patrimonio di dottrina, che specificava la religione cristiana di fronte a quella pagana, che ne era priva, e
anche a quella giudaica, dove era di entità molto più ridotta e di significato molto meno
vincolante, era sentito come componente essenziale del deposito di fede e perciò tale da imporre
un’osservanza in cui sostanza e forma s’identificassero, perciò senza distinzione tra adesione
esterna e interna. La rabies theologorum era perciò destinata ad avere la meglio sulla moderazione
di una politica di compromesso. Tale stato di cose complicava di molto l’esercizio del potere
dell’imperatore sulla chiesa, in quanto lo sollecitava o a forzare eccessivamente la mano nel tentativo di
imporre la soluzione di compromesso ovvero di addentrarsi addirittura nell’aspetto tecnico del contenzioso
in esame alla ricerca di una soluzione non soltanto formale, col rischio di concedere troppo, per ovvia
necessità, ai teologi di professione e di trovarsi in difficoltà nell’arginare la loro
invadenza. Nell’un caso e nell’altro l’inevitabile interferenza del potere politico in
questioni di specifico interesse religioso non poteva non generare uno stato di disagio e provocare
reazioni»[342].
La situazione conflittuale generatasi intorno all’Ekthesis ed al Typos può essere
correttamente compresa solo a partire da questa peculiare impostazione che la fede cristiana ha avuto sin dalla
sua origine e dalla specifica comprensione di sé che l’impero romano ha avuto nei confronti di
questa fede da Costantino in poi.
I lavori di Riedinger dei quali si è parlato, se ad uno sguardo superficiale sembrano relativizzare il
ruolo del vescovo di Roma per esaltare il lavoro teologico di monaci come Massimo, ad uno sguardo più
attento fanno emergere, piuttosto, una continuità nella posizione assunta dalla sede apostolica, pur nel
succedersi dei diversi pontefici. Roma manifestò una capacità di accogliere il contributo di
personaggi diversi, mantenendo una linea teologica assolutamente contraria al monoenergismo ed al monotelismo e
si dimostrò in grado di presentarsi con una posizione unitaria proposta all’intera ecumene. Una
stessa linea congiunge così Giovanni IV, Teodoro I, Martino I[343] ed i loro successori, ben al di là di Massimo il
Confessore: neanche la reazione dell’imperatore che deteneva la suprema autorità politica
servirà a decretare, nel lungo periodo, la sconfitta della posizione romana.
Non sono segnalate dal Liber decisioni giuridiche o sanzioni economiche che modifichino lo statu
quo del rapporto che legava il vescovo di Roma con l’amministrazione della sua
città[344]. La
posta in gioco era molto più alta: con la deportazione l’imperatore pretendeva che la sede
apostolica seguisse nel campo teologico ciò che veniva deciso a Costantinopoli.
Gli eventi degli anni 638-653 manifestano un’autoconsapevolezza emergente della sede apostolica che esige
obbedienza dall’intera ecumene imperiale: la sua decisione, alla resa dei conti, non viene piegata nemmeno
dalla forza. Il livello teologico è, chiaramente, quello determinante, ma l’unità della
compagine imperiale fa sì che esso non possa non avere ripercussioni politiche, proprio perché una
prospettiva regionalista è inaccettabile dal punto di vista romano come da quello
costantinopolitano[345].
Proprio l’attacco frontale dell’impero contro la sede apostolica dice quale rilevanza tale
unità ideale avesse anche agli occhi imperiali.
Questa accresciuta autoconsapevolezza della sede romana si manifesta in una maturazione, rispetto ai decenni
precedenti, della forma e del contenuto nel Liber pontificalis stesso.
Si è già visto nel capitolo precedente come le biografie a partire da Onorio I vengano redatte una
ad una, iniziate nel corso della vita stessa del pontefice e rapidamente concluse subito dopo la sua
morte[346]. È
chiara testimonianza di questo modo di procedere proprio la vita più impegnata nella crisi monotelita,
quella di Martino I, che si diffonde lungamente sull’azione del pontefice, per poi narrare solo per cenni
rapidissimi il suo esilio e la sua morte.
Inoltre, le tre vite più impegnate nel confronto con le posizioni imperiali, quella di Severino, quella di
Teodoro I ed, infine, quella appunto di Martino I, sono sensibilmente più lunghe delle vite che vanno da
Sabiniano ad Onorio I. Questa accresciuta lunghezza non dipende dagli anni di regno del pontefice stesso,
poiché Severino fu vescovo di Roma per un periodo brevissimo, Teodoro I per circa otto anni e Martino I
solo dal 649 al 653 - solo per fare un raffronto si pensi che Onorio I fu papa dal 625 al 638, cioè per un
numero di anni sensibilmente più lungo.
La maggior lunghezza delle vite non dipende nemmeno da lunghe elencazioni di realizzazione di edifici pubblici, a
cui la vita di Onorio I aveva dedicato molto spazio, bensì è motivata proprio dalla precisa
volontà di descrivere gli eventi della crisi monotelita ed anche i contraccolpi che
l’amministrazione romana dovette subire. In questo senso, come si è visto, debbono essere
interpretati gli eventi relativi all’assedio del Laterano compiutisi sotto Severino.
Si è già sottolineato come il Liber manifesti una chiara consapevolezza diplomatica, sapendo
suggerire precise responsabilità, senza però dichiararle esplicitamente, come nel caso delle azioni
compiute sotto il diretto comando dell’esarca al tempo di Severino, ma in realtà decise a
Costantinopoli.
Anche la relativa brevità della descrizione dell’esilio e della morte di Martino I - oltre ad essere
in linea con lo stile delle vite del periodo che sintetizzano al massimo l’ultimo periodo di vita del
pontefice dopo essersi diffuse maggiormente sui primi anni - deve essere chiaramente attribuita alla
volontà di prendere tempo ed attendere le mosse successive da parte imperiale, senza calcare ulteriormente
la mano una volta che l’imperatore si era dimostrato capace di atti così gravi contro la sede romana
ed il pontefice stesso[347].
Recentemente è stata Lidia Capo ha sottolineare come sia stata proprio la crisi monotelita a manifestare
una maturazione dell’impegno del Liber pontificalis stesso, affermando: «la crisi del
monotelismo, [...] pur se percepita lentamente, cioè solo quando aveva già raggiunto il suo acme,
appare sollecitare il Liber pontificalis a un impegno maggiore»[348].
L’autoconsapevolezza del Liber è alta, massimamente, nei ripetuti accenni alla protezione
divina presenti nelle biografie. Già l’operato di Maurizio contro Severino è adversus
ecclesia Dei[349] ed
il prosieguo della vicenda, con la rivolta che lo oppose ad Isacio manifesta, nella visione dei biografi
pontifici, la punizione divina, ut eos hereditaret ignis inestinguibilis[350]. La morte di Isacio avviene nutu Dei
poiché percussus divino ictu interiit Isacius[351], con una doppia ripetizione dell’agente divino.
Ma è, soprattutto, con Martino I che l’azione contra inmaculatam fidem e contro Martinum
sanctissimum papam, vede l’intervento divino che acceca lo spatario di Olimpio perché non uccida
il pontefice. Martino I, invece, pur morendo in esilio, viene esaltato dalla potenza divina, poiché dal
cielo comincia ad operare miracoli: qui et multa mirabilia operatur usque in hodiernum diem[352].
La difesa della retta fede - ed anche della sede apostolica e del suo impegno amministrativo nell’urbe
stessa - è poi descritta come azione peculiare dei pontefici, di modo che essi appaiono quasi come gli
unici protagonisti, mentre vengono messe in ombra le collaborazioni che pure essi avevano ricevute[353].
L’insieme di questi dati orienta a pensare che i biografi di queste vite scrivessero ormai consapevolmente
per essere letti non solo da persone bene addentro alle questioni affrontate, ma anche da altre non appartenenti
allo scrinium pontificio, bensì in ambienti geograficamente lontani da esso.
Con Eugenio I (654-657), Vitaliano (657-672), Adeodato II[354] (672-676) e Dono (676), come si vedrà in dettaglio, la sede romana
mantenne le sue posizioni teologiche sulla questione monotelita, senza, però, che si addivenisse
più ad uno scontro esplicito. Vitaliano, in particolare, si trovò ad accogliere l’imperatore
Costante II in visita a Roma - il primo imperatore dalla caduta dell’impero d’occidente e
l’ultimo in assoluto a compiere tale atto - e, successivamente, a schierarsi in difesa della dinastia
eraclea, quando il sovrano fu ucciso. L’operato di Vitaliano fu decisivo nella riconciliazione con
Costantinopoli, ma fu durante il pontificato di Dono che l’imperatore prese la decisione di invitare
delegati della sede apostolica per chiudere la crisi monotelita.
L’invito raggiunse Agatone (676-681) che poté assistere dalla lontana Roma sia alla prima sconfitta
delle armate arabe sotto le mura di Costantinopoli, sia all’apertura in quella città del concilio
Costantinopolitano III (680-681) che doveva vedere la vittoria delle tesi teologiche romane.
Seguirono poi quattro pontificati brevissimi, quello di Leone II (682-683), di Benedetto II (684-685), di
Giovanni V (685-686) e di Conone (686-687). Durante il successivo lungo pontificato di Sergio I (687-701),
l’imperatore convocò il cosiddetto concilio Trullano II o Quinisesto che emanò norme
disciplinari, alcune delle quali furono rifiutate dal pontefice. Sergio I dovette per questo affrontare le
immediate ritorsioni imperiali, uscendone però indenne.
Con Giovanni VI (701-705) si verificarono due ulteriori episodi che manifestano chiaramente come si era
accresciuta l’autorità del pontefice: egli dovette intervenire, da un lato, per salvare
l’esarca Teofilatto da una rivolta dell’esercito e, dall’altro, per far desistere dalle sue
intenzione bellicose il duca longobardo di Benevento giunto ad assediare Roma.
L’imperatore cercò ancora di interferire negli affari romani durante i pontificati di Giovanni VII
(705-707) e di Costantino (708-715), succeduto a Sisinnio (708), chiedendo nuovamente la ratifica degli atti del
Quinisesto. L’imperatore allora convocò Costantino a Costantinopoli e fece uccidere gli
ecclesiastici del consiglio di reggenza lasciati dal papa a governare la città in sua assenza, ma accolse
poi con tutti gli onori il papa nella capitale: Costantino fece ritorno a Roma senza essere stato obbligato a
riconoscere in toto gli atti conciliari. Il fatto che per punire la città di Roma fosse necessario
allontanarvi il pontefice, mostra come la libertà di azione dell’urbe dinanzi alla casa imperiale
fosse ormai amplissima.
Prima di analizzare in dettaglio questi eventi è necessario, però, descrivere sommariamente i fatti
che videro protagonista l’impero, poiché, senza il riferimento ad essi, risulterebbe incomprensibile
lo svolgersi degli avvenimenti descritti dal Liber pontificalis.
Negli anni che vanno dal pontificato di Eugenio I a quello di Costantino l’impero dovette affrontare un
crescente indebolimento del proprio protagonismo nei confronti dell’esarcato d’Italia, poiché
le risorse disponibili dovettero essere sempre più impiegate, oltre che nella difesa della stessa
Costantinopoli, negli scontri contro le forze arabe che si verificarono nella penisola anatolica, in Africa e
nell’Italia del sud[355].
L’ultimo vero tentativo di un pieno coinvolgimento dell’impero nella gestione della politica italiana
deve essere individuato proprio nella spedizione di Costante II di cui si è appena scritto. Egli
approfittò della tregua nella lotta con gli arabi: quando, infatti, nel 656 fu ucciso il califfo
‘Othman, la sua successione portò ad una divisione nel mondo islamico, poiché Mu‘awiya
fu nominato califfo in Siria, mentre a Medina ebbe lo stesso titolo Alì che venne, però, ucciso nel
661. Fu proprio Mu‘awiya a stabilire nel 659 una tregua con i bizantini, accordo che interruppe
temporaneamente le ostilità e concesse a Costantinopoli tempo per riorganizzare le proprie forze.
Costante II, che nel 658 aveva per la prima volta attaccato gli slavi sconfiggendoli, visto l’allontanarsi
del pericolo arabo, decise il trasferimento in occidente del baricentro della sua azione[356]. Sbarcò nel 663 a
Taranto ed attaccò i longobardi, con lo scopo di tornare ad unificare il territorio del sud e del centro
Italia o, almeno, di stabilizzarne la situazione, impedendo ulteriori avanzate longobarde. L’imperatore
conquistò Lucera ed assediò senza successo Benevento. Fallito il tentativo di conquista del ducato
di Benevento, ma ottenuta, probabilmente, una tregua stabile con i longobardi, si fermò a Napoli. Da
lì salì fino a Roma nel 663, come si vedrà più oltre in dettaglio, e ridiscese poi
fino a Siracusa, dove stabilì il suo quartier generale nella lotta contro gli arabi[357]. Fu, però, avversato
dalla popolazione locale per la sua politica fiscale che si inasprì nel sud Italia; nel 668, per mano di
una congiura guidata dalle famiglie aristocratiche, fu ucciso ed il generale Mezezio, di origine armena, fu
proclamato dalle truppe nuovo imperatore agli inizi del 669. Questa volta, però, l’esarcato
manifestò la sua lealtà alla dinastia eraclea ed altrettanto fece la sede romana. L’esarca di
Ravenna sedò la rivolta uccidendone i capi e fece ricondurre solennemente il corpo di Costante II a
Costantinopoli, perché gli fossero resi tutti gli onori. Quello di Costante II fu l’ultimo tentativo
di intervento diretto di un imperatore nello scacchiere dell’Italia centrale; dalla sua morte in poi la
rappresentanza imperiale sarà delegata nuovamente all’esarca ed agli altri ufficiali che si
riveleranno, però, sempre più deboli.
A Costante II successe il figlio Costantino IV (668-685)[358], con il quale si ebbe la svolta decisiva nella lotta contro gli arabi.
Finito, infatti, il periodo di tregua, nel 663 essi si ripresentarono in Asia minore. Nel 670 presero la penisola
di Cizico, ormai alle porte di Costantinopoli e, nel 672, Smirne, per consolidare le loro posizioni. Nel 674
cominciarono l’attacco alla capitale. Dal 674 al 678 gli arabi assediarono Costantinopoli, attaccandola
ogni anno nei mesi primaverili ed estivi per mare e per terra, senza riuscire nell’impresa.
Per la seconda volta la loro avanzata fu così arrestata e questa volta il pericolo di una caduta di
Costantinopoli in mano araba fu definitivamente allontanato. La resistenza di Costantino aveva impedito agli
arabi di espugnare la capitale, sbarrando il passo ad una loro ulteriore avanzata verso il cuore
dell’Europa. Nel 678, infatti, il califfo, ormai anziano, stipulò un trattato di pace con i
bizantini. Gli avari e gli slavi, a loro volta, riconobbero il potere bizantino, impressionati dalla sua forza di
resistenza.
Se gli arabi erano stati arrestati e Costantino IV aveva posto le premesse per una futura stabilità
dell’impero, era però ormai evidente che le regioni orientali dell’impero, quelle che erano le
più fedeli alle posizioni monofisite, erano perse per sempre. Il monotelismo, che era stato un tentativo
di elaborare una teologia che venisse incontro ai monofisiti, non aveva quindi più alcun interesse
politico agli occhi di Costantinopoli. Costantino IV decise allora, forse anche per questo motivo, di convocare
nel 680 un concilio a Costantinopoli e riuscì a chiudere definitivamente la questione cristologica,
accettando il trionfo delle posizioni teologiche romane.
Costantino IV morì nel 685 e gli successe sul trono il figlio Giustiniano II, che aveva allora 16 anni.
Anche gli inizi del suo regno videro eventi bellici che lo impegnarono a fondo: nel 688-689 si mosse per
strappare nuovamente Tessalonica agli Slavi, riuscendo nel suo intento. Nel 691-692 riprese la guerra contro gli
arabi, ma questa volta venne sconfitto, perdendo nuovamente i territori armeni. Negli stessi anni, come si
è accennato, Giustiniano II volle convocare un nuovo sinodo che emanasse norme canoniche per le chiese, il
cosiddetto Concilio Trullano II o Quinisesto[359] (691 o 692; la data non è certa). Non tutte le decisioni prese in
quella sede potevano essere bene accette a Roma, poiché alcune erano in contrasto con la prassi
romana[360];
l’imperatore cercò, allora, di usare le maniere forti, come già era avvenuto con Martino I,
ma questa volta le forze militari stanziate in Italia ed il popolo stesso insorsero contro gli ufficiali
imperiali. In quaranta anni, dai tempi di Martino I, il clima culturale e politico dell’Italia centrale
aveva vissuto, evidentemente, una grande evoluzione: non era in discussione l’appartenenza alla compagine
imperiale di Roma e dell’esarcato, ma una notevole autonomia di azione era sempre più un dato di
fatto.
Giustiniano II, comunque, non ebbe occasione di inasprire ulteriormente la sua pressione sul vescovo di Roma
perché nel 695 una rivolta, dovuta alla sua politica fiscale ed all’indirizzo anti-aristocratico del
suo regno, portò alla sua deposizione ed all’umiliante taglio del naso che ne sancì
l’interdizione dalle cariche pubbliche; l’imperatore venne esiliato in Crimea. Si susseguirono allora
torbidi che durarono per vent’anni, approfittando dei quali gli arabi nel 697 presero Cartagine.
Leonzio, che era salito al potere dopo Giustiniano, la riconquistò nel 698, ma, nello stesso anno, la
perse nuovamente. La flotta bizantina, allora, si ammutinò e proclamò imperatore il proprio
comandante Absimaro che salì al trono con il nome di Tiberio II. Ma l’Africa era ormai persa per
sempre. Gli arabi, infatti, avanzarono, trovando come unico ostacolo la città di Septem fratres
(l’attuale Ceuta); conquistatala nel 711, passarono ad invadere la Spagna visigota. Nel frattempo
Giustiniano II era fuggito presso i cazari e nel 705 si presentò sotto le mura di Costantinopoli insieme
al khān dei bulgari Tervel e, utilizzando gli acquedotti della capitale per il passaggio delle truppe,
riprese il controllo della città. Fece allora uccidere Leonzio e Tiberio ed accecare il patriarca
Callinico e salì nuovamente al potere. Ossessionato, però, dalle vendette interne, nel 709 fece
saccheggiare Ravenna che aveva appoggiato i nuovi imperatori e deportò i suoi cittadini più
eminenti a Costantinopoli per poi ucciderli, risparmiando la vita dell’arcivescovo ravennate che fu,
però, accecato per punizione. Non ebbe, invece, la forza di opporsi validamente agli arabi che, in
Anatolia, riconquistarono la Cappadocia e la Cilicia. Nella tensione politica che ne seguì Filippico
Bardane, generale armeno, strappò il potere a Giustiniano II nel 711, facendo poi inviare a Roma ed a
Ravenna la testa dell’imperatore che aveva fatto uccidere. Con la morte di Giustiniano II ebbe termine la
dinastia eraclea.
Filippico Bardane era monotelita e subito cercò di modificare gli equilibri che si erano creati con il
concilio Costantinopolitano III.
Tervel, khān dei bulgari che era stato alleato di Giustiniano, però, attraversata indisturbato la
Tracia, si presentò alle porte di Costantinopoli; l’esercito bizantino si ammutinò contro
Filippico che fu deposto ed accecato, nel 713. Ne seguì una lotta interna che vide contrapposti Anastasio
II e Teodosio III, finché Leone, stratega del tema anatolico, prese il potere nel 717, dando inizio ad una
nuova dinastia, conosciuta come dinastia siriaca.
Come è facile intuire, già dal quadro storico generale, prima di entrare nel dettaglio delle
vicende narrate dal Liber pontificalis, gli attacchi esterni che, ancora una volta, l’impero dovette
affrontare, unitamente alle difficili vicissitudini interne della successione imperiale, giocarono un ruolo
importante nel rendere sempre più labile l’effettivo controllo del territorio dell’esarcato
d’Italia.
Con la deportazione a Costantinopoli di Martino I ed il suo successivo umiliante esilio in Crimea il conflitto
fra la sede apostolica e l’impero aveva raggiunto il suo apice. L’imperatore aveva mostrato di voler
imporre tutto il proprio potere sull’esarcato e, soprattutto, sulla sede apostolica, non tollerando che
Roma assumesse posizioni differenti da quelle costantinopolitane né sul piano politico, né su
quello teologico.
La politica di Costante II non si differenziava da quella dei suoi predecessori: gli imperatori cristiani, fin
dalle origini, avevano voluto imporre la linea teologica considerando l’unità religiosa condizione
dell’unità dell’impero al suo interno. L’azione contro Martino I era stata un forte
segnale volto ad indicare che il Typos emanato dall’autorità imperiale non poteva essere
disatteso da alcuno, soprattutto dalla sede apostolica. La disobbedienza in questioni religiose era agli occhi
dell’imperatore, ipso facto, disobbedienza contro la sua autorità politica.
Un ulteriore segno di questa determinazione deve essere visto nell’elezione e nella consacrazione di
Eugenio I che avvennero mentre Martino I era ancora in vita. Il Liber non commenta in alcun modo
l’evento e tace il fatto che il nuovo pontefice fosse stato designato ed ordinato mentre il suo
predecessore era ancora in vita, anche se in esilio e malato. Evidentemente l’imperatore era riuscito ad
imporre il fatto della deposizione di Martino I anche dinanzi allo scrinium pontificio che non aveva osato
ribellarsi.
Che la nuova elezione, comunque, fosse avvenuta in un clima non sereno si può arguire dal fatto che la
biografia di Martino I si chiude senza fornire l’abituale indicazione della vacanza pontificia. In effetti,
il Liber afferma che Eugenio I sedit ann. II mens VIII dies XXIIII[362], dati che, messi in relazione con il giorno della
sua morte che viene fissata al 2 giugno 657, danno come data della consacrazione il 10 agosto 654, mentre il
processo di Martino I, durato un solo giorno, era avvenuto il 20 dicembre 653[363]. Si può ipotizzare che i mesi intercorsi
tra la data del processo di Martino I e la consacrazione del suo successore non siano dipesi solamente
dall’attesa della iussio necessaria, ma che il clero romano abbia cercato di prendere tempo per
seguire lo svolgersi degli eventi[364].
Il Liber definisce Eugenio I, all’inizio della biografia, con termini che non ricorrono per gli
altri pontefici - benignus, mitis, mansuetus, omnibus affabilis et sanctitatis praeclarior[365] - oltre a presentarlo
natione romanus e clericus a cunabulis[366]. Gli studi moderni sottolineano che i tratti di mansuetudine utilizzati dal
Liber per dipingere la figura del pontefice potrebbero essere stati scelti per metterne in rilievo
l’arrendevolezza, ma non bisogna dimenticare, per contro, che la biografia, segnalandone la sua
appartenenza all’ambiente ecclesiastico romano fin dall’infanzia (cioè già nel periodo
nel quale i suoi predecessori si erano opposti alle decisioni costantinopolitane) e soprattutto la sua
santità, vuole mostrarne la continuità con Teodoro I e Martino I.
L’unico episodio che il Liber pontificalis riferisce del pontificato di Eugenio I riguarda
l’opposizione che l’intero popolo romano, unitamente al clero cittadino, riservò alla lettera
sinodica inviata dal nuovo patriarca di Costantinopoli Pietro, che viene definita omnino obscurissimam et
ultra regula, non autem declarans operationes aut voluntates in domino nostro Iesu Christo[367]. A stare a questi dati, la
lettera inviata a Roma si inseriva, quindi, perfettamente nella linea del Typos che esigeva di astenersi
dal prendere posizione in merito alla questione monotelita al fine di far cessare ogni discussione
sull’argomento[368].
La lettera, però, minime est suscepta, anzi nec eundem papam demitteret populus vel clerus
missas celebrare in basilica Dei genetricis semperque virginis Mariae quae appellatur ad Praesepe, nisi
promisisset his ipse pontifex minime eam aliquando suscipere[369]. Appare evidente come il Liber vuole mostrare la
compattezza esistente fra il pontefice, il clero e la popolazione romana[370]. Se anche l’azione si fosse sviluppata a partire
dal popolo e solo successivamente Eugenio I si fosse deciso ad opporre il proprio rifiuto della sinodica, la
biografia, con l’espressione minime est suscepta, vuole comunque indicare che non vi era spazio
nella mente dello scrinium pontificio per alcuna diversa possibilità. E questa determinazione
è ancora più significativa poiché la sede apostolica, dopo aver assistito alla deportazione
di Martino I, doveva essere ben consapevole delle possibili reazioni imperiali ad un nuovo rifiuto delle
posizioni costantinopolitane.
Nella decisione con cui ci si oppone alla lettera sinodica, contravvenendo così alle disposizione
imperiali, il Liber procede, comunque, nella linea già nota di attribuire al patriarca e non
direttamente all’imperatore le tesi teologiche della lettera: è lo stesso atteggiamento con cui era
stato rifiutato il Typos[371].
Il Liber, oltre a questo episodio, conserva memoria della regolarità con la quale, durante il
pontificato di Eugenio I, furono osservati i pagamenti degli stipendi del clero e furono devolute le elemosine:
rogam clero solitam tribuit et indigentibus elemosynam subministravit, ut etiam die transitus sui pauperibus
vel clero seu familiae presbyteria in integro erogari praeceperit[372]. Nel caso del clero, si tratta evidentemente, come si
è già notato, del regolare pagamento che viene reso possibile dagli introiti a ciò destinati
provenienti dalle finanze dello stato. La notizia sottolinea così che il pontefice è ritenuto il
legittimo amministratore degli stipendi del clero previsti dallo stato. Nel caso delle elargizioni ai poveri non
è possibile, invece, stabilire se la biografia faccia riferimento a denaro proveniente dalla pubblica
amministrazione oppure dai beni propri della chiesa.
La biografia di Vitaliano, dopo aver fornito le abituali notizie sulle generalità del pontefice, registra
immediatamente un miglioramento nelle relazioni fra la sede apostolica e l’imperatore, senza però
indicarne le motivazioni. Infatti, nel raccontare della consacrazione di Vitaliano - che dovette avvenire circa
due mesi dopo la morte di Eugenio I, pertanto in tempi relativamente rapidi[373] - il Liber informa, aprendo un ulteriore
squarcio sulla prassi in merito, che il papa appena ordinato inviò apud piissimos principes una
lettera sinodica significans de ordinatione sua[374]. Evidentemente, anche quando era l’esarca a dare l’assenso alla
consacrazione, la prassi prevedeva che si inviasse comunque notizia dell’avvenuta presa di possesso
all’imperatore. L’aggettivo piissimos con il quale sono indicati l’imperatore e la sua
famiglia indica, in questo contesto, già di per se stesso il nuovo clima che si andava instaurando. A
questa notazione positiva il Liber aggiunge il fatto che l’imperatore rimandò indietro i
messi pontifici con un dono che significava evidentemente la sua ristabilita benevolenza: et dum suscepti
essent renovantesque privilegia ecclesiae reversi sunt. Quorum clementia per eosdem missos direxerunt beato Petro
apostolo evangelia aurea cum gemmis albis mirae magnitudinis in circuitu ornatas[375]. Evidentemente la biografia
esprime il compiacimento romano per il fatto che la particolare condizione della sede apostolica era nuovamente
riconosciuta
La maggior parte della notizia biografica è poi occupata dal racconto della spedizione di Costante II in
Italia che lo portò fino a Roma[376]. Costante II, in effetti, partì da Costantinopoli fra la fine
dell’anno 660 e gli inizi del 661 e sbarcò a Taranto fra il 662 ed il 663[377]. Il Liber tace degli
eventi bellici che lo videro prima conquistare Lucera e poi assediare, senza successo, Benevento; si concentra,
invece, sulla presenza dell’imperatore in Roma e sui suoi rapporti con il pontefice.
Innanzitutto la biografia racconta che Vitaliano uscì dalla città lungo l’Appia per
accogliere Costante II: et occurrit ei obviam Apostolicus cum clero suo miliario VI ab urbe Roma et suscepit
eum[378]. Il fatto
non deve assolutamente essere pensato come un gesto di cortesia: è, invece, evidentemente il cerimoniale
che si addice all’imperatore che viene in visita nell’urbe, l’antica capitale che appartiene
ancora alla compagine imperiale: Vitaliano, come principale rappresentante dell’imperatore in Roma, esce
dalla città con il clero per riceverlo. Ovviamente dovettero accompagnare il pontefice incontro a Costante
II le massime autorità civili della città, ma il Liber tace della loro presenza.
Non si descrive poi l’ingresso in città, né la dimora dell’imperatore, ma certamente
Costante II risedette nel palazzo imperiale al Palatino. Il Liber tace così dei luoghi del potere
civile per nominare solamente una per una le basiliche nelle quali Costante II si recò in visita, di modo
che la sua presenza in Roma viene presentata come un lungo pellegrinaggio: appena giunto ambulavit imperator
ad sanctum Petrum et donum ibi obtulit, nel giorno di sabato ad sanctam Mariam, itemque donum obtulit,
nel giorno di domenica, nuovamente processit ad sanctum Petrum cum exercitu suo, omnes cum cereis, et offeruit
super altare ipsius palleum auro textilem et celebratae sunt missae, il sabato seguente venit imperator ad
Lateranis et lavit et ibidem pransit in basilica Vigili, l’indomani nuovamente la domenica fuit
statio ad sanctum Petrum; et post celebratas missas valefecerunt sibi invicem imperator et
pontifex[379]. Del soggiorno di dodici giorni di Costante II in Roma si sottolineano
così le tappe liturgiche, in un crescendo che vide il penultimo giorno la visita alla residenza pontificia
del Laterano con il singolare riferimento al gesto di una lustrazione[380] - lavit - che precedette il pranzo fatto
preparare da Vitaliano ed, infine, l’ultimo giorno, una nuova sosta alla basilica di San Pietro dove
avvenne lo scambio di auguri con il quale il pontefice e l’imperatore si salutarono - valefecerunt sibi
invicem imperator et pontifex[381].
Subito dopo questo racconto espresso con toni assolutamente positivi, il Liber, però, modifica il
tenore della narrazione e presenta gli aspetti negativi della visita di Costante II nell’urbe: omnia
quae erant in aere ad ornatum civitatis deposuit; sed et ecclesiae sanctae Mariae ad martyres quae de tigulis
aereis erant discoperuit et in regia urbe cum alia diversa quas deposuerat direxit[382]. Il fatto lascia immediatamente
intuire che la presenza dell’imperatore a Roma non aveva meramente finalità di pellegrinaggio, ma
aveva valenze civili, politiche e militari.
La spogliazione che è descritta dal Liber non è, ovviamente, cronologicamente successiva
alle tappe del pellegrinaggio dell’imperatore nell’urbe, ma anzi si deve essere protratta nel tempo
della sua permanenza in città, come lascia supporre l’ampiezza e la complessità del prelievo
di materiali dagli edifici che abbellivano la città. L’imperatore, insomma, bisognoso di materie
prime e di fondi economici per le necessità belliche, decise di prelevare il bronzo dagli edifici pubblici
e lo poté fare, anche se il Liber tace su questo, perché essi appartenevano allo stato. Il
fatto che si sottolinei il deturpamento della città operato dall’imperatore, poiché gli
edifici depredati erano ad ornatum civitatis[383], riporta alla situazione nella quale si erano venuti a trovare gli edifici di
culto dopo l’abolizione del paganesimo. La legge proteggeva gli antichi templi, anche se in essi non si
esercitava più alcuna funzione cultuale, non più quindi per ragioni attinenti alla religione di
stato, poiché questa era ormai da tempo il cristianesimo, bensì in quanto opere d’arte
consegnate dal passato per lo splendore dell’urbe[384].
Di tali edifici il diretto proprietario era sempre lo stato e, quindi, l’imperatore poteva disporne se
ciò si rivelava necessario. Il Liber connota certo in senso negativo questa spoliazione della
bellezza dell’urbe, ma lascia trasparire che non fu possibile opporre alcuna argomentazione
all’operato dell’imperatore, poiché egli agiva sui beni di stato di cui egli era il legittimo
amministratore: egli era il signore di Roma.
Un accenno particolare viene fatto dal Liber alla spoliazione del bronzo della chiesa di Santa Maria dei
martiri, della quale già il Liber aveva già parlato nella notizia di Bonifacio IV - il
Pantheon, come si è già detto, era stato il primo tempio concesso dall’autorità
imperiale per essere trasformato in chiesa. Ora il Liber segnala che, se non furono toccate le chiese
edificate ex novo dai pontefici - anzi ad esse furono portati doni - fu invece spogliata proprio quella
che era stata ricavata dentro una struttura templare offerta dall’imperatore. È qui evidente come lo
stato, assegnando dei beni alla chiesa, non per questo li privatizzava, bensì conferiva loro una specifica
destinazione che non mutava però l’appartenenza del bene stesso al pubblico demanio. In questa
maniera l’imperatore poteva intervenire nuovamente sui beni che pure erano stati affidati alla chiesa.
Diverso doveva essere, ovviamente, il sentimento dello scrinium pontificio che, avendo ricevuto in
gestione il Pantheon ed avendolo trasformato in chiesa, vedeva nell’azione di Costante II un’offesa
indebita, pur se compiuta senza violare la lettera della legislazione vigente.
Il bronzo recuperato fu inviato poi cum alia diversain regia urbe[385].
Con questa descrizione la biografia separa nettamente i due aspetti complementari della visita imperiale
nell’urbe, raccontando prima l’ossequio che Costante II manifestò verso la chiesa di Roma e
giustapponendovi subito dopo l’offesa recata alla città ed allo stesso pontefice.
Il Liber informa poi che l’imperatore, per via di terra, fece ritorno nel sud Italia, toccando
Napoli e poi Reggio di Calabria[386]. Di lì si trasferì a Siracusa che scelse come sua residenza.
Dei cinque anni di permanenza dell’imperatore nella città siciliana la cronaca pontificia ricorda
l’ulteriore vessazione delle popolazioni al fine di reperire fondi tramite un inasprimento del sistema
fiscale: tales afflictiones posuit populo seu habitatoribus vel possessoribus provinciarum Calabriae,
Siciliae, Africae vel Sardiniae per diagrafa seu capita atque nauticatione per annos plurimos, quales a seculo
numquam fuerunt, ut etiam uxores a maritos vel filios a parentes separarent. Et alia multa inaudita perplessi
sunt, ut alicui spes vita non remaneret[387].
Le nuove disposizioni fiscali hanno un raggio di azione molto ampio, poiché si fa riferimento ad una
tassazione catastale, ad una imposta sulle persone e ad una sul commercio marittimo: la difficile condizione
dell’impero che si trovava a doversi difendere dalle incursioni nemiche su diversi fronti esigeva
evidentemente queste misure. Si noti che, nell’elenco delle regioni sottoposte alla nuova tassazione, non
figurano né Roma, né il territorio laziale. Il Liber descrive quindi un’azione fiscale
che non sembra valida uniformemente. Si può ipotizzare che l’imperatore sapesse bene di non poter
imporre il nuovo carico fiscale se non sui territori che controllava più da vicino. Il prelievo di beni in
Roma era avvenuto solo nei dodici giorni della permanenza dell’imperatore nell’urbe, mentre nel sud
Italia, dove la dipendenza da Costantinopoli era molto più forte, l’azione durò per annos
plurimos. In questi territori - prosegue il Liber - anche le chiese subirono una spoliazione al pari
della popolazione civile: sed et vasa sacrata vel cymilia sanctarum Dei ecclesiarum abstollentes nihil
demiserunt[388].
La nefasta azione dell’imperatore si conclude, infine, nel Liber con l’annotazione della morte
dell’imperatore nel corso di una rivolta: in balneo occisus est[389]. La biografia di Vitaliano termina così la
descrizione della spedizione in Italia di Costante II, ma non fornisce alcuna spiegazione in merito al progetto
politico che aveva guidato l’azione dell’imperatore. La ricerca storica si è, invece,
ovviamente domandata quali fossero le reali intenzioni della venuta in Italia dell’imperatore ed una
risposta a questo interrogativo è particolarmente importante ai fini di questa tesi per poter meglio
valutare la reazione della sede apostolica della quale il Liber è espressione.
In particolare, è stato Corsi[390] ad analizzare le diverse interpretazioni fornite dalle fonti in merito alla
scelta di Costante II di presentarsi in occidente e di permanervi fino alla morte. Corsi giunge alla conclusione
che le fonti antiche non riuscirono a coglierlo pienamente il progetto di Costante II nella sua
complessità, soprattutto perché non seppero scorgerne la sua coerenza con la politica che era sta
fin lì seguita dai suoi predecessori[391].
Infatti, nelle fonti orientali di origine costantinopolitana[392] si afferma che il movente della decisione di spostare
in occidente il baricentro dell’azione imperiale fu l’“odio” che la popolazione della
capitale aveva accumulato contro l’imperatore a motivo sia della persecuzione dei diteliti voluta da
Costante II, sia, soprattutto, a motivo della grave colpa di cui l’imperatore si era macchiato con
l’omicidio del fratello Teodosio, ritenuto un possibile rivale nel governo del regno. Le fonti bizantine
arrivano ad insinuare che l’imperatore avesse deciso di trasferire nuovamente la capitale da Costantinopoli
a Roma e questo solo per motivi personali di rancore verso la popolazione costantinopolitana che lo avversava.
Nelle fonti di origine siriaca[393], che sono di tendenze monotelite, scompare invece ogni riferimento a
motivazioni derivanti dalle posizioni teologiche dell’imperatore, mentre si accentua ancor più il
ruolo del malcontento popolare che si sarebbe riversato su Costante II a motivo dell’uccisione del fratello
e l’avrebbe indotto ad allontanarsi da una capitale così a lui ostile. Nelle fonti
longobarde[394] si
afferma, invece, che la decisione di trasferire il centro dell’azione imperiale in occidente era dovuto al
desiderio di riprendere ai longobardi i territori che questi ultimi avevano strappato all’impero. Nelle
fonti latine tardive[395] il desiderio di indipendenza dai circoli di potere della capitale
costantinopolitana e la volontà di opporre una resistenza più efficace ai longobardi sono i due
motivi, non più in opposizione fra loro, che determinarono la decisione di trasferire in occidente la
residenza imperiale.
Corsi, analizzando i dati delle fonti in merito alla spedizione in Italia dell’imperatore ed alla sua
successiva permanenza in Sicilia fino al momento della morte, sostiene giustamente che le fonti non rendono conto
della complessità del progetto di Costante II. Innanzitutto la sua azione contro i longobardi non sembra
avere di mira l’annientamento del nemico, poiché probabilmente l’imperatore era consapevole
dell’irrealizzabilità di una simile impresa. Le azioni belliche dell’imperatore appaiono,
infatti, mirate: la presa di Lucera doveva avere lo scopo di rendere sicuro il prosieguo della spedizione, mentre
l’assedio di Benevento - che non si risolse in una conquista – non fu probabilmente una sconfitta,
perché permise all’imperatore di stipulare un armistizio con il duca della città, che era
allora Romualdo, in maniera da garantire per il futuro il rispetto delle zone d’influenza bizantina nel sud
e nel centro dell’Italia. Questo spiegherebbe come mai la marcia di ritorno dell’esercito imperiale
non venne ostacolata dai longobardi.
Corsi sottolinea anche che, se le fonti orientali parlano di un desiderio di Costante II di riportare in
occidente la capitale ripercorrendo all’inverso il disegno politico elaborato da Costantino il Grande, di
questo non c’è traccia nei dati storicamente certi[396]. La visita a Roma, così come è presentata
dal Liber, non lascia minimamente trasparire una simile intenzione - si tornerà fra breve sul
significato che la biografia di Vitaliano attribuisce alla visita romana dell’imperatore. Nella decisione
di allontanarsi da Costantinopoli, l’ostilità degli abitanti della capitale sembra essere solo
un'occasione e non il vero motivo e, comunque, Costante non si propose mai di trasferire la capitale a Roma.
Corsi propone allora che l’azione in occidente di Costante II avesse di mira, una volta che erano stati
assicurati i confini ad oriente, di consolidare la presenza imperiale in occidente, dando dei forti segnali che
la sua politica non stava dimenticando quell’importante quadrante. Contemporaneamente intendeva creare le
condizioni perché dalla Sicilia fosse possibile un’azione più incisiva contro gli arabi che
si erano già presentati con intenzioni bellicose ai confini dell’esarcato di Cartagine. Anche
l’azione contro i longobardi aveva come scopo quello di assicurare una stabilizzazione dei confini ed
impedire un’ulteriore avanzata, nel momento in cui Grimoaldo, che era divenuto re a Pavia dopo essere stato
duca di Benevento, aveva, di fatto, ricomposto in unità il regno ed il ducato.
L’analisi del Corsi appare convincente, anche perché pienamente aderente al contesto storico del
tempo. L’azione dell’imperatore tendeva, insomma, al medesimo fine che aveva già determinato
l’intervento nei confronti di Martino I: mantenere l’unità dell’impero, manifestando la
ferma volontà imperiale di controllare la parte occidente e non solo quella orientale[397].
Dinanzi a questo disegno diviene possibile comprendere quale fu la reazione romana testimoniata dal Liber
e come venne accolta la rinnovata manifestazione di interesse da parte di Costante II per la parte occidentale
dell’impero.
Si è già visto, innanzitutto, come il Liber non dedichi attenzione a spiegare le reali
intenzioni dell’imperatore nella sua spedizione. Due elementi, invece, vengono posti in risalto dalla
biografia, come si è già sottolineato: la presentazione dell’itinerario dell’imperatore
in Roma come un pellegrinaggio e l’azione nefasta nei confronti dell’urbe e dei possedimenti
siciliani.
Per comprendere meglio il primo dato - il carattere di pellegrinaggio che il Liber cerca di attribuire
alla visita imperiale in Roma - merita soffermarsi su di un particolare del racconto, il gesto del lavacro che
Costante II compì, prima di sedersi a pranzo con il pontefice. Questo peculiare passaggio della visita
è stato paragonato giustamente alla legenda che si andava cristallizzando a riguardo di Costantino
il Grande, ad indicare che il Liber leggeva i gesti di Costante II a partire dall’idea di una
imitatio Constantinii. Così, in proposito, afferma Ruggini Cracco[398]: «par certo [...] che Costante avesse ben
presente il modello di Costantino anche nel corso della sua breve visita all’Urbe: ne è spia un
gesto curioso, cui accenna con qualche reticenza il Liber pontificalis. Il 15 luglio 663, infatti,
l’imperatore volle sottoporsi a una sorta di lavacro rituale o “battesimo simbolico” in
Laterano - a purificazione personale dei propri peccati e, al tempo stesso, con valore propagandistico, allusivo
alla continuità del potere imperiale e al rinnovamento politico di Roma - imitando l’abluzione
sacramentale con cui Costantino il Grande, secondo la leggenda del V secolo, sarebbe stato “lavato dal
paganesimo e dalla lebbra” per opera di papa Silvestro, proprio in Laterano».
Il tono di pellegrinaggio e di venerazione delle memorie romane nel quale il Liber inserisce il
particolare dell’abluzione orienta, però, in un senso ancora più preciso: quel lavacro, in
relazione con la venerazione delle memorie cristiane di Roma, viene presentato dal Liber come una
implicita ammissione di colpa ed una richiesta di riconciliazione con la sede apostolica dopo le azioni
persecutorie nei confronti di Martino I di cui lo stesso Costante II era stato responsabile. La biografia insiste
sulla devozione dell’imperatore a Pietro ed alla sede apostolica, quasi ad ammettere i gravi errori da lui
commessi precedentemente. Solo dopo il suo lavacro l’imperatore viene ammesso alla mensa papale ed infine,
celebrata la messa il giorno seguente, le due autorità valefecerunt sibi invicem.
Il Liber non può che rallegrarsi di quello che appare ai suoi occhi come un vero e proprio ossequio
imperiale all’autorità di Pietro e dei suoi successori[399]. I toni di questo incontro riconciliatorio sono
comunque sfumati. Così come mai il Liber aveva attaccato frontalmente l’autorità
imperiale, così ora, nel descrivere l’avvenuta riconciliazione dell’imperatore con il papa, ne
presentava in maniera fortemente ellittica il riconoscimento di una colpa dalla quale era necessario essere
assolti.
Il secondo tratto della visita che il Liber sottolinea - lo si è già notato - riguarda
l’operato di Costante II nei confronti della città di Roma e dei territori del sud Italia. Qui
traspare chiaramente una valutazione profondamente negativa, sebbene la biografia, secondo lo stile abituale del
Liber, non giunga mai ad accusare direttamente la suprema autorità statale. La spoliazione degli
edifici pubblici romani, ed addirittura del Pantheon ormai divenuto luogo di culto cristiano, non è
presentata semplicemente come un dato di fatto. Si legge, dietro le righe, che l’evento scandalizzò
la popolazione romana e che la sede apostolica dette un giudizio pesantemente negativo dei fatti, anche se essi
furono perpetrati in un regime di piena legalità poiché Costante II si limitò a disporre dei
beni pubblici che appartenevano all’impero stesso di cui era il sovrano. Il Liber suggerisce
così una precisa valutazione degli eventi: l’imperatore venne in visita nell’urbe, nella
città del principe degli apostoli, ma ne ripartì come uno che l’aveva spogliata, a differenza
di Costantino il Grande che l’aveva invece arricchita[400].
Dello stesso tono è il giudizio del Liber nei confronti degli interventi imperiali sui possedimenti
siciliani. Sebbene anche questa volta l’imperatore non sia direttamente condannato, le tragiche conseguenze
della sua politica fiscale sono descritte quales a seculo numquam fuerunt. Il Liber prosegue poi
utilizzando immagini molto forti, come quella della separazione dei mariti dalle mogli e dei genitori dai figli
che si dovette verificare per la mancanza di mezzi di sostentamento - separazione che allude, forse, al
ribaltamento dei tempi messianici preannunciati dai profeti - finché alicui spes vitae non
remanerat. Il Liber sottolinea le terribili conseguenze che ebbe sulla popolazione la politica fiscale
imperiale, senza mai fare cenno alle necessità belliche che l’impero doveva affrontare e senza
sottolineare mai che tali misure dovevano evidentemente rientrare in un più complesso riordinamento
amministrativo dell’intera Italia meridionale bizantina. La biografia sembra, in questo, coincidere con il
sentore popolare ostile all’imperatore che dovette essere sfruttato dalla sedizione che portò
all’uccisione di Costante II in una congiura guidata dall’aristocrazia[401].
È da notare soprattutto, ai fini di questa ricerca, come il sud Italia ebbe un trattamento fiscale che non
fu riservato invece a Roma ed ai territori circostanti. Il fatto denota una notevole autonomia rispetto al
meridione.
Il differente carico fiscale imposto, a sua volta, non poteva che dipendere da un maggior controllo ch
l’imperatore doveva avere sulla struttura amministrativa nel sud Italia. Si deve qui ricordare che la
Sicilia non fu mai dipendente dall’esarcato[402]: infatti, quando Belisario la liberò dai Goti, essa fu inizialmente
governata da un pretore (praetor) direttamente dipendente dall’imperatore. Quando poi si giunse alla
creazione dell’esarca, anche l’amministrazione siciliana subì una trasformazione, senza
però essere sottomessa a Ravenna: il pretore dell’isola prese, infatti, il titolo di
strategòs, con l’appellativo onorifico di patrìkios, restando alle dirette
dipendenze dell’imperatore, senza altri intermediari. Stratos afferma che «le rang de ce haut
fonctionnaire était presque équivalent à celui de l’exarque»[403].
La permanenza di Costante a Siracusa dovette permettergli di riorganizzare l’intera struttura
amministrativa e militare del meridione. Le poche testimonianze superstiti lasciano supporre che anche la
Sicilia, come già era avvenuto per le regioni orientali dell’impero, fu costituita in thema e
che una nuova unità amministrativa fu realizzata unificando l’antica provincia dei Bruttii,
includendovi parte dell’Apulia, l’odierna Puglia, e la Lucania. Per governarla si
nominò un duca di Calabria con sede a Taranto. Solo più tardi questo ducato divenne parte del
thema di Sicilia[404].
La progressiva differenziazione amministrativa del sud d’Italia dall’esarcato presuppone a sua volta
una «accentuata grecizzazione delle istituzioni monastiche e quella avanzante (pur tra contrasti) del
clero, accompagnate da una penetrazione capillare di elementi greci nel possesso fondiario»[405]. Sebbene questa grecizzazione
dovette iniziare già prima di Costante II, si può senz’altro ritenere che la residenza
siciliana dell’imperatore impresse un’ulteriore accelerazione a questo processo già in
atto.
Proprio nel frangente storico della spedizione di Costante in Italia sembra emergere, sebbene su questo punto il
dibattito sia aperto, la prima attestazione storica della presenza di un duca di Roma, ancora però al di
fuori del Liber[406]. È stato Guillou, infatti, interpretando un’iscrizione
altomedioevale presente nella cattedrale di Terracina, a proporre che un duca di Roma esista almeno a partire
dalla visita in Roma di Costante II[407]. Gli studi successivi[408] non entrano nel merito della sua ipotesi epigrafica, ma preferiscono
attenersi alla prima attestazione letteraria del termine che appare solo alla fine del pontificato di Costantino,
e precisamente, dopo la morte di Giustiniano II avvenuta nel 711[409]. È indubbio, comunque, che parallelamente alla
riorganizzazione amministrativa e militare del meridione non può essere esclusa a priori, anzi è da
ipotizzarsi un analogo intervento dell’imperatore sulle cariche civili riguardanti il centro Italia. Non
è da escludere che la consapevolezza della crescente autonomia di tali possedimenti rispetto a quelli
meridionali abbia spinto l’imperatore a creare magistrature più forti in loco, attraverso le
quali potere intervenire più direttamente.
Il fatto, comunque, che non emerga con evidenza dalle fonti del periodo - e dal Liber pontificalis in
specie - la titolatura della suprema autorità militare e civile bizantina presente in Roma[410] è un segnale indicatore
sia del fatto che l’urbe permane nella sua sudditanza all’esarca di Ravenna, sia della
peculiarità della situazione di Roma, nella quale si accresce l’autorità del suo vescovo che
diviene sempre più punto di riferimento non solo in ambito spirituale, ma anche in relazione alla
dimensione temporale della vita cittadina, rispondendo direttamente all’esarca del proprio
operato[411].
Il Liber pontificalis non fa cenno nella biografia di Vitaliano - mentre ne tratterà
successivamente - dell’autocefalia che l’imperatore concesse, contro la volontà del pontefice,
all’arcivescovo di Ravenna Mauro nel 666. Tale decisione voleva evidentemente rafforzare
l’autorità di Ravenna dinanzi quella di Roma, di modo che la città portuale
sull’Adriatico fosse non solo la residenza dell’esarca, ma anche una sede episcopale indipendente
dall’urbe[412].
La biografia si limita, infine, a ricordare la morte dell’imperatore, senza ricordare che il pontefice si
schierò contro gli insorti, appoggiando il legittimo erede al trono, il figlio di Costante, che prese il
nome di Costantino IV. Tali eventi sono narrati solo nella biografia del successore di Vitaliano.
Adeodato II fu consacrato circa due mesi e mezzo dopo la morte di Vitaliano, evidentemente secondo la prassi che
prevedeva il semplice assenso dell’esarca come condizione per procedere all’ordinazione dopo
l’elezione[413].
La notizia su Adeodato II, dopo le tradizionali informazioni personali sul pontefice, esordisce affermando che
egli rogam omnibus ampliavit[414]. È difficile dire se si debba vedere in questa notazione un riferimento
polemico alle nuove imposizioni fiscali imperiali di cui aveva parlato la biografia precedente; non vi è
dubbio, però, che il dato è in controtendenza rispetto alla politica imperiale ed indica una
notevole autonomia finanziaria nell’operato del papa[415]. Il termine che designa i destinatari
dell’aumento degli stipendi è ampio e indefinito - omnibus. La notizia potrebbe voler
indicare che furono aumentati i salari degli ecclesiastici, ma anche quelli dell’intera amministrazione
civile. Si è visto, infatti, come i diversi funzionari ricevessero il loro stipendio statale attraverso il
personale addetto ai forzieri pontifici custoditi in Laterano.
Il Liber pontificalis passa poi a descrivere la rivolta di Mezezio, generale bizantino di origine armena,
qui erat in Sicilia cum exercitu Orientali[416] e l’uccisione in balneo[417] di Costante II che era stato fugacemente accennata
nella biografia precedente. In realtà, il racconto della rivolta che fu sedata Deo auxiliante
dall’azione congiunta che vide protagonisti l’exercitus Italiae per partes Histriae, alii per
partes Campaniae, necnon et alii per partes Sardiniae Africae[418], riguarda fatti che avvennero durante il pontificato di
Vitaliano e, precisamente, nell’anno 668, quindi ben quattro anni prima della consacrazione di Adeodato
II[419]. Ma, concludendo
il resoconto degli eventi, la biografia recita: postmodum venientes Sarraceni Siciliam, obtinuerunt praedictam
civitatem et multa occisione in populo qui in castris seu montanis fecerunt, et praeda nimia vel aere qui ibidem
a civitate Romana navigatum fuerat secum abstollentes Alexandriam reversi sunt[420].
Solo quest’ultimo episodio si situa nel corso del pontificato di Adeodato II. Probabilmente i redattori,
volendo narrare quest’ultimo evento, sentirono la necessità di riprendere il racconto a partire dai
fatti occorsi sotto Vitaliano, al fine di rendere più comprensibile l’episodio. Nella descrizione
dell’attacco arabo appare evidente non solo la condanna della loro azione nefasta, ma anche, in filigrana,
un’ulteriore caratterizzazione negativa dell’operato di Costante II: tutto ciò che egli aveva
asportato dagli antichi edifici romani non solo aveva deturpato il decoro e la bellezza dell’urbe, ma, alla
resa dei conti, non era servito nemmeno al benessere dell’impero, poiché quei beni erano finiti in
mano ai suoi nemici.
In realtà, quei beni dovevano essere già stati ampiamente utilizzati a supporto della politica
economica di Costante II negli anni che precedettero la sua morte, ma la biografia di Adeodato II torna a
condannare a distanza di tempo la spoliazione degli edifici romani. L’intenzionalità di questo
giudizio negativo sull’operato di Costante II risulta ancora più evidente dal fatto che è
solo il racconto di un particolare, in fondo secondario - il fatto che i saraceni si impossessarono dei beni
sottratti a Roma -, a rendere necessaria una nuova e più ampia narrazione della fine dell’imperatore
che non ha niente a che fare con la vita di Adeodato II: si racconta, insomma, della rivolta di Mezezio, solo per
avere un aggancio per poter sottolineare che i beni prelevati da Roma non giovarono all’impero, ma ai suoi
avversari[421].
Il Liber sottolinea così, da un lato, la piena fedeltà pontificia all’impero,
utilizzando l’espressione Deo auxiliante a ricordare che è Dio stesso a far sedere sul trono
costantinopolitano ed a difendere la dinastia imperiale[422], ma, d’altro canto, attesta che l’affermazione della protezione
divina sull’impero non implica necessariamente che tutte le azioni compiute dagli imperatori siano per
questo buone ed utili al bene dello stato. Infatti, sottolinea implicitamente il Liber, non Costante II,
bensì piuttosto la sede apostolica giovò al vero bene della città e dei suoi abitanti.
La biografia di Adeodato II prosegue poi riferendo gli interventi del pontefice in favore della chiesa dedicata a
San Pietro qui est via Portuense, iuxta ponte Meruli[423], nella zona cioè detta di Campo
Merlo[424], ed in favore
del monastero di Sant’Erasmo, dalla cui comunità il papa proveniva e che doveva trovarsi a ridosso
della chiesa di Santo Stefano Rotondo. Il monastero fu non solo ampliato nei suoi locali, ma il pontefice et
casalia conquisivit[425] a beneficio dei monaci che lo abitavano[426]. Il particolare indica la preoccupazione del pontefice
di provvedere in maniera stabile al mantenimento del monastero stesso e della sua comunità.
La notizia si chiude, prima del consueto elenco delle ordinazioni avvenute nel corso del pontificato, con una
notazione metereologica relativa a piogge torrenziali che devastarono il territorio quales nulla aetas hominum
memoratur. Nisi per letanias quas cotidie fiebant Dominus est propitiatus[427]. A motivo di queste
preghiere - afferma il Liber - fu infine possibile il ritorno al lavoro nei campi che dettero, in maniera
miracolosa, un raccolto doppio rispetto a quello solito. Anche le biografie successive forniranno notizie di
carattere metereologico ed astronomico, ma quella di Adeodato II si caratterizza per la sottolineatura
dell’intervento del pontefice che, con le liturgie pubbliche da lui proposte alla cittadinanza per
scongiurare ulteriori calamità, si mostra non solo preoccupato del benessere della città e del
contado, ma anzi intercessore presso Dio.
Dono fu consacrato pontefice circa quattro mesi e mezzo dopo la morte del suo predecessore[428].
Il Liber pontificalis, dopo aver informato delle sue generalità e della durata del suo pontificato,
esordisce con la notizia delle opere architettoniche da lui realizzate: fece pavimentare l’atrio della
basilica di San Pietro in Vaticano magnis marmoribus[429], restaurò l’ecclesia Apostolorum sita
via Ostense[430] e
la chiesa di Sant’Eufemia sull’Appia. Poiché è noto che quest’ultima divenne
nell’VIII secolo, al tempo di Adriano I, il centro della domusculta Sulpitiana[431], si può arguire che
l’intervento dovette riguardare non solo la chiesa stessa, ma probabilmente anche i locali annessi a
sostegno delle attività agricole delle quali i responsabili di quella chiesa dovevano avere cura.
Un’ulteriore informazione viene fornita a riguardo di un monastero non meglio identificato detto
Boetiana: qui alcuni monaci siri vennero individuati come nestoriani ed, a motivo di questo, inviati in
altri monasteri. Al loro posto Dono monachos Romanos instituit[432].
Il fatto è solo apparentemente un evento minuto, riguardante la semplice latinizzazione di un monastero
dovuta alla necessità di opporsi al monofisismo dei suoi monaci, perché lascia trasparire la
libertà con la quale la sede apostolica continuava ad agire contro la normativa del Typos emesso
dall’imperatore che vietava per legge ogni discussione ed ogni azione in merito alle questioni
cristologiche.
Il Liber ricorda poi l’evoluzione dei rapporti della sede apostolica con Ravenna. Si è
già notato a suo luogo che la biografia di Vitaliano non aveva fatto alcun cenno all’autocefalia che
era stata concessa da Costante II all’arcivescovo ravennate Mauro, nel 666. In quella circostanza
l’imperatore aveva agito in maniera pienamente conforme alla sua politica volta a manifestare la sua
volontà di occuparsi da vero sovrano della pars occidentalis dell’impero: il rafforzamento
del potere del vescovo di Ravenna doveva evidentemente costituire un contrappeso all’autorità della
sede romana. Ormai da dieci anni, dunque, in Ravenna sedeva oltre all’esarca un arcivescovo non più
direttamente dipendente dal vescovo di Roma. La decisione doveva essere stata ben accolta e probabilmente
richiesta dallo stesso arcivescovo Mauro, ma certamente si era realizzata solo per una precisa volontà
dell’imperatore.
Il desiderio dell’arcivescovo ravennate di rendersi indipendente non aveva alcuna motivazione teologica,
come invece si era verificato nel caso di Aquileia. Piuttosto si desiderava un’autocefalia
all’interno della piena comunione con Roma. Una tale autonomia avrebbe garantito l’ordinazione di
ogni nuovo arcivescovo in loco e non nell’urbe, la cessazione dell’obbligo di recarsi a Roma
annualmente ed in occasione dei sinodi straordinari indetti dal pontefice, l’indipendenza da norme
canoniche emanate a Roma per le diocesi suburbicarie[433] e, soprattutto, un’accresciuta indipendenza nelle questioni ecclesiali e
civili[434].
L’imperatore aveva concesso l’autocefalia senza consultare Roma, facendo riferimento ad uno
pseudo-diploma di Valentiniano III ed alla leggendaria Passio di Sant’Apollinare per affermare che
egli restituiva alla sede ravennate ciò che era già di suo diritto[435].
Solo dieci anni dopo la creazione dell’autocefalia, che non era stata registrata nel Liber, la
biografia di Dono informa che, al tempo dell’arcivescovo Reparato, succeduto a Mauro, l’ecclesia
Ravennas, qui se ab ecclesia Romana segregaverat causa autocefaliae, denuo se pristinae sedis apostolicae
subiugavit[436] - si
noti l’assenza di qualsiasi riferimento all’imperatore che era colui che aveva emesso il diploma di
autocefalia. Il redattore della notizia si compiace evidentemente di sottolineare l’inversione di
rotta[437]. Le fonti non
descrivono come concretamente si fosse giunti a questo ritorno alla precedente situazione. Si può solo
ipotizzare che, alla morte di Costante II, il figlio Costantino IV possa aver acconsentito, pro bono
pacis, alle proteste della sede romana che sicuramente si saranno levate contro la decisione imperiale.
L’instaurazione di un clima di riappacificazione con Costantinopoli risulta evidente dalla lettera che fu
indirizzata dall’imperatore a Dono, con la richiesta di inviare delegati a Costantinopoli per accertare la
verità in merito alla questione monotelita. La lettera, giunse a Roma solo dopo la morte di Dono ed, in
effetti, il Liber ne fornisce notizia solo nella biografia di Agatone; conteneva, fra l’altro, la
notizia, anch’essa di tono chiaramente conciliatorio nei confronti di Roma, che Costantino IV non aveva
acconsentito alla richiesta del patriarca della capitale di omettere dai dittici costantinopolitani i pontefici
succeduti ad Onorio I.
Agatone divenne vescovo di Roma circa due mesi e mezzo dopo la morte di Dono[438]. Dopo le consuete notizie sulle origini del pontefice,
la sua biografia esordisce con un ulteriore cenno alla questione dell’autocefalia ravennate, della quale il
Liber, come si è visto, si era già occupato in relazione al predecessore Dono: Teodoro,
arcivescovo di Ravenna, semetipsum post multorum annorum curricula praesentavit[439]. Con questo gesto, la piena
sottomissione della sede ravennate a quella romana compì un ulteriore significativo passo[440].
La biografia prosegue ricordando che Agatone accolse la lettera[441], di cui si è appena parlato, inviata
dall’imperatore Costantino a Dono con la richiesta di inviare delegati pro adunatione facienda sanctarum
Dei ecclesiarum[442]. Agatone attese quasi due anni, prima di inviare i delegati e, nel frattempo,
convocò nel 680 un sinodo in Roma per ribadire la condanna del monotelismo, assise della quale il
Liber non fa menzione[443]. Nel frattempo dovette pervenire, fra la fine del 679 e l’inizio del
680, una seconda lettera di invito, ignorata dal Liber, ma menzionata in una successiva epistola di papa
Gregorio II all’imperatore Leone III Isaurico: nella seconda lettera l’imperatore assicurava ad
Agatone che non avrebbe imposto alcuna decisione al concilio, quasi volendo fornire le proprie garanzie ai
delegati pontifici[444].
La biografia elenca, poi, i componenti del gruppo che lo stesso pontefice direxit[445] a Costantinopoli, nel quale,
subito dopo i tre vescovi delegati dal sinodo, appaiono i tre rappresentanti del papa, i presbiteri Teodoro e
Giorgio ed il diacono Giovanni.
Interrompendo la narrazione degli eventi relativi all’invio dei messi nella capitale, il Liber
fornisce alcuni particolari sulle innovazioni amministrative operate da Agatone: il pontefice ultra
consuetudinem arcarius ecclesiae Romanae efficitur et per semetipsum causa arcarivae disposuit, emittens
videlicet desuscepta per nomencolatorem manu sua obumbratas[446]. Senza dare i motivi di questa scelta, il Liber
ricorda così che Agatone avocò a sé i compiti abitualmente svolti
dall’arcarius, giungendo a firmare di sua mano le ricevute che venivano emesse dal
nomencolator[447]. È da escludere qui l’ipotesi che tale decisione sia dovuta ad
una penuria di personale[448], poiché, una volta ammalotosi il papa, si tornò alla prassi
ordinaria - qui infirmitate detentus arcarium iuxta consuetudinem instituit[449]. Piuttosto si deve presumere che il pontefice
volesse controllare personalmente l’andamento delle finanze. Come ricorda Durliat, l’arcarius
era il responsabile delle entrate pontificie, mentre il sacellarius rispondeva delle uscite[450]. Avocando a sé la
carica, il pontefice richiamava implicitamente l’importanza di questo incarico che, come si
ricorderà, implicava la supervisione del sistema fiscale statale e non semplicemente delle rendite
ecclesiastiche e delle donazioni private. L’accentramento nelle mani del pontefice della gestione
dell’amministrazione delle entrate, sebbene per un breve lasso di tempo, è un ulteriore segno della
relativa autonomia di cui godeva la sede apostolica nella gestione del proprio denaro come di quello
pubblico[451] - entrambe
le amministrazioni passavano per il controllo dello scrinium pontifico come si è già visto
nella biografia di Severino.
Dopo il racconto di questi eventi, il Liber torna a narrare gli eventi riguardanti il concilio radunato
dall’imperatore nella capitale: il racconto dell’assise stessa occupa gran parte della biografia di
Agatone. Il concilio passerà alla storia come concilio Costantinopolitano III e sancirà la fine
delle discussioni cristologiche con la definizione dogmatica dell’esistenza in Cristo, in perfetta armonia,
delle due volontà umana e divina e la conseguente condanna dei principali sostenitori del monoenergismo e
del monotelismo.
Il resoconto del Liber concorda nella sostanza con quanto riferiscono gli atti del concilio
stesso[452]. Si
registrano, però, anche diverse divergenze nei particolari che sono probabilmente imputabili al fatto che
il redattore della biografia non ebbe a disposizione, al momento della composizione della notizia su Agatone, gli
atti conciliari stessi, che dovettero giungere a Roma solo nel luglio 682 e, per di più, nella redazione
greca che solo successivamente venne tradotta in latino[453]. La redazione del Liber si dovette così basare solamente
sulle lettere che i delegati inviavano periodicamente a Roma per tenere al corrente la sede apostolica
dell’avanzamento dei lavori[454]. Solo l’esistenza di una fitta corrispondenza fra Roma e Costantinopoli
può spiegare la ricchezza di particolari della biografia di Agatone e, a sua volta, tale corrispondenza
lascia intravedere la rete di comunicazioni che la sede apostolica era in grado di utilizzare in simili
occasioni.
Il Liber presenta lo svolgimento del concilio come una marcia trionfale dei delegati romani che riuscirono
a dimostrare la verità delle tesi ditelite. Se la vittoria al concilio delle tesi romane è un dato
di fatto, confermato anche dagli atti conciliari, i redattori della biografia di Agatone vi aggiungono,
però, ulteriori particolari non riportati nei resoconti ufficiali al fine di sottolineare ancor più
il ruolo della delegazione romana.
Il racconto si apre con l’arrivo nella capitale dei delegati romani: Domino solaciante atque principe
apostolorum comitante, suscepti sunt a principe in oraculo beati Petri apostoli, intro palatio, porrigentes ei et
scripta pontificis[455]. Già in queste battute iniziali si sottolinea la protezione
divina assicurata ai delegati romani e l’intercessione di San Pietro che li accompagna. Del principe degli
apostoli essi sono l’oracolo, in quanto latori delle parole del pontefice: come tali sono ricevuti
dall’imperatore.
Il Liber mette poi in rilievo che i messi sono portatori degli scripta pontificis, facendo passare
in secondo piano il fatto che essi portavano con sé anche il testo controfirmato da tutti i vescovi
d’occidente riuniti nel sinodo romano del 680, come risulta dagli atti del concilio stesso.
La biografia sottolinea poi che l’accoglienza dell’imperatore fu eccellente, quasi a dimostrare come
Costantino IV riconobbe la dignità della delegazione: l’imperatore, infatti, li ricevette
tribuens eis omnia quae ad sustentationem sufficiebant in eorum expensa, in domo qui appellatur
Placidias[456]. Il
passo rinvia ovviamente alla notizia di ben altro tenore nella quale il Liber riferiva della distruzione
dell’altare del palazzo di Placidia, che l’imperatore aveva decretato durante il pontificato di
Martino I quando quest’ultimo si era rifiutato di accogliere il Typos. Il particolare serviva
ovviamente a sottolineare come l’accoglienza riservata alla delegazione romana era di segno totalmente
opposto di quella riservata, solo trent’anni prima, a Martino I, giunto a Costantinopoli da deportato.
Il Liber si compiace di sottolineare poi che l’ordine di accesso al concilio prevedeva la precedenza
dei delegati romani sui metropoliti, sui vescovi e sui laici presenti: suscepti sunt missi sedis apostolicae,
deinde metropolitae vel episcopi Orientalium partium numero CL [...] post haec patricii, ypati omnique
synclitu[457].
La biografia di Agatone sottolinea che, all’inizio delle discussioni, venne ascoltato immediatamente il
suggerimento dei delegati pontifici: grazie alla loro proposta, i difensori del monotelismo furono invitati a
mostrare ai vescovi riuniti la documentazione di cui erano in possesso e, quando l’ebbero fatto, apparve
evidente che essi utilizzavano come prova delle loro teorie una falsa lettera di papa Vigilio al patriarca Mena.
Scoperto l’inganno, spettò ancora ai delegati della sede apostolica la pubblica lettura del
florilegio dei Padri a favore del ditelismo e, soprattutto, la presentazione della synodica sanctissimi
Agathonis papae [458]con la sottoscrizione dei centoventicinque vescovi occidentali.
Il testo di Agatone - continua il Liber - divenne poi la base delle discussioni successive: et
interrogatus Georgius patriarcha si ea fide qua docet sedis apostolica amplectitur iuxta scripta Agathonis papae
seu sanctorum venerabilium Patrum[459]. Giorgio, patriarca di Costantinopoli, sottoscrisse il testo, professando che
la sua fede concordava con quella di Agatone, mentre Macario, patriarca di Antiochia ma residente a
Costantinopoli a motivo dell’invasione araba, rifiutò di aderire alla professione di fede e venne
così deposto. La biografia di Agatone sostiene che, prima di ricevere definitivamente la professione di
fede di Giorgio, venne letta una seconda raccomandazione del pontefice[460]. Il Liber commenta allora enfaticamente: ea
hora tante telae aranearum nigrissimae in medio populi ceciderunt ut omnes mirarentur quod sordes hereseum
expulse sunt[461].
La biografia racconta poi che il concilio decise di inviare Macario ed i suoi discepoli in esilio a Roma,
annotando che furono alcuni chierici romani ad allontanare gli eretici dall’assemblea (anche questo
particolare ha come unica fonte il Liber e non è menzionato negli atti del concilio[462]). Vennero poi condannati i
patriarchi che avevano difeso il monoenergismo ed il monotelismo - con la conseguente cancellazione dei loro nomi
dai dittici e delle loro immagini dagli affreschi che li ritraevano - e, precisamente, Ciro d’Alessandria
ed i patriarchi costantinopolitani Sergio, Pirro, Paolo e Pietro[463]. Il Liber omette qui il nome di papa Onorio I
che, invece, secondo gli atti conciliari, fu condannato insieme agli altri.
La narrazione del Liber si chiude con un ulteriore particolare non riportato dagli atti del concilio e
cioè con il racconto della solenne liturgia che fu celebrata in Santa Sofia nella quale anche le
acclamazioni all’imperatore vennero eseguite in latino: tanta gratia divina Omnipotentis concessa est
missis sedis apostolicae ut ad letitiam populi vel sancti concilii qui in regia urbe erat, Iohannes episcopus
Portuensis dominicorum die octava Paschae in ecclesia sanctae Sophiae publicas missas coram principe et
patriarchas latine celebraret et omnes unanimiter in laudes et victoriis piissimorum imperatorum idem latine
vocibus acclamarent[464].
Il capovolgimento del giudizio espresso contro Martino I a Costantinopoli e delle posizioni difese dai patriarchi
di Costantinopoli, divenute leggi imperiali con la pubblicazione prima dell’Ekthesis e poi del
Typos, viene così posto in risalto dal Liber: il trionfo della sede apostolica che avvenne
in quell’occasione è ancora più evidenziato nella biografia di Agatone attraverso i
particolari descritti che non sono presenti, invece, negli Atti conciliari.
La differenza di accenti appare ancor più se si confronta il resoconto del Liber con le parole
delle due lettere che Agatone inviò a Costantino IV e, tramite lui, al concilio, la prima a suo nome, la
seconda a nome del sinodo romano, come si è già visto.
La prima lettera[465],
secondo la consuetudine romana, è indirizzata carissimis filiis amatoribus dei et Domini nostri Jesu
Christo, cioé all’imperatore ed ai suoi figli Eraclio e Tiberio, chiamati tutti e tre
‘figli’ del pontefice. La finale dell’epistola si rivolge, invece, a Costantino IV appellandolo
vicarius Christi incaricato di avere cura della causa del coregnator Gesù Cristo: solo se
l’imperatore farà accogliere al patriarca della capitale la verità del dogma cattolico ne
risulterà la pace per tutto l’impero.
La seconda lettera[466],
sottoscritta da tutti i partecipanti al sinodo romano del 680, sottolinea ancor più che è compito
dell’imperatore estirpare le tesi eretiche che vengono indicate come zizaniorum genimina
all’interno dell’impero, in quella Christiani vestri imperii respublica, in qua beati Petri
apostolorum principis sedes fondata est, perché proprio l’impero si mostri omnium gentium
sublimior, poiché già omnes Christianae nobiscum nationes venerano la sede petrina ed il
vero dogma da lei professato.
Qui Agatone si pone idealmente, da un lato, totalmente all’interno della compagine imperiale dalla quale
sono escluse le nationes governate dai diversi monarchi e non dall’unico imperatore, ma,
d’altro canto, si presenta come il custode dell’ortodossia cattolica che travalica i confini
dell’impero romano. Nella chiusa della lettera nuovamente si pone in rilievo che, all’interno dei
confini imperiali, l’unica vera professione di fede deve essere fatta valere per tutti
dall’autorità imperiale perché solo a questa condizione è possibile che concorditer
nobiscum omnes elevino preghiere per il benessere e la prosperità dell’imperatore e del suo
regno.
Terminato il racconto del concilio, il Liber vi lega immediatamente una notizia che riguarda
l’accoglienza da parte dell’imperatore di una formale richiesta del pontefice di diminuire la tassa
che era dovuta per procedere alla consacrazione di ogni neoeletto vescovo di Roma: hic [imperator] suscepit
divalem iussionem secundum suam postulationem, ut suggessit, per quam relevata est quantitas qui solita erat dari
pro ordinatione pontificis facienda[467]. L’abolizione o la diminuzione della tassa che ne conseguì solo
apparentemente sembra segnare un ulteriore passo a favore dell’autonomia della sede apostolica. Il fatto,
per converso, lascia infatti intravedere ancora una volta quanto l’impero mantenesse ancora uno
strettissimo controllo sulla consacrazione del vescovo di Roma e dei vescovi in generale. Ma, soprattutto, la
notizia dell’allentamento della tassa in merito viene immediatamente controbilanciata da un’ulteriore
modifica delle procedure necessarie per procedere all’ordinazione del pontefice: non debeat ordinari qui
electus fuerit, nisi prius decretus generalis introducatur in regia urbe, secundum antiquam consuetudinem, et cum
eorum [imperatoris et filiorum] scientiam et iussionem debeat ordinatio provenire[468]. Viene qui definita antiqua
consuetudo la disposizione che prevede l’esplicito assenso imperiale all’elezione per procedere
alla consacrazione del nuovo pontefice e giungere all’effettivo inizio del ministero papale.
Come si è già visto, questo meccanismo legislativo manifesta chiaramente come il vescovo di Roma
dovesse ricevere un doppio benestare, quello immediato del clero che lo eleggeva e quello successivo
dell’autorità civile. La difficoltà delle comunicazioni tra Roma e Costantinopoli,
accresciutasi per i ripetuti conflitti che l’impero aveva dovuto affrontare e che avevano richiesto spesso
la presenza dell’imperatore fuori dalla capitale, avevano fatto sì che venisse delegato a fornire
l’assenso imperiale l’esarca di Ravenna. Ora l’imperatore tornava ad esigere che
l’autorizzazione alla consacrazione venisse espressa dalla suprema autorità e che non si procedesse
all’inizio del ministero senza un esplicito pronunciamento del suo consenso. Deve aver pesato in questa
decisione l’accresciuta consapevolezza, a motivo del fallimento della politica di Costante II che si
riprometteva di governare più direttamente l’occidente dell’impero, che il pontefice era
effettivamente l’unica autorità riconosciuta in Italia. Ma il prestigio della sede romana era tale
anche al di fuori della penisola che solo il pontefice era risultato capace di unificare l’impero intorno
alle proprie posizioni teologiche, come aveva dimostrato il concilio appena concluso. Tutto questo richiedeva,
allora, che la sede apostolica fosse ancor più dichiaratamente fedele all’imperatore e legata ad
esso.
Merita, infine, di segnalare che il Liber non fa alcuna menzione della pace fra l’impero ed i
longobardi che fu concordata nel 680, con il riconoscimento reciproco dei rispettivi territori[469].
La consacrazione di Leone II avvenne ben 18 mesi dopo la morte di Agatone[470]. La norma che chiedeva di attendere il consenso
imperiale era evidentemente entrata immediatamente in vigore e l’imperatore aveva probabilmente voluto
lanciare subito un segnale ad indicare che il pontefice era nelle sue mani e che poteva ben attendere un periodo
così lungo, se l’imperatore lo avesse desiderato.
Nelle notazioni consuete sul curriculum del nuovo eletto, questa volta il Liber si sofferma sulla
grande cultura del pontefice, che, originario della Sicilia, era greca latinaque eruditus[471].
Fu lui ad accogliere gli atti del concilio Costantinopolitano III, qui per Dei providentiam nuper in regia
urbe celebrata est, greco eloquio conscripta, exequente ac residente piissimo et clementissimo magno principe
Constantino, intro regale palatio eius qui appellatur Trullus, simulque eo legati sedis apostolicae et duo
patriarchae, id est Constantinopolitanus et Antiochenus, atque CL episcopi[472]. Il riconoscimento del ruolo imperiale qui
è ben presente e sottolineato. Il Liber crea anche un parallelismo fra l’abilità del
pontefice nel possedere il greco ed i testi conciliari che in tale lingua sono scritti[473].
Segue l’elenco dei patriarchi che furono condannati e, inframezzato ad essi, compare anche il nome di
Onorio I, che la notizia di Agatone aveva taciuto. Non si fa cenno alle diverse sfumature in merito alla
colpevolezza di Onorio I che la sede apostolica, già nella persona stessa di Leone II, cercò di
difendere[474].
Insieme agli atti conciliari fu Leone ad accogliere la divalis iussio imperiale che concedeva
l’esonero dal canone dovuto da Roma per la consacrazione pontificia e la concomitante decisione
dell’imperatore di avocare a sé l’autorizzazione per procedere all’effettivo inizio del
ministero una volta avvenuta l’elezione, ma su questo il Liber non si ripete, probabilmente
poiché già nella notizia su Agatone la cosa era stata presentata come definita: hic [imperator]
suscepit divalem iussionem secundum suam postulationem, ut suggessit, per quam relevata est quantitas qui solita
erat dari pro ordinatione pontificis facienda[475].
Si tace anche di una ulteriore iussio divalis che fu recapitata a Leone II contemporaneamente agli
Atti conciliari per le mani del diacono Giovanni, uno dei tre delegati apostolici. La lettera, che
concedeva una diminuzione delle imposte sui patrimoni di Sicilia e Calabria insieme ad ulteriori facilitazioni
fiscali, è citata nella posteriore biografia di Giovanni V del quale si ricorda appunto l’operato,
prima dell’elezione a vescovo di Roma, come latore di questa epistola[476].
La notizia prosegue raccontando che il deposto patriarca Macario ed i suoi discepoli, dum nollent a suo
recedere proposito, per diversa monasteria sunt retrusi[477]. La loro detenzione a Roma non fu, però, secondo
il Liber infruttuosa, perché il pontefice absolvit duos viros in percipienda communione, qui de
regia urbe cum soprascripto Macaro et ceteris in Romana directi sunt civitate, necdum a synodo anathematizati, id
est Anastasium presbiterum et Leontium diaconum ecclesiae Constantinopolitanae[478], i quali accolsero la fede del concilio
Costantinopolitano III e riconobbero come eretici coloro che il concilio aveva anatematizzati. Si evidenzia qui
che è la chiesa di Roma a continuare l’opera statuita a Costantinopoli.
Il Liber passa poi alle notizie sulla sede di Ravenna, affermando che percurrente divale iussione
clementissimi principis restituta est ecclesia Ravennas sub ordinatione sedis apostolicae, ut defuncto
archiepiscopo, qui electus fuerit, iuxta antiquam consuetudinem in civitate Romana veniat
ordinandus[479].
Subito la biografia di Leone II aggiunge che il pontefice fecit constitutum, qui archivo ecclesiae continetur,
ut qui ordinatus fuerit archiepiscopus nulla consuetudine pro usu pallii aut diversis officiis ecclesiae
persolvere debeat[480]. Il Liber riferisce qui il prosieguo delle vicende
dell’autocefalia ravennate che, citata la prima volta nella notizia su Vitaliano, era stata seguita dal
Liber nelle biografie di Dono e di Agatone. Se già nelle notizie precedenti era stato affermato il
ritorno alla sottomissione, con Reparato che durante il pontificato di Dono se pristinae sedis apostolicae
subiugavit[481] e
con il suo successore Teodoro che durante quello di Agatone semetipsum post multorum annorum curricula
praesentavit[482],
ora si aggiunge il nuovo evento dell’emanazione di una iussio imperiale in materia. È
evidente l’intervento statale che sanziona una decisione in materia ecclesiastica, dandole valore di legge:
l’ordinando presule della chiesa ravennate dovrà recarsi a Roma per ricevere la consacrazione
episcopale.
Unitamente alla iussio, il Liber presenta la notizia dell’esenzione dal canone dovuto dalla
chiesa di Ravenna per la nuova elezione, quasi come un atto di indulgenza della sede romana: si sottolinea,
infatti, che tale constitutum è ora archivo ecclesiae continetur.
La normativa potrebbe, però, anche essere stata contenuta nella iussio imperiale, poiché lo
stesso pontefice era stato, a sua volta, esonerato dal proprio canone di intronizzazione che doveva invece a
Costantinopoli, tramite l’esarca di Ravenna. L’arcivescovo di Ravenna dovette, comunque, consegnare
l’originale del decreto di autocefalia che l’imperatore Costante II aveva concesso a Mauro nel 666,
come si è già visto: sed et typum autocephaliae quod sibi elicuerant, ad amputanda scandala
sedis apostolice restituerunt[483].
Il Liber annota poi la costruzione di una ecclesiam in urbe Roma iuxta sancta Viviana[484], nella quale furono traslate le
reliquie di alcuni santi.
Infine, per la prima volta, una notazione che segue al numero delle ordinazioni eseguite dal pontefice, informa
che lui stesso ordinatus est a tribus episcopis, id est Andrea Hostense, Iohanne Portuense et Placetino
Belliternense, pro eo quod Albanensis ecclesia episcopum minime habuit[485]. L’informazione è in pieno accordo con
quanto si sa dalle altre fonti, secondo le quali nella consacrazione del nuovo vescovo di Roma il vescovo di
Ostia era aiutato dal vescovo di Porto e da quello di Albano[486].
La consacrazione di Benedetto II avvenne quasi un anno dopo la morte di Leone II[487]. Il Liber sottolinea che, romano di
origine, crebbe fin da piccolo in ambienti ecclesiastici, manifestando presto amore per la Sacra Scrittura e per
la liturgia e divenendone così esperto[488].
Proprio la sua biografia annota che il pontefice suscepit divales iussiones clementissimi Constantini magni
principis [...] per quas concessit ut persona qui electus fuerit in sedem apostolicam e vestigio absque tarditate
pontifex ordinetur[489]. Lo stesso imperatore che aveva avocato nuovamente a sé la
facoltà di autorizzare la consacrazione del pontefice, come si è visto nella vita di Agatone, ora
rinunciava ad essa.
Le divales iussiones erano state inviate ad venerabilem clerum et populum atque felicissimum exercitum
Romanae civitatis[490]. Dall’intestazione della lettera che il Liber riporta appare
evidente l’importanza dell’exercitum Romanae civitatis, l’unica componente laica
dell’urbe citata esplicitamente. Nella biografia il pontefice riceve la lettera da Costantinopoli come
supremo rappresentante delle tre categorie sopra indicate, il clero, il popolo romano e l’esercito della
città[491], con
le quali si indica evidentemente la città tutta.
L’importanza dell’esercito appare subito dopo nella notizia che il pontefice una cum clero et
exercitu suscepit mallones capillorum domni Iustiniani et Heraclii filiorum clementissimi
principis[492].
L’invio delle ciocche di capelli dei figli di Costantino - dei due sarà poi Giustiniano a succedere
al padre - viene unanimemente interpretata come un gesto rituale simbolico della presa sotto la propria
protezione da parte di Roma dei principi imperiali ed, insieme, dell’appartenenza della città
all’impero stesso[493]. Anche la valenza di ulteriore gesto di riconciliazione fra l’impero e
la sede romana non deve sfuggire.
La figura di un duca di Roma, che, come si è visto, è ammessa da alcuni già a
quest’epoca, non emerge nel Liber in occasione di un evento ufficiale come questo. Se ne potrebbe
dedurre che l’ipotesi dell’istituzione della presenza di un duca a quest’epoca non sia corretta
o anche, più semplicemente, che tale magistratura si confonda all’interno
dell’exercitus, al punto da non essere ritenuta particolarmente significativa dai redattori del
Liber, che pure descrivono un evento dalle indubbie risonanze civili oltre che religiose.
La biografia di Benedetto II ricorda poi i lavori che egli fece eseguire per la basilica di San Pietro e per San
Lorenzo in Lucina, San Valentino sulla via Flaminia e Santa Maria dei Martiri; di quest’ultima, come si
ricorderà, nella notizia di Vitaliano si era invece ricordata la spoliazione da parte di Costante II.
Il Liber continua, anche nelle notizie su Benedetto II, la notazione di eventi astronomici, aggiungendo
questa volta anche una notazione sull’eruzione che si verificò in Campania durante il suo
pontificato: mons Bevius qui est in Campania mense martio eructavit per dies et omnia loca circumquaque prae
pulvere cinii ipsius exterminatae sunt[494]. La presenza di simili resoconti - nella biografia di Benedetto II si fa
riferimento anche a fenomeni astronomici - mostra la volontà dello scrinium pontificio di
conservare memoria storica di eventi che, pur non essendo particolarmente legati alla chiesa di Roma, si riteneva
evidentemente che sarebbero stati altrimenti obliati.
Prima delle consuete notizie sulle ordinazioni episcopali presiedute dal pontefice, il Liber apre, al
termine della notizia, un ulteriore spiraglio sull’organizzazione della chiesa di Roma. Afferma, infatti,
che il pontefice dimisit omni clero monasteriis diaconiae et mansionaribus auri libras XXX[495]. La notizia indica innanzitutto
la grande autonomia che il pontefice godeva sulle finanze, disponendo liberamente di una consistente somma allo
scopo di remunerare il clero ed i suoi collaboratori e di promuovere il loro servizio[496]. Si noti altresì
l’esplicito riferimento non solo al clero, ma anche al personale laico - mansionaribus - impiegato
nelle diverse istituzioni ecclesiastiche[497].
Ma l’elemento che è stato maggiormente sottolineato dalla critica è quello relativo alla
diaconia. Fino ai recenti studi di Durliat, a partire già da Duchesne, si è sempre visto nei
due vocaboli monasteriis diaconiae un’unica espressione indicante il fatto che alcuni monasteri
dell’urbe erano stati incaricati, oltre che della testimonianza spirituale e liturgica della vita
monastica, anche della diaconia, dell’assistenza cioé ai poveri, ricevendo così il nome di
monasteria diaconiae, ‘monasteri della diaconia’.
Durliat, invece, rigetta questa interpretazione consolidata nella critica e preferisce scindere i due termini
monasteriiis e diaconiae, interpretando l’ultimo vocabolo come un dativo e non come un
genitivo, arrivando così a sostenere che la biografia pontificia parli di una quadripartizione delle
finanze messe a disposizione da Benedetto II destinate al clero, ai monasteri, alla diaconia ed ai
mansionari.
La proposta di Durliat, che pur essendo radicalmente innovativa rispetto ad una tradizione consolidata si
presenta con argomentazioni fondate, sarà analizzata e discussa nella parte sintetica di questo
capitolo.
In entrambe le possibili interpretazioni comunque, sia che la diaconia sia esercitata da monaci attraverso le
strutture dei loro monasteri, sia che sia più direttamente legata alla gestione episcopale tramite
apposite diaconie affidate al clero diocesano ed ai suoi diaconi, certo è che il Liber ne
sottolinea l’importanza e descrive l’operato del pontefice a favore dei bisognosi della città.
Gli interventi in questa direzione sono evidentemente stabili e non occasionali, poiché al tempo di
Benedetto II e, come si vedrà, anche nei successivi pontificati di Giovanni V e di Conone, il Liber
ritornerà con gli stessi termini ad indicare una specifica sovvenzione della sede apostolica per le
diaconie.
Giovanni V fu consacrato vescovo di Roma meno di un mese dopo il decesso di Benedetto II, segno evidente che
furono subito applicate le norme imperiali introdotte nel pontificato precedente e fu sufficiente l’assenso
dell’esarca, che poté arrivare in breve tempo, per procedere all’ordinazione[498].
La soddisfazione dei redattori del Liber per questa procedura svincolata dal diretto assenso imperiale
è evidente: post multorum pontificum tempora vel annorum, iuxta priscam consuetudinem, a generalitate
in ecclesia Salvatoris quae appellatur Constantiniana electus est atque exinde in episcopio
introductus[499].
Ritorna qui la sottolineatura quae appellatur Constantiniana con la quale già il Liber aveva
caratterizzato la basilica lateranense in occasione della deportazione di papa Martino I. Nel contesto della
notizia che afferma il ritorno all’antica consuetudine riguardo l’elezione il particolare potrebbe
essere un rimando implicito alla memoria del primo imperatore che, facendo erigere quella basilica, aveva voluto
riconoscere l’importanza del ruolo della sede romana e non ostacolarlo.
La notizia della consacrazione di Giovanni V, avvenuta come quella di Leone II attraverso l’imposizione
delle mani dei vescovi Hostensis, Portuensis e Belliternensis, è separata da quella
dell’ingresso in episcopio dall’importante annotazione sulla missione che Giovanni ebbe, quando era
ancora diacono. Il pontefice neoeletto era evidentemente la stessa persona del diacono Giovanni, uno dei tre
delegati della sede apostolica al concilio Costantinopolitano III nominati nella biografia di Agatone. Ora il
Liber specifica che allora il diacono Giovanni non riportò da Costantinopoli solo gli atti
conciliari con l’importante dichiarazione dogmatica sulle due volontà in Cristo, ma anche alias
divales iussiones relevans annonocapita patrimoniorum Siciliae et Calabriae non parva, sed et coemptum frumenti
similiter vel alia diversa quae ecclesia Romana annue minime exurgebat persolvere[500].
Il Liber aveva registrato, nella notizia di Vitaliano già analizzata, che Costante II aveva
aumentato la pressione fiscale nel sud Italia e che da questa manovra era stata colpita anche la chiesa nei suoi
possedimenti. Ora Costantino IV aveva invertito questa politica economica e ne aveva informato la sede apostolica
attraverso gli stessi delegati che erano latori dei decreti conciliari. È evidente come il pontefice sia
referente dell’imperatore non solo per i grandi dibattiti teologici, ma anche per le questioni
amministrative italiane. La iussio riguardava, in particolare, i patrimonia che la chiesa possedeva
in Sicilia ed in Calabria ed informava che su di essi le tasse erano state sensibilmente ridotte. Il documento
proseguiva dichiarando che la sede apostolica era liberata dall’onere di vendere grano
calmierato[501] e da
altri doveri consimili.
La notizia è estremamente importante ai fini di questa ricerca. È un ulteriore segnale del costante
funzionamento del sistema di tassazione presente nei territori dell’impero. Il documento recato dal diacono
Giovanni mostra come l’imperatore, probabilmente dietro esplicita richiesta pontificia, avesse modificato
la legislazione imperiale in materia fiscale perché fosse meno gravosa nei confronti dei patrimoni
ecclesiastici. La notizia segnala altresì l’importanza che ancora avevano tali patrimoni nel sud
dell’Italia.
La biografia di Giovanni V continua fornendo alcune notizie sulla situazione più generale
dell’impero. Si narra dell’ascesa al trono di Giustiniano II, dopo la morte del padre, e si aggiunge
che Domino auxiliante pacem constituit cum nec dicenda gente Saracenorum terra marique; sed et provincia
Africa subiugata est Romano imperio atque restaurata[502]. Prima della biografia di Giovanni V le vicende belliche dell’impero
erano state riferite solo se coinvolgenti direttamente la sede apostolica, mentre qui, per la prima volta,
l’orizzonte narrativo si allarga.
In realtà[503],
un trattato di pace stipulato dal padre Costantino era in vigore già da otto anni ed esso fu solamente
rinnovato sotto Giustiniano; gli arabi furono altresì allontanati temporaneamente da Kairouan a motivo di
una insurrezione berbera nel 683, ma sarebbero presto tornati, e questa volta definitivamente, nel 693/94.
L’annotazione dell’accordo con gli arabi segnala, comunque, l’interesse crescente della sede
apostolica per questi eventi che dovevano essere avvertiti come sempre più prossimi e pertinenti alle
dirette preoccupazioni del pontefice.
Il Liber tratta poi della questione della consacrazione del vescovo ecclesiae Turritanae compiuta
sine auctoritate pontificis da Citonatus, archiepiscopus Caralitanus[504]. La notizia mostra come l’arcivescovo
cagliaritano, pur essendo metropolita, non avesse l’autorità di ordinare alcuno dei vescovi
dell’isola, ma questa competenza fosse riservata esclusivamente al pontefice. Giovanni V convocò un
sinodo a Roma sulla questione e, solamente dopo che esso ebbe statuito in materia, novellum episcopum qui ab
eodem archiepiscopo ordinatus fuerat sub dicione sedis apostolicae redintegravit atque firmavit[505]. Con compiacimento e come
monito perché fatti similari non avessero a ripetersi, il Liber aggiunge: quorum cyrographum
archivo ecclesiae retinetur[506]. Si palesa qui la grande influenza che la sede romana aveva sui vescovi
suburbicari, similmente a quanto si è già visto per la diocesi di Ravenna.
Infine il Liber annota che Giovanni V dimisit omni clero, monasteris diaconiae et mansionariis solidos
MDCCCC[507]. La
ripartizione delle finanze utilizzate per le attività della chiesa di Roma ricalca esattamente quella che
già si è incontrata nella precedente biografia di Benedetto II.
Conone, patre Thraceseo[508], cioè figlio di un ufficiale del thema di Tracia[509], ed edocatus apud
Siciliam[510] fu
consacrato circa tre mesi dopo la morte di Giovanni V[511]. Questa volta il ritardo fu dovuto alle discussioni che sorsero in merito
all’elezione, nella stessa città di Roma, intorno alla quale non minima contentio facta
est[512], come
informa il Liber. Avvenne, infatti, che il clero voleva eleggere vescovo di Roma Petrum
archipresbiterum, mentre l’exercitus gli preferiva Theodorum presbiterum. Per impedire
l’elezione di Pietro, l’esercito si radunò in basilica beati Stephani protomartyris e,
quando il clero si presentò dinanzi alla basilica lateranense per l’elezione del proprio candidato,
trovò le porte sbarrate dagli armati: et clerus quidem adunatos ante fores basilicae Constantinianae
sustinebat, eo quod missi fuerant de exercitu ad custodiendas regias basilicae clausas
observabant[513].
Furono intavolate delle trattative fra le due parti, per giungere ad un accordo, ma i messi degli uni e degli
altri non riuscivano a raggiungere un accordo. Allora fu il clero a sbloccare la situazione, scegliendo un terzo
candidato per la sede apostolica, nella persona di Conone: et dum missi ab utriusque partibus responso irent
diutius et redirent et nihil proficeret ad concordiam, consilio ducti sacerdotes et clerus unanimiter
ingredientes in episcopio Lateranense elegerunt et denominaverunt tertiam personam suprafati
pontificis[514].
L’eletto, veneranda canicies, viene definito come persona che se numquam aliquando in causis
actusque saeculares commiserat[515]. A questo punto, e vestigio omnes iudices una cum primatibus exercitus
pariter ad eius salutationem venientes in eius laude omnes simul adclamaverunt[516] ed i restanti uomini in armi, vedendo che i capi
così facevano, accolsero anch’essi l’elezione, accondiscendendo ad inviare insieme la lettera
che comunicava l’avvenuta elezione all’esarca: et missos pariter una cum clericis et ex populo ad
excellentissimum Theodorum exarchum, ut mos est, direxerunt[517].
Il Liber prosegue dando notizia della iussio che Giustiniano inviò a Conone, per quam
significat repperisse acta sanctae sexte synodi et apud se habere, quem piae memoriae domnus Constantinus genitor
eius Deo auxiliante fecerat. Quem synodum promittens eius pietas inlibatum et inconcussum perenniter custodire
atque conservare[518]. È da notare come la biografia di Conone riporti correttamente la
convinzione dell’imperatore che il merito del concilio sia da attribuire al padre Costantino quem
fecerat. Il Liber, invece, è più ambiguo nel riferire il contenuto della iussio
inviata a Roma, sostenendo che l’imperatore, una volta prodotta l’edizione definitiva degli atti del
concilio Costantinopolitano, si impegnava a custodire presso di sé l’originale per attenersi ad
esso. In realtà, nella mens imperiale, la iussio aveva la finalità piuttosto di
indicare come fosse stata la sede imperiale ad ergersi a custode dell’ortodossia, al di sopra di ogni altra
autorità, compresa la sede apostolica[519].
Due ulteriori iussiones ricevette Conone da Giustiniano; con la prima ducenta annonocapita a quas
patrimonius Brittius et Lucaniae annue persolvebat, con la seconda direxit ut restituantur familia
suprascripti patrimonii et Siciliae quae in pignere a militia detinebantur[520]. I due provvedimenti sono sulla stessa linea della
riduzione del carico fiscale che si è già visto in relazione al patrimonium Siciliae nella
notizia su Giovanni V: anche le proprietà della chiesa di Roma nelle regioni dei Bruttii e della
Lucania venivano beneficate. A ciò si aggiungeva un ulteriore provvedimento, valido per tutte le regioni
sopraindicate, con il quale venivano restituiti gli ostaggi della familia patrimonii che erano stati presi
dalla militia in mancanza dei pagamenti richiesti. La notizia mostra ulteriormente la severità
dell’azione fiscale dell’imperatore Costante II che era stata denunciata nella biografia di
Agatone.
Il Liber prosegue riferendo il maldestro intervento di Conone proprio nell’ambito del patrimonium
Siciliae. Egli, infatti, ultra consuetudinem, absque consensu cleri, ex inmissione malorum hominum, in
antipathia ecclesiasticorum, Constantinum, diaconum ecclesiae Syracusanae, rectorem in patrimonio Siciliae
constituit, hominem perperum et tergiversutum[521]. Certo la biografia pontificia attribuisce la responsabilità di questa
scelta ex inmissione malorum hominum, ma, al contempo, sottolinea come Conone abbia qui operato absque
consensu cleri. Probabilmente il pontefice, provenendo dalla Sicilia, avrà agito a partire dalle
proprie conoscenze in loco, ma la reazione del biografo del Liber manifesta come nello
scrinium lateranense sia stata contestata la bontà della scelta. Non solo - sottolinea la notizia -
fu scelto un diacono della chiesa di Siracusa, ma, ancor più, il pontefice mappulum ad caballicandum
uti licentiam ei concessit[522]. La mappula era il drappo bianco per la cavalcatura che era privilegio
dei primates ecclesiae Romae[523] ed è evidente il rifiuto, da parte degli ambienti dello scrinium
pontificio dal quale provengono i redattori del Liber, che esso sia concesso ad altri.
L’insistenza della biografia su questo evento è indice dell’importanza delle rendite e delle
derrate alimentari che dal patrimonium Siciliae giungevano a sostentare la chiesa e la città di
Roma. La notizia manifesta, al contempo, l’importanza del ruolo giocato dal clerus Romanus, a fianco
del pontefice, capace di esprimersi in forma critica nei confronti del proprio vescovo e di conservare memoria di
questo addirittura nella redazione delle biografie ufficiali dei pontefici. Era la presenza e l’azione del
clero che garantiva, evidentemente, la continuità della condotta amministrativa e pastorale della sede
apostolica anche in casi come la successione di pontificati così brevi, come quelli di Leone II, Benedetto
II, Giovanni V e Conone, durati circa un anno ciascuno.
Il Liber conclude il racconto della vicenda siciliana affermando che, poco dopo la morte del pontefice, ci
fu una rivolta contro il rettore insediato da Conone; egli fu prima imprigionato e poi inviato
all’imperatore per la sentenza definitiva, poiché i giudici locali non trovavano un accordo in
merito.
Come nelle due precedenti notizie di Giovanni V e di Benedetto II, si ricorda poi il cospicuo finanziamento che
Conone dette omni clero, monasteriis, diaconiae et mansionariis[524].
La biografia si conclude raccontando le manovre operate dall’archidiaconus Paschalis[525], in vista della nuova elezione
che si preparava alla morte di Conone. Pasquale, approfittando del fatto che Conone era malato ed ormai prossimo
alla morte, scripsit Ravenna Iohanni glorioso exarcho atque promittens dationes ut persona eius ad
pontificatum eligeretur[526]. L’esarca demandavit suis iudicibus quos Romae ordinavit et direxit
ad disponendam civitatem, ut post mortem pontificis eiusdem archidiaconi persona eligeretur[527]. Questa volta è evidente
che gli iudices non agiscono in proprio, ma su precisa indicazione proveniente da Ravenna.
Il successore di Conone fu Sergio I, anch’egli di origini siciliane, entrato nelle file del clero romano al
tempo di papa Adeodato II, cioè poco più di dieci anni prima della sua elezione. Ancora una volta
l’isola si rivelava capace, per la sua importanza in quegli anni, di far emergere persone che si erano
formate in essa. Il Liber sottolinea, però, come Sergio si fosse fatto apprezzare per il suo
ministero in Roma[528].
La sua consacrazione avvenne circa tre mesi dopo la morte di Conone, ma, come per il suo predecessore, il ritardo
non fu dovuto solamente all’attesa della iussio esarcale, bensì soprattutto agli eventi che
precedettero l’elezione[529]; già la biografia di Conone aveva raccontato in merito dei soldi
offerti all’esarca dall’arcidiacono Pasquale per ottenere i suoi favori ed essere eletto al soglio
pontificio.
Il Liber racconta che il populus Romane urbis in duas partes divisus est; et una quidem pars elegit
Theodorum archipresbiterum, alia vero Paschalem archidiaconum[530]. La candidatura di Teodoro veniva riproposta per la
seconda volta; egli era stato nella precedente elezione il favorito dell’esercito, mentre ora era una parte
della popolazione che lo sosteneva. Quella di Pasquale era portata avanti da un’altra fazione della
popolazione cittadina stessa e, a partire da ciò che la biografia di Conone aveva riferito di lui, appare
certo che alcune alte magistrature cittadine avessero ricevuto l’ordine dell’esarca di
sostenerlo[531].
I due partiti con i loro candidati occuparono l’episcopio e precisamente i sostenitori di Teodoro si
insediarono nella parte più interna del patriarchio[532], dove era la residenza pontificia ed il
vestiarium, mentre coloro che volevano vescovo di Roma Pasquale tennero il controllo della parte esterna
del palazzo ab oratorio sancti Silvestri et basilicam domus Iuliae[533]. Anche questa volta, poiché nessuna delle due
parti cedeva, inito consilio primati iudicum et exercitus Romane militiae vel cleri, si dici est, plurima pars
et praesertim sacerdotum, atque civium multitudo ad sacrum palatium perrexerunt dove, Deo annuente, in
personam denominati Sergii, venerabilis tunc presbiteri, concordantes se contulerunt[534]. Dopo di che eumque de medio
populi tollentes in oraculum beati Cesarii Christi martyris, quod est intro suprascriptum palatium,
introduxerunt, et exinde in Lateranense episcopio cum laude adclamationibus deduxerunt[535]. Si era generata una tale
confusione, al punto che lo stesso Sergio dovette essere recuperato de medio populi.
Il Liber mostra chiaramente che questa volta non si affrontarono il candidato dell’exercitus
e quello del clerus, come negli eventi precedenti l’elezione di Conone, ma la stessa popolazione di
Roma si divise tra Teodoro e Pasquale. Dinanzi a questa impasse il clero e gli ufficiali
dell’esercito riuscirono ad accordarsi ed a far emergere la figura di Sergio. La biografia pontificia
afferma, infatti, che furono i primati iudicum et exercitus Romane militiae vel cleri plurima pars et
praesertim sacerdotum a tenere consiglio, oltre che la multitudo della popolazione, anche se la
partecipazione della maggioranza del clero è attenuata dalla condizionale, si dici est[536]. La consonanza
dell’esercito con il clero fornisce anche una ulteriore motivazione al fatto che questa volta venne
utilizzato per l’elezione di Sergio addirittura il palazzo imperiale del Palatino[537], nel quale gli ufficiali
dell’esercito dovevano avere più facilmente accesso.
Giunti con l’eletto al palazzo Lateranense pars qui praedictum venerabilem virum elegerat, quia et
validior erat, praevaluit et ingressa est[538]. Teodoro anche questa volta, come già aveva fatto con Conone, riconobbe
l’eletto, mentre Pasquale continuò ad inviare messaggeri e doni a Ravenna, perché
l’esarca venisse nell’urbe e prendesse posizione per lui. Iohannes Platyn, che era allora
esarca, abdite venit ut nec signa nec banda cum militia Romani exercitus occurrissent ei iuxta consuetudinem
in conpetenti loco, nisi a propinquo Romanae civitatis[539]. La notizia rende edotti del fatto che era consuetudine
che l’esarca venisse accolto con gli onori dovuti, in quanto rappresentante dell’imperatore,
cioè del signore di Roma stessa. Se l’imperatore, come si è visto nella biografia di
Vitaliano, doveva essere accolto a sei miglia dalla città dallo stesso pontefice, l’esarca, invece,
veniva accolto più vicino, comunque sempre fuori dalle mura, da una delegazione della milizia e del popolo
che gli si recava incontro[540]. Niente di tutto questo avvenne, recita il Liber, nel caso in
questione, poiché l’esarca, edotto della situazione, non dette alcun preannuncio del suo arrivo. Una
volta giunto in Roma, vedendo che oramai tutti erano concordi sull’elezione di Sergio, non poté che
accettare anch’egli il fatto e rinunciare alla candidatura di Pasquale: dum venisset et omnes in
personam Sergii sanctissimi invenisset consensisse, illi quidem suffragari non valuit[541].
Con un gesto segnalò, però, che si era dovuto adeguare a questa scelta: pretese, infatti, per
concedere l’autorizzazione necessaria alla consacrazione, il pagamento da parte di Sergio e della curia
romana dello stesso quantitativo che gli era stato promesso da Pasquale: quod ab eodem Paschale suprascripto
exarcho promissum fuerat, id est centum auri libras, a parte ecclesiae expetente, Sergio sanctissimo electo
proclamante quod neque promisisset dare, neque possibilitas suppetat[542]. Non si può dimenticare che solo pochi anni
prima era stata abolita da Costantino IV la tassa dovuta per ottenere la iussio imperiale per la
consacrazione; ora l’esarca - e si deve ritenere che egli non poteva agire se non avesse ritenuto
l’imperatore consenziente - faceva pesare il suo assenso ad una decisione difforme dai suoi desideri, con
la richiesta di una rilevante esazione. Nemmeno il fatto che il pontefice per raggiungere la somma richiesta
decise di impiegare cantaros et coronas, qui ante sacrum altare et confessionem beati Petri apostoli ex
antiquo pendebant[543], lo fece desistere dalla richiesta. È evidente, da questa notizia, che
anche da parte pontificia si decise di alzare il tono dello scontro, decidendo di utilizzare oggetti
dall’alto valore simbolico, prelevati dal cuore della basilica Vaticana, per indicare all’esarca la
gravità della sua richiesta. Le parti dovevano essere coscienti che era in gioco la questione delle future
elezioni pontificie.
Dopo aver descritto la fine di Pasquale che aveva tramato per ottenere il pontificato - morì cinque anni
dopo essere stato recluso in un monastero - il Liber introduce la notizia di una ulteriore sfida lanciata
dall’imperatore alla sede romana, l’indizione di un nuovo concilio. Si è già visto,
nella biografia di Conone, come Giustinano, inviando gli Atti ufficiali del Costantinopolitano III e dichiarando
che l’esemplare originale era in suo possesso, si era eretto a custode dell’ortodossia, cercando di
porre la sede apostolica in un ruolo secondo rispetto a quello imperiale. Ora egli concilium in regiam urbem
fieri iussit, in quo et legati sedis apostolicae convenerant et decepti subscripserant[544].
Il sinodo che passerà alla storia come Quinisesto (il termine deriva dall’intenzione
dell’imperatore di determinare in esso alcuni canoni disciplinari a complemento dei decreti dogmatici del
quinto e sesto concilio ecumenico) o Trullano (dal nome della sala del palazzo imperiale detta Trullus,
per la sua copertura a cupola, utilizzata nella quale si era già svolto il Costantinopolitano III) fu
riunito nel 691-692 per volontà di Giustiniano e decretò una serie di canoni, alcuni dei quali non
poterono essere accolti dalla sede romana. In particolare, era il canone 36 a fare problema, oltre ad una serie
di decisioni che sanzionavano tradizioni orientali diverse da quelle romane[545]: in quel canone si affermava che, benché la sede
costantinopolitana fosse seconda dopo quella di Roma, essa era dotata della stessa autorità della sede
petrina[546]. È
evidente l’intenzione dell’imperatore di conferire alla capitale, sotto il suo diretto controllo, un
ruolo determinante anche nelle questioni religiose, riaffermando così la sua suprema autorità su
tutto l’impero, in particolare sull’occidente.
Terminato il concilio, l’imperatore pretese ovviamente che Sergio I lo sottoscrivesse - conpellebatur
autem et ipse subscribere[547] - inviando copie degli atti a Roma sui quali il pontefice avrebbe dovuto
apporre la firma: quae et quasi synodaliter definita et in sex tomis conscripta [...], manuque imperiali
confirmata, missis in lucello quod scevrocarnali vocitatur in hanc Romanam urbem ad confirmandum vel in superiori
loco subscribendum, Sergio pontifici, utpote capiti omnium sacerdotum, direxit[548].
Il Liber sottolinea con forza che Sergio I non si piegò alla richiesta di Giustiniano II; infatti
egli Iustiniano Augusto non adquievit nec eosdem tomos suscipere aut lectioni pandere passus est; porro eos ut
invalidos respuit atque abiecit, eligens ante mori quam novitatum erroribus consentire[549]. Sono qui da notare la
ridondanza dei verbi - non adquievit [...]respuit atque abiecit - e la forte affermazione della scelta di
essere pronti a morire, piuttosto che acconsentire alla ‘novità’ di quegli errori. Ancor
più significativo è il fatto che qui il Liber ritiene l’imperatore diretto
responsabile dell’emanazione di questi canoni che contrastano con quelli della chiesa romana, senza far uso
di alcuna attenuante, come era avvenuto al tempo della crisi monotelita, durante la quale le biografie papali
avevano sottolineato a più riprese che era stata responsabilità del patriarca di Costantinopoli
quella di indurre in errore l’imperatore. La biografia presenta, insomma, lo scontro come frontale, con il
pontefice pronto a subire la stessa sorte di Martino I. Proprio queste erano in realtà le intenzioni
dell’imperatore che, dopo aver convocato a Costantinopoli due delegati della sede apostolica[550] ed aver probabilmente ricevuto
da loro notizia del fermo atteggiamento del pontefice, diede l’ordine della deportazione del pontefice:
Zachariam, inmanem suum protospatarium, cum iussione direxit ut praedictum pontificem similiter in regiam
deportaret urbem[551].
Se l’imperatore prese la stessa decisione che il suo predecessore Costante II aveva preso nei confronti di
Martino I, ben diversa fu questa volta la reazione degli armati dell’exercitus
Ravennatis[552].
Infatti, misericordia Dei praeveniente beatoque Petro apostolo et apostolorum principe suffragante, suamque
ecclesiam inmutilatam servante, excitatum est cor Ravennatis militiae, ducatus etiam Pentapolitani et
circumquaque partium, non permittere pontificem apostolicae sedis in regiam ascendere urbem[553]. Il Liber non fornisce
alcuna motivazione ulteriore di questo schierarsi dell’esercito a difesa del pontefice: il fatto viene
presentato come originato unicamente dal desiderio che non si ripetesse la vicenda di Martino I. Certo i racconti
dell’esilio e della morte del pontefice lontano da Roma[554] dovevano aver commosso gli animi nei decenni precedenti
ed aver generato il forte desiderio che niente di simile tornasse ad accadere.
Il protospatario è descritto, a questo punto, dal Liber con tratti da commedia. In un primo
momento, cumque ex omni parte multitudo militiae conveniret, Zacharias spatarius perterritus et trepidans ne a
turbae militiae occideretur, portas quidem civitatis claudi et teneri pontificem postulabat[555]. Si dice indirettamente che il
pontefice era colui che poteva decidere di serrare le porte delle mura o di aprirle. In un secondo momento, si
rifugiò nella stessa camera da letto del pontefice: ipse vero in cubiculo pontificis tremebundus
refugiit, deprecans lacrimabiliter ut sui pontifex miseretur nec permitteret quemquam eius animae
infestari[556].
Infine, quando gli armati entrarono nel palazzo lateranense, nel timore che lo spatario fosse fatto uscire dalle
mura di notte per scappare attraverso il fiume - per nocte sublatum et in navigio missum fuisse
[557]- Zaccaria sub
lecto pontificis ingressus sese abscondit, ita ut mente excederet et perderet sensum[558]. Dovette essere - a detta del
Liber - lo stesso pontefice a rincuorarlo: quem beatissimus papa confortavit, dicens nullomodo
timere[559]. E fu
sempre Sergio I a parlare all’esercito ed alla folla per invitarli a recedere dall’uccisione di
Zaccaria: egressus vero idem beatissimus pontifex foris basilicam [...] apertis ianuis et sedens in sedem sub
apostolos, generalitatem militiae et populi qui pro eo occurrerant honorifice suscepit; datoque apto et suavi
responso, eorum corda linivit; quanquam illi, zelo ducti pro amore et reverentia tam ecclesiae Dei quamque
sanctissimi pontificis, iam a patriarchii custodia non recesserunt, quousque denominatum spatarium cum iniuriis
et contumeliis a civitate Romana foris depellerunt[560].
Nel racconto il protospatario - e con lui l’imperatore - è ridicolizzato. Il pontefice emerge come
personaggio protetto non solo da Dio e da San Pietro, ma anche dall’intera popolazione e
dall’esercito dell’esarcato. Si noti, fra le righe, come l’allocuzione pronunciata dinanzi alla
folla esagitata mostri come si esercitasse concretamente il ruolo di guida del pontefice nei momenti difficili
della vita cittadina. Sergio I è l’unico in grado di sedare gli animi e di convincere la
popolazione, attraverso una pubblica allocuzione, della bontà della decisione di espellere dall’urbe
il protospatario.
Il Liber conclude il racconto delle vicende relative all’invio di Zaccaria con una breve notazione:
nam et his qui illum miserat ipso in tempore est, Domino retribuente, regno privatus[561]. Come si è già
detto, infatti, una rivolta depose Giustiniano II nel 695; egli fu interdetto dalle cariche pubbliche attraverso
il gesto simbolico del taglio del naso ed esiliato in Crimea.
Non è così dato di sapere come sarebbe immediatamente proseguito il braccio di ferro con la sede
romana se l’imperatore fosse rimasto al potere. Ma molto può essere arguito dall’analisi delle
conseguenze che ebbe il suo inatteso ritorno al trono nel 705. La sua vendetta contro la città di Ravenna
che aveva difeso il pontefice contro l’inviato imperiale fu impietosa, con torture, deportazioni e condanne
a morte delle personalità cittadine più in vista - l’arcivescovo ravennate Felice, come si
è detto, fu accecato a Costantinopoli[562]. A Roma l’imperatore invierà nuovamente gli Atti del Quinisesto,
durante il pontificato di Giovanni VII. Si ritornerà pertanto sulla questione, in questo lavoro, a suo
tempo.
Chiusa bruscamente l’emergenza del Quinisesto con la deposizione dell’imperatore, il Liber
passa a raccontare degli interventi compiuti da Sergio I in favore di diversi edifici ecclesiali. Si narra,
innanzitutto, della riscoperta miracolosa da lui fatta di una teca contenente alcune reliquie della Santa Croce:
in sacrario beati Petri apostoli capsam argenteam in angulo obscurissimo iacentem et ex nigridine transacte
annositatis nec si esset argentea apparente, Deo ei revelante, repperit [...] in quo interius plumacim ex
holosirico superpositum, quod stauracim dicitur, invenit[563]. Il ritrovamento conferma gli autori del Liber
nella certezza della benedizione divina sul pontefice, ma non deve essere dimenticato, anche se il Liber
non ne fa esplicita menzione, che le reliquie della Croce erano tradizionalmente legate al rinvenimento che ne
aveva fatto Elena, la madre di Costantino il Grande, e, conseguentemente, potevano indicare un richiamo indiretto
alla benevolenza che quell’imperatore aveva avuto verso la sede apostolica. A partire così dal
pontificato di Sergio I - annota il Liber - la reliquia pro salute humani generis ab omni populo
christiano, die Exaltationis sanctae Crucis, in basilicam Salvatoris quae appellatur Constantiniana osculatur ac
adoratur[564].
Il Liber ricorda poi i lavori di restauro ed abbellimento compiuti nella basilica di San Pietro, in quella
di San Paolo, dove furono utilizzate delle travi lignee provenienti dalla Calabria, ed, inoltre, nelle basiliche
dei Santi Cosma e Damiano, di Santa Susanna, di Sant’Eufemia, di Sant’Aurea ad Ostia, di
Sant’Andrea in via Labicana, e di San Lorenzo in Lucina.
Il Liber si sofferma, in particolare, sui lavori in San Pietro con l’importante rifacimento del
mosaico quod ex parte in fronte atrii eiusdem basilicae [565]che era in rovina. In relazione alla stessa basilica
narra la traslazione del corpo del papa Leone I, probatissimi patris[566], per dare una collocazione meno nascosta alla sua
tomba. Sergio I desiderava probabilmente che fosse più facilmente venerabile il sepolcro di Leone,
definito padre a motivo della sua rilevanza per la storia della chiesa romana, ma anche per l’intera
città.
Il testo continua poi ricordando le benemerenze di Sergio I anche in campo liturgico. Egli decretò a
riguardo che si tenesse una processione ogni anno nelle feste della Annunciazione, della Dormizione e della
Natività di Santa Maria Vergine. La sottolineatura che è significativa, ai fini di questa ricerca,
è qui l’annotazione del Liber di una decisione del pontefice in merito alla celebrazione
eucaristica; tempore confractionis dominici corporis ‘Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere
nobis’ a clero et populo decantetur[567]. A partire da Duchesne[568], gli studiosi vi hanno visto l’istituzione di un’acclamazione
liturgica che rafforzasse nel popolo la venerazione di Cristo come agnus Dei, in opposizione al canone del
concilio Quinisesto che aveva vietato proprio la rappresentazione iconografica dell’agnello in chiave
cristologica. L’evento manifesterebbe ulteriormente, oltre alla sua intrinseca valenza liturgica, la
cosciente volontà pontificia di distanziarsi dai canoni imperiali.
Ulteriori notazioni della biografia riguardano il rapporto con le altre chiese della penisola. Innanzitutto si
dà notizia del ritorno alla piena comunione della chiesa di Aquileia, con tutte le chiese a lei
suffraganee: Aquileiensis ecclesiae archiepiscopus et synodus qui sub eo est, qui sanctum quintum universalem
concilium utpote errantes suscipere diffidebant, eiusdem beatissimi papae spiritualibus monitis atque doctrinis
instructi conversi sunt [...] et qui prius sub vitio tenebantur, doctrina apostolicae sedis inluminati, cum pace
consonantes veritati ad propria relaxati sunt[569]. Il testo fa qui riferimento alla sede di Forum Iulium (oggi Cividale)
nella quale si era trasferita la sede patriarcale[570]; come si è già visto nel primo capitolo di questa ricerca,
Aquileia non aveva accolto la condanna dei cosiddetti Tre capitoli, un testo fatto elaborare da Giustiniano per
cercare un accordo con i monofisiti. Il Liber sottolinea ora che Sergio I ebbe il grande merito di
ricomporre infine questo scisma[571]. Il fatto indica anche che l’autorità romana in campo spirituale
si accresceva anche su regioni che appartenevano al diretto dominio longobardo.
Nella stessa linea una brevissima notazione indica che la chiesa di Ravenna era tornata pienamente sotto
l’autorità di Roma: Sergio I ordinavit Damianum archiepiscopum sanctae ecclesiae
Ravennatis[572].
Dopo la fine dell’autocefalia, Damiano era il primo arcivescovo di Ravenna che veniva nuovamente ordinato a
Roma, per la preghiera consacratoria del pontefice.
Il Liber conclude la biografia con la notizia che Sergio I ordinò anche Bertoaldum Brittaniae
archiepiscopum atque Clementem in gentem Frisonum[573]. È la prima volta che compaiono nel Liber notizie sugli
interventi della sede apostolica presso i regni del nord Europa, anche se le altre fonti ed, in particolare, le
lettere pontificie conservatesi attestano che era intensissima la relazione che intercorreva tra i vescovi di
quelle regioni, i monasteri, i sovrani e la sede romana.
Giovanni VI, natione Grecus[574], fu consacrato meno di due mesi dopo la morte di Sergio I.
La prima notizia fornita dalla sua biografia racconta che, durante il suo pontificato, venit Theophilactus
cubicularius, patricius et exarchus Italiae, de partes Siciliae in urbe Roma[575]. Non è possibile, allo stato attuale delle
fonti, chiarire i particolari di questa venuta in Roma dell’esarca che giunse non da Ravenna, come era
abituale, ma dal sud dell’Italia; alla notizia del suo arrivo l’esercito di Ravenna accorse presso la
città contro di lui: cuius adventum cognoscentes militia totius Italiae, tumultuose convenit apud hanc
Romanam civitatem, vellens praefatum exarchum tribulare[576]. Evidentemente l’amministrazione imperiale doveva
avere perso il controllo della città ravennate, forse l’esarca vi mancava da un certo periodo di
tempo, probabilmente in concomitanza con la deposizione di Giustiniano II avvenuta nel 695 e l’ascesa al
trono prima di Leonzio e poi di Tiberio che aveva visto un susseguirsi di eventi tumultuosi nella città di
Costantinopoli[577].
Solo l’intervento del pontefice riuscì a salvare l’esarca dall’esercito di Ravenna che
gli si era schierato contro. Infatti, Giovanni VI, ne adfligetur persona sese medium dedit, portas civitatis
clausit, sacerdotes apud fossatum in quo in unum convenerant misit, et monitis salutaribus tumultuosam eorum
seditionem sedavit[578]. Ancora una volta vediamo il vescovo di Roma che si schiera a fianco della
legittima autorità che rappresenta l’imperatore in Italia e riesce, mettendo in campo la propria
autorità, a tranquillizzare l’exercitus Italiae - si tratta dunque non degli armati di Roma,
ma della forza di maggior peso di stanza a Ravenna.
Anche i particolari dell’azione papale indicano il pieno controllo delle strutture difensive della
città, poiché è il pontefice, come nella notizia precedente, a comandare la chiusura delle
mura; ciò che lì era detto indirettamente, nella richiesta del protospatario Zaccaria al pontefice
di serrare le porte della città, qui viene affermato esplicitamente.
Le informazioni sui rapporti con il nuovo esarca che riprende il controllo del territorio solo grazie
all’aiuto del pontefice si concludono con la notizia che, probabilmente come segno di ringraziamento per il
decisivo sostegno ricevuto, Teofilatto si eresse a difesa di alcuni cittadini dell’urbe che erano
ingiustamente accusati: dum vero infames quidam personae capitulare adversus quosdam Romanae urbis habitatores
fecissent et praenominato exarcho ut a propriis substantiis denudarentur tribuissent, hii iustam sui operis
poenam multati sunt[579].
Non è possibile allo stato attuale delle fonti precisare cosa fosse accaduto, ma appare evidente il
rilievo dato all’espressione Romanae urbis habitatores[580]: alcuni cittadini dell’urbe erano stati accusati,
anche se non è chiaro chi fossero i loro accusatori ed il capo di imputazione per cui si esigeva
ingiustamente la confisca dei loro beni. La notizia nella biografia pontificia vede l’esarca come
protagonista dell’azione giudiziaria, ma è significativamente presentata immediatamente dopo la
narrazione dell’operato di Giovanni VI a favore di Teofilatto: è il papa, insomma, ad essere
l’unico che ha a cuore il vero bene della città di Roma e dei suoi abitanti e solo il suo intervento
a favore dell’esarca crea i presupposti perché quest’ultimo, che ha l’autorità
giudiziaria suprema sull’urbe, la eserciti in maniera corretta.
Il Liber passa poi a descrivere l’operato pontificio in occasione dell’avanzata fino al corso
del Liri dell’esercito del duca longobardo di Benevento Gisulfo: dum Gisulfus, dux gentis Langobardorum
Beneventi, cum omnia sua virtute Campaniam veniret, incendia et depraedationes multas exerceret, captivosque non
paucos coepisset, vel usque in loco qui Horrea dicitur fossatum figeret, nullusque extitisset qui ei potuisset
resistere, denominatus pontifex missis sacerdotibus cum apostolicis donariis universos captivos de eorum manibus
redemit et illum cum sua hoste ad propriis reppedare fecit[581].
Ricompaiono qui sulla scena del Liber i longobardi, che non erano stati più nominati nella cronaca
dei pontefici dal tempo di Sabiniano, vescovo di Roma dal 604 al 606. Le vicende che riguardavano i longobardi
erano state taciute dal Liber anche ai tempi del re Rotari quando, nel 643, aveva decretato una nuova
legislazione nei suoi territori, che coinvolgeva ovviamente i vescovi e le popolazioni cristiane lì
residenti, ed aveva poi intrapreso una serie di conquiste che lo avevano portato ad impadronirsi del territorio
delle Alpi Cozie e ad espandere i confini fino al fiume Panaro. Neanche quando Grimoaldo, già duca di
Benevento, era stato incoronato re a Pavia nel 662, unificando di fatto in un unico regno la capitale ed il
ducato di Benevento, le biografie dei pontefici ne avevano fatto menzione. La venuta a Roma di Costante II,
durante il pontificato di Vitaliano, era stata preceduta dalla conquista di Lucera e dall’assedio di
Benevento, ma nemmeno questi eventi bellici sono raccontati nel Liber, che solo fugacemente accenna al
fatto che l’imperatore prima di giungere a Roma, passò per Benevento. Il nome della gens
Langobardorum non era emerso nemmeno in occasione dell’avvenuta riconciliazione, durante il pontificato
di Sergio I, con il patriarcato di Aquileia, che era in territorio longobardo.
Con questa notizia, invece, i longobardi tornano prepotentemente sulla scena del Liber. Esso descrive gli
ingenti danni dovuti all’avanzata di Gisulfo e le malversazioni subite dalla popolazione, mentre non fa
cenno alla conquista di Sura, Hirpinum e Arcim, che è invece testimoniata dalle fonti
di origine longobarda[582]; esse attestano inequivocabilmente che l’esercito di Gisulfo giunse a
conquistare i territori fino al fiume Liri.
Il Liber ricorda, invece, l’ulteriore avanzata usque in loco qui Horrea dicitur, da porsi
probabilmente nelle immediate vicinanze di Roma, al quinto miglio della via Latina[583] e amaramente constata che nullusque extitisset
qui ei potuisset resistere.
Le condizioni delle forze imperiali, che il Liber ha mostrato negli eventi riguardanti l’esarca
Teofilatto, evidentemente erano tali da non poter riporre in esse alcuna speranza; l’esarca, che era stato
citato in merito alla gestione degli affari dei Romanae civitatis habitatores, qui non gioca alcun
ruolo.
L’unica autorità che si levò in questa circostanza - afferma la biografia di Giovanni VI - fu
quella del pontefice che, attraverso l’invio di sacerdoti come ambasciatori, ben forniti di doni da
utilizzare nelle trattative, universos captivos de eorum manibus redemit et illum cum sua hoste ad propriis
reppedare fecit. Si sottolinea qui il successo della missione, attraverso le informazioni sulla liberazione
dei prigionieri e sul successivo ripiegamento delle truppe longobarde, anche se si omette di specificare che le
città conquistate fino al fiume Liri furono mantenute.
Certamente il pontefice dovette sborsare una somma di denaro per il ritorno in libertà delle persone che
erano state catturate - i messi pontifici si erano recati presso i longobardi cum apostolici donariis
afferma la biografia - ma non è possibile chiarire se le finanze impiegate fossero quelle statali o quelle
private della chiesa di Roma. Ma, ben oltre lo specifico utilizzo di beni per rabbonire le truppe longobarde ed
intervenire così a beneficio dell’urbe e del sud del Lazio, il Liber esprime la
consapevolezza dello scrinium pontificio che in quel frangente non vi fosse ormai altra persona,
all’infuori del vescovo di Roma, dotata di autorità sufficiente ad arrestare i longobardi giunti fin
quasi sotto le mura cittadine.
La biografia di Giovanni VI racconta infine che, nonostante le difficili situazioni che dovette affrontare, il
pontefice riuscì a realizzare alcuni lavori di architettura sacra nell’urbe. Il Liber annota,
infatti, le migliorie apportate da Giovanni VI in basilica beati Andreae apostoli qui ponitur infra ecclesia
beati Petri, nella chiesa di San Marco e nella basilica di San Paolo[584].
Giovanni VII, anch’egli come il predecessore natione Grecus[585], fu consacrato papa circa un mese e mezzo dopo la morte
di Giovanni VI.
Il Liber indica il nome del padre Platone, ma non fa menzione del fatto che egli avesse esercitato la
cura Palatii urbis Romae[586], cioè fosse il responsabile della manutenzione del palazzo imperiale
del Palatino, come risulta dalle fonti epigrafiche.
Dall’iscrizioni sepolcrale di Platone si evince che Giovanni VII, prima di essere eletto pontefice, era
stato rector Appiae, aveva cioé avuto la responsabilità del patrimonio della chiesa di Roma
lungo la direttrice della via consolare; anche questo dato è taciuto dalla sua biografia[587].
Il Liber descrive inizialmente le opere fatte realizzare da Giovanni VII in diversi edifici ecclesiastici,
in particolare la costruzione dell’oratorio della madre di Dio nella basilica Vaticana ed il restauro della
basilica di Sant’Eugenia e del cimitero dei Santi Marcelliano e Marco.
Segue un’annotazione più generale che descrive la sua cura per i cicli pittorici e musivi - fecit
vero et imagines per diversas ecclesias[588] - con una notazione finale che ha un tono di critica - quas, quicumque
nosse desiderat in eis eius vultum depictum repperiet[589]. Il Liber esprime qui la voce degli addetti allo scrinium
pontificio, non ovviamente la voce stessa del papa e manifesta che, almeno in questa occasione, c’è
spazio anche per notazioni che non sarebbero state accolte dai personaggi stessi di cui si racconta la
storia.
Il Liber si sofferma più diffusamente sui lavori compiuti da Giovanni VII per la basilica di Santa
Maria Antiqua[590],
poiché oltre alla realizzazione di una serie di affreschi[591] ed alla costruzione di un nuovo ambone, il pontefice
super eandem ecclesiam episcopium quantum ad se construere maluit. La notazione non specifica
ulteriormente il contesto di questa scelta che, comunque, sottolinea ancora una volta il legame, ma non la
sovrapponibilità, dell’autorità civile e di quella religiosa. L’episcopio eretto da
Giovanni VII è a ridosso del palazzo imperiale, nel quale era avvenuta l’elezione di Sergio I e del
quale Platone era stato responsabile; il pontefice non prende possesso di tale palazzo, piuttosto ne fa costruire
uno contiguo, probabilmente collegato ad esso. La notizia che si leggerà nella vita del suo successore,
che sentirà l’esigenza di porre mano al restauro delle mura cittadine, forniscono un indizio del
sentimento di insicurezza che doveva regnare negli animi. Forse il palazzo lateranense, vicinissimo alle mura,
non dava più garanzie come in passato, ma certo la scelta di Giovanni VII è quella di abitare
vicino alla sede ufficiale del potere civile e di restaurare ed abbellire la connessa basilica di Santa Maria
Antiqua. Il dato, però, può anche essere letto alla luce di quanto il Liber scriverà
poche righe più avanti, raccontando della debolezza della posizione del pontefice che non si
opporrà ai canoni del Concilio Quinisesto. Come, in quella vicenda, egli si avvicinerà alle
posizioni costantinopolitane, così la sua stessa residenza viene fisicamente collegata al palazzo che
rappresenta in Roma l’imperatore ed il suo potere.
La biografia torna poi a parlare dei longobardi, dopo la loro ricomparsa nel Liber nel pontificato
precedente: Aripertus rex Langobardorum donationem patrimonii Alpium Cutiarum, qui longa per tempora a iure
ecclesiae privatum erat ac ab eadem gente detenebatur, in litteris aureis exaratam iuri proprio beati apostolorum
principis Petri reformavit[592]. Era stato, come si è già visto, il re longobardo Rotari,
più di sessant’anni prima a strappare all’impero il territorio della Alpi Cozie, incamerando
in pari tempo, fra i beni del nuovo regno, le proprietà ecclesiastiche come quelle statali[593]. Ora il re decideva di
rimettere le proprietà un tempo già appartenute alla chiesa nelle mani della sede apostolica, pur
conservando il governo dei territori che non venivano, invece, restituiti all’impero. La notizia manifesta
l’indipendenza dell’azione pontificia da quella imperiale, relativamente a questa questione, e
conferma la grande autorità della sede apostolica al di fuori dei confini imperiali; ad essa si piegava il
re longobardo riconoscendo i diritti della chiesa romana, ma non quelli dell’imperatore di
Costantinopoli.
La biografia racconta poi del ritorno al potere di Giustiniano che, provenendo dalle regioni dei Cazari dove si
era rifugiato, con il soccorso di Tervel, re dei Bulgari, usque ad regiam urbem veniens regnum proprium de quo
proiectus fuerat adeptus est[594]. Il Liber si sofferma, in primo luogo, a descrivere la vendetta che
egli esercitò nei confronti degli usurpatori: Leonem etiam et Tiberium, qui locum eius usurpaverant,
coepit et in medio circus coram omni populo iugulari fecit[595]. Si tace, invece, la notizia, riportata dai cronisti
bizantini, dell’invio a Roma del patriarca Callinico, che era stato fatto accecare come punizione per
l’appoggio da lui fornito a Leonzio e successivamente a Tiberio II[596]. L’allontanamento di Callinico nell’urbe e,
soprattutto, il suo essere stato sfigurato dovevano valere, probabilmente, come un terribile monito per la sede
apostolica.
Il Liber, invece, racconta della nuova richiesta imperiale di sottoscrivere i canoni del Concilio
Quinisesto, che Sergio I si era rifiutato di firmare. Una volta assunto nuovamente il potere, infatti,
l’imperatore pro tomos quos antea sub domno Sergio apostolicae memoriae pontifice Romam direxerat, in
quibus diversa capitula Romanae ecclesiae contraria scripta inerant, duos metropolitas episcopos demandavit,
dirigens per eos et sacram per quam denominatum pontificem coniuravit ac adhortavit ut apostolicae ecclesiae
concilium adgregaret et quaeque ei visa essent stabiliret et quae adversa rennuendo cassaret[597]. La biografia di Giovanni VII
annota subito che il pontefice, humana fragilitate timidus, hos nequaquam emendans per suprafatos metropolitas
direxit ad principem[598].
Del nuovo invio dei documenti del Quinisesto si ha notizia solo da queste righe del Liber ed è
difficile valutare da queste scarne espressioni se l’offerta dell’imperatore di poter accogliere i
canoni confacenti alla visione romana e respingere gli altri fosse sincera o avesse unicamente il fine di far
uscire allo scoperto la sede apostolica. Sta di fatto che proprio questo timore ebbe Giovanni VII che
rimandò il testo senza apportarvi correzioni. La presenza di Callinico accecato, non riferita dal
Liber, dovette spingere il pontefice a miti consigli ed egli non ebbe la forza di opporsi frontalmente
all’imperatore. La notizia è, comunque, indice della contesa tra l’imperatore ed il pontefice
che si rinnovava ogni volta di nuovo, anche se diversi erano gli attori e diversa l’intensità delle
azioni. Se Tiberio II aveva probabilmente cercato di riprendere in mano la situazione dell’Italia con
l’invio di Teofilatto, qui Giustiniano con ben maggiore decisione, come mostrerà ancor più
chiaramente la biografia di Costantino papa, tornò a fare pressioni sul pontefice.
Contrapposta all’energia di Giustiniano è qui la debolezza di Giovanni VII, che è presentata
dal Liber con parole che non possono certamente essere prese come un elogio: humana fragilitate
timidus. Agli occhi dei redattori della biografia pontificia, Giovanni VII non aveva avuto il coraggio
nemmeno di assumere quello spazio di manovra che la richiesta imperiale sembrava concedergli, quando lo aveva
invitato a fare una cernita dei canoni che potevano essere accolti e di quelli che dovevano essere rifiutati. Il
particolare di questa disponibilità imperiale ad un compromesso ha quasi il sapore di una invenzione dei
redattori del Liber, tanto deciso appare altrimenti l’operato imperiale; se così fosse,
l’elemento indicherebbe ulteriormente la disapprovazione dell’accaduto, da parte dei redattori del
Liber, a motivo della pavidità del pontefice. Egli, comunque, non difende le posizioni romane, come
i suoi predecessori, fino ad esporre la sua stessa persona, ma si piega al potere civile. Le biografie successive
forniranno ulteriori elementi per meglio comprendere le esitazioni di Giovanni VII.
Nella biografia di Sisinnio, il Liber racconta che il pontefice, consacrato circa tre mesi dopo la morte
del suo predecessore, sedit dies XX[599]. Egli dovette essere un candidato di compromesso in una elezione che si
dovette presentare come non facile a motivo della presenza sul trono di Giustiniano II, dinanzi al quale Giovanni
VII non era riuscito a mantenere, secondo la prospettiva dei redattori del Liber, la fermezza che essi si
aspettavano. La figura di Sisinnio è descritta con i tratti di una malattia grave che menomava fortemente
la stessa libertà fisica del pontefice: vir podagrico humore ita tenebatur constrictus ut sibi cibum
propriis manibus exhibere non valeret[600]. Non poteva essere casuale la scelta di una personalità con tali
problemi fisici, nonostante subito il Liber aggiunga che egli erat tamen constans animo et curam agens
pro habitatoribus huius civitatis[601] - nell’ultima espressione è da sottolineare la terminologia che
pone in rilievo gli abitanti dell’urbe e non la loro fede religiosa.
L’unico importante evento che è ricordato nella breve biografia di Sisinnio è l’ordine
che egli dette in vista di un rafforzamento del sistema difensivo delle mura della città: qui et
calcarias pro restauratione murorum iussit dequoquere[602].
Questa notizia lascia trasparire, come peraltro già denotava il convergere dei consensi su di una figura
provata nella salute con la conseguente prospettiva di una non lunga permanenza sul soglio pontificio,
l’insicurezza che doveva regnare in quel frangente in Roma.
Costantino, forse fratello di Sisinnio[603], fu consacrato circa un mese e mezzo dopo la morte di Sisinnio. Era stato uno
degli inviati di Agatone al Concilio Costantinopolitano III[604] e, successivamente, come apocrisario di Leone II si era
recato nuovamente nella capitale dell’impero, recando la lettera con la quale il papa ratificava le
decisioni conciliari[605].
La sua biografia pontificia descrive innanzitutto la carestia che colpì Roma e la successiva abbondanza
alimentare sopraggiunta durante il suo pontificato, ponendo immediatamente ancora una volta il vescovo di Roma in
relazione agli eventi che condizionavano la vita cittadina ed il suo benessere: cuius temporibus in urbe Roma
famis facta est magna per annos III; post quem tanta fuit ubertas et fertilitatis copia praeteritae sterilitatis
inopiam oblivioni mandaret[606].
Il Liber prosegue riferendo un episodio che dette origine ad una rinnovata tensione tra la sede di Ravenna
e quella di Roma. Quando, infatti, il pontefice ordinò come vescovo ravennate Felice, egli secundum
priorum suorum solitas in scrinio noluit facere cautiones, sed per potentiam iudicum exposuit ut
maluit[607].
L’azione si svolge in Laterano - in scrinio - ed il nuovo arcivescovo ravennate si rifiutò di
facere cautiones, non sottoscrisse cioé i documenti che confermavano la sua piena obbedienza alla
sede apostolica[608]. La
biografia pontificia, dopo aver riferito che fu allora Costantino stesso a deporre al posto di Felice i documenti
presso la tomba di San Pietro per ritrovarli poi miracolosamente come arsi dal fuoco, collega questo evento con
la terribile vendetta che Ravenna subì da parte dell’imperatore Giustiniano salito nuovamente al
trono, come si è già visto, dopo che ne era stato precedentemente deposto. Il Liber racconta
che l’imperatore inviò Teodoro, patricius et primus exercitus Siciliae[609], con la flotta ad attaccare
Ravenna dal mare. Una volta presa la città, fece deportare i maggiorenti che, tradotti a Costantinopoli,
furono puniti con la morte, mentre Felice fu accecato e poi esiliato nel Ponto. La biografia pontificia afferma
esplicitamente che tali nefasti eventi colpirono Ravenna Dei iudicio et apostolorum principis Petri sententia,
qui inoboedientes fuerunt apostolicae sedis[610]. Sembra, però, essere fuori discussione che l’azione fu invece
comandata da Giustiniano come punizione dell’intervento di Ravenna contro il protospatario Zaccaria,
inviato nella penisola dall’imperatore ai tempi di Sergio I[611], perché tutti sottoscrivessero i canoni del
Quinisesto e, probabilmente, per recuperare in pienezza il controllo dell’intero esarcato, poiché
l’azione contro il legittimo inviato dell’imperatore non poteva che configurarsi come ribellione
all’impero stesso.
Il Liber si sofferma poi lungamente sul viaggio che il pontefice compì a Costantinopoli su
richiesta diretta dell’imperatore. Quest’ultimo, infatti, inviò sacram per quam iussit eum
ad regiam ascendere urbem[612]. Il Liber, sottolineando l’inappellabilità della richiesta
imperiale e la docilità nella risposta del pontefice, continua: qui sanctissimus vir iussis imperatoris
obtemperans ilico navigia fecit preparari, quatenus iter adgrederetur marinum[613]. Segue l’elenco dei chierici che
accompagnarono il pontefice, ad indicare probabilmente la prontezza della sede romana nell’adempiere al
voto imperiale ed, insieme, l’unità dello scrinium pontificio: secuti sunt eum Nicetas,
episcopus de Silva Candida, Georgius episcopus Portuensis, Michaelius, Paulus, Georgius presbiteri, Gregorius
diaconus, Georgius secundicerius, Iohannes defensorum primus, Cosmas sacellarius, Sisisnnius nomencolator,
Sergius scriniarius, Dorotheus subdiaconus et Iulianus subdiaconus et de reliquis gradibus ecclesiae clerici
pauci[614].
La biografia pontificia non esplicita il motivo della richiesta imperiale; è, però, evidente, data
anche la rappresentatività della delegazione, che la richiesta era un fatto che esulava assolutamente dai
consueti rapporti che legavano l’imperatore ed il vescovo di Roma.
L’eccezionalità dell’evento doveva nascondere una precisa strategia imperiale, come si evince
dai fatti che seguirono immediatamente la partenza del pontefice: veniens igitur Neapolim illic eum repperit
Iohannes patricius et exarchus cognomento Rizocopus; qui veniens Romam iugulavit Saiulum diaconum et vicedominum,
Petrum archarium, Sergium abbatem presbiterum et Sergium ordinatorem[615]. Ancora una volta il Liber è fortemente
ellittico: ad una frase che sembra descrivere semplicemente una tappa del viaggio pontificio, quella di Napoli
dove incontra l’esarca Giovanni Rizocopo, segue improvvisamente ed immediatamente il racconto della strage
di ecclesiastici fatta dallo stesso esarca.
Non è difficile intravedere qui un piano preordinato dall’imperatore che, mentre ordinava il viaggio
del papa nella capitale, privava così Roma dell’unica autorità in grado di tenergli testa e,
facendo uccidere coloro che Costantino aveva designato a reggere la città in sua assenza, inviava un
fortissimo segnale al pontefice in viaggio verso di lui, perché fosse consapevole della forza e della
decisione con la quale l’autorità imperiale intendeva agire.
Certo il Liber non tace il gravissimo episodio, ma sembra quasi volerlo minimizzare[616], senza addossarne
esplicitamente la causa all’imperatore e, soprattutto, descrivendo il successivo procedere del viaggio come
un solenne corteo verso Costantinopoli, con il pontefice che viene ovunque accolto con tutti gli onori. Il fatto
è, comunque, di un enorme interesse: se, da un lato, testimonia ancora una volta in maniera chiarissima
che Roma ed il suo vescovo sono pienamente inseriti nell’unico imperium guidato dal sovrano di
Costantinopoli che interviene liberamente in Roma con suprema autorità, avendo sia il diritto di ordinare
al pontefice di recarsi presso di lui, sia di intervenire direttamente, senza la sua mediazione, nei confronti
dell’amministrazione dell’urbe, d’altro canto attesta che l’azione imperiale in Roma
è possibile solamente in assenza del pontefice. La presenza del pontefice in Roma era così decisiva
per la città che solo il suo allontanamento permetteva di avere libero campo nell’urbe. Il vescovo
di Roma appare, insomma, come il vero protettore e difensore non solo del clero, ma anche della città.
Dopo aver accennato ai primates ecclesiae fatti uccidere da Giovanni Rizocopo, in assenza del pontefice,
il Liber prosegue raccontando della morte dell’esarca: pergens Ravennam proque suis nefandissimis
factis iudicio Dei illic turpissima morte occubuit[617]. La fine del Rizocopo non è descritta, ma nuovamente l’evento
viene attribuito alla divina provvidenza che rende giustizia ai malvagi aggressori della sede apostolica:
iudicio Dei[618].
La biografia pontificia riprende poi il racconto del viaggio pontificio che, dopo Napoli, tocca Reggio e la
Sicilia, dove Costantino viene accolto dal supremo comandante Teodoro che gli tributa ogni onore - magna cum
veneratione salutans atque suscipiens[619]. Inde egredientes per Regium et Cotronam transfretavit Callipolim, ubi
mortuus est Nicetas episcopus[620]: dalla Sicilia, cioé, la spedizione ritorna sulla penisola e, in una
delle tappe, muore il vescovo Niceta. Il viaggio compiuto dal pontefice verso Costantinopoli, pur con tutti gli
onori narrati, si manifesta come un evento carico di difficoltà e la descrizione di esso rende edotti
della problematicità delle comunicazioni fra la capitale e la sede romana.
Seguì il trasferimento ad Otranto, dove si dovette passare l’inverno - eo quod hiemps
erat[621]. Lì
il pontefice suscepit sigillum imperialem per Theophanium regionarium, continentem ita ut ubiubi denominatus
coniungeret pontifex, omnes iudices ita eum honorifice susciperent quasi ipsum praesentialiter imperatorem
viderent[622]. In
primavera la spedizione giunse in Grecia, dove fu accolta cum summo honore[623] da Teofilo, patricius etstrategos del
thema dei Caravisani[624]. Infine il pontefice ed i suoi accompagnatori giunsero a septimo miliario
Constantinopolim. Ubi egressus Tiberius imperator, filius Iustiniani Augusti, cum patriciis et omni sinclito et
Cyrus patriarcha cum clero et populi multitudine, omnes letantes et diem festum agentes, pontifex et eius
primates cum sellares imperiales, sellas et frenos inauratos simul et mappulas, ingressi sunt civitatem;
apostolicus pontifex cum camelauco, ut solitus est Roma procedere, a palatio egressus in Placidias usque, ubi
placitus erat, properavit[625]. L’imperatore - racconta il Liber - fece chiamare il pontefice a
Nicea, in Bitinia. Non appena lo vide, Augustus christianissimus cum regno in capite sese prostravit et pedes
osculans pontificis; deinde in amplexu mutuo corruerunt; et facta est letitia magna in populo, omnibus
aspicientibus tantam humilitatem boni principis[626]. Infine, die vero dominico missas imperatori fecit; et communicans princeps
ab eius manibus proque suis delictis ut deprecaretur pontificem postulans, omnia privilegia ecclesiae renovavit
atque sanctissimum papam ad propria reverti absolvi[627].
Che il dialogo fra l’imperatore ed il pontefice dovette vertere certamente anche sui canoni del Quinisesto
non risulta da alcun passaggio della notizia di Costantino, ma è denunciato chiaramente dal Liber
pontificalis nella biografia successiva di Gregorio II quando, nel presentare i suoi trascorsi precedenti
alla consacrazione a vescovo di Roma di lui si afferma: cum viro sancto Constantino pontifice regiam profectus
est urbem; atque a Iustiniano principe inquisitus de quibusdam capitulis optimam responsionem unamquamque solvit
quaestionem[628]. Il
silenzio del Liber, al di là di questo accenno, non permette di sapere con certezza cosa dovette
avvenire. La biografia pontificia esalta, sostanzialmente l’opera del pontefice e dei suoi collaboratori,
prima nel racconto degli onori tributati a Costantino e successivamente nel rapido accenno alla questione nella
biografia di Gregorio, ma lascia trasparire anche la decisione con cui l’imperatore affrontò la sede
romana, sia attraverso il durissimo intervento contro i primates ecclesiae rimasti a custodia
dell’urbe, sia nella richiesta perentoria rivolta al pontefice di recarsi nella lontana capitale in
Oriente.
È lecito ipotizzare che possa aver pesato a favore di un allentamento delle tensioni fra
l’imperatore ed il pontefice la crescente debolezza della situazione politica della casa imperiale.
Giustiniano II aveva, infatti, inviato tra la fine del 710 e gli inizi del 711 una spedizione punitiva contro la
città di Cherson, in Crimea, dove era stato precedentemente esiliato, e la popolazione locale si era unita
all’ammutinamento della flotta e dell’esercito, evento che avrebbe portato, infine, proprio nel 711,
alla seconda e definitiva detronizzazione dell’imperatore e, questa volta, alla sua
decapitazione[629].
Il ritorno del pontefice a Roma fu trionfale: incolomis portum Gaiete pervenit ubi sacerdotes et maxima populi
Romani repperit multitudinem, ac XXIIII die mens. octob., indictione X, Romam ingressus est; omnis populus
exultavit atque laetatus est[630]. Il Liber sottolinea qui la discesa fino a Gaeta[631] dei sacerdoti e di una grande
rappresentanza della città e la festosa esultanza al momento dell’ingresso in Roma del pontefice
incolomis. La precedente notizia dell’intervento contro i primates ecclesiae offre lo sfondo
di questa esultanza, motivata certo dal ritorno della persona fisica del pontefice, ma anche dalla fine del
periodo di assenza dalla città di colui che ne rappresentava la sicurezza e l’ordine.
Dopo la consueta notizia sulle ordinazioni episcopali[632], la biografia papale narra della morte di Giustiniano II e dell’ascesa
al trono di Filippico. Le ombre sulla figura di Giustiniano sono qui totalmente cancellate, dinanzi alla
severità con cui è presentato, con brevissime note, il nuovo regnante, Philippicus
hereticus[633].
Come si è visto, Filippico Bardane, generale bizantino di origine armena, salì al potere sfruttando
il malcontento, degenerato in rivolta militare a partire dalla Crimea, creato da Giustiniano e dalla sua sete di
vendetta contro coloro che lo avevano detronizzato la prima volta. Il nuovo imperatore, sconfitto Giustiniano nel
711, ne inviò la testa tagliata a Roma ed a Ravenna e fece uccidere anche il legittimo erede Tiberio,
ponendo così termine definitivamente alla dinastia eraclea. Gli storici presumono che il nuovo imperatore
fosse di tendenze monofisite, a motivo della sua provenienza, ma, certamente egli si schierò
immediatamente a favore del monotelismo, emanando un editto con il quale disapprovava - e chiedeva a tutti i suoi
sudditi, pontefice compreso, di fare altrettanto - le decisioni del Concilio Costantinopolitano III,
accompagnando questo gesto con la distruzione di un’immagine del Concilio stesso che era nel Grande Palazzo
imperiale[634].
Nel Liber pontificalis Filippico non è condannato esplicitamente come l’uccisore del suo
predecessore, sebbene si dica chiaramente che Giustiniano trucidatus est[635]. Piuttosto i due vengono contrapposti a motivo
delle loro posizioni teologiche, Giustiniano come christianissimus et orthodoxus imperator e Filippico
come hereticus. È la prima volta, nel periodo che questo studio passa in rassegna, che un
imperatore è qualificato con il termine di eretico. In tutte le precedenti controversie teologiche, il
Liber aveva sempre cercato di attribuire ai diversi patriarchi di Costantinopoli la responsabilità
delle posizioni dogmatiche rifiutate da Roma in quanto contrarie alla fede cattolica. Qui l’attacco
è diretto esplicitamente contro la figura dell’imperatore.
La biografia di Costantino riferisce dell’arrivo a Roma dei documenti imperiali a favore del monotelismo e
del loro rigetto, facendo menzione di un particolare che si contrappone alla notizia della rimozione nella
lontana capitale imperiale delle immagini del Costantinopolitano: cuius et sacra pravi dogmatis exaratione
suscepit, sed cum apostolicae sedis concilio respuit. Huiusque rei causa zelo fidei accensus omnis coetus Romane
urbis, imaginem quod Greci Botarea vocant, sex continentem sanctos ac universales synodos, in ecclesia beati
Petri erecta est[636].
Il Liber narra poi dei rapporti del pontefice con la sede ravvennate, con i re sassoni e con
l’arcivescovo di Milano. In particolare, si menziona la riconciliazione richiesta dall’arcivescovo di
Ravenna Felice, tornato dall’esilio dopo essere stato accecato da Giustiniano, e della ristabilita
comunione con quella sede. Si riferisce poi della conferma della decisione che fosse il pontefice e non il
presule milanese ad ordinare il vescovo della chiesa ticinese, cioè della capitale del regno longobardo,
Pavia. Infatti l’arcivescovo di Milano Benedictus, venuto a Roma, altercavit vero et pro ecclesia
Ticinense, sed convictus est, eo quod a priscis temporibus sedis apostolicae eiusdem Ticinensi ecclesiae antistes
ad consecrandum pertinebat atque pertinet[637]. La notizia sottolinea indirettamente non solo il rapporto fra la metropolia
ormai da tempo longobarda di Milano e Roma, ma, soprattutto, la relazione diretta che esisteva fra il vescovo di
Roma e la diocesi pavese, probabilmente determinata dal fatto che quella città era divenuta capitale del
regno longobardo. Il fatto che la consacrazione del suo vescovo dovesse avvenire per opera del pontefice è
un chiaro segno che esisteva poi una relazione che il presule doveva mantenere con l’urbe e che il rapporto
stretto, quindi, non si esauriva al momento della consacrazione stessa.
L’ultima parte della biografia di Costantino è dedicata alla lotta avvenuta nell’urbe al
sopraggiungere del duca Petrus, inviato da Filippico a sostituire Christoforus. È la prima
attestazione in ordine cronologico, all’interno del Liber, dell’esistenza di un ducato romano.
Filippico vuole sostituire il dux in carica con un suo successore che gli sia pienamente fedele. La
biografia pontificia non fornisce così alcuna indicazione sulle circostanze ed il periodo nel quale
l’impero istituì una tale carica in Roma. Certamente Christoforus è dux
dell’urbe prima che giunga Petrus, ma non è dato sapere se anche egli abbia avuto dei
predecessori. Si è già visto come alcuni autori, a partire da discusse attestazioni epigrafiche e
da ipotesi storiografiche, abbiano proposto di retrodatare l’esistenza di un ducato romano già ai
tempi del pontificato di Vitaliano o, addirittura, alla fine del VI secolo. Le notizie del Liber relative
alla vita di Costantino danno, comunque, la certezza che nei primi anni dell’VIII secolo la presenza di un
duca di Roma è una realtà. Non è difficile ipotizzare che l’impero sentisse ormai
l’esigenza di un ufficiale dotato di una certa autonomia, sebbene sempre sottoposto all’esarca di
Ravenna, in maniera da poter agire più rapidamente in una situazione che vedeva una crescente
localizzazione dei poteri. Il rango inferiore a quello dell’esarca, conferiva da un lato, un maggior potere
all’esarca stesso che aveva un suo diretto sottoposto nell’urbe, ma, d’altro canto, doveva
necessariamente legare maggiormente il dux agli interessi del territorio nel quale quest’ultimo si
trovava a svolgere il suo incarico, ponendolo più facilmente in balia dei gruppi di influenza locali.
È ciò che appare chiaramente già nella notizia di Costantino. L’imperatore, infatti,
cum statuisset populus Romanus nequaquam heretici imperatoris nomen aut chartas vel figuram solidi
susciperent, unde nec effigies in ecclesia introducta est, nec suum nomen ad missarum solemnia proferebatur,
contigit ut Petrus quidam pro ducatu Romane urbis Ravennam dirigeret, et praeceptum pro huiusmodi causam
acciperet[638]. La
notizia esplicita l’ostilità del populus Romanus nei confronti del nuovo imperatore
hereticus. Egli non viene considerato imperatore dalla popolazione e se ne rifiutano le immagini e
l’inserimento del nome nella preghiera eucaristica, elementi che, invece, appartenevano alla prassi romana.
Petrus doveva essere stato nominato dall’esarca o dall’imperatore stesso come nuovo dux
della città, poiché il suo predecessore doveva essere ritenuto, se non ostile, almeno incapace di
mantenere nell’urbe l’autorità imperiale.
Ma, alla notizia dell’arrivo del dux incaricato di condurre Roma ed il pontefice
all’obbedienza imperiale, zelo fidei accensa magna pars populi Romani statuerunt ullo modo hunc ducem
suscipere[639]. Il
Liber presenta il popolo romano come protagonista, senza accennare ad alcuna sollecitazione pontificia,
ma, evidentemente, la cttà si stringeva intorno al suo vescovo a fare quadrato: et factum est, dum
Christoforus, qui erat dux, ob hanc causam cum Agathone et suis hominibus concertarent, bellum civile exortum
est, ita ut in via Sacra, ante palatium, sese committerent et ex utrisque partibus amplius quam XXX
flagellarentur atque interirentur, donec pontifex mitteret sacerdotes cum evangelia et crucem Domini, sicque
partes sedarent. Nam pars Petri in angustia sita ulla illi erat spes vivendi[640]. Non è dato sapere chi fosse
l’Agatone di cui parla la biografia pontificia, ma egli appare come un laico capace di muovere le forze
cittadine e di sostenere il duca Cristoforo al punto da costituire una fazione più forte di quella che
sosteneva il nuovo dux designato dall’imperatore. Il Liber descrive l’accaduto con il
termine caratteristico di bellum civile. Una parte considerevole della città rifiutava la politica
imperiale di Filippico e faceva quadrato intorno al precedente dux.
Agatone e Cristoforo, con i loro uomini, si arrestarono, però, dinanzi alla presenza dei sacerdoti inviati
dal pontefice, riconoscendone l’autorità. È uno spaccato significativo dello status
quo nell’urbe dei primi anni dell’VIII secolo. Non vi è alcun dubbio, dal punto di vista
formale, che il potere debba essere esercitato dall’impero e dai suoi delegati, che in particolare sia il
dux ad avere teoricamente il controllo della città. Ma non appena la situazione fuoriesce dai
binari dell’ordinaria amministrazione, come in questo caso nel quale un nuovo duca è inviato ed il
predecessore non recede dal suo incarico anzi ha il sostegno della popolazione, ecco che solo l’intervento
pontificio ha il potere di sedare gli animi: nella prassi concreta, cioè, la città ha bisogno di
un’autorità, quella pontificia, che è sentita come superiore a quella di entrambi i
duces e che sola può prendere in mano le redini della situazione.
Nella processione inviata dal pontefice e composta da sacerdoti è evidente il nesso molto stretto tra
l’autorità spirituale del vescovo di Roma e la sua riconosciuta autorità civile. Anche la
parte del dux Christoforus e di Agatho che il Liber non esita a definire christiana a
differenza di quella avversa, si arrestò all’arrivo degli inviati del pontefice: verum, ad
pontificis iussum pars alia, qui et Christiana vocabatur, recessit; sicque defensores heretici pars valuit Petri,
vel si attrita, recedere[641].
Alcuni autori tendono a leggere in questi fatti quasi un’opposizione creatasi tra il pontefice[642], che si trovò di fatto a
difendere la vita di un rappresentante dell’imperatore eretico, e la città che faceva quadrato
contro Filippico sostenuta da ambienti del clero stesso. Ma la notizia non fornisce elementi che vadano in questa
direzione: essa sembra molto più interessata, invece, al fatto che quella del pontefice è la vera
autorità che guida la città sia quando il potere imperiale è rappresentato dal dux
Christoforus, sia quando, come avverrà dopo la morte di Filippico, finalmente Petrus
potrà prendere, come si vedrà fra breve, il potere.
Infatti, alla notizia della morte di Filippico e dell’ascesa al trono di Anastasio, orthodoxus
Augustus, ci fu orthodoxis exultatio magna, tenebrarum autem dies cunctis hereticis superfusa
est[643]. Il nuovo
imperatore inviò a Roma il neo esarca Scolasticius, deferens secum sacra Anastasii principis,
per quam vere se orthodoxae fidei praedicatorem et sancti sexti concilii confessorem esse omnibus
declaravit[644].
L’imperatore viene qui presentato come uno che deve offrire le credenziali della sua legittima ascesa al
trono ed il Liber prosegue: quem et pontifici obtulit[645]. L’esarca poté allora proseguire verso la
propria sede, Ravenna, e Pietro ricevere il ducato di Roma, non senza prima aver promesso
l’incolumità a coloro che si erano a lui ribellati; il dux viene ora insediato, poiché
è rappresentante di un imperatore riconosciuto come tale dal pontefice: dum autem haec gererentur,
obtinuit Petrus ducatum, promittens quod nequaquam adversare niteret[646].
Il procedimento della designazione del pontefice, negli anni che vanno da Martino I a Costantino, non solo
continua a rivelarsi un passaggio decisivo per comprendere il rapporto fra la sede romana e l’impero, ma
anzi diviene uno snodo ancora più significativo nel tentativo imperiale di aumentare il controllo
sull’urbe e, d’altra parte, nell’effettivo accrescimento di indipendenza del vescovo di
Roma.
Sebbene il Liber sorvoli sulla questione, il primo dato da registrare è l’elezione e la
consacrazione di Eugenio I, mentre il suo predecessore è ancora in vita. L’evento lascia
trapelare, da un lato, la determinazione di Costante II nell’indicare che la condanna di Martino I è
inappellabile, poiché l’imperatore ha l’autorità di rimuovere il vescovo di Roma,
così come ogni altro vescovo dell’impero, ma, d’altro canto, potrebbe essere interpretato come
segno di grande realismo dello scrinium pontificio consapevole di avere bisogno di un punto di riferimento
nella gestione della chiesa e della città.
Il tempo che intercorre fra il processo di Martino I e la consacrazione di Eugenio I è di circa sei mesi,
ma il Liber non fornisce indicazioni per valutare se ciò sia dovuto alla decisione del clero romano
di prendere tempo nella speranza di una riabilitazione di Martino I oppure alla scelta imperiale di lasciare
acefala la sede apostolica. Certo è che l’eletto viene presentato, come si è visto,
clericus a cunabulis[647], cioè - leggendo fra le righe - espressione delle visioni romane ed in
piena continuità con il suo predecessore. La sua successiva decisione di rifiutare la lettera sinodica del
nuovo patriarca costantinopolitano, se pure viene attribuita dal Liber alla coesione del clero e del
popolo romano che gli fa promettere solennemente di mai accoglierla prima che celebri una solenne liturgia,
mostra come egli sposasse le visioni della sede apostolica e non fosse un candidato succube della visione
imperiale.
Nel frattempo doveva essere maturata una diversa visione delle cose da parte di Costante II, poiché non
solo non risulta che egli sia intervenuto con mano pesante nei confronti di Eugenio I, che pure aveva compiuto un
rifiuto di ottemperare alle disposizioni teologiche costantinopolitane esattamente come il suo predecessore, ma
anzi appare favorevolmente disposto verso il suo successore Vitaliano. La sua consacrazione è, infatti,
estremamente rapida - solo due mesi dopo la morte di Eugenio I - ed è descritta da Liber, come
occasione nella quale l’imperatore, ricevuta la notizia, si degnò di inviare doni al nuovo vescovo
di Roma.
Si è già visto come, in questo caso, la biografia pontificia permetta di essere edotti di un
importante particolare del complesso cerimoniale che legava la sede romana e l’imperatore, in occasione
della consacrazione. Nel caso in cui era l’esarca a dare l’assenso per la consacrazione, il pontefice
era tenuto ad inviare una sinodica significans de ordinatione sua[648]. L’imperatore era, cioè, comunque
coinvolto nell’evento che poteva dirsi concluso solo una volta che egli avesse rinnovato al nuovo pontefice
il favore accordato ai suoi predecessori.
È probabile che il rinnovato clima di benevolenza con il quale Costante II si rivolgeva a pontefici che
erano diteliti, come i loro predecessori, fosse dovuto al maturare della sua decisione di spostare in occidente
il baricentro della sua azione ed alla conseguente necessità di preparare un retroterra favorevole alla
sua futura spedizione.
Niente di significativo sembra doversi registrare in merito alle elezioni di Adeodato II, Dono ed Agatone che
sedettero uno dopo l’altro sul seggio di Pietro. Gli studiosi, come si è visto, deducono dalla
cronologia degli eventi che le vacanze sulla sede pontificia durarono fra i due mesi e mezzo ed i quattro e
mezzo, mentre il Liber non denuncia niente di rilevante in merito. I tempi relativamente brevi lasciano
presumere che, in tutte e tre le circostanze, sia stato l’esarca a dare l’assenso alla consacrazione
e che, per il resto, si sia seguita la prassi ordinaria.
Nella biografia di Agatone un elemento segnala il rinnovarsi della centralità della questione. Il
Liber, come si è visto, narra dell’accoglienza positiva, da parte imperiale, della esplicita
richiesta del pontefice che fosse abolita la tassa dovuta dalla sede apostolica ad ogni nuova consacrazione:
quantitas qui solita erat dari pro ordinatione pontificis facienda[649]. Non è chiaro se qui si tratti di
un’abrogazione totale o, come è più probabile, di una diminuzione del versamento, ma la
notizia va, comunque, colta come uno spiraglio che lascia intravedere la complessa relazione anche simbolica che
doveva intercorrere fra i vescovi ed il potere civile. La tassa dovuta non solo indicava l’appartenenza del
pontefice - e degli altri vescovi ordinandi - ad un ordinamento che aveva a capo l’imperatore, elemento che
era inteso anche dalla necessità di attendere la iussio per giungere alla consacrazione, ma
esprimeva anche che l’eletto era tenuto a corrispondere allo Stato, in qualità di responsabile
dell’amministrazione, le tasse per sé e per la popolazione di cui si faceva garante. Egli riceveva
fondi dall’amministrazione statale per l’esercizio del proprio mandato e, contemporaneamente, era
tenuto a corrispondere le legittime tasse che la legislazione vigente esigeva; la tassa non era dovuta - sembra
di intuire - dal vescovo di Roma a titolo di privato cittadino che sborsare qualcosa per un beneficio personale
ricevuto o per una ricchezza che sarebbe sopravvenuta, ma piuttosto per mano del pontefice a nome del clero,
dell’esercito e del popolo dell’urbe che venivano riconfermati all’interno della compagine
imperiale, assumendosi a loro volta l’onore e l’onore di prendersi cura di essa. L’esplicita
menzione del fatto indica, fra l’altro, che la tassazione non doveva essere lieve[650].
Il Liber rende edotti che, però, l’imperatore non si limitò ad accogliere le richieste
romane, ma liberando la sede romana del peso della tassazione dovuta per l’ordinazione, colse
l’occasione per legarla più strettamente a sé - come si è già visto - tornando
ad imporre l’obbligo di attendere che la iussio giungesse direttamente dalla lontana Costantinopoli
e non da Ravenna: non debeat ordinari qui electus fuerit, nisi prius decretus generalis introducatur in regia
urbe, secundum antiquam consuetudinem[651]. Il fatto che la biografia pontificia definisca la cosa come antiqua
consuetudo lascia intuire che, dal punto di vista romano, la decisione era nell’ordine delle cose. Al
termine iussio, abituale nel Liber, è aggiunto qui il vocabolo scientia - et cum eorum
[imperatoris et filiorum] scientiam et iussionem debeat ordinatio provenire[652] - quasi a suggerire che, comunque, non si tratta,
dal punto di vista romano, di un diritto di opzione da parte degli imperatori, ma di una loro presa di conoscenza
di un evento che viene deciso nella città di Roma, indipendentemente da eventuali attese della
capitale.
Immediatamente, nella vicenda del successivo pontefice Leone II, è possibile cogliere quanto le nuove
disposizioni condizionassero la vita dell’urbe a partire dal semplice fatto che il neo eletto fu ordinato
circa un anno e mezzo dopo la morte del predecessore - anche se, come di consuetudine, il Liber non
accenna minimamente a questo ed il dato emerge unicamente dagli studi cronologici degli storici. Come si è
già ricordato, ciò denota che fu effettivamente seguita la norma che chiedeva di attendere il
consenso imperiale, ma, al contempo, che l’imperatore, forse volutamente, si prese un lungo tempo per
sottoscrivere la iussio in merito[653]. Il dato mostra ancora una volta di più come la consacrazione del
pontefice fosse strettamente dipendente dal vertice della compagine civile e come gli inconvenienti che ne
derivavano, ogni volta che l’imperatore avesse voluto far pesare tutto il suo potere, si palesassero
immediatamente, a partire dalla possibilità di una lunghissima vacatio sedis.
Anche il successore di Leone II, Benedetto II, dovette attendere un lungo periodo, circa un anno, prima che
giungesse la iussio necessaria per l’ordinazione. Ma, in maniera inaspettata, il Liber
registra che, nel corso del suo pontificato, l’imperatore stesso che aveva emanato la norma che prevedeva
il ritorno alle antiche consuetudini, ora la revocava. Infatti, come si è visto, Benedetto II suscepit
divales iussiones clementissimi Constantini magni principis [...] per quas concessit ut persona qui electus
fuerit in sedem apostolicam e vestigio absque tarditate pontifex ordinetur[654]. La scelta sarà ormai definitiva. Nei
pontificati successivi nessun imperatore chiederà più un ritorno alla prassi precedente. Da questo
momento sarà sufficiente l’assenso dell’esarca di Ravenna[655]. La decisione di Costantino IV segna così
un’ulteriore importante tappa sulla strada dell’autonomia di Roma da Costantinopoli. Il pontefice
ricevette le divales iussiones contenenti le nuove norme sulla consacrazione, ma esse recavano, secondo il
Liber, la titolatura ad venerabilem clerum et populum atque felicissimum exercitum Romanae
civitatis[656].
Evidentemente, la questione della corretta procedura da tenere ad ogni successione pontificia riguardava
l’intera popolazione.
Giovanni V, successore di Benedetto II, fu eletto con le nuove norme, come testimoniano gli storici che calcolano
che egli fu consacrato meno di un mese dopo la morte del suo predecessore. Il Liber, ancora una volta, non
si attarda a calcolare il periodo della vacanza, ma esprime la chiara soddisfazione della sede romana per
l’abbreviarsi dei tempi, a motivo della nuova procedura. Come si è visto, la notazione è
chiara ed inequivocabile: post multorum pontificum tempora vel annorum, iuxta priscam consuetudinem, a
generalitate in ecclesia Salvatoris quae appellatur Constantiniana electus est atque exinde in episcopio
introductus[657]. A
distanza di poche pagine - e di un breve volgere di anni - i redattori del Liber, che avevano definito la
decisione imperiale di avocare a sé la iussio necessaria per la consacrazione, durante la biografia
di Agatone, una scelta secundum antiquam consuetudinem[658], ora sostengono, nella biografia di Giovanni V,
la tesi opposta, affermando che la remissione dell’autorizzazione all’esarca ravennate è
disposizione presa iuxta priscam consuetudinem[659]. Non è, comunque, mai questione della legittimità della
iussio stessa, ma della sua modalità. D’altro canto, il ripetuto soffermarsi sulle
disposizioni in merito e sulla loro evoluzione ne segnala la decisiva importanza agli occhi della sede
romana.
Le elezioni dei due papi che seguirono Giovanni V si caratterizzano, invece, per l’insorgere di gruppi che
sostengono candidati che si oppongono nell’ascesa al soglio pontificio. In entrambi i casi è
evidente l’intervento delle autorità civili e del popolo stesso nelle manovre precedenti
l’elezione e la svolta decisiva maturata in seno al clero, che, però, necessita dell’appoggio
delle altre forze in campo. Se, precedentemente, l’attenzione del Liber si era rivolta nelle notizie
precedenti alla questione dei tempi di attesa della iussio e della legittima autorità che doveva
emanarla, ora è in questione il momento stesso dell’elezione.
Nella biografia di Conone, come si è visto, è l’exercitus che si contrappone al
candidato designato dal clero. I militari, in armi, bloccano l’accesso alla basilica del Laterano, dove
doveva avvenire l’elezione, per spingere la curia ad eleggere il preferito dagli ambienti
dell’esercito, Theodorum presbiterum. Gli ambienti ecclesiastici debbono cedere alle pressioni dei
militari ed, evidentemente, non hanno la forza di procedere da soli. Ma neanche l’esercito appare in grado
di portare al successo il proprio candidato. La relativa supremazia del clero è evidente dal fatto che
l’iniziativa resta nelle sue mani ed è esso a proporre un terzo candidato nella persona di Conone,
che riesce gradito ad entrambe le parti. Non si deve dimenticare, però, il fatto che il Liber lo
presenti come persona di malferma salute e, soprattutto, se numquam aliquando in causis actusque saeculares
commiserat: questo lascia intuire che si tratta di un vero e proprio candidato di compromesso, scelto proprio
a motivo della presunzione che Conone non potrà essere una personalità forte, né destinata a
guidare la città a lungo. La notizia lo presenta, cioè, come non pienamente in grado di esercitare
l’autorità, né nel senso voluto dal clero cittadino, né in quello atteso dagli
ambienti militari.
La vicenda, nel suo complesso, manifesta ulteriormente che all’elezione non partecipavano solo i membri del
clero, ma anche i maggiorenti della città. Gli attori della vicenda appaiono suddivisi secondo il trinomio
già incontrato clerus, exercitus, populus, anche se gli iudices che una cum
primatibus exercitus accolgono infine la nuova scelta del clero potrebbero essere non rappresentanti del
potere civile, ma anch’essi militari.
Nonostante il neoeletto sia definito, come si è visto, alieno da preoccupazioni secolari è evidente
che la questione dell’elezione sorse proprio perché anche di queste questioni il vescovo di Roma
doveva prendersi cura. Il non aver mai preso posizione nelle vicende civili poteva insomma essere un motivo per
riuscire graditi al momento dell’elezione, ma implicava che in quelle questioni si dovesse poi entrare,
interpretando le necessità di coloro che avevano partecipato all’elezione stessa. La
drammaticità stessa degli eventi che si susseguono, con l’intervento di forza dell’esercito,
dice di per se stesso, quanto la questione della designazione del nuovo pontefice fosse avvertita come decisiva
non solo in ambito ecclesiale, ma per il futuro della città stessa.
Nella notizia su Conone, l’esarca rimane nell’ombra, comparendo semplicemente come il destinatario
della consueta lettera che richiedeva il permesso per la iussio che, quindi, doveva essere necessaria,
sebbene la notizia nella biografia di Benedetto II nel riportare le divales iussiones in merito alle nuove
norme sull’elezione pontificia non lo abbia precedentemente ricordato espressamente. Il Liber non
permette così di determinare se gli armati agissero in seguito ad una propria indipendente decisione presa
nell’urbe o se essa fosse stata condizionata da Ravenna.
Con l’elezione di Conone si assiste, comunque, al tentativo di condizionare la sede apostolica durante
l’elezione stessa. Probabilmente era maturata la convinzione dell’inefficacia, alla resa dei conti,
di una politica che cercasse di condizionare il pontefice una volta eletto: l’esarca potrebbe essere
all’opera attraverso l’exercitus nel tentativo di ottenere un maggiore controllo dello
scrinium pontificio, anticipando i tempi rispetto al passato ed intervenendo nella scelta stessa del
candidato. Ma l’iniziativa potrebbe essere stata autonomamente presa dall’exercitus romanus.
In entrambi i casi, l’elezione era evidentemente avvertita come uno snodo decisivo, perché il
vescovo di Roma determinava il corso successivo della vita civile.
Come si è visto, la biografia di Conone contiene un nuovo accenno alla questione, fattasi evidentemente
incandescente, delle elezioni pontificie, quando descrive gli ultimi giorni della vita del pontefice. Un
arcidiacono, infatti, di nome Paschalis, scrisse all’esarca promettendo donativi per essere eletto
pontefice. Qui il ruolo dell’esarca balza in primo piano, poiché il Liber afferma
esplicitamente che, in risposta alla missiva di Pasquale, dette precise disposizioni in merito suis iudicibus
quos Romae ordinavit et direxit ad disponendam civitatem.
Il fatto è testimonianza innanzitutto del permanere delle tensioni che si erano già manifestate al
momento dell’elezione di Conone, ma, ancor più, mostra come, almeno in questo caso, gli
iudices fossero direttamente guidati dall’esarca e come quest’ultimo avesse interesse ad
intervenire nell’elezione per far pesare la propria autorità. Non è da escludere che proprio
questa fosse la finalità ultima delle nuove norme elettive statuite da Costantino IV e ricevute da
Benedetto II, che le autorità civili, cioè, potessero meglio intervenire già al momento
della sede vacante in vista della nuova elezione, ancor prima della iussio per l’ordinazione.
Una volta morto il papa, però, gli iudices non riuscirono nemmeno questa volta ad imporre il
candidato loro e dell’esarca. Il popolo si divise in due, come si è visto, e si giunse
all’elezione contemporanea di due opposte figure: da un lato Pasquale, che si era proposto
all’esarca, e dall’altra nuovamente Teodoro, che già era stato in lizza nella precedente
elezione, come candidato dell’exercitus.
La svolta avvenne quando si creò un accordo che vide riuniti primati iudicum et exercitus Romane
militiae vel cleri, si dici est, plurima pars et praesertim sacerdotum, atque civium multitudo. In questa
occasione la città mostra di avere, ancora una volta, la capacità, anche in momenti di tensione, di
raggiungere una unità delle sue componenti e di saper mantenere una notevole autonomia dinanzi alle
direttive esarcali. L’elezione di Sergio I avviene nello stesso palazzo imperiale al Palatino, come si
è visto, ma non sono gli inviati di Ravenna a dettare legge, bensì anche in un luogo che è
propriamente appartenente alla giurisdizione civile, è il concorso del clero che permette di giungere alla
soluzione dello stallo che si era venuto a creare. Una volta che l’elezione è avvenuta, con il
concorso delle rappresentanze dell’intera cittadinanza, tutti sono tenuti ad uniformarsi ad essa. Il
Liber descrive, come si è notato, il sopraggiungere tardivo dell’esarca che entra in
città inaspettato - e, quindi, senza gli abituali onori che dovevano essergli riservati - ma, dum
venisset et omnes in personam Sergii sanctissimi invenisset consensisse, illi quidem suffragari non
valuit.
Roma è, insomma, da un lato sottoposta all’esarca ed alla sua giurisdizione, ma, d’altro
canto, difende contemporaneamente l’autonomia in materia di elezione pontificia: la scelta del nuovo
pontefice è ciò che le garantisce poi una libera gestione degli eventi cittadini. Si è
già notata la presenza dell’espressione ut fieri solet[660] ad indicare la ricorrenza di discussioni in merito alla
designazione del nuovo pontefice con la creazione di partiti nella cittadinanza romana ed il coinvolgimento delle
autorità civili e militari: sebbene l’espressione resti oscura, essa sottolinea ulteriormente come
l’intera popolazione avvertisse che nella scelta del pontefice era in gioco il proprio stesso futuro e non
semplicemente quello della chiesa romana, tanto era stretto il nesso che legava la città al suo
vescovo.
L’esosa richiesta dell’esarca di ricevere dal nuovo eletto, cioè in sostanza dallo stesso
scrinium pontificio, la somma promessagli dall’arcidiacono Pasquale ed il pagamento della stessa
avvenuto impegnando i preziosi arredi della basilica di San Pietro segnalano da entrambe le parti, in maniera
simbolica, il grande significato della posta in gioco. L’esarca cerca di sottolineare come la suprema
autorità non possa essergli sottratta, il pontefice, invece, come sia in gioco lo stesso potere petrino e
la sua autonomia. Certo è che, se la sede apostolica non può esimersi dal concedere la somma di
denaro, d’altro canto l’esarca non può che accettare, obtorto collo, l’elezione
di un candidato che non gli è gradito.
Delle successive quattro elezioni, rispettivamente di Giovanni VI, Giovanni VII, Sisinnio e Costantino il
Liber non si sofferma a descrivere nessuna notazione particolare e le consacrazioni dovettero essere
relativamente rapide, oscillando tra uno e tre mesi di vacanza sul soglio pontificio[661]. Il fatto che Giovanni VII
fosse figlio dell’ufficiale che aveva in cura il palazzo imperiale al Palatino e che Costantino fosse stato
uno degli inviati romani al Concilio Costantinopolitano II e successivamente apocrisario di Leone II indicano -
senza che il Liber lo sottolinei - lo stretto legame che continuava a sussistere fra la carriera
ecclesiastica e le vicende dei rapporti con Costantinopoli. Nella stessa linea, è possibile, forse, come
si è visto, collocare le particolari notizie sulla malferma salute di Sisinnio, eletto proprio mentre si
assisteva al ritorno sul trono di Giustiniano II, del quale si temeva giustamente l’attesa reazione contro
coloro che ne avevano decretato il primo allontanamento dalla corona.
Il momento dell’elezione manifesta così, anche in questo periodo, tutta la sua importanza, mostrando
il suo inquadramento all’interno degli ordinamenti imperiali, ma, al contempo, la sua crescente autonomia,
dopo l’amara esperienza di Martino I e l’elezione del suo successore mentre egli era ancora in vita.
L’impero alterna leggi diverse, avocando a Costantinopoli la iussio, poi restituendola nuovamente
all’esarca, utilizzando il ritardo nella concessione della consacrazione o cercando di intervenire nel
corso dell’elezione stessa, ma senza alterare la sostanza dei fatti, cioè che il candidato che viene
eletto continua a rispondere alle esigenze dell’urbe stessa, più che non ai desiderata
esterni ad essa, come si afferma esplicitamente del malandato Sisinnio, che pure era curam agens pro
habitatoribus huius civitatis.
Il Liber, fin dalla biografia del primo successore di Martino I, deportato e morto in esilio, mostra che
Roma non si piegò alla volontà costantinopolitana di ergersi ad arbitro delle questioni teologiche.
Il registro delle discussioni dogmatiche continua ad esercitare, insomma, un suo ruolo importantissimo. Come si
è visto, la biografia di Eugenio I, eletto mentre era ancora in vita Martino I, segnala che la sede
apostolica - spinta, a dire del Liber - dalla stessa popolazione romana, rifiutò di accogliere la
lettera sinodica inviata dal patriarca doi Costantinopoli, ma evidentemente in pieno accordo con
l’imperatore, anzi, probabilmente, su sua diretta richiesta. Si sottolinea nella breve notizia che la
lettera non esprimeva, di per sé, una posizione contraria al ditelismo, ma che era piuttosto omnino
obscurissimam et ultra regula, non autem declarans operationes aut voluntates in domino nostro Iesu Christo.
Roma, però, non accettò nemmeno questa proposta di compromesso che proseguiva la linea del
Typos. Nonostante un pontefice fosse appena stato deportato per questo motivo, il suo successore
continuava a seguitare la stessa linea teologica. Evidentemente l’imperatore faceva fatica a far sentire il
suo dominio su Roma e nemmeno un atto di forza così duro come la deportazione di un pontefice era
sufficiente per ottenere il controllo della lontana Roma. Costante II riusciva a minacciare, ad esercitare
pressioni, ma non a far trionfare la propria posizione.
Eppure il Liber, come è evidente nella biografia di Vitaliano, succeduto ad Eugenio I, continua a
riservare ogni onore alla casa imperiale, dalla quale evidentemente sente di dipendere, pur nel contrasto
teologico in atto. Si è notato come la lettera pontificia che annunziava l’avvenuta consacrazione
fosse inviata apud piissimos principes. L’aggettivo piissimos viene attribuito ai regnanti
che avevano fatto deportare Martino I e cercato di condizionare pesantemente la posizione teologica di Eugenio I.
E la biografia si compiace subito di aggiungere la rinnovazione dei privilegia ecclesiae unitamente
all’invio di doni da parte dell’imperatore. Evidentemente Roma e Costantinopoli continuavano a
mantenere tutto il complesso rituale che le legava, coscienti dell’appartenenza comune all’unico
impero ed all’unica chiesa, in attesa di un’evoluzione dei punti che restavano in sospeso.
È in questo contesto che si colloca la spedizione di Costante II a Roma, la prima - e ultima visita -
nell’antica capitale dalla caduta dell’impero d’occidente.
Si è già notato come il Liber non metta in risalto, ma lasci comunque chiaramente
intravedere che l’imperatore giunge a Roma come il supremo detentore di una città che gli appartiene
pienamente. Il pontefice, infatti, osserva il cerimoniale prescritto, uscendo dalla città e recandosi
incontro all’imperatore cum clero suo miliario VI ab urbe Roma et suscepit eum. Il potere
dell’imperatore sull’urbe è ulteriormente segnalato dal fatto che egli non venne alloggiato
come ospite nel palazzo pontificio. Il silenzio sul luogo della sua residenza in Roma lascia chiaramente intuire
che egli abitò, invece, nel palazzo imperiale al Palatino, e che questa residenza, da ben due secoli, era
stata mantenuta dai diversi ufficiali preposti ad essa. Essi sapevano che, in caso di necessità, i
rappresentanti dell’imperatore, in particolare l’esarca, dovevano poter utilizzare le stanze loro
appositamente riservate, ma che il cuore del palazzo stesso doveva essere pronto ad accogliere l’imperatore
una volta che egli avesse deciso di recarsi nell’antica sua capitale. Ma è, soprattutto, la
spoliazione degli edifici templari e civili che manifesta l’assoluta autorità di Costante II nella
sua città. Egli dispone in assoluta libertà delle proprietà pubbliche e non vi è
nessuno che si oppone alla sua iniziativa. L’imperatore preleva i preziosi materiali non come un nemico
che, avendo sconfitto le truppe della città, sottopone a saccheggio l’urbe, ma piuttosto come il
supremo responsabile che dispone delle proprie risorse per affrontare le successive campagne belliche a difesa
dell’impero stesso[662].
Se questa è la realtà dei fatti da un punto di vista strettamente giurisdizionale e politico, ben
diversa è, chiaramente, la presentazione che emerge dai redattori del Liber. Essi lasciano
chiaramente intuire che l’imperatore viene visto non come il difensore ed il protettore della sua
città, bensì come lo sfruttatore delle sue risorse, mentre è il pontefice l’unica
autorità che ha realmente a cuore il benessere di Roma. Come scrisse giustamente il Bertolini:
«Appunto nei suoi aspetti contraddittori la visita di Costante II appare come un simbolo della reale natura
ormai assunta dai rapporti tra Roma e Bisanzio. Con lui, primo ed ultimo imperatore che dall’Oriente si sia
recato in persona alla Città Eterna nel periodo del dominio bizantino, si ebbe la sensazione precisa
dell’intima lontananza che separava l’una dall’altra. Fu giustamente osservato [da L.-M.
Hartmann] che il congedo di Costante II da Vitaliano fu insieme il congedo definitivo dell’Impero bizantino
da Roma»[663].
Delle complesse intenzioni che spinsero Costante II a Roma, niente traspare nel Liber, né le
tensioni tra l’imperatore e gli ambienti della lontana capitale, né la sua decisione di spostare il
baricentro del suo impero più in occidente in funzione anti-araba ed anti-longobarda. Gli estensori del
Liber si limitano a registrare la presenza dell’imperatore in Roma come quella di un pellegrino.
Soprattutto il suo lavacro, come si è visto, precedente al pranzo offertogli dal pontefice in Laterano ed
alla celebrazione, l’indomani, dell’eucarestia in San Pietro dopo la quale valefecerunt sibi
invicem imperator et pontifex, spostano l’accento sulla ristabilita relazione tra l’imperatore ed
il papa, quasi a ristabilire, con una purificazione dal peccato dell’opposizione alla sede romana nella
questione monotelita, la piena comunione.
L’indiretta affermazione che l’operato dell’imperatore, rivoltosi con così grande
dispendio di energie in occidente, non aveva beneficato la popolazione romana è ulteriormente affermato
nella successiva notizia di Adeodato II. Durante il suo pontificato, come si è visto, i preziosi materiali
dei quali Roma era stata spogliata finirono nelle mani degli arabi che attaccarono la Sicilia e saccheggiarono
ciò che era rimasto di quei tesori prelevati dall’imperatore nel corso della sua visita. È
per attrazione di questa notizia che i biografi di Adeodato II forniscono ulteriori notizie della morte di
Costante II, che era stata solo accennata nella biografia di Vitaliano. L’ablativo assoluto Deo
auxiliante indica chiaramente la fedeltà di Roma alla dinastia legittimamente regnante, con la
condanna dell’uccisione di Costante II e della conseguente presa di potere da parte di Mezezio. Il nuovo
imperatore Costantino IV che riprende in mano la situazione, ponendo fine all’usurpazione, è
così per Roma il legittimo erede del regno di Costante II a cui si deve l’ossequio. Il Liber
continua così ad inviare un duplice segnale: da un lato, di piena appartenenza all’impero, protetto
dall’Altissimo, dall’altro, di progressivo distacco da esso nelle questioni riguardanti
l’occidente.
Fu l’imperatore stesso a richiedere la presenza di delegati romani al concilio che doveva porre fine alle
discussioni teologiche sulla questione monotelita, lettera inviata al papa Dono, ma, in realtà, ricevuta
dal suo successore Agatone.
È storicamente evidente che il ribaltamento a favore delle posizioni della sede romana sulla questione
monotelita fu reso possibile dalla volontà dell’imperatore che non solo convocò
l’assemblea che si trasformò poi in concilio, ma che soprattutto decise previamente di non difendere
le posizioni dei suoi predecessori ed, infine, suggellò come legge imperiale le decisioni conciliari.
Questo non è negato dal Liber, che riporta la lettera di invito dei delegati romani e registra la
necessaria presenza dell’imperatore alle sessioni conciliari, ma non è ciò che viene posto in
rilievo. L’accento è posto, invece, sul ruolo dei delegati romani e, tramite loro, sulla
verità della fede professata dalla chiesa romana e dal suo vescovo.
La posizione teologica della sede apostolica trionfa così al concilio Costantinopolitano III, ribaltando
completamente la situazione che si era profilata con l’umiliazione subita da Martino I. Evidentemente
l’imperatore doveva aver riconosciuto se non la bontà, almeno l’utilità delle tesi
romane ai fini del mantenimento della concordia nell’impero. Il pontefice si rivelava necessario non solo
nella gestione dell’occidente, ma anche come interprete dell’universalità dell’impero e
della sua fede. Non doveva essere disgiunta, nella mente dell’imperatore, la conclusione del concilio
secondo la linea romana e la normativa che prevedeva che solo da Costantinopoli potesse provenire l’assenso
per la consacrazione episcopale del pontefice. Impero e sede romana ancora si compenetrano in una visione
universale, richiamandosi continuamente a vicenda. Ma i continui tentativi di aggiustamento di questo equilibrio
mostrano la sua crescente fragilità.
Le biografie successive di Leone II e di Benedetto II, come si è visto, manifestano il permanere dello
status quo raggiunto con l’imperatore Costantino IV: il primo accolse gli Atti del concilio, mentre
il secondo fu destinatario del dono di ciocche di capelli del sovrano e dei suoi due figli, gesto da leggere
nelle due direzioni, di affidamento dell’impero alle preghiere del pontefice ed, insieme, di piena
sovranità della casa regnante su Roma stessa.
Con l’ascesa al trono di Giustiniano, la casa imperiale tornò a fare pressioni sulla sede
apostolica, volendo affermare in maniera più netta il proprio potere. Se, per il pontificato di Giovanni
V, il Liber si limita a registrare sul versante dei rapporti con Costantinopoli la notizia
dell’importante vittoria dell’imperatore contro gli arabi, già con la successiva biografia di
Conone sono evidenti i primi passi del sovrano che vuole segnalare nell’urbe la sua autorità. Ancora
una volta il registro utilizzato è quello teologico: Giustiniano fece, infatti, recapitare a Roma una sua
epistola con la quale si ergeva a difensore dell’ortodossia della chiesa, come custode degli atti del III
concilio Costantinopolitano.
La notizia di Sergio I, succeduto a Conone, contiene l’esplicita menzione del sinodo che passerà
alla storia come Quinisesto. Il fatto che l’imperatore avesse convocato i vescovi a deliberare su norme che
non erano gradite alla sede romana è segno evidente della sua volontà di imporre, anche
simbolicamente, la propria autorità sull’urbe lontana. Il Liber non si sofferma sulla
celebrazione del sinodo stesso, ma piuttosto sull’invio a Roma della jussio che prescriveva al
pontefice di sottoscrivere le decisioni costantinopolitane. È evidente che l’imperatore agisce
affermando la sua assoluta sovranità sul vescovo di Roma. Netta è la descrizione della reazione
papale alla missiva ricevuta. Per la prima volta gli estensori della biografia pontificia non esitano, come si
è visto, nell’indicare direttamente nell’imperatore stesso, che pure è il legittimo
sovrano, l’origine dell’errore stesso: infatti, Sergio I Iustiniano Augusto non adquievit nec
eosdem tomos suscipere aut lectioni pandere passus est; porro eos ut invalidos respuit atque abiecit, eligens
ante mori quam novitatum erroribus consentire[664]. Il pontefice viene descritto come cosciente del rischio non solo di esser
deportato come Martino I in oriente, ma addirittura di essere condannato a morte.
La notizia continua mostrando che tale sensazione doveva rivelarsi conforme alla realtà. Infatti,
Giustiniano inviò il protospatario Zaccaria, come si è visto, con l’ordine della deportazione
del papa, scegliendo la stessa via con la quale già Costante II aveva cercato di regolare i conti con
Martino I che gli si opponeva.
Se, però, già con Martino I, era stato evidente che il pontefice godeva di un tale credito presso
la popolazione ed i maggiorenti dell’urbe, che erano state necessarie molte precauzioni per portare a
compimento l’azione contro di lui, nel caso di Sergio I il Liber mostra addirittura
l’insuccesso del tentativo stesso. Zaccaria, giunto in Roma, si trovò contro l’exercitus
ravennatis sceso a protezione del papa e dovette prima chiedere che fossero chiuse le porte della
città, per rifugiarsi successivamente nella stesso palazzo lateranense, per finire poi nascosto sotto il
letto stesso del pontefice, per paura di essere ucciso. Proprio attraverso particolari che ridicolizzano il
protospatario, il Liber vuole descrivere una situazione nella quale Sergio I è
l’autorità morale ed effettiva, in grado di sedare l’agitazione degli armati e l’ira
popolare. La città di Roma viene presentata come saldamente in mano al suo vescovo ed, anzi, le stesse
forze ravennati, gli obbediscono.
Segue la notizia della perdita del regno da parte di Giustiniano, con una nuova affermazione della provvidenza
divina: l’imperatore, infatti, Domino retribuente, regno privatus[665]. Ma, al di là dell’affermazione di
fede che viene ad illuminare anche il precedente episodio dell’incolumità di Sergio I dinanzi
all’attacco del protospatario Zaccaria, è la situazione civile e politica che si è
ulteriormente evoluta rispetto ai tempi di Martino I. Lì la popolazione aveva sentimenti opposti agli
inviati dell’imperatore, ma non era passata alle vie di fatto ed aveva assistito immobile alla deportazione
del suo vescovo. Qui, invece, essa fa quadrato, insieme agli armati, intorno al papa e, senza l’intervento
di Sergio I, il protospatario stesso avrebbe perso la vita, essendosi ritrovato l’intera città
contro a difesa del suo vescovo.
Dopo che Giovanni VI aveva riconfermato la sua fedeltà alla causa imperiale salvando l’esarca
Teofilatto, inviato probabilmente da Costantinopoli a riprendere il controllo di Ravenna, il ritorno di
Giustiniano II sul trono segnò una recrudescenza della tensione con la sede apostolica. Subito il
Liber, come si è visto, segnala la richiesta rivolta a Giovanni VII di sottoscrivere gli Atti del
sinodo Quinisesto, che Sergio I si era rifiutato di firmare. la sua biografia lo descrive come humana
fragilitate timidus[666], quasi a scusarne la sua debolezza dinanzi alla perentorietà della
richiesta imperiale.
E, dopo il brevissimo pontificato di Sisinnio, probabilmente candidato di compromesso in una situazione che
tornava ad essere estremamente tesa come ai tempi di Martino I, salì sul soglio pontificio Costantino.
Egli, come è stato descritto nei particolari, venne perentoriamente invitato dall’imperatore a
Costantinopoli. Non una deportazione, quindi, ma un invito a rendere omaggio alla sovranità del regnante.
Il Liber lascia intuire come non ci fosse alternativa alla richiesta costantinopolitana - sanctissimus
vir iussis imperatoris obtemperans ilico navigia fecit preparari[667]. Si può presumere che l’imperatore, vista
l’impossibilità di agire in Roma stessa, preferisse separare il vescovo dalla sua città, per
poterne disporre più facilmente. Il Liber è fortemente ellittico, non indicando precisamente
le motivazioni espliciti o impliciti degli avvenimenti. Certo è che, non appena il pontefice raggiunse
Napoli, gli ufficiali dell’impero poterono entrare nell’urbe ed uccidere alcuni maggiorenti dei
chierici, lasciati da Costantino a reggere Roma in sua vece, Saiulum diaconum et vicedominum, Petrum
archarium, Sergium abbatem presbiterum et Sergium ordinatorem[668].
Eppure, nonostante le premesse, il Liber descrive, alla fine, il viaggio pontificio nella lontana
capitale, come una passerella trionfale. Evidentemente l’imperatore, o pago di aver già dato ampi
segnali della sua decisione nell’agire in caso di future disobbedienze o sempre più pressato dalla
sedizione che lo avrebbe condotto alla fine, non inferì ulteriormente su Costantino. Egli poté
rientrare in Roma accolto da un tripudio di folla.
Costantino fece così, in senso inverso, il tragitto che l’imperatore Costante II aveva fatto per
giungere a Roma. Le due supreme autorità affrontarono così per l’ultima volta, a distanza di
pochi anni, il viaggio dalla nuova all’antica capitale e viceversa. In entrambi i casi, la decisione fu
presa a Costantinopoli, ma investì Roma, come parte integrante di un medesimo organismo. I due viaggi
appaiono, però, espressione di un filo che continuava ad essere tessuto, ma che era sempre più
sottile. Ne usciva riaffermata l’unità sussistente fra l’impero e la chiesa, ma non
rafforzata. Ed il distacco, dopo l’incontro, era quasi da leggere come una liberazione, come uno scampato
pericolo.
L’insurrezione che portò alla morte di Giustiniano II vide salire al trono Filippico, imperatore
che, come si è visto, viene qualificato dal Liber, senza mezze misure, come
hereticus[669],
così come defensores heretici[670] sono chiamati i suoi ufficiali inviati nell’urbe a prendere in mano la
situazione. Il pontefice si oppose al rinnovato rifiuto del ditelismo e Filippico evidentemente tentò
nuovamente di intervenire manu militari nell’urbe, ma, come già era avvenuto ai tempi del
pontificato di Sergio I, ormai l’esercito e la popolazione non tolleravano più simili interventi e
solamente la presenza del pontefice fece sì che il dux inviato dall’imperatore non venisse
trucidato nei Fori.
Alla morte di Filippico, il nuovo imperatore Anastasio inviò l’esarca in Roma deferens secum
sacra Anastasii principis, per quam vere se orthodoxae fidei praedicatorem et sancti sexti concilii confessorem
esse omnibus declaravit[671]. Solo l’accertata ortodossia di Anastasio - afferma il Liber -
fece sì che il pontefice accogliesse il nuovo dux, in realtà lo stesso che era stato inviato
da Filippico, ma questa volta servitore di una autorità che aderiva alla fede professata dalla sede
romana.
In sintesi, è ancora evidente nel periodo che va da Eugenio I a Costantino la piena appartenenza di Roma
alla compagine imperiale, al punto che l’imperatore stesso vi soggiorna o giunge ad ordinare al pontefice
stesso, che deve obbedire, di recarsi a Costantinopoli. Tuttavia il vescovo di Roma gode di fatto di una
amplissima autonomia rispetto alla casa imperiale: non solo la sede apostolica vede trionfare le sue tesi nel
concilio Costantinopolitano III, ma tutti i tentativi di un diretto controllo dell’urbe, alla fine dei
conti, falliscono. L’imperatore, che pure lo desidera, non riesce nei suoi ripetuti tentativi di esercitare
il dominio su Roma indipendentemente dal papa: non ottiene il suo scopo né risiedendovi di persona,
né spedendo perentorie missive da sottoscrivere, né richiamando fuori dell’urbe il papa e
facendo eliminare i maggiorenti posti a custodia della città, né inviando ufficiali con armati,
come nel caso del protospatario Zaccaria o del dux Pietro.
In questo contesto non deve essere trascurato il fatto che per ben tre volte, nel giro di pochi anni,
l’imperatore ed il pontefice tornarono ad incontrarsi de visu, mentre da lunghissimo tempo le
relazioni avvenivano solo per mezzo di delegazioni: Martino I incontrò da prigioniero in attesa di
condanna Costante II a Costantinopoli, Vitaliano accolse lo stesso imperatore nella sua visita a Roma ed, infine,
Costantino si recò da Giustiniano nella lontana capitale.
E proprio dinanzi all’incontro fisico con la persona dell’imperatore, deve essere venuto spontaneo,
alla mente dei primates dello scrinium pontificio, il ricordo idealizzato dell’imperatore
Costantino.
Si è già visto, nel capitolo precedente, come per la prima volta compaia nel Liber
l’attestazione Constantiniana ecclesia, in relazione alla basilica del Salvatore, proprio nel
momento in cui si descrive il ratto del pontefice: tollentes sanctissimum Martinum papam de ecclesia
Salvatoris, qui et Constantiniana appellatur, quem perduxerunt Constantinopolim[672]. Non può essere qui
casuale, come si è visto, la breve notizia onomastica che ricorda il grande benefattore della chiesa di
Roma, proprio nel momento in cui si assiste all’atto più feroce contro di essa, perpetrato da un
successore del primo imperatore cristiano.
Sì è altresì sottolineato il particolare del bagno lustrale dell’imperatore prima del
pranzo offerto da Vitaliano all’imperatore in visita a Roma: venit imperator ad Lateranis et lavit et
ibidem pransit in basilica Vigili[673]. Il fatto può aver recuperato una tradizione già esistente
relativa al battesimo di Costantino, ma può avere anche contributo a generarla o ad alimentarla.
Il riferimento a Costantino, in merito alla basilica del Salvatore, compare nel Liber ancora nelle
biografie di Giovanni V, di Conone e di Sergio I[674], segno che doveva essere comune nell’uso.
In occasione del terzo faccia a faccia tra le due autorità, la biografia pontificia, come si è
visto, esalta l’accoglienza ricevuta dal pontefice, mettendo in sordina il fatto che l’imperatore
aveva richiesto il viaggio pontificio proprio a sottolineare la sua assoluta sovranità sulla sede
apostolica. I termini della descrizione sono ancora più altisonanti di quelli utilizzati per
l’accoglienza dell’imperatore a Roma. Se, in occasione della venuta a Roma di Costante II, il
pontefice gli era andato incontro fino al sesto miglio, ora il figlio dell’imperatore lo attendeva al
settimo miglio e l’ingresso di Costantino nella capitale era avvenuta con sellature e copricapi
dall’alto valore simbolico: a septimo miliario Constantinopolim. Ubi egressus Tiberius imperator, filius
Iustiniani Augusti, cum patriciis et omni sinclito et Cyrus patriarcha cum clero et populi multitudine, omnes
letantes et diem festum agentes, pontifex et eius primates cum sellares imperiales, sellas et frenos inauratos
simul et mappulas, ingressi sunt civitatem; apostolicus pontifex cum camelauco, ut solitus est Roma procedere, a
palatio egressus in Placidias usque, ubi placitus erat, properavit[675].
Anche negli anni che vanno dal pontificato di Eugenio I a quello di Costantino, il rapporto giurisdizionale di
Roma con l’impero passò per la mediazione di Ravenna. È, però, estremamente
significativo che, se la città adriatica ricevette inizialmente in questo periodo un accresciuto rilievo
da parte imperiale, in realtà la sua importanza diminuì progressivamente, mentre Roma si
relazionò sempre più direttamente alla lontana Costantinopoli. Proprio la consapevolezza
dell’insufficienza della relazione mediata da Ravenna, spinse l’impero a cercare nuovamente un
rapporto diretto con Roma, ma questa ricerca è un chiaro segnale della debolezza delle relazioni
istituzionali, poiché l’impero non era più in grado, evidentemente, di controllare ed,
insieme, sostenere, il lontano occidente: non si può, infatti, raccogliere il consenso, che è
necessario al governo, se non si è più in grado di rispondere alle reali esigenze esistenti.
Il tentativo imperiale di valorizzare Ravenna, rendendola più forte rispetto alla sede romana, ebbe come
fulcro l’autocefalia concessa da Costante II alla città adriatica nel 666, pochi anni dopo la sua
spedizione a Roma, nel contesto del riordinamento amministrativo dei possedimenti imperiali in occidente.
Il Liber, come si è visto, menziona il fatto solo quando si tratta di segnalare che
l’indipendenza ecclesiastica di Ravenna venne revocata, nella biografia di Dono, nella quale si afferma:
ecclesia Ravennas, qui se ab ecclesia Romana segregaverat causa autocefaliae, denuo se pristinae sedis
apostolicae subiugavit[676].
Gli eventi che si svilupparono aiutano a precisare la complessa relazione che legava l’autorità
romana e quella imperiale: da un lato, era l’esarca di Ravenna, la massima autorità civile in
occidente, a concedere l’autorizzazione alla consacrazione del pontefice, ma, dall’altro, era solo il
vescovo di Roma che poteva consacrare il vescovo della città esarcale. Il tentativo operato da Costante II
di rendere autonoma da Roma la consacrazione dell’arcivescovo ravennate permette, già da solo, di
mostrare che rilevanza doveva avere la figura episcopale anche in Ravenna, così come in ogni città
dell’impero e dei regni cristiani del tempo. Come in Roma, il pontefice era una figura di assoluto rilievo
nelle questioni civili dell’urbe, così l’arcivescovo ravennate, pur convivendo nella stessa
città con l’autorità dell’esarca, doveva nondimeno esercitare un ruolo di supervisione,
al punto che l’imperatore riteneva opportuno occuparsene in prima persona e valorizzarlo
ulteriormente[677].
Sebbene il Liber non permetta di cogliere le dinamiche e le motivazioni che portarono al fallimento del
progetto imperiale, certo è che ripetutamente - e con evidente compiacimento - le biografie papali
sottolineano il pronto ritorno nell’ambito della influenza romana, della chiesa ravennate.
Infatti, dopo la notizia appena citata relativa al pontificato di Dono, in quella di Agatone si afferma che
l’arcivescovo Teodoro, semetipsum post multorum annorum curricula praesentavit[678], in quella di Leone II che
percurrente divale iussione clementissimi principis restituta est ecclesia Ravennas sub ordinatione sedis
apostolicae, ut defuncto archiepiscopo, qui electus fuerit, iuxta antiquam consuetudinem in civitate Romana
veniat ordinandus[679], con l’esplicita riconsegna a Roma del diploma dell’autocefalia -
sed et typum autocephaliae quod sibi elicuerant, ad amputanda scandala sedis apostolice
restituerunt[680] -,
in quella di Sergio I, che egli ordinavit Damianum archiepiscopum sanctae ecclesiae
Ravennatis[681].
Tensioni in materia sono da registrare ancora nel corso del pontificato di Costantino, poiché Felice, pur
essendo ordinato a Roma dal pontefice, si rifiutò di sottoscrivere i documenti che abitualmente erano
sottoposti al nuovo arcivescovo di Ravenna, ma poi, quando si ripresentò a Roma, dopo aver subito la
vendetta di Giustiniano tornato al potere, restaurò la piena comunione con la sede apostolica.
Il periodo vede, così, il fallimento dell’autocefalia ravennate. Se il pontefice deve ricevere la
iussio dall’autorità civile, sia essa imperiale o esarcale, prima della consacrazione,
l’arcivescovo di Ravenna non riesce a sganciarsi dall’autorità papale[682].
Anche da questo punto di vista, l’imperatore doveva avvertire fortemente la difficile situazione romana: la
sua scelta, ora di avocare a sé il rapporto con Roma, ora di scegliere la via del rafforzamento della
città esarcale, mostra come nessuna via resti inesplorata nel tentativo di salvaguardare il controllo
della sede pontificia. Ma pure, ogni via percorsa si rivela, alla fine, debole, per la difficoltà della
situazione internazionale.
La stessa autorità esarcale sembra conoscere, in questo periodo, un progressivo indebolimento. Il Liber
pontificalis la presenta in una continua evoluzione, legata alla altalenante condizione dell’impero
stesso. Certamente lo spostamento del baricentro delle azioni imperiali in Sicilia, a partire dalla scelta di
Costante II di risiedere nell’isola, deve aver tolto rilevanza alla città adriatica[683].
Nell’elezione di Sergio I l’esarca Giovanni Platyn, pur non riuscendo a garantire il successo del
proprio candidato, ottiene, però, una rivincita esigendo il pagamento della quota promessa da Pasquale, il
candidato sconfitto. Il pontefice sembra non potersi esimere dal versamento dell’ingente richiesta,
limitandosi a far pesare simbolicamente l’evento con il prelievo dei doni riservati alla tomba del primo
degli apostoli. La sua forza è, pertanto, ancora notevole.
Nel momento in cui l’imperatore Giustiniano II invia il protospatario Zaccaria per esigere la ratifica
degli atti del Quinisesto e deportare il pontefice se non avesse ottemperato all’obbligo, si manifesta una
prima grande frattura fra l’autorità imperiale e l’exercitus ravennatis. È
quest’ultimo ad intervenire a difesa del papa. Nel Liber non si trova menzione di un eventuale
esarca: sono piuttosto di fronte la massima autorità imperiale presente, che sembra essere appunto il
protospatario, e l’esercito, del quale viene ad assumere, senza successo, il controllo.
È evidente, però, come si è già notato, che l’inviato imperiale non solo non ha
il controllo delle truppe di Ravenna, ma anzi se le ritrova schierate contro: misericordia Dei praeveniente
beatoque Petro apostolo et apostolorum principe suffragante, suamque ecclesiam inmutilatam servante, excitatum
est cor Ravennatis militiae, ducatus etiam Pentapolitani et circumquaque partium, non permittere pontificem
apostolicae sedis in regiam ascendere urbem[684]. Le truppe sono così determinanti nella gestione degli affari romani,
ma questa volta a difesa del pontefice e non delle decisioni imperiali. Dopo che Sergio I, in maniera pittoresca,
ebbe salvato Zaccaria, rifugiatosi nella sua camera da letto, uscito dalla basilica generalitatem militiae et
populi qui pro eo occurrerant honorifice suscepit[685]. Sembra di intuire così che furono insieme il popolo romano e le
milizie ravennati ad essere decisivi: illi, zelo ducti pro amore et reverentia tam ecclesiae Dei quamque
sanctissimi pontificis, iam a patriarchii custodia non recesserunt, quousque denominatum spatarium cum iniuriis
et contumeliis a civitate Romana foris depellerunt[686]. Il pontefice gioca il ruolo di suprema autorità nella vicenda e
Romani e ravennati sembrano agire in unità di intenti, schierati contro il protospatario ed a sostegno del
papa[687].
L’allontanamento dal trono di Giustiniano deve aver causato la vacanza della sede esarcale; certo è
che, nelle diverse fonti, si ha notizia di un nuovo esarca solo a partire dal 701, precisamente durante il regno
di Tiberio II Apsimaro. Ed è proprio il Liber a farne menzione, nel corso del pontificato di
Giovanni VI, sottolineando nuovamente la debolezza degli ufficiali inviati dall’imperatore a guidare gli
eventi italiani. Questa volta il rappresentante imperiale, Teofilatto, porta nuovamente il titolo di esarca e
non, semplicemente, quello di protospatario, come nel caso di Zaccaria. Teofilatto è evidentemente
incaricato di una missione che dalla Sicilia lo porta a Roma, forse avendo come meta ultima Ravenna. Alla notizia
dell’ingresso nell’urbe dell’esarca, la militia totius Italiae si dirige verso Roma e
solo l’intervento del pontefice che ordina la chiusura delle porte della cinta muraria permette a
Teofilatto di avere salva la vita. Nuovamente si assiste ad un conflitto fra la legittima autorità inviata
dall’imperatore e le truppe che dovrebbero obbedirgli, mentre gli sono ostili. È evidente anche qui
la debolezza dell’autorità esarcale che viene infine accolta solo a motivo di un preciso intervento
pontificio. Sembra, anzi, che solo l’autorità morale di Giovanni VI permetta all’esarca di
assumere in pienezza il suo ruolo e di assumere, infine, il controllo di Ravenna.
Gli eventi del decennio successivo non sono stati chiariti, nella loro sequenza, in maniera definitiva dagli
storici[688]. Appare,
comunque, certo che Giustiniano II, tornato al trono, decise l’invio di un nuovo esarca, Giovanni Rizocopo,
il quale non sbarcò direttamente a Ravenna, ma, sempre a partire dal meridione d’Italia,
risalì la penisola per prendere il pieno controllo di Roma e, sopratutto, della città adriatica.
È, infatti, a Napoli, che il pontefice Costantino che si sta recando a Costantinopoli incontra
l’esarca. Come si è visto, il Liber, senza ulteriori commenti, racconta della successiva
salita di Giovanni Rizocopo a Roma, dove, in assenza del pontefice, fa strage dei primates ecclesiae
lasciati da Costantino a reggere, in attesa del suo ritorno, la chiesa di Roma. L’evento non può non
essere posto in relazione ad una punizione che l’imperatore voleva infliggere alla chiesa romana per non
aver sottoscritto i documenti del Quinisesto, al tempo dell’invio del protospatario Zaccaria. Ciò
che preme qui sottolineare è che, probabilmente, l’esarca trovò una resistenza ben maggiore a
Ravenna, dove venne probabilmente ucciso dalla popolazione locale - il Liber afferma che il Rizocopo
pergens Ravennam proque suis nefandissimis factis iudicio Dei illic turpissima morte occubuit[689].
Ed anche nell’intervento punitivo che ne seguì, l’esarca Teodoro raggiunge Ravenna dalla
Sicilia, con la flotta che lo appoggia perché prenda pieno possesso della città adriatica.
Una forte tensione sembra, insomma, caratterizzare nella presentazione del Liber i rapporti fra Ravenna e
l’esarca stesso, nel periodo che si sta analizzando, con un conseguente forte indebolimento del ruolo
stesso dell’esarca imperiale, non più sentito come espressione della stessa città ravennate
che, sovente, gli si oppone.
Espressione di una crescente regionalizzazione è da considerarsi anche l’emergere della figura del
dux come della suprema autorità civile presente in Roma. Si è già visto come sia
dibattuta la questione della datazione precisa dell’istituzione di questa carica. Ciò che è
certo è che il terminus ante quem è fornito proprio dal Liber e precisamente nella
biografia di papa Costantino. Il fatto che le vite dei pontefici non vi accennino precedentemente non implica,
comunque, che la carica non possa antecedente, ma certo invita a ritenere che la figura del dux non
dovesse avere nel periodo precedente un rilievo così significativo se, pur esistendo, non se ne fa mai
menzione[690].
La creazione della figura di un dux nell’urbe implica, come afferma il Bavant, la presenza di una
nuova suddivisione amministrativa all’interno dell’esarcato d’Italia, strutturazione voluta
dall’amministrazione imperiale e che richiedeva ovviamente un ufficiale che rappresentasse nella propria
persona il nuovo potere[691]. Tale autorità, come si è visto nella biografia di Costantino e
come si manifesterà ulteriormente nelle successive, godeva, comunque, di poteri decisamente inferiori a
quelli esarcali.
Il Liber rende edotti che la nomina del duca non avveniva a Roma, bensì era di pertinenza
imperiale, come quella dell’esarca. La dipendenza del dux dalla città di Ravenna è
evidente, infatti, dal fatto che l’invio del nuovo duca Pietro, da parte di Filippico, prende le mosse
proprio dalla città adriatica: l’imperatore contigit ut Petrus quidam pro ducatu Romane urbis
Ravennam dirigeret, et praeceptum pro huiusmodi causam acciperet[692].
Ma, ancora una volta, se tutta l’amministrazione appare dal punto di vista istituzionale strettamente
legata alla casa imperiale per il tramite dell’esarcato, d’altro canto essa ha necessità, per
poter funzionare, dell’autorità della chiesa di Roma. Poiché il nuovo duca rappresenta un
imperatore eretico, del quale il pontefice si è rifiutato di accogliere l’immagine, la popolazione
romana si stringe intorno a Cristoforo, il duce precedente, mettendo a mal partito il nuovo rappresentante
imperiale, al punto che quest’ultimo sta per essere ucciso, donec pontifex mitteret sacerdotes cum
evangelia et crucem Domini, sicque partes sedarent[693]. La prima apparizione della figura del dux, nel Liber
pontificalis, è così una chiara attestazione che anche questa nuova magistratura può
esercitare il suo ruolo solo in collaborazione con l’autorità del pontefice, mentre, da sola,
è votata all’insuccesso.
È, infatti, solo alla morte di Filippico, con la conseguente ascesa al trono di Anastasio, che, accertata
l’ortodossia dell’imperatore, finalmente Pietro può assumere la carica di dux del
ducato romano, mentre il nuovo esarca Scolastico assume la suprema magistratura ravennate. E, comunque,
l’assunzione dell’incarico ducale implica condizioni dalle quali il duca Pietro sembra non potersi
esimere, evidentemente dettate dall’autorità morale di Costantino, come la promessa di non
vendicarsi su coloro che lo avevano avversato al momento del suo arrivo a Roma, inviato da Filippico -
promittens quod nequaquam adversare niteret[694].
Costante e significativa è la presenza dell’exercitus, come si è già notato
più volte, che viene esplicitamente caratterizzato come una delle partes che costituiscono
l’urbe, a partire dal pontificato di Benedetto II. La sua biografia, menzionando le divales
iussiones imperiali, prosegue affermando che esse erano state inviate ad venerabilem clerum et populum
atque felicissimum exercitum Romanae civitatis[695]. La stessa notizia pontificale continua ricordando l’invio simbolico
delle ciocche di capelli degli eredi dell’imperatore Costantino ed, anche in questo caso, il pontefice
una cum clero et exercitu suscepit mallones capillorum domni Iustiniani et Heraclii filiorum clementissimi
principis[696].
L’esercito appare poi nuovamente come un attore nelle vicende romane nelle due difficilissime elezioni che
portarono infine ai pontificati di Conone prima e di Sergio I poi. Nella prima, l’esercito si
presentò, secondo il Liber, con un proprio candidato, nella seconda, dinanzi alle trame di
Pasquale, inito consilio primati iudicum et exercitus Romane militiae vel cleri, si dici est, plurima pars et
praesertim sacerdotum, atque civium multitudo ad sacrum palatium perrexerunt[697] dove elessero, infine, Sergio I, introducendolo
poi di forza nell’episcopio lateranense dove erano radunati i sostenitori degli altri candidati.
Patlagean[698] ha
studiato le formule ternarie clero-esercito-popolo che appaiono nelle fonti romane ed, in particolare, nel
Liber pontificalis, a partire dalla notizia di Benedetto II. La studiosa sottolinea come tale formula a
tre membri si sia sostituita alla formula binaria senatus populusque Romanus dell’antichità,
attraverso l’inserimento, in prima posizione, del clerus ed, insieme, attraverso la comparsa
dell’exercitus. Nel suo studio, Patlagean evidenzia come all’interno delle categorie del clero
e dell’esercito, più che in quella del populus, siano da individuare ulteriormente le figure
con pubbliche funzioni ed autorità[699]. Proprio l’interesse che i primates dell’esercito hanno
nell’elezione del pontefice e la capacità che hanno i due corpi del clerus e
dell’exercitus di accordarsi nelle due elezioni contestate sono ulteriori indizi della
significatività del ruolo pontificio nelle vicende civili dell’urbe.
Ma, se si legge fra le righe, è evidente che, come peraltro è ovvio, anche il populus doveva
giocare il suo ruolo, anche se non emerge che in rare occasioni.
In particolare, non si deve dimenticare l’accenno significativo con il quale il biografo di Eugenio I
ricorda che fu l’accensus populus[700], insieme al clero, a sostenere il papa nel rifiuto della sinodica
costantinopolitana che non chiarificava le due volontà presenti in Cristo con un’azione così
decisa che gli storici esitano a stabilire se sia stato il papa a piegarsi al popolo o semplicemente
quest’ultimo ad incoraggiarlo. Emerge chiaramente da questo episodio come, dopo l’esilio di Martino
I, la città fosse schierata decisamente a fianco della sede apostolica nella rivendicazione non solo di
una linea teologica, ma anche di una autonomia rispetto alla capitale. Il populus non sembra opporsi ad un
papa incerto, bensì sostenerlo, ravvisandovi il principio di unità dell’urbe stessa. Il
popolo non è poi nominato, ma la sua presenza è chiaramente percepibile nello sfondo di tutti gli
eventi che videro l’imperatore in Roma al tempo di papa Vitaliano[701], così come nelle litanie descritte nella
biografia di Adeodato II per implorare la cessazione della pioggia[702].
Ancora nell’elezione di Conone, l’accordo sulla sua persona del clero e dell’esercito vide la
partecipazione anche degli iudices ed, infine la sottoscrizione unanime exercitus [...] cleri
populique[703].
Nella controversa elezione di Sergio I il ruolo del populus è ancora più evidente: è
il populus Romane urbis, come si è visto, che si divise in due parti e, dopo che non solo i
primati exercitus, ma anche i primati iudicum presero partito, una civium multitudo fece
irruzione in Laterano[704]. È qui evidente come la popolazione romana sia consapevole che
dall’elezione del vescovo di Roma dipenda la propria sorte futura[705]. Non appare minimamente in discussione
l’autorità del vescovo della città, che è pacificamente riconosciuta da tutti,
bensì la tensione riguarda quale persona sia la più adatta a ricoprire tale carica.
Questa presenza della popolazione romana unitamente ai suoi iudices aiuta a precisare meglio anche il
ruolo importante, ma non assoluto, che si è già visto giocare da parte dell’exercitus
romanus. Gli studi storici hanno giustamente posto in rilievo che la seconda metà del VII secolo vide
una crescente localizzazione dell’esercito che aveva l’obiettivo di ridurre le spese militari
necessarie per i trasferimenti delle truppe ed, insieme, di rendere più efficace la difesa in
loco[706]. In questa
maniera, i militi che provenivano da oriente si radicarono sempre più in Italia, costruendovi le loro
famiglie e proprietà, mentre i nuovi soldati vennero sempre più reclutati tra la popolazione
locale. Questo radicamento, imposto dalla situazione generale in cui versava l’impero, ebbe, però,
anche effetti non previsti all’origine, poiché «gli eserciti, radicatisi nelle singole regioni
e strettisi in rapporti sociali, economici e latamente culturali con la gente dell’Italia e in particolare
con i residui ceti e istituzioni emergenti (ecclesiastici, in primo luogo), finirono per diventare solidali con
gli interessi più di questi territori che dell’impero stesso»[707].
Questa evidente crescita di importanza dell’esercito di stanza a Roma e, conseguentemente,
dell’autorità dei suoi ufficiali non elimina, però - a stare proprio agli eventi delle due
elezioni di Conone e Sergio I, la rilevanza non solo del populus, ma anche dei suoi rappresentanti civili
e delle autorità della pubblica amministrazione, gli iudices. Anzi, proprio a partire dagli studi
del Durliat che sono già stati analizzati, si deve affermare che l’exercitus non avrebbe
potuto sostenersi senza il perdurare dell’intero apparato statale, del suo sistema fiscale, così
come degli apparati giudiziali. Nel Liber, infatti, non si trova mai un esercito che vive di razzie o di
depredazioni, bensì esso è semplicemente una delle istituzioni, per quanto in crescita, necessarie
al governo della città di Roma e dei territori limitrofi[708].
D’altro canto, ancora una volta, la vitalità dell’apparato amministrativo e militare della
città ha evidentemente bisogno, in questo periodo storico, del vescovo della città che funge da
punto di riferimento, come è dimostrato dall’interesse che tutti hanno alla sua
elezione[709]. Per
converso, proprio l’attenzione con la quale il Liber segue l’ascesa ed il declino
dell’autocefalia ravennate, indica quanto fosse importante il ruolo del vescovo anche nella capitale
dell’esarcato.
Il Liber, solamente verso la fine del VII secolo, e precisamente dal pontificato di Sergio I, torna a
parlare dei longobardi.
Come si è visto, un primo episodio si riferisce ad essi, ma senza utilizzare esplicitamente il nome della
gens, e precisamente quello del ritorno alla comunione con la chiesa di Roma della chiesa di Aquileia (la
sede di Forum Iulii)[710]. Il fatto - del quale come si è ricordato a suo luogo esiste una
diversa versione di parte longobarda che attesta la celebrazione di un sinodo convocato dal re Cuniperto a Pavia
per chiudere la questione - riguarda un evento di natura specificamente teologica e canonica, ma, per il ruolo
determinante che allora avevano i vescovi nella gestione delle diverse regioni, assume anche connotati di ben
più ampio spessore. Nella versione romana è il pontefice a preoccuparsi di sanare la divisione,
nella versione longobarda è il re ad avere il merito dell’opera; in entrambi i casi è
attestato l’intervento di due autorità supreme, diverse entrambe dalla chiesa di Aquiliea, che
intervengono per appianare definitivamente i contrasti.
Il secondo episodio che vede in causa i longobardi è riferito nella vita di Giovanni VI dove, invece, la
gens langobardorum appare come nemica, in occasione dell’avanzata compiuta nel sud del Lazio ai
danni del ducato romano. Se nella pace che intervenne al tempo di Sabiniano l’esarca vi aveva giocato un
ruolo decisivo, anche se il Liber pontificalis lo aveva taciuto, ora è certamente il solo Giovanni
VI ad adoperarsi per limitare i danni dell’avanzata nemica, come afferma esplicitamente la biografia:
nullusque extitisset qui ei potuisset resistere[711]. Il ducato di Benevento appare qui come nemico dichiarato di Roma,
così come lo era stato il regno ai tempi di Sabiniano.
Il terzo episodio torna ad avere, come il primo, valenze positive: Ariperto, il primo re longobardo di cui
compare il nome nel Liber[712] più di cento anni dopo l’arrivo dei longobardi in Italia,
restituì il patrimonium delle Alpi Cozie alla sede apostolica, al tempo di Giovanni
VII[713]. Ovviamente
dovettero intercorrere incontri, consultazioni e missive fra le parti per giungere a questa decisione. Si deve
notare soprattutto come il gesto indichi una grande benevolenza del re longobardo ed un ossequio, probabilmente
interessato, nei confronti della sede apostolica. Un episodio come questo, sarebbe difficilmente spiegabile senza
una consuetudine di rapporti maturata nei decenni, tramite i presuli delle diverse diocesi.
Infine, è in occasione della venuta a Roma del vescovo di Milano, al tempo di papa Costantino, che viene
presentato dal Liber la questione della chiesa a cui spetti il compito di provvedere alla consacrazione
del vescovo di Pavia. Il redattore sottolinea esplicitamente che il papa ottenne il riconoscimento definitivo che
la consacrazione del vescovo pavese pertinebat atque pertinet[714] alla sede romana e non alla metropolia di Milano. Si
noti qui, nonostante i contorni precisi della vicenda restino oscuri[715], che il vescovo di Milano discese fino a Roma ed
obbedì alla volontà papale e che questa, probabilmente, coincideva con il desiderio del re che
vedeva così riconosciuta una dignità particolare del presule della capitale longobarda. Come si
è notato, la decisione che la consacrazione del vescovo di Pavia fosse riservata al pontefice implicava
necessariamente che il nuovo presule si mantenesse poi in costante rapporto con l’urbe, in qualche modo
divenendo rappresentante della sede apostolica stessa presso la corte longobarda. Ancora una volta, quindi, il
Liber conferma il ruolo importantissimo giocato dai vescovi nel tardo-antico e nell’alto
medioevo.
In particolare, se già tutti i vescovi cattolici, a qualsiasi regno appartenessero, erano tenuti tutti, a
motivo della fede comune, «ad obbedire al suo [del vescovo di Roma] magistero di fede e di disciplina
ecclesiastica, in quanto il vescovo di Roma era il “pius pastor” al quale, come a successore
di San Pietro, Dio affidava da “regere atque gubernare” la sua “sancta universalis
ecclesia” e tutte le pecorelle del Signore dotate di ragione, “cuncta dominicas ac rationales
oves”»[716], particolari rapporti con Roma dovevano avere le chiese della Tuscia
longobarda e dei ducati di Spoleto e Benevento[717], che venivano consacrati direttamente dal papa in San Pietro e dovevano
sottoscrivere alcuni documenti per attestare pubblicamente la loro fedeltà alla sede apostolica non solo
in campo dottrinale, ma anche sul terreno del mantenimento della pace tra impero e regno longobardo. I vescovi di
diocesi in terra longobarda, ma sottoposti alla metropolia di Roma, dovevano, infatti, sottoscrivere
l’obbligo «di adoperarsi con tutte le forze, “festinare omni annisu”, al
mantenimento della pace a Dio diletta fra l’Impero e i Longobardi, “ut semper pax quam Deus
diligit inter rempublicam et nos. hoc est gentem Langobardorum, conservetur”; e di non fare la minima
cosa che con questa pace fosse in contrasto, “et nullo modo contra facere vel quippiam
adversus”»[718]. Il compito affidato ai vescovi di vigilare al mantenimento della pace fra i
territori imperiali e quelli longobardi risalta ancora di più dal confronto con le simmetriche promesse
che dovevano sottoscrivere, invece, i vescovi consacrati dal pontefice appartenenti a diocesi dello stesso
impero: essi dovevano promettere di non farsi complici di alcuna trama contra rempublicam vel piissimus
principem nostrum ed, anzi, di informare subito la sede apostolica se fossero venuti a conoscenza della
preparazione di azioni a danno dell’impero da parte di terzi[719].
La sede di Pavia, secondo il dettato del Liber, viene allora a configurarsi come un’eccezione,
poiché pur appartenendo alle chiese che sono da lungo periodo dipendenti dalla metropolia di Milano,
sembra assumere lo statuto di «un vescovado “esente”, sottratto cioè dalla dipendenza
verso il metropolita della provincia ecclesiastica in cui si trovava e soggetto direttamente al vescovo di
Roma»[720].
L’affermazione che la dipendenza di Pavia da Roma sia a priscis temporibus non sembra rispondere a
verità storica, poiché non si possiede documentazione in merito, e potrebbe derivare piuttosto dal
desiderio del Liber di dare maggiore autorevolezza ad una decisione, invece, molto più
recente[721].
Dall’insieme di questi riferimenti il ricomparire dei longobardi nel Liber sembra rientrare non in
un’ottica meramente negativa: solo l’episodio dell’avanzata del duca di Benevento è
presentato in chiave dichiaratamente ostile, mentre gli altri tre, che riguardano il regno, hanno una valenza
positiva[722]. Niente
viene detto in merito ad un’inimicizia del re nei confronti dell’impero o dell’esarcato.
Vengono invece certamente sottolineati il ruolo decisivo del pontefice a difesa dei territori laziali, la
benevolenza con la quale i longobardi si rivolgevano alla sede romana e, soprattutto, l’obbedienza e lo
stretto legame della gerarchia ecclesiastica longobarda alla sede apostolica, attraverso la notazione sulla
consacrazione del vescovo pavese.
In passato era stato Bognetti[723] a sostenere che questi dati che mostrano, per la seconda metà del VII
secolo, una piena appartenenza del mondo longobardo alla comunione con Roma presupponessero uno specifico sforzo
missionario compiuto dalla sede apostolica nello stesso periodo od in quello immediatamente precedente per
rendere cattolico un mondo longobardo immaginato ancora come largamente pagano o ariano. L’assenza,
però, di un’attestazione di quest’azione nelle fonti ha fatto propendere, giustamente, per un
abbandono di questa ipotesi[724]. Il rifiuto di questa tesi non deve, però, far dimenticare che
l’evoluzione non poté che avvenire attraverso un’azione dei vescovi dei territori longobardi e
questi, a loro volta, non poterono che svolgerla comunque in un legame organico con la sede romana, poiché
è della fede cattolica che si tratta. In questo senso sembra sia necessario trovare una via media fra
l’ipotesi del Bognetti che ipotizza un’esplicita missione organizzata e le tesi di chi sostiene che
l’evoluzione del mondo longobardo avvenne nel disinteresse della chiesa di Roma[725].
Contemporaneamente alla ricomparsa letteraria dei longobardi si assiste nuovamente alla presenza nel Liber
di riferimenti a diversi regni del nord Europa; se dei longobardi non si era fatto più cenno dal tempo di
Sabiniano, l’ultimo riferimento agli altri regna è reperibile nella biografia immediatamente
precedente, quella di Gregorio Magno. I regni del nord riappaiono nella biografia di Sergio I nella quale si
ricorda l’ordinazione da parte del pontefice di un arcivescovo per la Britannia e di uno per i
frisoni[726], mentre
nella biografia di Costantino si ricorda la visita a Roma di due re sassoni[727].
Questi dati orientano non solo a confermare l’intensificarsi dei rapporti della sede apostolica con
l’occidente che è attestato dalle altre fonti[728], ma anche una specifica, seppure ancora occasionale,
attenzione del Liber in merito. I brevissimi accenni delle biografie pontificie sulle gentes
più a nord dei longobardi debbono essere letti così come segni di un interesse che andava maturando
nello scrinium pontificio verso quel mondo[729].
Gli insistenti richiami agli stipendi che vengono erogati ed al sistema fiscale che permette di reperire i fondi
necessari ai pagamenti attestano, innanzitutto, come tutta la struttura amministrativa continui ad essere
funzionante. Nella biografia di papa Eugenio I il Liber sottolinea come la paga sia regolare, anche al
momento della morte del papa: rogam clero solitam tribuit et indigentibus elemosynam subministravit, ut etiam
die transitus sui pauperibus vel clero seu familiae presbyteria in integro erogari praeceperit[730]. Più oltre sarà
analizzata la questione delle diaconie e del servizio episcopale ai poveri; qui interessa sottolineare come il
clero continui a ricevere un vero e proprio stipendio regolare.
Nella biografia di Vitaliano, viene, invece, stigmatizzata la differenziazione fiscale introdotta
dall’imperatore negli anni della sua residenza in Sicilia. Ma questo non deve fare assolutamente pensare ad
una scomparsa del gettito fiscale nelle zone direttamente influenzate dalla diretta amministrazione della sede
apostolica. Piuttosto si evince, ancora una volta, come il vescovo di Roma possa ottenere una diversificazione
della tassazione. Sembra non esistere un sistema di esazione delle tasse univoco per tutto l’impero, ma in
ogni regione sussistono delle differenze che sono determinate anche e soprattutto dagli interventi episcopali in
materia. Se, però, l’aumento dell’esazione fiscale non tocca Roma e le sue immediate
dipendenze, esso, invece, coinvolge le proprietà ecclesiastiche romane della Sicilia ed, in genere, del
sud dell’Italia. È così immediatamente evidente che la Sede apostolica, se da un lato
gestisce a nome dell’impero le finanze, d’altro canto è soggetta a versare le imposte
previste, evidenziando così, ancora una volta, la sua piena integrazione nella compagine imperiale.
Infatti, dopo aver affermato che tales afflictiones posuit populo seu habitatoribus vel possessoribus
provinciarum Calabriae, Siciliae, Africae vel Sardiniae per diagrafa seu capita atque nauticatione per annos
plurimos, quales a seculo numquam fuerunt[731], il Liber prosegue sottolineando che sed et vasa vel cymilia
sanctarum Dei ecclesiarum absollentes nihil demiserunt[732]. Come nel caso della spoliazione di Roma, sembra qui di
poter affermare che l’imperatore fece semplicemente valere la propria autorità prelevando ciò
che era legittimamente proprietà imperiale o pretendendo, laddove non c’era una disponibilità
monetaria immediata da parte di possessori ecclesiastici, il versamento delle tasse sotto altra forma e
specificamente attraverso l’acquisizione degli oggetti liturgici di metallo prezioso di proprietà
delle singole chiese.
Per comprendere meglio il ruolo giocato dal vescovo di Roma nella gestione delle tasse dei patrimoni della
Sicilia si può fare riferimento ad un passaggio del Liber pontificalis ecclesiae
ravennatis[733] che
raccontando l’annuale invio del ricavato dei patrimoni della chiesa ravennate in Sicilia al tempo
dell’arcivescovo Mauro, probabilmente poco prima dei provvedimenti fiscali di Costante II, dopo aver
elencato tutti i prodotti e le loro quantità, a partire dal grano e dai diversi cereali spediti via nave a
Ravenna, aggiunge che il diacono amministratore dei beni ecclesiastici inviò quindicimila solidi
d’oro al palazzo di Costantinopoli e sedicimila all’archivium della chiesa
ravennate[734]. È
qui evidente che il rector in questione, sebbene si trovi in un territorio non pertinente
all’esarcato, abbia insieme la responsabilità dei patrimoni ecclesiastici per il loro buon frutto
ed, insieme, un incarico di collazione delle tasse sull’intero patrimonio sparso per l’isola con il
compito di inviarlo poi nella capitale. L’esazione delle tasse non avveniva così luogo per luogo con
il contributo di pubblici ufficiali designati ad hoc, ma era lo stesso amministratore della chiesa
ravennate a rendersene garante per i patrimoni ravennati dell’intera isola. Dell’esazione delle tasse
dovevano essere a maggior ragione corresponsabili, sotto la supervisione pontificia, i vescovi delle diocesi
siciliane nelle quali erano situate le proprietà della chiesa di Roma.
La successiva notizia di Adeodato II afferma che il pontefice rogam omnibus ampliavit[735]. Qui è palese la
differenziazione retributiva che le singole diocesi dovevano avere, senza che questo implichi minimamente un
fuoriuscire dall’unica struttura amministrativa imperiale. Piuttosto è da sottolineare
quell’omnibus, nel quale è da leggere un segno evidente della responsabilità che lo
scrinium pontificio aveva nel versamento degli stipendi dei pubblici ufficiali ben al di là dei
diretti appartenenti al clero.
Senza specificare ulteriormente, la biografia di Agatone evidenzia, come si è già visto, la grande
importanza delle casse pontificie che gestivano anche il denaro pubblico, raccontando che è lo stesso
vescovo di Roma ad assumere temporaneamente il ruolo di arcarius: ultra consuetudinem arcarius
ecclesiae Romanae efficitur et per semetipsum causa arcarivae disposuit, emittens videlicet desuscepta per
nomencolatorem manu sua obumbratas[736]. Solo il sopraggiungere di una infermità fa desistere Agatone
dall’esercitare il diretto controllo delle finanze pontificie. L’evento è evidentemente, per i
redattori del Liber, non ordinario e contrario alla prassi abituale, ma proprio questo pone in risalto la
decisività di questo settore agli occhi di Agatone e nella sua importanza oggettività.
Come si è visto è solo nella biografia di Giovanni V che viene riportata la notizia che egli, da
diacono, nel corso del pontificato di Leone II, era stato latore delle divales iussiones relevans annonocapita
patrimoniorum Siciliae et Calabriae non parva, sed et coemptum frumenti similiter vel alia diversa quae ecclesia
Romana annue minime exurgebat persolvere[737]. Questo ulteriore particolare riporta ad una evoluzione della situazione nei
possedimenti imperiali del sud d’Italia, sollevati dal gravare dell’esazione pretesa da Costante II.
È estremamente significativo che sia, ancora una volta, indirettamente attestato il ruolo della gerarchia
ecclesiastica nella revisione delle imposte dovute. Se il gettito varia, non cambia, però, ciò che
è costante, cioè che l’esazione fiscale strutturi l’intera amministrazione civile,
coinvolgendo nel pagamento anche i possedimenti della chiesa che vedono diminuire ciò che è
richiesto, ma mai un’esenzione totale.
Le biografie di Benedetto II, Giovanni V e Conone vedono il ripetersi di una stessa formula - dovuta
probabilmente allo stesso estensore delle tre notizie - riguardanti questa volta le categorie che ricevevano
dalla sede apostolica gli stipendi. Per tre volte risuona così l’espressione dimisit omni clero
monasteriis diaconiae et mansionaribus[738] seguita dalla cifra dell’importo versato. Ciò che qui preme
sottolineare – successivamente si analizzerà la questione delle diaconie - è che siano qui
considerati anche gli stipendi dovuti mansionaribus, cioè al personale civile impegnato
nell’amministrazione ecclesiastica. Evidentemente svariati incarichi sono svolti non dal clero né
dai monaci, ma da laici ed il loro numero è così consistente da meritare una specifica menzione
nell’elencazione delle persone che esercitano un lavoro e, pertanto, beneficiano di tali pagamenti
retributivi.
La notizia di Conone torna a registrare, dopo quelle di Vitaliano e di Giovanni V, ulteriori evoluzioni
sull’esazione fiscale nel sud dell’Italia. Dopo aver sottolineato che Conone, prima
dell’elezione, non si era mai immischiato in cose secolari - sottolineando così indirettamente
l’importanza della questione -, il Liber racconta, come si è visto, che il pontefice
ricevette due iussiones dall’imperatore. Giustiniano ducenta annonocapita a quas patrimonius
Brittius et Lucaniae annue persolvebat [739]e successivamente direxit ut restituantur familia suprascripti patrimonii et
Siciliae quae in pignere a militia detinebantur[740]. Evidentemente i patrimoni della chiesa di Roma dovevano tornare a godere di
ulteriori alleggerimenti fiscali, rispetto alla generale tassazione. A stare al tenore del Liber, il fatto
che il nuovo carico fiscale fosse meno oneroso per la Chiesa riportava la situazione ad uno stadio precedente le
riforme di Costante II[741], sebbene i dati forniti non permettano di ricostruire l’evento in tutti
i suoi dettagli.
L’importanza dei possedimenti ecclesiastici nel sud dell’Italia è ulteriormente attestato,
nella stessa notizia, dalle polemiche che seguirono la nomina a rector dei patrimoni ecclesiastici
siciliani di un diacono di Siracusa. Il Liber si distacca, evidentemente, dalla scelta fatta da Conone,
ritenendola lesiva degli interessi romani - ultra consuetudinem, absque consensu cleri, ex inmissione malorum
hominum, in antipathia ecclesiasticorum, Constantinum, diaconum ecclesiae Syracusanae, rectorem in patrimonio
Siciliae constituit, hominem perperum et tergiversutum[742] - e, morto il pontefice, racconta del processo al quale
il rector dovette essere sottoposto dall’autorità imperiale. L’evento sottolinea,
ancora una volta, come una complessa rete amministrativa tenesse unita la compagine ecclesiale e come lo
scrinium pontificio abitualmente si sentisse responsabile dei lontani patrimoni ecclesiastici siciliani,
al punto da ritenere la nomina di un diacono estraneo al Laterano a rector di tali possedimenti come una
colpevole ingerenza.
Anche tre brevi notazioni legate ad eventi metereologici o tellurici straordinari - le piogge torrenziali che
devastarono la regione sotto Adeodato II, l’eruzione vulcanica avvenuta durante il pontificato di Benedetto
II e la carestia che si trovò ad affrontare Costantino - attestano come i redattori del Liber siano
preoccupati della vita civile di Roma e dei territori vicini. I pontefici intervengono promuovendo iniziative di
preghiera per chiedere a Dio la cessazione degli eventi calamitosi.
In sintesi, si può affermare che anche per questo periodo la tesi di Durliat sulla persistenza
dell’organizzazione amministrativa e della regolarità dell’esazione fiscale si rivela fondata,
a partire dai dati che emergono dal Liber pontificalis: la struttura amministrativa imperiale è
pienamente funzionante con il pagamento degli stipendi religiosi e civili che dipende a sua volta dalla tenuta
della raccolta delle tasse. Lo scrinium pontificio gioca un ruolo chiave in questa struttura, ma non si
sostituisce semplicemente alla struttura civile, bensì esercita un ruolo di autorità a nome
dell’amministrazione stessa, rendendosi al contempo garante presso la popolazione del suo buon
funzionamento per il bene comune.
Nella continuità della gestione, si deve altresì registrare una divaricazione profonda
dell’amministrazione del sud e del centro Italia a partire dal regno di Costante II, sebbene essa sembri
parzialmente rientrare successivamente, con i suoi successori[743]. Il centro Italia riceve dall’imperatore una
libertà di azione sulla propria amministrazione e sull’esazione delle tasse che non è
lasciata alla Sicilia ed al resto del sud da lei dipendente, evidentemente perché le forze imperiali ne
detengono il dominio in maniera più stretta e riescono ad imporre senza difficoltà nuove norme
più esigenti in materia di raccolta delle tasse.
È con il pontificato di Benedetto II che il Liber pontificalis ricorda, per la prima volta,
l’esistenza della diaconia in Roma, richiamandola poi ancora nelle biografie di Giovanni V e Conone.
In tutti e tre i passi viene magnificata la munificenza papale che sostiene con oro e con pagamenti diversi le
attività della chiesa di Roma. Di Benedetto II si afferma che dimisit omni clero monasteriis diaconiae
et mansionaribus auri libras XXX[744], di Giovanni V che dimisit omni clero monasteris diaconiae et mansionariis
solidos MDCCCC[745],
di Conone che omni clero monasteriis diaconiae et mansionariis in auro, sicuti praecessor eius Benedictus
papa[746].
Dinanzi all’insistenza di questi riferimenti gli studiosi si sono domandati in primo luogo a quale epoca si
debba far risalire tale diaconia, se essa debba poi essere collegata a monasteria espressamente
incaricati in tal senso, in terzo luogo in cosa consista precisamente il servizio della diaconia all’epoca
del suo apparire nel Liber pontificalis ed, infine, quale sia il suo rapporto, da un lato, con le risorse
economiche dello scrinium pontificio e, dall’altro, con il governo civile della città e con
le pubbliche finanze dell’urbe.
Proprio gli anni recenti hanno visto riaprirsi la questione con sviluppi significativi che hanno riproposto un
quadro sensibilmente diverso da quello tradizionale che si era delineato a partire dagli studi di Duchesne. Il
grande storico francese, pur riconoscendo il fatto che l’istituzione della diaconia vantava una lunga
storia che non poteva non rimontare ai primi secoli della chiesa di Roma, poneva di fatto una cesura tra questa e
la diaconia di cui parla il Liber in riferimento alla seconda metà del VII secolo: «en
parlant d’une institution eccléstiastique préexistante, je n’entends pas dire que les
services charitables de l’église romaine aient été, dès les premiers
siècles, rattachés aux diaconies dont je m’occupe en ce moment. Sur celles-ci, je ne connais
aucun document antérieur à la vie de Benôit II. Saint Grégoire ne parle jamais, au
moins en termes exprés, des diaconies romaines. Les églises qui en étaient comme les
chapelles sont loin de remonter à une antiquité aussi haute que les églises
presbytérales titulaires; plusieurs d’entre elles ont été installées dans des
édifices antiques dont l’église romaine n’avait certainement point la libre disposition
au IVe siècle ou au Ve; quelques-unes, qui ne sont devenues diaconies que longtemps après leur
fondation, n’ont pas été fondées avant le VIe ou le VIIe
siècle»[747].
La novità che Duchesne proponeva di vedere nel testo estremamente scarno del Liber pontificalis era
quella dell’istituzione di più diaconie affidate a monasteri incaricati del servizio dei più
poveri: «le génitif diaconiae dépend de monasteriis; il y a ainsi trois classes
de personnes qui participent aux libéralités du pape: le clergé tout entier (clerus
diversis ordinibus), les monastères de diaconie et les mansionnaires Les monastères de diaconie
sont marqués ici à l’exclusion des monastères ordinaires»[748]. Più oltre Duchesne
proseguiva: «la formule monasteria diaconiae suppose que les diaconies ont été
d’abord organisées en forme de monastères; les moines fournissaient le personnel de
l’administration et du service (diaconitae); à la tête de chaque diaconie était
un supérieur, moine aussi le plus souvent, qui portait le titre de pater ou de dispensator.
Les prêtres attachés à l’établissement relevaient de lui au point de vue du
temporel et du service»[749].
La posizione di Duchesne fu ripresa da Bertolini che nel 1947, a conclusione di un suo ponderoso studio dedicato
specificamente alla questione dell’originalità delle diaconie romane, affermava:
«l’amministrazione relativa [alla diaconia], anche con Gregorio Magno, rimase esclusivamente
accentrata negli uffici del palazzo Lateranense, senza che si sentisse il bisogno di creare particolari istituti,
sul genere di quelli già allora sorti altrove nell’Italia bizantina, come a Pesaro o a Napoli [...].
Il fattore nuovo nella vita delle attività caritative ed assistenziali di Roma, entrò solo verso lo
scorcio del sec. VII, e fu portato da quella parte del numeroso elemento monastico affluitovi nei decenni
precedenti dalle province orientali dell’Impero, che, chiusosi il conflitto monotelita con la vittoria
riportata dalla Sede Apostolica al VI Concilio ecumenico del 680-681, trasferì le sue iniziative, dalla
partecipazione alla lotta contro l’errore religioso, alla partecipazione all’opera di soccorso in
sollievo delle miserie dei poveri. Tali iniziative presero forme concrete in istituti, che, dalle tradizioni
secolari del cenobitismo greco-orientale, derivarono caratteri, ordinamenti, modi di funzionare e nome. Sorsero
allora, fra il 680-681 ed il 684-685, i primi “monasteria diaconiae”, creati dai monaci esuli,
che vi si raccolsero per assistere indigenti ed ammalati bisognosi, e preposero all’amministrazione
dell’istituto chi, tra di essi, giudicavano più idoneo ad assolvere le incombenze
dell’ufficio, chiamandovelo mediante elezione»[750].
Queste tesi, che hanno ricevuto il consenso degli studiosi fino alle recenti ricerche, sono ora rimesse in
discussione dagli studi di Durliat che ha posto in rilievo alcuni fatti difficilmente contestabili.
Egli ha evidenziato innanzitutto che in nessuno degli scavi archeologici pertinenti alle diverse diaconie romane
si è mai trovato traccia di ambienti riferibili a monasteri[751]. A questo dato, già di per sé
estremamente significativo, Durliat ha aggiunto la considerazione che mai, nelle fonti letterarie, si parla per
quest’epoca di specifici monasteri romani che abbiano avuto in cura una specifica diaconia[752].
Inoltre, il fatto che il termine compaia solamente a partire dalla biografia pontificale di Benedetto II non
è, a suo avviso, un fatto di per sé decisivo per sostenere la comparsa di una nuova struttura,
poiché anche il termine mansionarii, che indica la categoria dei laici addetti alle strutture
ecclesiastiche beneficiate dal pontefice, appare per la prima volta con la medesima biografia[753], ma, evidentemente, la presenza
di tali figure è ben più antica.
Durliat difende la tesi che la diaconia romana, cui fa riferimento il Liber a partire da Benedetto II, sia
semplicemente la continuazione della diaconia episcopale molto più antica. In particolare, appoggiandosi
sulle fonti relative alla vita di Gregorio Magno, egli ne afferma la chiara attestazione già nel passaggio
dal VI al VII secolo[754], anche se ritiene che la sua esistenza debba essere spostata ancora più
indietro nel tempo e, precisamente, in relazione al sorgere di tale istituzione nelle restanti diocesi della
chiesa antica ed, in particolare, in quelle orientali[755].
Durliat conclude, quindi: «il faut alors faire de diaconiae un datif, ponctuer différemment
et traduire: “Il donna (25 ou 30 livres) à tout le clergé, aux monastères, à la
diaconie et aux mansionnaires”»[756]. La sottolienatura sarebbe così quella dell’unica diaconia
episcopale; tale espressione indicherebbe che al tempo di Benedetto II e dei suoi immediati successori
l’unico servizio reso dalla chiesa di Roma agli indigenti si giovava sì di singoli e differenti
luoghi nei quali concretamente i poveri della città avevano accesso alla beneficenza della
comunità, ma la piccolezza di questi luoghi non li rendeva ancora meritevoli di un’attenzione
particolare, come avverrà invece nell’VIII secolo quando emergeranno le diverse diaconie, al
plurale, sostenute dalla beneficenza di particolari famiglie e personaggi in vista dell’urbe[757] e, soprattutto, promosse con
maggior enfasi dalla stessa sede apostolica.
Il Liber conterrebbe allora non l’indicazione di una nuova istituzione[758], sulla quale, altrimenti, la
biografia pontificia avrebbe fornito qualche specificazione ulteriore, ma molto più semplicemente la
manifestazione di un plauso alla beneficenza pontificia, con l’elencazione delle voci generali di spesa.
Esse corrisponderebbero, a loro volta, alle grandi ripartizioni che orientavano le uscite del bilancio dello
scrinium pontificio.
In effetti, la posizione tradizionale del Bertolini era costretta ad ipotizzare due passaggi storici, mancanti
entrambi, però, di una esplicita attestazione nelle fonti; più precisamente egli era costretto ad
ammettere, in primo luogo che solo in Roma la presenza di monaci di provenienza orientale avrebbe dato vita alla
istituzione dei monasteria diaconiae ed, in secondo luogo, che tale servizio peculiare sarebbe
successivamente scomparso per lasciare spazio alle diaconie che sono attestate nell’VIII secolo nelle
biografie pontificie e che non hanno alcun legame con i monasteri dell’urbe, come si vedrà a suo
luogo nel capitolo successivo[759]. Insomma né la nascita, né la scomparsa dei monasteria
diaconiae proposti da Bertolini hanno altro fondamento nelle fonti, se si eccettua la formula del Liber
pontificalis in questione.
La quadruplice elencazione delle realtà beneficate dai tre pontefici summenzionati deve essere, piuttosto,
messa a confronto con il budget di spesa delle diocesi antiche. Gli studi hanno accertato che esso era suddiviso
in quattro parti e che le quattro voci di spesa erano quelle del vescovo e della sua amministrazione, quella del
clero, quella dei poveri e quella della costruzione e manutenzione dei luoghi di culto e dei loro annessi. Nel
Liber pontificalis si omette la prima voce, che è quella del vescovo stesso e del scrinium -
e questo ovviamente perché i redattori dovrebbe altrimenti riferire dei propri stipendi - ed alle tre
restanti, quelle del clero, dei poveri (cui corrisponde la diaconia) e degli edifici (cui corrispondono i
mansionarii), viene aggiunta una specifica voce relativa ai monasteria[760].
Se ci si domanda, allora, il motivo dell’insistenza nell’utilizzo di una precisa formula che
sottolinea l’ampio spettro della beneficenza papale, si deve rispondere che non è in gioco la
creazione di una nuova istituzione, bensì la sottolineatura del ruolo decisivo che la chiesa di Roma
svolge all’interno dell’urbe. Lo scrinium pontificio si compiace di segnalare la rilevanza
dell’impegno economico profuso dal pontefice nelle diverse direzioni necessarie al sostentamento ed
all’animazione dell’opera della chiesa nella città. Sebbene non ci sia una esplicita
affermazione in merito, è lecito ipotizzare anche qui una progressiva autonomia pontificia rispetto
all’impero, poiché si tace completamente il fatto che parte dei fondi utilizzati provengono dalle
rendite fiscali e si pone in rilievo esclusivamente il ruolo del vescovo di Roma[761].
Il ricordo dei donativi omni clero monasteriis diaconiae et mansionariis non ha così, agli occhi
dei redattori del Liber, un valore diverso dalle altre menzioni della benevolenza papale verso la
città ed i suoi poveri. Nei pontificati che vanno dall’esilio di Martino I a Costantino vengono
elogiati anche Eugenio I, che rogam clero solitam tribuit et indigentibus elemosynam subministravit, ut etiam
die transitus sui pauperibus vel clero seu familiae presbyteria in integro erogari praeceperit[762] e Leone II, in quanto fu
paupertatis amator et erga inopem provisione non solum mentis pietate sed et studii sui labore
sollicitus[763].
Anche questi riferimenti debbono essere interpretati nella stessa direzione dei precedenti.
Un elemento ricorrente - il riferimento alle mura ed alle porte della città - permette non solo di
apprezzare l’enorme valore che il sistema difensivo dell’urbe aveva per la vita di Roma, ma anche di
percepire la centralità della figura del pontefice nel suo funzionamento.
Si è visto come, nella biografia di Adeodato II, sia segnalata la realizzazione di interventi non meglio
identificati presso la chiesa di San Pietro, iuxta ponte Meruli[764], cioè in una zona vicina ad un ponte sul Tevere,
che doveva essere uno dei capisaldi del sistema difensivo della città[765].
Il pontefice appare come supremo responsabile della chiusura delle porte cittadine e, quindi, dell’intero
sistema difensivo in due occasioni analoghe, dove non si è in presenza di un pericolo per la città
in quanto tale a motivo di nemici esterni, bensì è la vita di due inviati imperiali ad essere a
rischio perché gli armati si sono rivoltati contro di loro.
Il primo riferimento ad una responsabilità pontificia nei confronti delle porte cittadine è,
infatti, contenuto, come si è visto, nella biografia di papa Sergio I al quale il protospatario Zaccaria,
atterrito dalle truppe rivoltatesi contro di lui, portas quidem civitatis claudi et teneri pontificem
postulabat[766]. Il
Liber non racconta l’esplicita azione del pontefice in merito, ma attesta che Zaccaria si
rifugiò infine nella camera da letto del pontefice, perché i cittadini dell’urbe fama
vulgante per nocte sublatum et in navigio missum fuisse cognoverunt[767] e, conseguentemente, cercarono di catturarlo prima del
tramonto del sole. In questo particolare, dove i verbi del progettato trasporto del protospatario sono al passivo
(sublatum e missum), è da leggersi nuovamente l’autorità del pontefice che si
sarebbe servito della potestà di comandare segretamente l’apertura delle porte cittadine durante la
notte.
Più esplicito è, invece, il racconto dell’intervento di Giovanni VI che, alla notizia
dell’avvicinarsi della militia totius Italiae contro l’esarca Teofilatto giunto a Roma dalla
Sicilia ne adfligetur persona sese medium dedit, portas civitatis clausit, sacerdotes apud fossatum in quo in
unum convenerant misit, et monitis salutaribus tumultuosam eorum seditionem sedavit[768]. Qui la chiusura della cinta
muraria viene presentata come decisiva. Essa permette di prendere tempo e di preparare l’invio di sacerdoti
perché gli animi degli armati siano rasserenati e desistano dalle loro intenzioni bellicose contro
l’esarca imperiale. È evidente che il pontefice ha l’autorità morale di determinare, in
frangenti difficili, la serratura o l’apertura delle porte e che gli addetti al sistema difensivo gli
obbediscono.
Infine, nella brevissima biografia di Sisinnio, come si è visto, i redattori del Liber conservano
memoria della necessità di un restauro complessivo della cinta muraria, sebbene la malferma salute del
pontefice, che lo porterà ad una rapida morte, non abbia permesso di portare a termine l’intervento
che egli aveva progettato - qui et calcarias pro restauratione murorum iussit dequoquere[769].
Il Liber non fornisce indizi per indicare senza rischio di errore quale pericolo la città
corresse[770]. Si deve
escludere, però, che fosse in previsione una specifica azione contro la città; piuttosto le vicende
dei pontificati precedenti sembrano evidenziare quanto le mura potessero giocare un ruolo significativo nel
gestire eventi che il pontefice si trovava a dover affrontare senza poter contare su altri aiuti. Oltre ai due
casi appena citati delle ribellioni contro Zaccaria e Teofilatto, la cinta muraria poteva aver giocato un ruolo
dissuasivo anche dinanzi all’avanzata verso Roma di Gisulfo, duca di Benevento, durante il pontificato
dello stesso Giovanni. Sembra, comunque, da escludere l’ipotesi che le mura dovessero servire contro un
eventuale attacco delle forze imperiali se il sovrano costantinopolitano avesse deciso un’azione punitiva
contro la sede apostolica nella questione ecclesiastica che si trascinava in merito al concilio Quinisesto. La
notizia di Costantino, successore di Sisinnio, che accetterà di partire per Costantinopoli, al
sopraggiungere dell’ordine imperiale in merito, ne è testimonianza eloquente. È, piuttosto,
in quanto vescovo che si cura del bene della città ed, insieme, in quanto autorità rappresentante
il potere imperiale che il pontefice può intervenire nell’attivazione del sistema difensivo della
città ed, anche, nel suo restauro, impegnando l’intera cittadinanza nella preparazione del materiale
necessario per l’opera di consolidamento delle mura.
Il programmato intervento di rafforzamento del recinto murario è, così, un ulteriore tassello che
deve essere aggiunto alla comprensione delle competenze che di fatto il vescovo di Roma si trova ad assumere nel
suo rapporto con la città. Il pontefice, nella notizia di Sisinnio, non è solo colui che detiene il
potere di aprire o chiudere le porte delle mura, come nelle notizie precedenti, ma ancor più colui che ha
l’autorità di decretarne il restauro ed il rafforzamento a beneficio della cittadinanza tutta.
L’attività di manutenzione, ampliamento, edificazione ex novo ed abbellimento del patrimonio
immobiliare ecclesiastico appare considerevole nel periodo che va da Eugenio I a Costantino, come un semplice
riassunto dei dati forniti dal Liber pontificalis permette di verificare.
Niente è detto in merito nel corso dei pontificati di Eugenio I e Vitaliano, anzi durante il regno del
secondo il Liber ricorda le spoliazioni delle chiese operate dall’imperatore prima nell’urbe e
poi nel sud d’Italia.
Ma, a partire dai loro successori, le notizie si moltiplicano. Adeodato II intervenne in favore della chiesa di
San Pietro qui est via Portuense, iuxta ponte Meruli[771] e del monastero di Sant’Erasmo[772], sottolineando che per la vita
del secondo et casalia conquisivit[773].
Dono rinnovò la pavimentazione dell’atrio della basilica di San Pietro in Vaticano magnis
marmoribus[774],
restaurò la ecclesiam Apostolorum via Ostiense e dedicavit la chiesa di Sant’Eufemia
sull’Appia[775].
Agatone stanziò somme di denaro ad luminaria Apostolorum et sanctae Mariae ad Praesepe[776].
Leone II costruì una ecclesiam in urbe Roma iuxta sancta Viviana[777], nella quale furono traslate le reliquie di
alcuni santi precedentemente sepolti sulla via che conduceva a Porto; il nuovo luogo di culto ricevette anche la
dedicazione a san Paolo apostolo. In una recensione successiva, si aggiunge che Leone II edificò anche
aecclesiam iuxta Velum aureum in honore beati Sebastiani edificata est, necnon in honore martiris
Georgii[778].
Anche Benedetto II commissionò lavori: ecclesiam beati Petri apostoli sed et beati Laurenti martyris
qui appellatur Lucinae restauravit itemque in ecclesia beati Valentini via Flamminea fecit coopertorium super
altare cum clavos in fistellis et in circuitu palergium chrisoclavum pretiosissimum[779]. Anche in ecclesiae beate
Mariae ad martyres et in titulo Lucine fece realizzare dei coopertoria[780] dei quale il Liber specifica le fattezze e
le pietre preziose impiegate.
Nessuna indicazione specifica è reperibile nelle due vite di Giovanni V e di Conone, nelle quali,
però, si ricordano le devoluzioni omni clero monasteriis diaconiae et mansionariis[781] già analizzate in
dettaglio.
La vita di Sergio I, dopo aver ricordato che si dovette far fronte alle richieste dell’esarca, che chiedeva
cento libbre d’oro come indennizzo per l’elezione che non aveva visto trionfare il candidato che
gliele aveva promesse, impiegando per questo
cantaros et coronas, qui ante sacrum altare et confessionem beati Petri apostoli ex antiquo
pendebant[782], si
dilunga moltissimo nel ricordare tutti gli interventi a favore delle chiese compiuti dal pontefice. Si citano i
lavori realizzati in Santa Croce in Gerusalemme, San Pietro, San Paolo, i Santi Cosma e Damiano, Santa Susanna,
Sant’Eufemia, Sant’Aurea ad Ostia, Sant’Andrea in via Labicana, e San Lorenzo in Lucina, con
un’ampia descrizione dei diversi materiali impiegati, sottolineandone la qualità e la
preziosità[783].
Si sottolinea, spesso, lo stato di rovina nel quale versavano alcuni edifici sui quali egli dovette intervenire,
ma gli interventi indicano una volontà che non è solo conservativa: è palese, infatti, il
desiderio di abbellire, nella consapevolezza che esiste un linguaggio dell’arte che è necessario
curare. Si veda, ad esempio, il già citato restauro del mosaico quod ex parte in fronte atrii eiusdem
basilicae[784] che
era in rovina e che Sergio I restaurò. Qui non si tratta di un intervento strutturale, bensì di un
restauro finalizzato alla fruizione estetica della basilica stessa.
Giovanni VI fece costruire un ambone in basilica beati Andreae apostoli qui ponitur infra ecclesia beati
Petri, un coopertorium per l’altare della chiesa di San Marco e si preoccupò anche di una
migliore sistemazione della copertura dell’altare della basilica di San Paolo[785].
L’attenzione dedicata agli interventi sugli edifici ecclesiastici nella biografia di Giovanni VII e seconda
solo a quella che aveva richiesto la vita di Sergio I. Il pontefice intervenne presso l’oratorium
sanctae Dei genetricis intro ecclesiam beati Petri apostoli, la basilica sanctae Eugeniae, il cimitero
beatorum Marcelliani et Marci, la basilica sanctae Dei genetricis qui Antiqua vocatur, con
l’annesso episcopium[786] che volle erigere. I redattori del Liber, come si è visto, si
soffermano questa volta anche su taluni aspetti iconografici delle realizzazioni del pontefice:
nell’oratorio della Madre di Dio parietes musibo depinxit, illicque auri et argenti quantitatem multam
expendit et venerabilium Patrum dextra levaque vultus erexit, mentre pictura decoravit la chiesa detta
di Santa Maria Antiqua e, più ampiamente, fecit vero et imagines per diversas ecclesiasquas, quicumque
nosse desiderat in eis eius vultum depictum repperiet[787].
Le notazioni in campo artistico nella vita di Costantino sono brevi, ma significative, perché manifestano
la consapevolezza del valore significativo delle decorazioni iconografiche, poiché egli imaginem quod
Greci Botarea vocant, sex continentem sanctos ac universales synodos, in ecclesia beati Petri erecta
est[788]. Per
contrapporsi all’imperatore Filippico, che negava le tesi ditelite proclamate dal sesto concilio ecumenico,
Costantino utilizza il linguaggio delle immagini, erigendo in San Pietro la rappresentazione dei sei sinodi
“santi ed universali”.
L’elenco imponente di opere realizzate offre una visione dell’urbe come di una città che non
appare in rovina ed allo sbando. Nonostante alcune espressioni, in particolare nella biografia di papa Sergio I,
che indicano la presenza di edifici ecclesiastici in rovina, il Liber presenta la capacità della
sede apostolica di intervenire in numerosi casi per il restauro di chiese, basiliche e cimiteri.
Guidobaldi, a partire dai dati letterari ed archeologici, ha tentato un calcolo approssimativo della fondazione
di edifici cristiani in Roma dal IV al VII secolo, arrivando ad identificare, per l’area urbana di Roma, 23
edifici per il IV secolo, 27 per il V, 33 per il VI, 31 per il VII, mentre, per il suburbio, egli fornisce le
cifre di 19 edifici per il IV secolo, 11 per il V, 17 per il Vi e 7 per il VII[789]. Alle cautele che Guidobaldi stesso
fornisce[790], sembra da
aggiungere l’ulteriore considerazione che egli sembra dare per scontata la fondazione nel VII secolo dei
monasteria diaconiae che, come si è visto, è, invece, contestata dagli studi recenti. I suoi
dati sembrano, comunque, confermare che anche il VII secolo è un periodo importante per la fondazione di
nuovi edifici ecclesiastici.
Il Liber si compiace di mostrare i pontefici all’opera non solo nel campo del restauro e della
fondazione di edifici, ma anche nell’abbellimento dei medesimi. Il dettaglio con il quale sono descritti i
materiali impiegati in alcune realizzazioni, indicano quanto queste dovessero essere ben viste presso lo
scrinium pontificio.
Le biografie di Sergio I, Giovanni VII e Costantino, in particolare, si soffermano sul valore delle immagini, che
vengono realizzate per ordine dei pontefici e Roma appare pienamente consapevole della forza espressiva del
linguaggio artistico, anche se niente lascia ancora presagire la crisi iconoclasta.
È da sottolineare che è completamente sottaciuto, in questo campo, il ruolo delle entrate fiscali
che pervenivano alla chiesa per essere poi utilizzate nei restauri e nelle costruzioni. Se si eccettua il
donativo dell’imperatore a Vitaliano di evangelia aurea cum gemmis albis mirae magnitudinis in circuitu
ornatas[791], in
risposta all’invio a Costantinopoli della sinodica con la quale il pontefice informava il sovrano della sua
ordinazione, la casa imperiale è ricordata solo per le spoliazioni nei confronti delle chiese e mai per la
loro edificazione. È, infatti, la stessa biografia di Vitaliano a ricordare gli interventi a danno degli
edifici ecclesiastici prima nell’urbe e poi nel sud d’Italia[792]. Da questo punto di vista, la chiesa di Roma si
presenta come già totalmente indipendente dall’amministrazione imperiale, anche se non lo è
in realtà, poiché beneficia dei fondi della res publica.
Nel periodo che va da Eugenio I a Costantino, il Liber pontificalis sottolinea la costante attività
scrittoria ed archivistica dello scrinium pontificio. Numerosissime sono, infatti, le attestazioni di
documenti ricevuti, inviati e conservati dalla curia pontificia e l’ampiezza dei riferimenti lascia
intendere che la redazione e la catalogazione di documenti doveva essere ben più ampia.
I documenti citati dal Liber arrivano, innanzitutto, da Costantinopoli ed alla stessa capitale sono
inviati. Si segnalano, in ordine cronologico, prima il synodicon[793], inviato dal patriarca Pietro ad Eugenio I, poi la
synodica inviata da Vitaliano apud piissimos principessignificans de ordinatione sua[794]. Lo scambio di documenti
con Costantinopoli è poi certamente intenso in occasione del Concilio che dirimerà la questione
monotelita: Agatone accolse la divalis iussio con la quale l’imperatore lo invitava a scegliere
delegati per la futura assise[795], gli inviati appena giunti offrirono subito all’imperatore gli
scripta pontificis[796], gli oppositori di Roma presentarono libros et tomos diversos et synodos
quod falsaverut[797], mentre i delegati papali addussero omnes libros quos scirent ad causam
fidei pertinere[798]; una volta che i codices ex bibliotheca ecclesiae[799] furono posti al centro e letti,
fu possibile provare la verità delle due volontà presenti in Cristo che fu ulteriormente confermata
dai Patrum dicta[800] - il Liber cita esplicitamente per nome Giovanni di Costantinopoli,
Cirillo, Atanasio, Basilio, Gregorio, Dionigi, Ilario, Ambrogio, Agostino e Leone. Dopo questi testi venne poi
addotta una synodica[801] dello stesso papa Agatone controfirmata da tutti gli episcopi
occidentales della quale fu data pubblica lettura. Infine il patriarca Giorgio, interrogato se la sua fede
fosse iuxta scripta Agathonis papae[802], fu accolto nella comunione solo dopo che professò in
scriptis[803] le due
nature di Cristo; la professio di Giorgio fu portata poi dinanzi a Macario, patriarca di Antiochia, che si
rifiutò di sottoscriverla[804]. Fra i documenti di carattere giuridico che furono prodotti in occasione del
concilio, il Liber ricorda ulteriormente, come si è visto, la divalis iussio[805] che riguardava la liberazione
dalla tassa dovuta da Roma per ottenere il permesso di consacrare il nuovo pontefice e ripristinava, invece,
l’ordine di consegnare a Costantinopoli, prima dell’ordinazione episcopale, il decretus
generalis[806].
La coscienza dell’importanza di una documentazione scritta è ulteriormente avvalorata dalle notizie
sulla ricezione romana dei documenti del concilio Costantinopolitano III: Leone II, che è definito in
divinis Scripturis sufficienter instructus, greca latinaque lingua eruditus[807], ricevette a Roma gli atti del concilio, scritti
greco eloquio[808], e successivamente li fece tradurre in latino - studiosissime in latino
translavit[809].
L’utilizzo di documenti scritti è ulteriormente attestata nella biografia di Benedetto II, esperto
anch’egli in divinis Scripturis[810], che ricevette le divales iussiones[811] riguardanti la decisione imperiale di velocizzare
nuovamente i tempi della consacrazione pontificia, attribuendo all’esarca l’emissione della
iussio in merito.
Nel presentare la vita di Giovanni V, i redattori del Liber ricordano i suoi trascorsi presso la corte
imperiale, quando, ancora diacono rappresentante di papa Agatone, aveva ricevuto in consegna sia i documenti del
concilio - ipsam sanctam sextam synodum - sia l’edictum imperiale che ne confermava le
decisioni, sia le divales iussiones che rimettevano le tasse - annonocapita - dovute dalla sede
apostolica per i patrimoni della Sicilia e della Calabria, sia il decreto che liberava dalla coemptio
frumenti[812].
Nella biografia di Conone si rinnova il racconto di una corrispondenza scritta con Costantinopoli e sono
specificamente ricordati il nuovo invio da parte dell’imperatore degli acta sanctae sexte synodi che
il pontefice doveva apud se habere e conservare[813], unitamente al documento che rimetteva ducenta
annonocapita dei patrimoni ecclesiastici dell’Italia meridionale, oltre ad una
iussio[814] che
liberava le famiglie che erano state prese in pegno dai soldati imperiali. E, poco dopo la morte del pontefice,
ci si rivolse nuovamente a Costantinopoli per la questione del diacono Costantino che Conone aveva
inopportunamente posto alla guida del patrimonium Siciliae[815].
Anche Sergio I fu oggetto di una missiva imperiale che pretendeva da lui la sottoscrizione degli atti - che
già erano stati controfirmati dai delegati della sede apostolica nella capitale - del sinodo Quinisesto;
esso era in superiori loco subscribendum, ma il pontefice si rifiutò di apporre la sua
firma[816].
L’imperatore inviò gli stessi tomos quos antea sub domno Sergio apostolicae memoriae pontifice
Romam direxerat a Giovanni VII, il quale, humana fragilitate timidus, li restituì
all’imperatore, senza avere nemmeno il coraggio di emendarli[817].
Costantino, infine, ricevette l’ingiunzione di presentarsi a Costantinopoli tramite una sacra
imperiale[818] e, nel
corso del suo viaggio verso la capitale, accolse un sigillum[819] che gli garantiva l’accoglienza da parte di tutti
gli ufficiali dei luoghi che via via attraversava. Lo stesso pontefice, quando l’imperatore eretico
Filippico inviò la prima sua sacra[820], la rifiutò per denunciare la fede non ortodossa del nuovo sovrano.
Se il rapporto con Costantinopoli è scandito da una serie ininterrotta di scambi di documenti scritti, lo
stesso deve dirsi nei confronti di Ravenna, residenza dell’esarca. Con Agatone si ricorda che il nuovo
arcivescovo ravennate curricula praesentavit[821]; con Leone II si menziona la divalis iussio[822] che riportò la sede
ravennate all’obbedienza romana, con la sottolineatura che il documento archivo ecclesiae continetur
e l’ulteriore particolare che i ravennati typum autocephalie restituerunt[823].
Anche dopo l’elezione di Conone i redattori del Liber ricordano che si scrisse all’esarca,
ut mos erat[824].
Durante il pontificato di Costantino, poi, l’arcivescovo di Ravenna Felice noluit facere cautiones in
scrinio[825]; quando
poi il pontefice le pose in sua vece in sacratissima confessione beati Petri, furono ritrovate pochi
giorni dopo miracolosamente annerite dal fuoco. Ma, una volta che l’arcivescovo fu punito insieme
all’intera città per la condotta tenuta contro l’imperatore, accettò infine di
consegnare a Roma gli indicula e le fidei expositiones[826].
Il Liber ricorda due ulteriori eventi riguardanti situazioni al di fuori dei territori imperiali nei quali
si produsse una documentazione scritta. Sotto Giovanni V, al termine della convocazione del sinodo romano che
vietava all’arcivescovo di Cagliari di ordinare nuovi vescovi, riservando la cosa alla sede apostolica, fu
accolto nella piena comunione il vescovo ecclesiae Turritanae, che era stato da lui consacrato, ma solo
dopo che il nuovo presule ebbe sottoscritto la sua obbedienza, quorum cyrographum archivo ecclesiae
retinetur[827].
Durante il pontificato di Giovanni VII, invece, il re longobardo Ariperto restituì al vescovo di Roma i
patrimoni della chiesa delle Alpi Cozie e la donazione fu consegnata in litteris aureis
exaratam[828].
All’interno dello stesso scrinium pontificio per due volte, come si è visto, viene
sottolineato l’alacre lavoro scrittorio in ambito amministrativo e canonico. Nella notizia su Agatone i
redattori del Liber ricordano che egli assunse personalmente il ruolo di arcarius e per
semetipsum causa arcarivae disposuit, con l’aiuto di un nomencolator, per l’emissione
delle desuscepta[829]. Solo quando sopraggiunse una malattia, arcarium iuxta consuetudinem
instituit[830].
In ambito canonico, invece, Leone II, dovendo assolvere il presbitero Anastasio ed il diacono Leonzio che avevano
infine deciso di professare la fede cattolica, si assicurò che essi esponessero per propria scripta
fidem suam iuxta quod et sancta synodus determinavit[831].
Un dato emerge in sintesi da quanto esposto e, cioè, la continuazione di una cultura che si definisce
attraverso lo scritto e che si perpetua in esso. La redazione del Liber pontificalis non appare come un
elemento isolato, a sé stante, ma come una delle molteplici espressioni di un mondo che ha continuamente
bisogno dello scritto nella sua organizzazione e nella sua espressione. Il Liber deve così essere
inserito in quel contesto più ampio che è la pratica continua della registrazione di eventi
politici, storici, teologici, canonici, amministrativi, economici in documenti che vengono via via prodotti e
successivamente archiviati. Il formulario ad uso della cancelleria pontificia conservato dal Liber
diurnus[832],
insieme agli studi sul contenuto e sulle titolature dei diversi documenti dell’epoca, analizzati da
Conte[833] e da
Magi[834], mostrano
l’alto livello mantenuto dallo scrinium pontificio nella produzione di testi che, per la loro natura
di documenti ufficiali, non vengono affidati all’improvvisazione, ma mantengono degli standards
precisamente formulati e codificati.
Al valore oggettivo di questa ampia documentazione superstite sono oggi da aggiungere le importanti
considerazioni che provengono dalla paleografia e dalla diplomatica. È stato, in particolare,
Radiciotti[835] a
proporre che i più antichi documenti della cancelleria pontificia pervenutici, scritti in curiale romana,
debbano essere visti come la naturale prosecuzione della documentazione prodotta dall’amministrazione
imperiale romana in corsiva nuova. L’innegabile fatto che la curiale romana sia lo sviluppo della
precedente corsiva nuova getta una luce sugli amanuensi che le hanno utilizzate, mostrando che gli scriniari
pontifici sono gli eredi, in via diretta, dei precedenti scrittori della tarda romanità. Radiciotti
sostiene che «in origine nella cancelleria papale i notarii del pontefice usassero la normale
corsiva nuova» e che, agli inizi del VI secolo, «non esistesse una scrittura sentita quale specifica
della cancelleria papale»[836]. Il fatto che già per il concilio del 680-681 sia certo «che
fosse in uso la curiale romana»[837] permette di affermare che proprio negli anni intercorsi sia avvenuto non solo
il passaggio da una scrittura all’altra, ma anche la migrazione di scribi, capaci di esprimersi in quelle
forme di scrittura così simili e codificate, dall’amministrazione civile a quella pontificia.
Afferma Radiciotti, allargando l’analisi alle conseguenze di questo cambiamento nell’intera struttura
amministrativa dell’urbe: «la curiale è essenzialmente la scrittura degli scribi della
cancelleria papale (scrinium): gli scriniari. Nella loro attività di scrittori dei documenti del
Papa gli scriniari acquisivano un ruolo eminente nella struttura sociale della Roma altomedievale. Da questa loro
posizione deriva anche la loro attività di scrittori dei documenti privati romani, in aperta concorrenza
col vecchio gruppo di scribi “laici”: i tabellioni. Il tabellionato era un lascito del mondo
tardoantico. Nel Corpus iuris civilis (IV, 21), vigente in Italia dal 555, veniva disciplinata la natura
del documento privato, distinto in due tipologie, l’instrumentum privatum e l’instrumentum
publice confectum, che, distinguibile tramite un’idonea formula, la completio, veniva scritto
solo da una particolare categoria di scribi: i tabellioni. Essi svolgevano anche funzione di scribi degli
acta o gesta della curia municipale: a Roma, ovviamente, del Senato. Quando, dopo il 603, anno
dell’ultima notizia disponibile sul funzionamento del Senato, cessa l’esistenza a Roma dei gesta
municipalia, l’insinuatio, cioè la trascrizione del documento privato nei registri
pubblici cittadini, che solo i tabellioni erano in grado di compiere, non può più aver luogo e
dunque molta parte del ruolo e dell’importanza dei tabellioni viene meno, consentendo
l’“usurpazione” delle loro funzioni da parte degli scriniari»[838].
L’analisi di Radiciotti si propone anche di ampliare l’orizzonte su di una questione che era
già sorta nel passato, a partire da un documento emesso dalla cancelleria di Ravenna, ai tempi
dell’arcivescovo Mauro, negli anni precedenti la concessione dell’autocefalia che avvenne nel 666. Il
fatto che il carattere impiegato da tale documento sia da connettere direttamente con la curiale romana lasciava
aperte due possibilità e, precisamente, che il documento avesse imitato volutamente la scrittura dello
scrinium pontificio per solennizzarne il contenuto, oppure che fosse stata la curia romana a riprendere
quella forma di scrittura, per dare rilievo ai propri documenti utilizzando una scrittura vicina a quella
dell’amministrazione imperiale[839]. Le riflessioni sopra esposte aprono una nuova linea di indagine
«ipotizzando che a Roma l’origine della curiale non sia affatto spontanea, nascendo dal passaggio al
servizio del pontefice del personale della cancelleria del prefetto dell’Urbe, le cui funzioni sono di
fatto assolte dal Papa a partire dal settimo secolo»[840]. Radiciotti conclude, allora, affermando:
«è difficile pensare che a Roma, tra la fine del sesto secolo e la metà del settimo, si
potesse creare dal nulla una tradizione di scrittura cancelleresca, sia pure imitando la cancelleria
arcivescovile ravennate o quella imperiale bizantina, invece è molto più probabile che alla radice
della scelta in favore di una tradizione grafica connotata da un forte arrotondamento delle lettere, come appunto
accade nella curiale, giocasse la preesistenza di un tale carattere stilistico nella prassi della scrittura di
cancelleria di una struttura pubblica dell’amministrazione romana: appunto la prefettura dell’Urbe.
Bisogna considerare inoltre che il praefectus Urbi era tradizionalmente un esponente del ceto senatorio e
che a Roma, come in altre realtà cittadine tardoantiche, la figura del vescovo diviene il punto di
contatto tra élite municipale, vale a dire qui il Senato, e strutture ecclesiastiche, sicché
è anche più facile comprendere come una consuetudine grafica di una cancelleria “laica”
e municipale possa essere divenuta la base della scrittura caratteristica del Papato
altomedievale»[841].
In questo contesto fortemente contrassegnato dall’utilizzo dello scritto, il Liber conosce
un’ulteriore maturazione. Dalla vita di Agatone in poi diviene stabile, subito dopo i dati anagrafici del
pontefice, un breve ritratto del nuovo eletto[842]. Sebbene le indicazioni siano abbastanza ripetitive e, per questo, rifacentesi
probabilmente a modelli stabiliti, nondimeno accentuano l’impressione che il Liber non sia
semplicemente scritto come materiale d’archivio per eventuali ricerche storiche, bensì sia un vero e
proprio testo elaborato per la pubblica lettura, per far apprezzare l’operato dei diversi papi.
Compare qualche rilievo velatamente critico, nonostante il tono di fondo resti evidentemente elogiativo nei
confronti di tutti i pontefici[843]. Due volte, infatti, il Liber sottolinea la debolezza o addirittura
l’esplicito errore dei pontefici di cui narra la vita, nel caso di Conone in relazione ai patrimonia
siciliani della chiesa che egli amministrò in maniera non efficace e contro le indicazioni del clero
romano[844], e nel caso
di Giovanni VII che fu humanae fragilitate timidus e non si contrappose con fermezza alle pressioni
imperiali[845]. È
stato proposto, come si è visto, di leggere come rilievi critici altri due episodi narrati dal
Liber: nella biografia di Eugenio I il fatto che furono il popolo ed il clero a sostenere il papa nel
rifiuto della synodica costantinopolitana[846] e nella biografia di Costantino il fatto che egli intervenne a difendere il
duca Pietro, emissario dell’eretico Filippico[847]. Ma nel primo caso si sottolinea forse semplicemente che tutta la città
era stretta intorno al papa, dopo la morte in esilio di Martino I, e, nel secondo caso, addirittura si insiste
sull’autorità del pontefice, unica in grado di riportare la pace in Roma dinanzi ad una situazione
di bellum civile.
Le vite sembrano scritte, come nel periodo più intenso della crisi monotelita, già nel corso della
stessa vita dei pontefici[848]. Questa contemporaneità con gli eventi narrati appare con evidenza
anche da due passaggi delle biografie, dove l’uso degli avverbi indica il brevissimo lasso di tempo
trascorso fra il fatto e la sua scrittura: nella vita di Leone II si legge infatti sexta synodus nuper in
regia urbe celebrata[849] e nella vita di Conone praedictum legatum, unde necdum est
persolutum[850],
dove il nuper ed il necdum indicano proprio la vicinanza temporale[851].
Lo stretto giro di tempo che intercorre tra i fatti e la narrazione appare anche dal fatto che il biografo di
Agatone scrive prima che gli atti ufficiali del Concilio Costantinopolitano III siano trasmessi a Roma,
poiché il resoconto non ne tiene conto e, come si è visto, rivela differenze significative rispetto
ai documenti ufficiali che possono essere ricondotte all’utilizzo delle lettere che i delegati dovevano
inviare a Roma da Costantinopoli, man mano che i lavori conciliari procedevano. In questa maniera i redattori non
avevano sempre chiara l’effettiva sequenza dei fatti ed alcuni particolari degli avvenimenti come traspare
chiaramente, come si è visto, dalla redazione che ne forniscono. Merita qui sottolineare che proprio la
vita di Agatone si caratterizza per l’indicazione dettagliata delle diverse giornate delle sessioni del
Concilio, datazione che, proprio perché leggermente difforme da quella ufficiale degli atti, deve essere
fatta risalire alle missive che giungevano ad intervalli di tempo dalla capitale: il testo è scandito da
espressioni come die X mensis novembris, indictione VIII[852], die XXII mensis novembris[853], die XII mensis
novembris[854], ecc.
ad indicare l’avanzamento dei lavori. Questa analisi in dettaglio, che è unica nelle vite del
periodo, tradisce ovviamente la soddisfazione dei redattori nel poter fornire dettagli di prima mano, oltre che
nell’offrire l’interpretazione globale dell’avvenimento, letto come un successo della posizione
romana precedentemente tanto osteggiata.
La vita di Costantino, poi, più chiaramente delle altre[855], rende evidente almeno una redazione in due, forse tre,
tempi. Infatti la lunga descrizione del viaggio a Costantinopoli del pontefice si conclude con una indicazione
abitualmente posta al termine delle vite stesse, relativa alle ordinazioni episcopali: hic fecit ordinationes
in eundo et redeundo per diversa loca numero XII[856]. Il testo riprende poi la narrazione, la interrompe nuovamente con
l’indicazione della realizzazione di una patenam auream[857], riprende ancora la narrazione e la conclude con
l’elenco finale delle ordinazioni complessive del pontificato[858].
L’identificazione appassionata dei redattori con i protagonisti ecclesiastici delle vicende è
costante ed, in un punto, traspare anche nella redazione letteraria, quando, nel riferire gli eventi del Concilio
Costantinopolitano III, sfugge alla penna del redattore l’espressione - riferita all’imperatore che
comanda ai metropoliti e vescovi orientali - qui proni adorantes, residere praecepit una cum
nostris[859]. Quel
cum nostris dice tutta l’immedesimazione del redattore con gli eventi che si erano svolti nella
lontana Costantinopoli, dove i delegati romani erano realmente i rappresentanti del pontefice e dello
scrinium pontificio.
Le vite da Eugenio I a Costantino oltre a divenire ancora più lunghe rispetto a quelle del periodo
precedente, accrescono la loro qualità letteraria e la resa narrativa degli eventi. Si pensi, come
all’apice di questo fenomeno, al racconto che vede il protospatario Zaccaria, inviato per deportare a
Costantinopoli il papa come già era avvenuto per Martino I, chiedere impaurito infine la protezione del
pontefice, fino a nascondersi sub lecto pontificis per sfuggire alla popolazione ed agli armati accorsi a
difendere il papa. Alla narrazione dell’autorità del papa che non solo sfugge all’insidia, ma
addirittura salva il suo avversario, si aggiunge qui il gusto narrativo dell’azione stessa[860]. Qui il Liber non si
prefigge solo di conservare memoria di un evento, ma anche di narrarlo in maniera che chi lo legge ne tragga
piacere e manifesta così ulteriormente la sua finalità che guarda sempre di più al di
là dello scrinium pontificio stesso.
Le vite da Eugenio I a Costantino manifestano tratti crescenti di un orgoglio della curia lateranense e del suo
ruolo, non solo nella denunzia che si fa più ampia, delle malversazioni imperiali, ma anche in particolari
di minore entità, per questo ancora più significativi: si pensi, solo per dare due esempi,
all’approvazione che il Liber fornisce al termine del racconto dei lavori del concilio
Costantinopolitano III alla notizia della messa che coram principe et patriarchas latine celebraret et omnes
unanimiter in laudes et victoriis piissimorum imperatorum idem latine vocibus acclamarent[861].
Insomma è la stessa forma letteraria del Liber, al di là dei suoi contenuti, a rendere
evidente che lo scrinium pontifico insieme ai suoi papi, compresi quelli di origine greca o comunque
orientale, non si trovava come sotto una dominazione culturale di stampo orientale, bensì si muoveva a suo
agio certamente nell’orizzonte dell’unico impero cristiano, sempre, però, ben radicato in
un’atmosfera culturale latina che, anzi, veniva avvertita nella sua dignità anche attraverso la
narrazione in latino del Liber[862].
Il Liber mostra come i pontefici della fine del VII secolo, pur essendo di origine orientale, appartengono
pienamente alla mentalità dello scrinium lateranense che si esprime nel Liber
stesso[863]. La loro
azione nei confronti della realtà civile della penisola compare con sempre maggior insistenza nel
Liber come appare nella vita di Sergio I che, dopo la difficile elezione, si deve misurare con il
protospatario Zaccaria[864], in quella di Giovanni VI, che deve intervenire nel sud del ducato per
arrestare l’avanzata di Gisulfo e delle truppe longobardo di Benevento, in quella di Giovanni VII, che
riceve la donazione del patrimonium delle Alpi Cozie da Ariperto, re longobardo, di Sisinnio, che lavora
al restauro delle mura, in quella di Costantino, che dopo aver ricevuto l’ordine di recarsi a
Costantinopoli ed aver subito l’umiliazione dell’uccisione del consiglio di reggenza della chiesa di
Roma nell’urbe da lui forzatamente abbandonata, una volta tornato in città si trova a gestire con
successo la crisi del bellum civile nato dal contrasto tra i due duchi romani.
Il costante legame della mens dei redattori del Liber con l’orizzonte imperiale è
letterariamente sottolineato anche dal fatto che le biografie che vanno da Eugenio I a Costantino in alcuni casi
forniscono anche i dati che collegano taluni eventi alla datazione imperiale allora in uso, cioè quella
delle indizioni[865].
Più precisamente gli anni delle diverse indizioni sono ricordati nelle biografie di Vitaliano[866], Agatone[867], Leone II[868], Giovanni V[869], Sergio I[870] e Costantino[871]. Alcune classi di manoscritti
hanno, inoltre, l’indicazione delle indizioni per l’inizio dei pontificati e la morte dei papi da
Sergio I a Costantino[872]. L’indicazione della cronologia data dalle indizioni imperiali era
assente nel Liber dal tempo di papa Agapito (535-536) e singoli imperatori erano stati nominati sono in
quanto necessari alla comprensione degli eventi narrati[873].
Il fatto denota, comunque, la consuetudine che lo scrinium pontificio doveva avere con la cronologia
ufficiale dell’impero, che fungeva da punto di riferimento temporale per Roma, come per le altre
città.
Va, infine, ricordato un ulteriore ambito di memoria scritta riguardante lo stesso Liber pontificalis che,
oltre a ricordare i fatti delle vite dei pontefici, allarga il suo sguardo ad alcuni eventi astronomici,
tellurici o metereologici evidentemente ritenuti tali da dover essere consegnati al ricordo delle generazioni
successive. La biografia di Adeodato II segnala così, alla morte del pontefice, tantae pluviae et
tonitra quales nulla aetas hominum memoratur[874], quella di Dono l’apparizione di una stella a parte Orientis a gallo
canto usque mane per menses tres[875], quella di Agatone una luna eclypsin cui seguì una terribile
moria di popolazione, qualis nec temporibus aliorum pontificum esse memoratur[876], quella di Leone II
un’ulteriore eclissi di luna[877], quella di Benedetto II eventi come l’apparizione di una stella
noctu, di una ulteriore stella meridie, ed, infine, un’eruzione vulcanica: mons Bevius qui
est in Campania mense martio eructavit per dies et omnia loca circumquaque prae pulvere cinii ipsius exterminatae
sunt[878]. Infine,
nella vita di Costantino, come si è già visto, si ricordano una famis magna ed una
susseguente tanta ubertas ut fertilitatis copia praeteritae sterilitatis inopiam oblivioni
mandaret[879].
Queste annotazioni possono, però, anche essere il segno della destinazione del libro ad una diffusione
sempre maggiore: questi aneddoti potevano, infatti, spezzare il ritmo del racconto ed incuriosire lettori diversi
invitandoli a collocare le vite dei pontefici, con l’immaginazione, all’interno del vasto mondo della
natura e della sua continua capacità di meravigliare.
La prima metà dell’VIII secolo vede confrontarsi due lunghi regni, quello di Leone III (717-741) e
quello di Costantino V (741-775), e tre pontificati, quello di Gregorio II (715-731), di Gregorio III (731-741) e
di Zaccaria (741-752), ciascuno dei quali durato un consistente numero di anni.
Il periodo è caratterizzato da una decisa ed accelerata, rispetto al secolo precedente, divaricazione fra
la sede romana e la capitale imperiale, sia in ambito teologico, a motivo della crisi iconoclasta, sia in ambito
civile e politico.
Le vicende che contraddistinsero l’impero in quegli anni forniscono il quadro generale nel quale situare i
particolari fatti riguardanti la sede apostolica e l’Italia descritti dal Liber
pontificalis[880].
I primi passi del pontificato di Gregorio II si svolsero nel pieno della lotta per il trono che avvenne dopo che
nel 713 Filippico fu deposto ed accecato. L’esercito, questa volta, volle un civile, e non uno dei suoi
generali, come successore al trono, nella persona di Artemio, che scelse per sé, come nuovo imperatore, il
nome di Anastasio II. Egli, immediatamente, revocò le disposizioni monotelite di Filippico e riconobbe il
III concilio di Costantinopoli. Dovette subito preoccuparsi della lotta contro gli arabi, decidendo una
spedizione che prevenisse nuovi attacchi che erano in preparazione. Ma la flotta che aveva allestito, si
ribellò contro di lui e proclamò imperatore al suo posto Teodosio III. Quest’ultimo, dopo
molte riluttanze, accettò e giunse a spodestare definitivamente Anastasio nel 715, l’anno stesso in
cui Gregorio II fu eletto pontefice.
Contro Teodosio III si sollevò Leone, che era stratego del tema anatolico; egli, nel 717, entrò
trionfalmente in Costantinopoli, salendo al trono e spodestando il suo predecessore.
Subito Leone III dovette affrontare il nuovo assedio arabo alla capitale, che durò un anno intero, dal 717
al 718, uscendone vincitore e costringendo la flotta nemica a ritirarsi. La guerra continuò, però,
per via terrestre e Leone III dovette fronteggiare, a partire dal 726, ogni anno le forze arabe che, nella buona
stagione, cercavano di occupare l’Asia minore. Solo nel 740 riuscì ad arrestare il pericolo con la
vittoria avvenuta presso Akroinos, non lontano da Amorio. Nel frattempo aveva dato inizio ad una ulteriore
riforma della suddivisione dell’impero in temi ed aveva pubblicato, nel 726, l’Ekloge, una
selezione di norme giuridiche vigenti per facilitare l’operato dei giudici.
Nello stesso anno Leone III diede inizio alla disputa che caratterizzerà un intero periodo della storia
bizantina e che sarà decisiva nei rapporti con Roma, quella riguardante il ruolo delle immagini sacre. Si
discute tuttora sui diversi motivi che furono all’origine della decisione dell’imperatore di
contrastare il culto delle immagini, sottolineando le possibili ascendenze culturali ebraiche o islamiche di
questa avversione, oppure i fermenti religiosi che continuavano ad agitare il mondo orientale della
cristianità, dove alcuni vescovi, spesso di tendenza monofisita, erano riluttanti all’utilizzo delle
immagini nel culto. Certo è che Leone III dette ascolto alle pressioni di un gruppo di vescovi iconoclasti
che si erano riuniti a Costantinopoli per iniziare nel 726 la sua campagna contro le immagini. Il gesto simbolico
con cui essa iniziò fu la rimozione di una immagine di Cristo che era posta all’ingresso del Palazzo
imperiale, ma la folla presente uccise sul posto l’ufficiale incaricato del fatto e, a questi primi segnali
di rivolta, seguì l’aperta ribellione del tema dell’Ellade che addirittura si presentò
in armi contro la capitale.
Per alcuni anni Leone III cercò di conquistare alla propria posizione sia il patriarca di Costantinopoli
Germano che il papa Gregorio II, ma, nel 730, ruppe gli indugi ed inasprì la lotta, pubblicando un editto
che ingiungeva la distruzione delle immagini, deponendo il patriarca che si rifiutò di aderire
all’iconoclastia ed ingiungendo alla sede apostolica di aderire alle tesi iconoclaste.
È evidente, al di là dei contenuti specifici della sua azione, che l’imperatore si poneva
nella linea dei suoi predecessori, ritenendosi suprema guida della chiesa, autorizzato a proclamarne il dogma e
ad ottenere ad esso l’obbedienza da parte di tutti i sudditi, a partire dalle più alte
autorità.
La sede apostolica rispose alle ingiunzioni di Leone III con un concilio convocato a Roma da Gregorio III - che
nel era frattempo succeduto a Gregorio II - che condannò le tesi costantinopolitane.
Nel 741, alla morte di Leone II gli successe sul trono l’erede destinato, il figlio Costantino V. Nel 742
si ribellò a lui Artavasde, comandante del tema Opsikion, facilitato anche, nella conquista del potere,
dalla sua posizione favorevole al culto delle immagini. Il patriarca iconoclasta, che aveva sostituito Germano,
si dichiarò ora favorevole alle immagini. La sede apostolica riconobbe Artavasde come legittimo
imperatore. Ma l’anno successivo, Costantino V, che nel frattempo era fuggito, riconquistò il potere
ed immediatamente punì i suoi avversari e proclamò nuovamente l’iconoclastia. Il patriarca
Anastasio, che si era dimostrato a lui infedele, fu costretto in modo infamante a cavalcare un asino
nell’ippodromo di Costantinopoli dinanzi a tutta la popolazione, ma fu poi reintegrato nel suo ruolo,
proprio perché fosse evidente che la vera autorità in materia religiosa era dell’imperatore,
essendo la sede del patriarcato tenuta da una persona indegna. La politica iconoclasta di Costantino fu
più dura di quella del padre ed assunse anche tratti di vera e propria crudeltà
Il nuovo imperatore proseguì la lotta contro gli arabi, conseguendo notevoli successi: egli irruppe in
Siria già nel 746 e proseguì negli anni successivi una serie di campagne tese a riprendere i
territori che l’impero aveva precedentemente perso. Questa offensiva venne facilitata dalla caduta della
dinastia degli Omayyadi, sostituita dalla dinastia degli Abbassidi che le strappò il potere nel 750.
Gli sforzi volti a consolidare le posizioni dell’impero in oriente costarono, però, la perdita dei
territori occidentali. Dopo una serie successiva di tentativi[881], infine, nel 751, Ravenna cadde in mano longobarda e
determinò così la fine dell’esarcato. La sede apostolica comprese di non poter più
ricevere alcun aiuto militare da Costantinopoli e si adoperò lei stessa nel tentativo di salvare il porto
adriatico dagli invasori, ma, alla fine, fu costretta anch’essa a cedere.
Nello stesso periodo si consumò la separazione del sud d’Italia dall’influenza ecclesiastica
latina. Le province grecizzate furono sottoposte al patriarcato di Costantinopoli e sottratte alla
autorità canonica di Roma. Ovviamente la politica iconoclasta dell’imperatore che si contrapponeva
frontalmente alla teologia favorevole alle immagini di Roma giocò un peso determinato nella generazione di
questo spostamento. Costantino, infatti, perseguiva con determinazione la sua politica iconoclasta, cercando di
depotenziare i suoi avversari ecclesiastici ed, in primis, Roma, mentre, al contempo, preparava il
concilio che, infine, convocò nel 754 a Costantinopoli, perché condannasse pubblicamente il culto
delle immagini.
La biografia di Gregorio II nel Liber pontificalis si è conservata in due edizioni molto diverse
l’una dall’altra. La più antica, contemporanea al pontefice stesso, è più breve,
mentre la seconda, certamente successiva, è molto più lunga. Questa difformità delle due
redazioni ha portato Duchesne nella sua edizione a presentarle in sinossi, perché il lettore possa
rendersi conto delle varianti che le contraddistinguono[882]. In questa tesi saranno prima analizzati complessivamente i dati storici
offerti dalla biografia, annotando via via le differenze delle due edizioni, per analizzare poi il motivo della
duplice edizione a conclusione di questo capitolo e poi nell’ultimo, dedicato espressamente
all’evoluzione della scrittura del Liber stesso.
Sebbene il Liber pontificalis non fornisca alcun dato in proposito, gli storici, a partire dal
Duchesne[883], calcolano
che Gregorio II fu consacrato 40 giorni dopo la morte di Costantino. Dati i tempi intercorsi, si può
presumere che la iussio per la sua consacrazione dovette arrivare, come d’abitudine, da Ravenna.
Il secondo redattore della sua vita nel Liber pone subito il suo pontificato in relazione al regno dei
diversi imperatori che si succedettero al trono: fuit autem temporibus Anastasii, Theodosii, Leonis atque
Constantini Augustorum[884].
Il Liber lo presenta come formatosi fin da piccolo nel patriarchio: hic a parva aetate in patriarchio
nutritus, sub sanctae memoriae domno Sergio papa, subdiaconus atque sacellarius factus, bibliothecae illi est
cura commissa, deinde ad diaconatus ordinem provectus est et cum viro sancto Constantino pontifice ad regiam
profectus est urbematque a Justiniano principe inquisitus de quibusdam capitulis optima responsione unamquamque
solvit quaestionem[885]. È da notare in questo passaggio, innanzitutto, la menzione dei
pontefici Sergio I e Costantino[886]: i redattori del Liber sottolineano così la sua maturazione
avvenuta all’ombra dei pontefici precedenti.
In secondo luogo il testo, facendo riferimento al viaggio che Costantino era stato costretto a compiere ad
regiam urbem per ordine dell’imperatore, presenta come elemento meritevole di memoria che
l’allora diacono Gregorio a Justiniano principe inquisitus de quibusdam capitulis optima responsione
unamquamque solvit quaestionem[887]. Il Liber non spiega oltre, ma aggiunge un particolare prezioso che era
stato omesso nella vita di Costantino, nella quale il viaggio pontificio era stato presentato solo come un corteo
trionfale nella capitale dell’impero. I redattori del Liber erano chiaramente consapevoli delle
intenzioni minacciose di Giustiniano II che, in assenza del pontefice, aveva comandato l’uccisione dei
reggenti della sede apostolica rimasti a Roma, ma non avevano voluto fare memoria dei dialoghi serrati che
dovevano essere avvenuti a Costantinopoli sui canoni del Concilio Quinisesto che l’imperatore pretendeva
fossero accolti anche dalla sede apostolica. Ora, scomparso Giustiniano II, il Liber, nel presentare la
risolutezza dell’allora diacono Gregorio dinanzi all’imperatore, lascia intendere, forse in maniera
non voluta, che momenti di forte tensione dovevano essersi verificati nella lontana capitale. Il nuovo dato
è, però, presentato, non come correzione o aggiunta alla precedente biografia di Costantino, quanto
piuttosto allo scopo di porre immediatamente il nuovo pontefice in una prospettiva che evidenzi, per i lettori
della notizia, la sua capacità di porsi autorevolmente dinanzi all’autorità imperiale, quando
essa pretende di legiferare in materia religiosa senza il consenso della sede romana.
Le parole che seguono immediatamente confermano tutto questo, descrivendo non solo la preparazione teologica di
Gregorio, ma anche il suo carattere indomito come difensore della chiesa e della sua dottrina: erat enim vir
castus, divinae Scripturae eruditus, facundus loquela et constans animo, ecclesiasticarum rerum defensor et
contrariis fortissimus inpugnator[888].
Il primo avvenimento ricordato dalla biografia[889] è il tentativo di restauro delle mura di Roma cui Gregorio II pose
mano: hic exordio pontificatus sui calcarias dequoquere iussit; a portico sancti Laurentii inquoans, huius
civitatis muros restaurare decreverat; et aliquam partem faciens, emergentibus incongruis variisque tumultibus
praepeditus est[890]. Già la brevissima biografia di Sisinnio, come si è visto nel
capitolo precedente, aveva ricordato la decisione del pontefice di un intervento in merito, che non si era poi
realizzato per la subitanea scomparsa dello stesso Sisinnio. Anche in questo caso il Liber non fornisce
indicazioni chiare in merito, ma aggiunge un nuovo elemento estremamente significativo affermando che il
pontefice emergentibus incongruis variisque tumultibus praepeditus est. Evidentemente nessuno avrebbe
potuto essere contrario ad un rafforzamento delle mura se la minaccia doveva essere solo quella dei nemici
esterni longobardi o arabi. Parte dell’esercito o dei maggiorenti della popolazione potevano, invece, avere
forse qualche timore che l’inviolabilità della città potesse rafforzare
l’autorità papale nei confronti delle autorità imperiali[891]. Il fatto che si creasse tensione a motivo di un
rafforzamento del sistema murario, quando il pericolo longobardo era a tutti evidente, è un piccolo
segnale del fatto che la situazione interna alla città non doveva essersi del tutto tranquillizzata e che
le dinamiche cittadine, che risentivano profondamente del rapporto con la lontana autorità della capitale
imperiale, non erano del tutto pacifiche, come era apparso durante le due discusse elezioni di Conone e di Sergio
I e come era stato reso manifesto dalle tensioni fra il papato e l’impero nel corso del pontificato di
Costantino.
Dopo queste notazioni sul suo curriculum vitae, sul suo carattere e sulla questione delle mura, il
Liber procede giustapponendo le notizie, spesso introdotte con le espressioni huius temporibus o
eo tempore. Il modo di proporre i diversi fatti, dà l’immediata sensazione che la notizia non
sia scritta di getto, ma che sia stata via via aggiornata man mano che lo si riteneva opportuno, con i nuovi
eventi e, come si vedrà nell’ultimo capitolo, questo viene confermato dalle citazioni del
Liber che sono reperibili in autori contemporanei alla notizia stessa[892].
Proprio con l’espressione huius temporibus è introdotta la notizia successiva con la quale il
Liber ricorda lo scambio di sinodiche fra il patriarca di Costantinopoli Giovanni ed il pontefice:
huius temporibus Iohannis Constantinopolitanus antistes Synodicam misit, atque ad eum rescriptis idem usus est
pontifex[893]. Il
passo non è di facile interpretazione nei dettagli, soprattutto a motivo della cronologia che non è
chiara[894], ma indica
una situazione serena nei rapporti fra le due sedi e, conseguentemente, anche con l’imperatore.
I redattori annotano poi alcuni lavori eseguiti presso la basilica beati Pauli apostoli e presso la
ecclesia Sancti Laurenti con la menzione del fatto che le travi per il restauro della prima furono fatte
giungere de Calabria, segno che le vie commerciali con il sud d’Italia erano aperte e
percorribili[895]. I
lavori riguardarono anche diversaque ecclesias in ruinis positas [...], quas per ordinem dicere longum
est[896].
I redattori riferiscono poi della missione in Germania del vescovo Bonifacio. Il ruolo del pontefice viene messo
in rilievo dal fatto che è egli stesso il soggetto dell’azione del predicare e del convertire:
hic in Germaniam per Bonifatium episcopum verbum salutis praedicavit, et gentem illam sedentem in tenebris
doctrina lucis convertit ad Christum[897].
Seguono alcune notazioni relative alla designazione di comunità di monaci. Ad una venne assegnato il
compito della liturgia nella basilica sancti Pauli, un’altra ricevette come luogo di abitazione un
precedente gerocomium che venne trasformato in monastero, post absidem sanctae Dei genetricis ad
Praesepem, una terza venne inviata nel monastero sancti Andreae apostoli quod Barbare
nuncupatur[898]. Nel
riferire gli eventi, si sottolinea lo stato di abbandono nel quale erano caduti il primo ed il terzo luogo ed il
desiderio del pontefice che fosse assicurata la degna celebrazione delle ore monastiche. Non si deve dimenticare,
però, che questo non poteva non comportare anche una vera e propria cura non solo dell’edificio in
sé e della sua funzione cultica, ma anche del territorio circostante. Ciò vale, innanzitutto, per
la basilica di San Paolo che era situata non solo fuori della cinta muraria, ma per di più, presso il
Tevere, in un luogo importante per il controllo della navigazione che permetteva l’accesso alla
città[899].
Segue, con l’indicazione temporale eo tempore che si è già notata, il ricordo della
conferma della restituzione dei patrimoni liguri alla sede apostolica: eo tempore Liutprandus rex donationem
patrimonii Alpium Cotziarum, quam Aripertus rex fecerat hicque repetierat, ammonitione tanti viri redditam
confirmavit[900]. Il
ritorno alla disponibilità dei patrimonia della chiesa in Liguria, come già visto nel
capitolo precedente, era avvenuta durante il pontificato di Giovanni VII ed era stata originata da una decisione
del re Ariperto. La conferma di questa disposizione implicava un buon rapporto con il sovrano
longobardo[901] ed una
certa autonomia da Costantinopoli, poiché lo scrinium pontificio si trovava a gestire
proprietà che erano situate in territori appartenenti un tempo all’impero, ma che erano ora parte
del regno longobardo.
Dopo il ricordo di un evento astronomico riguardante la luna - collegato da entrambi i redattori con la
cronologia imperiale, per indictionem XIIII[902] - il Liber racconta dell’omaggio del re dei Bavari: eo itaque
tempore Theodo dux gentis Baioariorum ad apostoli beati Petri limina primus de gente eadem occurrit orationis
voto[903].
L’evento è probabilmente precedente alla notizia menzionata poco sopra sull’invio di Bonifacio
in missione in Germaniam[904], ma spesso i redattori del Liber, nel fornire le diverse notizie, non
si attengono ad una precisa consequenzialità cronologica[905]. Quello che qui si vuole evidentemente sottolineare
è la grande venerazione dimostrata da Teudo verso la sede apostolica e la sua comunione di fede con la
chiesa di Roma[906].
Il Liber si diffonde poi più lungamente sugli eventi che contraddistinsero la lotta fra Anastasio e
Teodosio per il trono di Costantinopoli: huius temporibus Anastasius imperator, classe navium praeparatam, in
partibus Alexandriae direxit contra a Deo destructos Agarenos. Qui ad alium versi consilium, antequam
pervenissent ad destinatum locum, ab itinere medio apud regiam regressi urbem, Theodosium orthodoxum inquirentes
imperatorem elegerunt atque coactum in solio imperii confirmaverunt[907]. Il testo sottolinea la fede ortodossa di Teodosio,
tacendo il fatto che già Anastasio aveva accolto la professione di fede ditelita, avversata da Filippico,
ed aveva promosso, nel 715, Germano alla sede patriarcale di Costantinopoli. Dopo una breve descrizione dei fatti
che portarono Teodosio a prevalere su Anastasio, il Liber afferma che quest’ultimo verbum iam
immunitatis expetiit, datoque sibi sacramento clericus factus atque presbiter est consecratus[908]. L’evento che,
però, viene massimamente posto il rilievo a conclusione della narrazione è il gesto attribuito a
Teodosio, con il quale egli venerò l’intera successione dei sei concili universali, che Filippico
aveva invece rinnegato: protinus etiam ut ingressus est memoratus Theodosius regiam urbem, imaginem illam
venerandam in qua sancti erant sex synodi depictae et a Philippico nec dicendo fuerat deposita, in pristino
erexit loco; ita ut huius fidei fervore omnis ab ecclesia cessaret quaestio[909]. Questa affermazione completa la precedente che
già indicava nel nuovo imperatore un propugnatore dell’ortodossia e, conseguentemente, un fautore
della sede apostolica. La soddisfazione con la quale si sottolinea il fatto che omnis ab ecclesia cessaret
quaestio è evidente.
Il Liber torna poi a descrivere eventi romani soffermandosi lungamente sull’inondazione del
Tevere[910] che si
verificò nel corso del pontificato di Gregorio II. La descrizione del tragico evento prende, nella
redazione del testo, uno spazio equivalente a quello che era stato dedicato alla lotta fra Anastasio e Teodosio
III. Dopo la descrizione dell’inondazione che ebbe inizio con la tracimazione del fiume presso Ponte Milvio
e l’ingresso delle acque in città che raggiunsero la basilica di San Marco dopo aver attraversato la
Porta Flaminia, vengono narrate le conseguenze del disastro: domos itaque evertit, agros desertavit, eradicans
arbusta et segetes. Nam nec serere ipso potuit tempore pars maxima Romanorum; pro hoc inminebat tribulatio magna.
Per dies etiam septem aqua Romam tenebat pervasam[911]. Significativamente il testo, più che descrivere i danni agli edifici
dell’urbe ed alle persone che debbono aver perso la vita in un tale evento, si sofferma, invece, a
descrivere le conseguenze per la coltivazione dei campi, con la messa in pericolo della semina. Indirettamente si
sottolinea che la vita della città era legata alla produzione agricola del territorio circostante la
città, al punto che un anno senza frutti avrebbe portato come conseguenza una tribulatio magna ben
più grave della stessa inondazione.
I redattori sottolineano di seguito le preghiere pubbliche che furono organizzate dal pontefice per intercedere
presso Dio per la fine della calamità: a domno itaque papa letaniae crebro fiebant; cumque in oratione
et litaniis persisteret, post octavum iam diem misertus Deus aquam amovit et fluvius ad proprium reversus est
alveum, per XV indictionem[912], mostrando ancora una volta la piena partecipazione della sede apostolica agli
eventi della città, anzi presentandola come colei la cui preghiera aveva permesso la salvezza
dell’urbe.
Il Liber passa poi all’intervento pontificio in occasione dell’occupazione longobarda del
castrum di Cuma: Cumanum etiam castrum ipso fuerat tempore a Langobardis pacis dolo pervasum; quo
audito omnes sunt redditi tristes[913]. Fu il duca Romualdo di Benevento a conquistare militarmente Cuma, rompendo un
periodo di pace[914]. La
cittadina rivestiva allora un ruolo determinante poiché era situata sull’unica via che permetteva un
collegamento via terra tra il ducato di Roma ed il ducato di Napoli, all’interno dei territori
imperiali[915].
I ripetuti interventi del pontefice, che cercava di convincere i Longobardi alla restituzione di Cuma,
utilizzando l’argomentazione che essa era contraria alla volontà di Dio, non portarono ad alcun
esito: adhortans etiam sanctissimus pontifex et commonens Langobardis ut redderent; quod si non adquiescerent,
in iram se divinam incedere pro dolo quem fecerunt suis scriptis protestabatur. Nam et munera eis dare ut
restituerent voluit multa; sed illi turgida mente neque monitus audire nec reddere sunt passi[916]. È evidente che la sede
apostolica utilizza qui il richiamo alla comune fede ed all’autorità che ne deriva alla chiesa di
Roma, per far desistere i longobardi dalla loro azione.
Il pontefice, allora, a dire dei redattori del Liber[917], si rivolse al duca di Napoli Iohannis,
cioè alla più alta autorità imperiale presente sul territorio, perché intervenisse
militarmente: unde nimis idem sanctus indoluit pontifex, seseque spei contulit divinae, atque in monitione
ducis Neapolitani et populi vacans ducatum eis qualiter agerent cotidie scribendo prestabat[918].
Il duca, poi, riuscì a riprendere con un’azione notturna il castrum di Cuma, accompagnandosi
nel suo operato cum Theodimo subdiacono et rectore: cuius mandato oboedientes, consilio inito, moenia
ipsius castri virtuti sub nocturno sunt ingressi silentio, Iohannis scilicet dux cum Theodimo subdiacono et
rectore atque exercitu, et Langobardos pene trecentos cum eorum gastaldio interfecerunt; vivos etiam amplius
quingentos conprehendentes captos Neapolim duxerunt[919]. Il Liber vuole così sottolineare che, se pure l’azione
venne portata a termine dagli armati del ducato di Napoli, ci fu un importante contributo di
Theodimus[920] e,
quindi, della chiesa di Roma. Il resoconto dell’evento prosegue con un ulteriore particolare che sembra in
contraddizione con l’esito dell’azione armata e vuole ulteriormente insistere sul ruolo giocato dalla
sede apostolica, affermando che sic castrum recipere potuerunt, pro cuius redemptione LXX auri libras tamen
ipse sanctissimus papa, sicut promiserat, dedit[921]. Se l’azione armata fosse stata di per sé sufficiente non si
spiegherebbe l’invio di una somma consistente d’oro. Si può ipotizzare forse un donativo in
vista di una tregua più duratura, ma certamente il Liber vuole ancora una volta sottolineare come
decisivo l’apporto della sede romana e come non sufficiente quello dell’autorità bizantina
nella soluzione del problema. Per i redattori dello scrinium pontificio, la questione di Cuma richiese,
insomma, che il primo e l’ultimo passo per riottenere il possesso dell’importantissimo territorio
fossero compiuti da Gregorio II stesso.
Gli studiosi dibattono sul preciso statuto del castrum di Cuma prima e dopo l’intervento
longobardo[922]. Tutto
lascia ritenere che esso appartenesse ai territori del ducato di Napoli, come si vedrà meglio quando si
tratterà dei confini del ducato di Roma.
Il Liber giustappone agli eventi di Cuma la notizia che il pontefice restaurò ed abbellì
Hierusalem ecclesiam sanctam[923].
La biografia si sofferma poi sull’avanzata islamica che dalla penisola iberica era giunta a minacciare il
fiume Rodano: eodem tempore nefanda Agarenorum gens cum iam Spaniarum provinciam per X tenerent annos
pervasam, undecimo anno Rodanum conabantur fluvium transire, Francias occupandum, ubi Eudo
praeerat[924]. Il
racconto del secondo redattore mescola insieme, confondendole, due diverse campagne belliche dell’esercito
arabo, avvenute nel 721 e nel 737-739, la seconda delle quali giunse a lambire il fiume Rodano, mentre il testo
del primo redattore tace le coordinate geografiche del conflitto. La campagna del 737-739 che giunse ad insidiare
le regioni del Rodano avvenne nel corso del pontificato del successore di Gregorio III ed è così
evidente che il secondo redattore scrive dopo quella data. Il fatto che fosse interessata la regione della
Provenza dovette destare una grande reazione, per la vicinanza alla penisola italica e perché vi fu
coinvolto, anche se il testo del Liber non lo dice, anche il re Liutprando[925].
I numeri dello scontro sono inverosimili, ma, nel raccontarli, il Liber si compiace di affermare che fu
Eodo Francorum ad inviare una missiva in merito alla sede apostolica per informarla dell’accaduto:
qui facta generali Francorum monitione contra Sarracenos, eos circumdantes interemerunt. Trecenta enim
septuaginta quinque milia uno sunt die interfecti, ut eiusdem Eodonis Francorum ducis missa pontificis epistola
continebat; mille tantum quingentos ex Francis fuisse mortuos in eodem bello dixerunt[926].
Non solo, ma la vittoria e l’incolumità dei vincitori è attribuita dal Liber
pontificalis al contatto con alcune spongia che erano state utilizzate nelle liturgie pontificie e che
il papa aveva inviato in omaggio ad Eudo: adiciens quod anno praemisso in benedictione a praedicto viro eis
directis tribus spongiis, quibus ad usum mense pontificis apponuntur, in hora qua bellum committebatur, idem Eodo
Aquitaniae princeps, populo suo per modicas partes tribuens ad sumendum, ex eis ne unus vulneratus est nec
mortuus ex his qui participati sunt[927]. Mentre raccontano la vittoria, i redattori si compiacciono così di
attribuire indirettamente alla sede apostolica stessa le ragioni del trionfo.
Il Liber descrive poi la rovina di gran parte del raccolto delle coltivazioni campane, segno
dell’importanza che queste dovevano avere anche nei confronti dell’urbe, ma anche manifestazione
ulteriore dell’interesse per il ducato di Napoli: eoque tempore in Campaniae partibus conbustum
triticum, hordeum, seu legumina, quasi pluvia in loco quodam e coelo missae sunt[928].
Segue la descrizione dell’istituzione del digiuno e della celebrazione eucaristica durante i giovedì
di Quaresima, da parte del pontefice e della realizzazione di un oratorio in patriarchio in nomine beati Petri
apostoli[929].
La notizia si rivolge poi nuovamente agli eventi internazionali raccontando del nuovo assedio arabo a
Costantinopoli iniziato nel 717: illis interea diebus Constantinopolim biennio est a nec dicendis Agarenis
obsessa. Sed Deo eis contrario maxima illic eorum parte fame ac bello interempta confusi recesserunt, Leone
principe[930]. Si
sottolinea qui l’aiuto divino che si erge contro l’avanzata araba, al tempo di Leone imperatore, ma
si ricordano anche le conseguenze che la stessa capitale dovette subire per l’assedio, nonostante la
vittoria: nam et eiusdem civitatis populum trecenta dictum est milia diversi sexus, aetatis, fuissent
necessitate vastatum pestilentiae[931]. In paragone alla vittoria ottenuta contro gli arabi in occidente è
come se quella di Costantinopoli avesse comunque delle ombre, sebbene niente sia detto esplicitamente su
questo.
Il Liber torna poi a descrivere eventi romani ed, in particolare, la morte della madre del pontefice e la
decisione di Gregorio II di trasformare il luogo del transito della defunta in un monastero in honore sanctae
Christi martyris Agathae[932]. La sottolineatura che praedia urbana vel rustica pro monachorum obtulit
necessitate[933],
indica che quella doveva essere oramai la prassi comune, cioè quella non solo di erigere un nuovo
complesso, ma anche di dotarlo di benefici che consentissero al clero o ai monaci a cui era destinato di
sostentarsi economicamente in futuro.
Due brevissime notazioni riportano poi l’attenzione sui pericoli che provenivano dai longobardi: fu,
infatti, il duca di Spoleto Faroaldo, anche se il Liber non specifica il suo nome, a strappare Narni
all’impero[934] e
precisamente al ducato romano cui apparteneva, mentre il re Liutprando - o forse lo stesso Faroaldo,
contrariamente a quanto afferma la biografia pontificia[935] - a prendere il porto di Classe all’esarcato: Eo tempore castrum
est Narniae a Langobardis pervasum. Rex vero Langobardorum Liutprandus generali motione Ravenna progressus est
atque illam obsedit per dies et castrum pervadens Classes, captos abstulit plures et opes tulit
innumeras[936].
Probabilmente, come si è già notato, le azioni si svolsero contemporaneamente all’occupazione
di Cuma da parte del duca longobardo di Benevento Romualdo, in coincidenza con una fase di particolare debolezza
delle forze imperiali che erano massimamente coinvolte nella resistenza all’assedio arabo di Costantinopoli
del 717-718. Il Liber sottolinea, in particolare, la gravità della perdita di Classe[937], che fruttarono ai
conquistatori captos plures et opes innumeras. Alla sede apostolica non doveva sfuggire la situazione di
grande emergenza nella quale versavano ormai le forze imperiali, ben al di là dell’evento
contingente dell’assedio della capitale, se la stessa capitale dell’esarcato poteva essere privata
del suo porto, senza essere in grado di recuperarlo prontamente. Infatti, nonostante la restituzione di Classe
avvenne non appena Leone III, sconfitti gli arabi, inviò Paolo come esarca[938], la storia dell’esarcato era ormai prossima
alla sua conclusione, come si vedrà successivamente.
Seguono, fin quasi alla fine della notizia, il racconto delle fortissime e ripetute tensioni che videro
contrapposti l’impero e la sede apostolica. Il Liber racconta innanzitutto di un primo tentativo di
uccidere il pontefice: post aliquod Basilius dux, Iordannes chartularius et Iohannis subdiaconus cognomento
Lurion consilium inierunt ut pontificem interficerent; quibus assensum Marinus imperialis spatarius, qui Romanum
ducatum tenebat, a regia missus urbe, imperatore mandante hoc, praebuit[939]. Oltre al duca di Roma Marinus, che sembra
fornire per ultimo il suo assenso, sono citati due alti ufficiali, un dux del quale non si precisa il
ducato, ed un chartularius, oltre ad un subdiaconus, cioè un appartenente alla stessa
gerarchia ecclesiastica. Ma, dietro di loro, i redattori vedono all’opera lo stesso imperatore -
imperatore mandante hoc.
Questo primo tentativo fallì a motivo di un accidente accaduto al dux di Roma: sed tempus
invenire non potuerunt. Qui Dei iudicio dissolutus contractus est et sic a Roma recessit[940].
Il Liber prosegue raccontando immediatamente di un secondo progetto di uccisione del pontefice, anche se,
per altri versi, potrebbe trattarsi dello sviluppo e della conclusione del primo[941]: postmodum Paulus patricius et exarchus missus
in Italiam; qui denuo ut scelus perficerent, meditabant[942]. Come primo responsabile di questo secondo tentativo di
eliminazione del pontefice viene presentato l’esarca Paulus, che si dovette alleare con gli
ufficiali e l’ecclesiastico precedentemente nominati. Si sottolinea il suo invio in Italia - missus in
Italiam - senza, però, l’esplicita affermazione che tale missione avesse origine
dall’imperatore stesso. Viene poi descritto il fallimento dell’azione con la descrizione della fine
dei congiurati: quorum consilium Romanis patefactum est. Qui moti cuncti Iordannem interfecerunt et Iohannem
Lurionem. Basilius vero, monachus factus, in loco quodam retrusus vitam finivit[943].
A questo punto il Liber fornisce la motivazione che doveva aver spinto l’imperatore stesso a volere
la morte di Gregorio II prima ancora dell’insorgere della crisi iconoclasta: Paulus vero exarchus
inperatorum iussione eundem pontificem conabatur interficere, eo quod censum in provincia ponere praepediebat, et
suis opibus ecclesias denudari, sicut in ceteris actum est locis, atque alium in eius ordinare
loco[944]. È
in questione l’esazione di un censum, di una tassazione, alla quale la sede apostolica si oppone. In
effetti è noto che Leone III «portò a compimento la ristrutturazione del sistema fiscale
dell’Impero avviata da Costante II»[945]. Si noti che la tassazione avversata dal pontefice non è solamente
quella tesa a suis opibus ecclesias denudari, ma anche quella che si vuole in provincia
ponere[946]. Troppo
sbrigativamente alcuni studi sono giunti ad affermare che la questione riguarda «l’impôt
foncier [...] réclamé par l’Empereur pour les biens
ecclésiastiques»[947]. Poiché il vescovo di Roma era, in sostanza, il referente ultimo
dell’intera esazione fiscale all’interno dell’urbe stessa e nei territori circostanti
sembrerebbe più corretto, invece, pensare che qui è questione del censo in quanto tale e che
l’imperatore voglia una diversa riscossione su ogni tipo di proprietà e rendita, siano esse
ecclesiastiche, civili o private, in una misura comunque diversa da quella a cui si era abituati. Anche la
brevissima notazione che si trova in Teofane il Confessore orienta nella stessa direzione, parlando di tassazione
dell’Italia e di Roma e non specificamente di proprietà ecclesiastiche[948]. L’espressione seguente -
suis opibus ecclesias denudari - indica che certamente era in questione anche la tassazione sulle
specifiche proprietà della chiesa, ma il problema doveva riguardare la pubblica amministrazione in quanto
tale alla quale si chiedevano ora maggiori introiti.
Il Liber continua: post hunc spatarius cum iussionibus missus est alter, ut pontifex a sua sede
amoveretur; denuo Paulus patricius ad perficiendum tale scelus, quos seducere potuit ex Ravenna cum suo comite
atque ex castris aliquos misit. Sed motis Romanis atque undique Langobardis pro defensione pontificis, in Salario
ponte Spoletini, atque hinc inde duces Langobardorum circumdantes Romanorum fines, hoc
praepedierunt[949].
Si tratta qui evidentemente di un terzo tentativo[950] di sopprimere il pontefice: l’esarca Paulus invia uno
spatarius[951] da
Ravenna, accompagnato da truppe reclutate nei diversi castra, ma, prima di giungere a Roma questi si
trovano dinanzi ad una opposizione organizzata dalle truppe cittadine, unitamente agli armati longobardi delle
zone viciniori.
Senza soluzione di continuità il Liber prosegue introducendo il presentarsi della crisi iconoclasta
che ebbe immediate ripercussioni nella penisola italiana già turbata dagli eventi appena descritti:
iussionibus itaque postmodum missis decreverat imperator ut nulla imago [ecclesia] imago cuiuslibet sancti aut
martyris aut angeli haberetur: maledicta enim omnia adserebat. Et si adquiesceret pontifex, gratiam imperatoris
haberet; si et hoc fieri praepediret, a suo gradu decideret[952].
Come si è accennato, sono discussi i veri motivi del rifiuto della venerazione delle immagini che Leone
III volle imporre all’impero[953]. Il Liber informa che, comunque, le volontà imperiali furono
chiare in breve tempo anche lontano dalla capitale ed, in particolare, a Roma[954]. La richiesta di aderire alle posizioni
iconoclaste viene presentata dai redattori del Liber come indipendente dalla questione del censum
appena analizzata e come successiva ad essa. Non si ha motivo di dubitare di questa successione storica,
perché, altrimenti, il conflitto teologico sarebbe stato già utilizzato dai redattori della vita di
Gregorio II per avvalorare la sua opposizione all’imperatore in materia fiscale[955].
La descrizione della reazione del pontefice accentua la perentorietà della risposta, a sottolineare la
gravità della posta in gioco: despiciens ergo pius vir profanam principis iussionem, iam contra
imperatorem quasi contra hostem se armavit, rennuens heresem eius, scribens ubique cavere se christianos quod
orta fuisset impietas[956]. Il Liber utilizza qui espressioni che non ha impiegato nemmeno dinanzi
al triplice tentativo di assassinio del pontefice, affermando che Gregorio II quasi contra hostem se armavit,
rennuens heresem eius, dove sono da notare sia l’espressione nominativa hostem, per quanto
attenuata da un quasi, sia la forma verbale se armavit, sia la menzione dell’heresis
attribuita esplicitamente all’imperatore. Di fatto, continua il Liber, coloro che presero realmente
le armi furono omnes Pentapolenses atque Venetiarum exercita, i quali contra imperatorum iussionem
restiterunt, nunquam se in eiusdem pontificis condiscendere necem, sed pro eius magis defensionem viriliter
decertarent, ita ut anathemate Paulum exarchum vel qui eum direxerat eiusque consentaneos submitterent;
spernentes ordinationem eius, sibi omnes ubique in Italia duces elegerunt; atque sic de pontificis deque sua
inmunitate cuncti studebant[957]. La situazione descritta è quella di una vera e propria insurrezione
con la nomina di duces in sostituzione di quelli fedeli alla volontà imperiale. Il Liber si
compiace di sottolineare la comune volontà di venire in soccorso del vescovo di Roma, non appena se ne
fosse presentata l’esigenza, ovviamente poiché la sua posizione favorevole alla venerazione delle
immagini era profondamente radicata nella popolazione stessa. Non è da escludere, però, che possa
aver giocato un ruolo anche la precedente opposizione di Roma in materia fiscale, nella quale, forse, altri
potevano riconoscersi, vedendo sempre più nella presenza bizantina non un beneficio, ma semplicemente un
fardello.
La situazione viene presentata dal Liber come foriera di una vera e propria imminente lotta in vista di
una insubordinazione al potere imperiale, anche se la debolezza delle forze militari dell’esarcato dovevano
rendere improponibile un simile tentativo: cognita vero imperatoris nequitia, omnis Italia consilium iniit ut
sibi eligerent imperatorem et ducerent Constantinopolim[958]. Il pontefice si adoperò per calmare gli animi,
riproponendo la propria fedeltà all’impero ed assicurando tutti che si sarebbe impegnato nel
tentativo di far recedere l’imperatore dai suoi propositi ereticali: sed conpescuit tale consilium
pontifex, sperans conversionem principis[959].
La situazione non dovette, però, stabilizzarsi, poiché seguì un nuovo tentativo di
assassinio del pontefice, questa volta organizzato dal dux Exhilatarus: ipsis interea diebus,
Exhilaratus dux, deceptus diabolica instigatione, cum filio suo Adriano, Campaniae partes tenuit, seducens
populum ut oboedirent imperatori et occiderent pontificem[960]. Il Liber sottolinea ancora una volta il
rapporto del progetto antipapale con l’imperatore stesso - ut oboedirent imperatori - anche se, a
questa motivazione, può esserne aggiunta una personale precedente alla questione iconoclasta e riguardante
la condanna che la sede apostolica aveva espresso del matrimonio di Adriano, figlio di Esilarato, con una donna
che era stata precedentemente coniugata con un diacono[961]. Ma anche questo quarto[962] progetto di eliminare il pontefice fallì,
poiché la popolazione romana si eresse a difesa di Gregorio II: tunc Romani omnes eum secuti
conprehenderunt et cum filio suo interfecerunt; post hunc et Petrum ducem, dicentes contra pontificem imperatori
scripsisse, orbaverunt[963]. Il duxPetrus[964] fu accecato - era una delle punizioni che si infliggevano abitualmente
presso la corte di Costantinopoli - poiché ritenuto colpevole di aver scritto, evidentemente
all’imperatore, in maniera accusatoria contro il pontefice.
I redattori della vita di Gregorio II aggiungono a questo episodio il fatto che anche a Ravenna la situazione era
agitata, al punto che venne ucciso, evidentemente dalla fazione favorevole al pontefice, lo stesso esarca
Paulus: Igitur dissensione facta in partibus Ravennae, alii consentientes pravitate imperatoris, alii
cum pontifice et fidelibus tenentes, inter eos contentione mota, Paulum patricium occiderunt[965]. Le forze favorevoli alla sede
apostolica prendevano così il predominio anche nella principale città dell’esarcato. Il
dux di Napoli e l’exarchus di Ravenna pagarono così con la vita il tentativo di
sottomettere Roma alle posizioni iconoclaste dettate dall’imperatore.
Il Liber prosegue affermando che la difficile situazione portò alcune cittadine a sottomettersi ai
longobardi: Langobardis vero Aemiliae castra, Ferronianus, Montebelli, Verabulum cum suis oppidibus Buxo et
Persiceta, Pentapolim quoque Auximana civitas se tradiderunt[966]. L’esarcato appare ormai ridotto alla linea
costiera ed alla via di collegamento tra Rimini e Roma[967].
L’imperatore compì un ulteriore tentativo di sopprimere il pontefice, inviando un nuovo esarca
Eutychius in Campania, perché dal ducato napoletano cercasse di riprendere il controllo della
situazione: post aliquod vero Eutychium patricium eunuchum, qui dudum exarchus fuerat, Neapolim imperator
misit, ut illud quod exarchus Paulus, spatarii quoque et ceteri malorum consiliatores, facere nequiverunt
perficeret ille. Sed nec sic, iubente Deo, latuit miserabilis dolus, sed claruit cunctis pessimum consilium quia
Christi violare conabantur ecclesias et perdere cunctos atque diripere omnium bona[968].
Anche questa volta la reazione non si fece attendere e, non appena fu chiaro che un messo era latore di una
lettera dell’esarca che invitava all’uccisione del pontefice, il tentativo fu presto sgominato:
cumque mitteret hominem proprium Romam cum scriptis suis in quibus continebatur ut pontifex occideretur cum
optimatibus Romae, agnita crudelissima insania, protinus ipsum patricii missum occidere voluerunt, nisi defensio
pontificis nimia praepediret. Verum eumdem anathematizaverunt Eutychium exarchum, sese magni cum parvis
constringentes sacramento nunquam pontificem Christianae fidei zelotem, et ecclesiarum defensorem permittere
noceri aut amoveri, sed mori essent pro illius salute omnes parati[969]. Si noti come si sottolinea che la decisione imperiale
prevede l’eliminazione non solo del papa, ma anche degli optimates Romae, nella consapevolezza che
l’intera città è schierata con il pontefice. La decisione di difendere il papa fino alla
morte è fortemente enfatizzata dai redattori a mostrare l’unità di intenti e la
determinazione di non sottomettersi al decreto iconoclasta. È altresì da notare che, comunque, le
immagini non sono più nominate, ma lo scontro viene presentato come riguardante direttamente la figura del
pontefice ed i suoi nemici, senza ulteriori specificazioni.
Il Liber continua il racconto presentando l’alleanza che, in quella circostanza dovette essere
stretta fra la sede apostolica ed i longobardi, particolarmente con i due ducati di Spoleto e Benevento, quando
l’esarca inviò ambascerie perché essi rinunciassero, invece, a prestare aiuto alla sede
apostolica: munera tunc hinc inde ducibus Langobardorum et regi pollicentes plurima ut a iuvamine desisterent
pontificis per suos legatos patricius ille suadebat. Qui rescriptis detestandam viri dolositatem despicientes,
una se quasi fratres fidei catena constrinxerunt, Romani atque Langobardi, desiderantes cuncti mortem pro
defensione pontificis sustinere gloriosam, nonque illum passuri pertulere molestiam pro fide vera et
christianorum certantes salutem[970]. Si noti che già i longobardi erano intervenuti a difesa del pontefice
quando era stato l’esarca Paulus ad intervenire per la soppressione del pontefice. Qui
l’accordo è esaltato con espressioni evidentemente declamatorie - una se quasi fratres fidei
catena constrinxerunt. I redattori del Liber dovevano accarezzare in quel momento l’idea di una
protezione longobarda che lasciasse, però, immutata la libertà di azione della sede apostolica,
cosa che si rivelerà nel prosieguo dei fatti irrealizzabile.
Ma colui che si erge, alla resa dei conti, come il vero protagonista della vicenda è ancora Gregorio. I
redattori tornano a parlare di lui che, rincuorato, diviene il vero consolatore degli animi esacerbati: his
ita habentibus elegit maiorem praesidium pater distribuere pauperibus largissima manu, quaeque reperiebat:
incumbens orationibus et ieiuniis, letaniis Deum cotidie inprecabatur; spe ista manebat semper fultus plus ab
hominibus, gratias tamen voluntati populi referens pro mentis propositum, blando omnes sermone ut bonis in Deum
proficerent actibus et in fide persisterent rogabat, sed ne desisterent ab amore vel fide Romani imperii
ammonebat. Sic totorum corda molliebat et dolores continuos mitigabat[971]. Si noti la finale di questa presentazione nella quale,
dopo che ben cinque tentativi imperiali di soppressione del pontefice erano stati perpetrati - e si erano
rivelati infruttuosi - Gregorio II è dipinto come colui che ammonisce tutti ne desisterent ab amore vel
fide Romani imperii.
Il Liber passa poi a raccontare dell’occupazione di Sutri da parte del re longobardo: eo tempore,
per XI indictionem, dolo a Langobardis pervasum est Sutriense castellum quod per CXL diebus ab eisdem Langobardis
possessum est[972].
Il fatto che l’evento sia contrassegnato cronologicamente per XI indictionem, permette di datarlo al
727-728[973]. La
sottolineatura che l’episodio avvenne dolo contribuisce a mettere in cattiva luce l’azione
longobarda che già, di per sé, costituisce un atto di offesa ai territori imperiali pertinenti al
ducato romano. L’azione, sebbene isolata dagli altri eventi consimili dai redattori del Liber,
potrebbe in realtà essere collegata alla più generale azione di conquista territoriale portata
avanti dal re longobardo nei confronti dei territori dell’esarcato che, spesso spontaneamente, si
consegnavano a lui, come si è visto più sopra. La rilevanza particolare data all’episodio
dipenderebbe così dall’appartenenza del castellum al ducato stesso di Roma.
Il Liber continua descrivendo la restituzione di Sutri, avvenuta solo per le pressanti insistenze
pontificie: sed pontificis continuis scriptis atque commonitionibus apud regem missis, quamvis multis datis
muneribus, saltim omnibus suis nudatum opibus, donationem beatissimis apostolis Petro et Paulo antefatus emittens
Langobardorum rex, restituit atque donavit[974]. È importante notare, prima della terminologia con la quale la
restituzione è descritta, che qui l’autorità morale pontificia sembra essere l’unica
causa del passo indietro del re longobardo. Non si assiste ad alcun intervento militare, né a pressioni
esercitate a partire da motivazioni particolari. D’altronde, la debolezza della compagine imperiale non
doveva certo impensierire il regno longobardo. La restituzione sembra avvenire per la semplice richiesta di
Gregorio II che, da vescovo di Roma, si rivolge al re, in quanto fedele della chiesa.
La restituzione di Sutri è descritta con parole che hanno fatto storia: donationem beatissimis
apostolis Petro et Paulo antefatus emittens Langobardorum rex, restituit atque donavit. L’endiadi
restituit atque donavit, il cui secondo membro è rafforzato dal sostantivo donationem,
caratterizza in maniera particolare l’operato del re longobardo. L’espressione, alla luce
dell’autorità morale che la sede apostolica dimostrava di avere presso Liutprando, non va letta
probabilmente come l’esplicito riconoscimento da parte del re longobardo di una entità ormai diversa
ed indipendente da quella dell’impero, quanto piuttosto come l’affermazione che il ducato di Roma era
considerato come qualcosa di sacro, «appartenant aux apôtres Pierre et Paul en même temps
qu’à l’empire romain»[975]. L’espressione è, peraltro, in un testo che proviene dallo
scrinium pontificio e non direttamente da una lettera emanata dall’autorità longobarda che
non è, purtroppo, sopravvissuta. Se ne può dedurre la dignità che la sede apostolica
riteneva di avere: essa non si considerava semplicemente una qualche provincia per quanto importante
dell’impero, ma si considerava - e tale era considerata - l’erede titolare dei principi degli
apostoli, di modo che l’autorità che veniva tributata alla persona del pontefice era, per ciò
stesso, tributato beatissimis apostolis Petro et Paulo. Certo è comunque che nessun’altra
autorità, all’infuori di quella pontificia, sembra preoccupata del recupero del castellum, e
comunque in grado di intervenire in merito.
La narrazione storica del redattore posteriore si interrompe con la menzione di un segno luminoso nel cielo, una
stella chiamata Antifer, apparso in occidua[976].
Poi la narrazione torna a trattare del re longobardo: eo vero tempore, saepius dicti Eutychius patricius et
Liutprandus rex inierunt consilium nefas ut congregata exercita rex subiceret duces Spolitinum et Beneventanum,
exarchus Romam, et quae pridem de pontificis persona iussus fuerat impleret[977]. La decisione di armarsi vide insieme il re
Liutprando e l’esarca Eutichio, il primo desideroso di sottomettere i duchi di Spoleto e
Benevento[978], il
secondo di portare a compimento gli ordini imperiali, riducendo all’obbedienza la sede romana. È
facilmente intuibile, però, come dimostrerà anche lo svolgimento dei fatti, che l’alleanza
non era su di una base di parità. Il re longobardo poteva far pesare tutta la sua potenza militare, mentre
l’esarca, impotente quanto a mezzi, doveva servire a giustificare l’azione longobarda dinanzi
all’impero[979].
Liutprando si presentò così alle porte di Roma, ma, da assediante, si trasformò poi fino ad
atteggiarsi a difensore della sede apostolica: qui rex Spolitium veniens, susceptis ab utrisque ducibus
sacramentis atque obsidibus, cum tota sua hoste in Neronis campo coniunxit. Ad quem egressus pontifex eique
praesentatus potuit regis mollire animos commotione pia, ita ut se prosterneret eius pedibus et promitteret nulli
inferre lesionem. Atque sic ad tantam eum conpunctionem piis monitis flexus est ut quae fuerat indutus exueret et
ante corpus apostoli poneret, mantum, armilausiam, balteum, spatam atque ensem deauratos, necnon coronam auream
et crucem argenteam[980]. La notizia di Gregorio non fornisce alcun elemento diretto per comprendere
quali furono le trattative che portarono, infine, ad un nuovo accordo fra il pontefice ed il re in Neronis
campo[981]. Lo si
può, comunque, presumere dal contesto generale della vicenda: il pontefice dovette promettere di non
sostenere più i ducati longobardi contro il re ed ottenne, in cambio, il rinnovato rispetto
dell’integrità territoriale del ducato di Roma[982].
Gregorio II ottenne certamente che Liutprando obbligasse l’esarca a desistere dalla sua azione contro la
sede apostolica: post oratione facta obsecravit pontificem ut memoratum exarchum ad pacis concordiam suscipere
dignaretur: quod et factum est.Et sic recessit, rege declinante a malis quibus inerat consiliis cum
exarcho[983]. Se ne
può agevolmente dedurre che, dal punto di vista delle forze in campo, il re longobardo era ormai
l’arbitro assoluto della situazione. L’esarca non poteva che uniformarsi alle sue decisioni e le
stesse forze dell’urbe nulla avrebbero potuto contro di lui; è evidente la facilità con cui
Liutprando prese Sutri così come poté spingersi senza ostacoli fino alle mura di Roma, che
restavano l’unica vera difesa in possesso della città, peraltro, invece, molto povera di armati.
Dinanzi al potere del re longobardo, però, ancora una volta si levò l’autorità morale
del pontefice. Si deve presumere che Liutprando, se non si faceva scrupolo di agire contro
l’autorità imperiale, non così si sentiva di poter agire dinanzi alla sede apostolica.
Debolissima, appare, al loro confronto, l’autorità dell’esarca e, con lui, dell’impero.
Dopo che i diversi tentativi imperiali di sopprimere il pontefice elaborati nel corso di tutto il pontificato di
Gregorio erano falliti, l’impotenza dell’esarca è ancora una volta dimostrata dal fatto che
egli si dovette allineare all’accordo intercorso tra il re ed il pontefice.
Il secondo redattore della notizia aggiunge a questo punto un episodio relativo ad un tentativo di ribellione
all’impero: igitur exarcho Romae morante, venit in partibus Tusciae, in castrum Manturianense, quidam
seductor, Tiberius nomine, cui cognomen erat Petasius, qui sibi regnum Romani imperii usurpare conabatur,
leviores quosque decipiens, ita ut Manturianenses, Lunenses, atque Blerani ei sacramenta
praestitissent[984].
È significativa, innanzitutto la menzione della permanenza dell’esarca in città - exarcho
Romae morante - che indica che l’accordo raggiunto alla presenza del re Liutprando era ancora in
vigore. La concordia con il regno longobardo e con la sede apostolica era divenuta per lo stesso Eutichio e,
quindi, per l’esarcato, più importante che l’obbedienza agli ordini imperiali. In questo
contesto si presentò all’orizzonte, nel nord del Lazio[985], un tal Tiberius Petasius che aspirava al
potere. L’episodio si inserisce bene nel vuoto di potere che già precedentemente, come si è
visto, si era creato nella ribellione alle posizioni iconoclaste assunte da Costantinopoli ed aveva portato
all’elezione autonoma di molti duces ed anche all’ipotesi della proclamazione di un nuovo
imperatore.
Il Liber racconta che l’esarca fu profondamente turbato dal pericolo e dovette essere il pontefice
stesso a prendere in mano la situazione: exarchus vero haec audiens turbatus est.Quem sanctissimus papa
confortans, cum eum proceres ecclesiae mittens atque exercitus, profecti sunt.Qui venientes in Manturianensis
castello, isdem Petasius interemptus est[986]. I redattori del Liber si compiacciono di notare che fu Gregorio II a
confortare Eutichio e quando egli si recò a combattere l’usurpatore lo fece insieme ai proceres
ecclesiae, che precedentemente erano invece coloro che dovevano essere eliminati, ed
all’exercitus che è probabilmente, anche se non viene specificato direttamente,
l’exercitus romanus.
Una volta riportata la vittoria, subito ne fu informata Costantinopoli, secondo il barbaro rituale allora in uso,
ma neanche questo servì a riconciliare l’imperatore con Roma: cuius abscisum caput
Constantinopolim ad principem missum est. Et nec sic plenam Romanis gratiam largitus est
imperator[987]. La
biografia di Gregorio II mostra come l’azione della sede apostolica si muova sempre nell’orizzonte
dell’impero, ma nella prospettiva di un’autonomia che si pretende riconosciuta, anzi di
un’autorità romana che si vuole ascoltata ed osservata. Evidentemente un buon rapporto con i
longobardi era sentito come vitale, per il mantenimento degli equilibri raggiunti in Italia, ma non poteva essere
l’ombrello sotto il quale poteva dispiegarsi pienamente l’azione romana. Roma sembra guardare ancora
ad oriente, all’impero romano sentito come il luogo naturale della propria esistenza.
Il Liber deve, però, proseguire con le notizie, tristi per la prospettiva romana,
dell’aggravarsi delle misure iconoclaste: nam post haec claruit eiusdem imperatoris malitia, pro qua
persequebatur pontificem, ita ut conpelleret omnes Constantinopolim habitantes, tam virtute quamque blandimentis,
et deponeret ubicumque haberentur imagines tam Salvatoris quamque eius genetricis sanctae vel omnium sanctorum,
easque in medio civitatis, quod dicere crudele est, igne cremaret et omnes dealbaret depictas ecclesias. Et quia
plerique ex eiusdem civitatis populo tale scelus fieri praepediebant, aliquanti capite truncati, alii partem
corporis excisi, poenam pertulerunt[988]. Dovevano giungere notizie dalla capitale delle misure prese da Leone III a
partire dal 730, con la sistematica distruzione delle immagini e con la persecuzione di coloro che si opponevano
ad essa.
Vittima degli eventi fu anche il patriarca Germanus, che si era apertamente dichiarato a favore delle
immagini. Privato della carica, fu sostituito da Anastasius, fedele alle posizioni imperiali: pro qua
causa etiam Germanum, sanctae Constantinopolitanae ecclesiae antistitem, eo quod ei consensum praebere noluisset,
pontificatu privavit isdem imperator, sibique complicem Anastasium presbiterum in eius loco constituit. Qui missa
synodica dum talis erroris eum consentientem repperiret vir sanctus, non censuit fratrem aut consacerdotem
solito, sed rescriptis commonitoriis, nisi ad catholicam converteret fidem, etiam extorrem a sacerdotali officio
esse mandavit[989].
Qui lo scrinium pontificio manifesta la sua volontà non solo di essere lasciato libero da decisioni
d’autorità imperiali, ma di essere accolto precisamente nella sua autorità alla quale lo
stesso patriarca costantinopolitano è tenuto ad obbedire e, con lui, lo stesso imperatore. Le espressioni
utilizzate, pur nella irrealizzabilità del mandato, indicano la pretesa romana che extorrem a
sacerdotali officio esse mandavit.
Il Liber racconta che il pontefice scrisse direttamente allo stesso imperatore: imperatori quoque
mandavit, suadens salutaria, ut a tali exsecrabili miseria declinaret, scriptis commonuit[990]. Come è noto le due
lettere attribuite a Gregorio II sono discusse, quanto ad autenticità. La maggioranza degli studiosi, se
non le rigetta completamente, propende, almeno, per un totale rimaneggiamento che sarebbe stato operato presso la
corte bizantina, in occasione del settimo concilio ecumenico che condannò l’iconoclastia. Certamente
il Liber, però, attesta che un invio di lettere ci fu realmente ed alcuni passaggi delle lettere
lasciano ritenere che qualcosa dei documenti originali sia in esse confluito. Oltre alle specifiche affermazioni
sulla questione teologica delle immagini, vale la pena ricordare un passaggio che è estremamente
significativo ai fini di questa tesi, anche se potrebbe essere stato inventato alcuni decenni dopo a
Costantinopoli: l’autore della prima lettera a Leone III scrive che non est nobis necesse tecum in
certamen descendere: ad quatuor et viginti stadia secedet in regionem Campaniae Romanus pontifex; tum tu vade
ventos persequere[991]. Più oltre afferma ancora: scis Romam ulcisci imperium tuum non
posse, nisi forte solam urbem propter adjacens illi mare ac navigia; ut enim ante diximus, si ad quatuor et
viginti stadia Roma fuerit egressus papa, nihil tuas minas extimescit[992]. Tali affermazioni potrebbero appartenere alle lettere
originali di Gregorio II ed essere state riutilizzate nella redazione delle attuali o, fatto che sarebbe comunque
significativo, se fossero state direttamente pensate a Costantinopoli, testimonierebbero come nella capitale ci
si doveva rappresentare la situazione della penisola italiana a quel tempo[993].
La notizia di Gregorio II menziona poi la realizzazione di oggetti liturgici e la liberalità del pontefice
nel sostenere l’ordinaria vita della chiesa di Roma: hic dimisit omni clero, monasteriis, diaconiae et
mansionariis solidos IICLX[994]. Ritorna qui la formula che si è già incontrata altre tre volte
nel Liber pontificalis. Nonostante le tribolazione che la sede apostolica dovette affrontare, i redattori
del Liber sottolineano come non ne ebbe a subire danno la sussistenza della chiesa di Roma.
La notizia si conclude con le consuete informazioni sulle ordinazioni di vescovi, presbiteri e diaconi e sulla
morte e la sepoltura del pontefice. In maniera inconsueta, invece, la seconda redazione collega l’evento
della morte con la cronologia imperiale: indictione XIIII, Leone et Constantino imperatoribus[995].
La notizia di Gregorio III si apre presentandone le doti con una serie di espressioni elogiative che coprono ben
nove righe dell’edizione del Duchesne[996]. In particolare se ne sottolinea la cultura, la conoscenza biblica e la
capacità di padroneggiare sia il greco che il latino - valde sapiens, in divinis Scripturis
sufficienter instructus, greca latinaque lingua eruditus, psalmos omnes per ordinem memoriter retinens et in
eorum sensibus subtilissima exercitatione limatus; lingua quoque in lectione polita[997] - poi la capacità di
predicare conservandosi strenuamente fedele all’ortodossia - exortator omnium bonorum operum, plebique
florentissime salutaria praedicans, fidei catholicae et apostolicae immutilate conservari perenniter sua monita
salutaria praedicans, corda fidelium corroborans, orthodoxae fidei emulator ac defensor
fortissimus[998] -
infine la sua misericordia, in particolare verso i bisognosi e verso chi era deciso a seguire la via di Dio -
paupertatis amator, et erga inopum provisionem non solum mentis pietatem sed studii sui labore sollicitus;
captivorum etiam redemptor, orfanorum quoque et viduarum largiter necessaria tribuens; amator religiositatis
christianae norme et religiose volentibus vivere et Dei timorem habere in suis praecordiis dilector
existens[999].
Il Liber presenta la sua elezione come un evento fuori dall’ordinario, poiché dinanzi al
feretro di Gregorio II fu acclamato dall’intera popolazione come pontefice, senza bisogno delle ordinarie
procedure che portavano all’elezione: Quem viri Romani seu omnis populus a magno usque ad parvum, divina
inspiratione permoti, subito eum dum eius decessor de hoc seculo migrasset, dum ante feretrum in obsequio sui
antecessoris esset inventus, vim abstollentes in pontificatus ordinem elegerunt[1000]. Non è da escludere
che, oltre all’eccezionalità della persona, possa aver pesato la tensione del momento che richiedeva
prontamente la presenza di un nuovo eletto. Gli storici calcolano che, comunque, fu consacrato poco più di
un mese dopo la sua elezione, quindi si dovette probabilmente attendere la iussio da Ravenna, anche se
niente dice il Liber in proposito.
I redattori del Liber ripresentano poi, immediatamente lo sfondo della crisi iconoclasta, facendo
riferimento all’imperatore Leone III ed al figlio Costantino associato al trono: Fuit autem temporibus
Leonis et Constantini imperatorum, ea persecutione crassante quae per ipsos mota est ad depositionem et
destructionem sacrarum imaginum[1001].
Subito Gregorio III si decise a scrivere all’imperatore perché ritornasse sui suoi passi e si
allontanasse dall’errore della posizione iconoclasta[1002]: Pro quibus idem sanctissimus vir, ut ab hoc
resipiscerent ac se removerent errore, commonitoria scripta vigore apostolicae sedis institutionis, quemammodum
et sanctae memoriae decessor ipsius direxerat, misit per Georgium presbiterum[1003]. Il Liber sottolinea che la decisione
è presa in linea con il pontificato precedente e che avviene vigore apostolicae sedis
institutionis. Lo scontro, infatti, è frontale ed ha lo scopo ut ab hoc resipiscerent ac se
removerent errore. Se non si rinnovano espressioni come quelle utilizzate nella biografia di Gregorio II dove
lo scontro con l’imperatore è descritto quasi contra hostem[1004] il clima non è evidentemente cambiato,
agli occhi dello scrinium pontificio.
Si apre qui una vicenda che viene presentata dal Liber apparentemente come una questione che riguarda la
deposizione e poi la riammissione agli ordini sacri di un presbitero inviato a recapitare gli scritti pontifici -
Georgius presbiter - ma, in realtà, presenta sullo sfondo, la definitiva separazione
dell’esarcato dai territori imperiali del sud della penisola. Il presbitero, infatti, humano ductus
timore non eandem scripta imperatori porregit. Quem revertens secum hic in civitate Romana deducens ipsi
sanctissimo pontifici patefecit, confessum se faciens reum culpe. Quem magna comminatione pontifex ipse voluit ab
ordine sacerdotali privare[1005].
La notizia sottolinea la colpa commessa dal presbitero, senza specificare se egli sia realmente giunto fino a
Costantinopoli o sia tornato indietro prima, ma, come si vedrà da prosieguo della notizia, in
realtà il messo pontificio aveva visto bene e si era reso conto che la missione non poteva essere portata
a termine. Ormai un’ambasceria della sede apostolica non poteva più giungere impunemente al cospetto
dell’imperatore.
La cosa diviene evidente quando, su suggerimento di un sinodo radunato a Roma[1006], il pontefice decide di reintegrare il
presbiter Georgius e di inviarlo nuovamente a Costantinopoli con lo stesso incarico: cui residente
concilio et obsecrante tam concilio quamque obtimates ut non deponeretur sed magis idem presbiter penitentiae
submitteretur; cui inposita digna penitentia iterum secundo eum cum eadem aucta scripta apud regiam direxit
urbem. Sed nequiter argumentata dispositio eorum imperatorum eadem venerabilia scripta in Siciliense insula
retinere fecit, nec ad urbem regiam pertransire permisit, sed eundem portitorem pene per annum integrum exsilio
religavit[1007].
La Sicilia, che era fino ad allora canonicamente dipendente dalla sede apostolica e nella quale la chiesa di Roma
vantava svariati possedimenti, non era più un luogo sicuro per un rappresentante della chiesa di Roma:
venne impedito al presbitero Giorgio il transito verso la capitale ed, anzi, egli fu arrestato ed esiliato per un
anno, mentre i documenti pontifici vennero sequestrati.
Forse l’insistenza sulle manchevolezze poi cancellate del messo pontificio vogliono sottolineare, agli
occhi dei redattori del Liber, proprio l’opposto e cioè che niente lasciò di intentato
la sede apostolica per mantenere aperti i rapporti con la capitale, ma fu essa a voler chiudere i contatti con
Roma. L’impossibilità di passare per la Sicilia, come per una terra amica, è sottolineata
nuovamente al termine del concilio che Gregorio III convocò per giungere ad una condanna formalmente
ancora più esplicita dell’iconoclastia[1008]: unde maiore fidei ardore permotus pontifex synodale decretum cum
sacerdotali conventu quoram sacrosancta confessione sacratissimi corporis beati Petri apostoli residentibus cum
eodem summo et venerabili papa archiepiscopis, id est Antonino Gradense archiepiscopo, Iohanne archiepiscopo
Ravenne, cum ceteris episcopis istius Sperie partis numero [XCIII], seu presbiteris sanctae huius apostolicae
sedis, adstantibus diaconibus vel cuncto clero, nobilibus etiam consulibus et reliquis christianis plebibus
stantes, ut si quis deinceps, antiquae consuetudinis apostolicae ecclesiae tenentes fidelem usum contemnens,
adversus eandem venerationem sacrarum imaginum [...] depositor atque destructor et profanator vel blasphemus
extiterit, sit extorris a corpore et sanguine domini nostri Iesu Christi vel totius ecclesiae unitate atque
compage. Quod et subscriptione sua solemniter firmaverunt et inter cetera instituta probabilium praecessorum
orthodoxorum pontificum annectenda sanxerunt[1009]. Il passo è estremamente significativo. Dinanzi alla confessione di
San Pietro si trovarono radunati, innanzitutto, insieme al pontefice le due massime autorità
ecclesiastiche dell’Italia bizantina settentrionale, ossia l’arcivescovo di Grado e quello di
Ravenna. Insieme a loro firmarono il documento anche un alto numero di vescovi: cum ceteris episcopis istius
Sperie partis numero [XCIII].
La solenne decisione conciliare[1010] fu che chiunque fosse trovato depositor atque destructor et profanator
vel blasphemus delle sacre immagini sit extorris a corpore et sanguine domini nostri Iesu Christi vel
totius ecclesiae unitate atque compage. Ciò che appare nuovo non è tanto la condanna
dell’iconoclastia, che anzi è assolutamente nell’ordine delle cose, quanto la forza della
condanna con la scomunica. Ed è ovvio che tale scomunica non è una mera ipotesi, ma è
l’esplicita condanna dell’imperatore, anche se egli non viene apparentemente nominato. Egli, se non
si ravvede, è oramai al di fuori della compagine della chiesa al punto che gli dovrà essere negata
la comunione al corpo ed al sangue di Cristo. Rottura più forte non si poteva avere. Il sovrano non era
più quasi hostem, come il Liber aveva precedentemente affermato, ma era divenuto un vero e
proprio avversario.
Come era stato inviato il presbitero Giorgio a recare a Costantinopoli le lettere di Gregorio III, così -
racconta il Liber - si decise di inviare gli atti del sinodo a Leone III per Constantinum
defensorem: post peractum igitur hoc memoratum superius synodalem constitutum, iterum misit alia similiter
scripta commonitoria pro erigendis sacris imaginibus per Constantinum defensorem[1011]. Il parallelismo tra il
primo ed il secondo invio è ben messo in risalto. La nuova missione non sortì alcun effetto,
esattamente come la prima, perché nuovamente i documenti furono sequestrati ed il messaggero recluso:
quae similiter ut anteriora detenta sunt, et portitorem earum fortissima custodia constrinxerunt pene per
annum integrum. Postmodum autem vim auferentes ei ipsa scripta, comminantes ei post tot temporis custodiam, cum
iniuriis remiserunt[1012].
I redattori della notizia proseguono narrando di ulteriori missioni che videro protagonisti non solo la sede
apostolica, ma anche gli altri territori bizantini del centro e del nord Italia: Esse ebbero, però, tutte
la medesima sorte negativa: nam et cuncta generalitas istius provinciae Italiae similiter pro erigendis
imaginibus supplicationis scripta unanimiter ad eosdem principes direxerunt; quae et ipsa similiter ut anteriora
abstulta sunt a Sergio patricio et stratigo ipsius insule Siciliae; ac fere octo menses detenti remissi sunt
similiter cum exprobrationis iniuriam portitores[1013]. La descrizione qui è più generale e presenta una
situazione nella quale sono contrapposte da un lato la provincia Italiae e dall’altra
l’insula Siciliae ed il suo patricius et stratigos Sergius. I redattori del Liber
sanno benissimo che dietro l’opposizione di Sergio è all’opera la volontà
dell’imperatore, ma, come altre volte, il testo è ellittico. L’accusa per il fatto che ogni
missiva della sede apostolica viene sistematicamente rifiutata, senza essere neanche presa in considerazione, non
viene rivolta direttamente all’imperatore, ma agli ufficiali che rappresentano il potere in Sicilia.
Il Liber continua ancora affermando: et iterum faciens adhortatorias litteras pro erigendas
suprascriptas sacras imagines et orthodoxe fidei firmitate, direxit per Petrum defensorem apud regiam urbem, tam
Anastasio invasori sedis Constantinopolitane quamque principibus Leoni et Constantino[1014]. Si noti in questo
passaggio come è preso di mira chiaramente il patriarca descritto come invasor sedis
Constantinopolitane, mentre gli imperatori sono citati senza affermare che su di loro è già
caduta la scomunica della sede apostolica.
Sembra quasi che lo scrinium, con le notizie ufficiali registrate dalla biografia di Gregorio III, sia
consapevole di una rottura che si è verificata, ma non voglia registrarne fino in fondo le conclusioni. E
tale rottura è certamente causata dalla politica iconoclasta imperiale così come dal pesante
documento di scomunica emesso dal sinodo romano, ma è anche una rottura che vede il sud dell’Italia
ed, in particolare l’insula Siciliae, oramai separata dalla provincia Italiae.
Deve essere sottolineato qui il pesante silenzio del Liber su due avvenimenti decisivi per
l’evoluzione dei rapporti tra Costantinopoli e la sede apostolica, noti dalle fonti bizantine, e
precisamente l’invio di una flotta contro Roma e l’Italia[1015] e, successivamente in ordine di tempo, la decisione
che i proventi fiscali che venivano devoluti alla sede apostolica in Sicilia e Calabria fossero, invece,
acquisiti dall’erario statale[1016]. Il pesante intervento che di fatto poneva fine alla possibilità
della chiesa di Roma di percepire rendite dalle sue proprietà nel sud Italia avveniva probabilmente in
concomitanza con una decisione ancora più radicale: il distacco delle diocesi del sud Italia
dall’obbedienza romana per porle alle dirette dipendenze della sede costantinopolitana[1017]. Una cronologia precisa
degli avvenimenti è molto difficile[1018], ma un evidente parallelismo fra questi eventi taciuti dai redattori del
Liber e le affermazioni sull’insula Siciliae come del territorio che si opponeva al passaggio
dei messaggeri pontifici deve essere accolto.
Nella parte sintetica saranno meglio analizzati i dati fin qui emersi su questa divaricazione fra la sede
apostolica e l’impero e, specificamente con il sud d’Italia che emerge dai dati del Liber e
dal contesto storico. Merita, nel frattempo, sottolineare un ulteriore elemento registrato dal Liber
immediatamente dopo gli eventi appena descritti, solo apparentemente estraneo alla vicenda, ma in realtà
correlato significativamente ad essa: hic concessas sibi columnas VI onichinas volutiles ab Eutychio exarcho,
duxit eas in ecclesiam beati Petri apostoli [...] super quas posuit trabes et vestivit eas argento mundissimo, in
quo sunt expresse ab uno latere effigies Salvatoris et apostolorum et ab alio latere Dei Genitricis et sanctarum
virginum[1019].
Qui non si tratta, infatti, di un semplice abbellimento voluto dal pontefice e neanche di una semplice
esposizione di immagini per contrastare la politica iconoclasta dell’imperatore, poiché
l’offerente di questa realizzazione è la massima autorità civile dell’esarcato,
l’esarca stesso Eutychius. Mentre il patricius et stratigos della Sicilia Sergius
è stato presentato dal Liber come appartenente pienamente all’orizzonte orientale
dell’impero - ed è per questo che egli rompe le relazioni diplomatiche con la provincia
Italiae - l’esarca compie un gesto che è in aperto contrasto con l’imperatore, da cui pure
dovrebbe dipendere, sostenendo l’erezione di immagini sacre in San Pietro e schierandosi, implicitamente,
con la sede apostolica, lui che, aiutato da Liutprando, come si è visto, aveva in precedenza tramato
contro il pontefice.
Il Liber si volge poi a descrivere le opere realizzate da Gregorio III per i diversi edifici
ecclesiastici. Viene nominata per prima l’erezione di un oratorio in San Pietro destinato a custodire
reliquias sanctorum apostolorum vel omnium sanctorum martyrum ac confessorum, perfectorum iustorum, toto in
orbe terrarum requiescentium[1020]. La venerazione di queste reliquie venne accompagnata dall’inserzione
di una precisa preghiera all’interno del canone che diceva: Quorum solemnitas hodie in conspectu tue
maiestatis celebratur, domine Deus noster, toto in orbe terrarum[1021]. La doppia menzione dell’espressione toto
in orbe terrarum ad indicare prima l’universalità delle reliquie custodite e poi il fatto che la
liturgia celebrata a Roma fosse modello per le celebrazioni in tutte le chiese potrebbe non essere occasionale,
ma rivendicare, proprio nel momento in cui la sede apostolica si vedeva respinta dall’impero universale, il
suo essere punto di riferimento per l’intero orbe[1022].
Dopo un lungo elenco di oggetto liturgici donati a questo oratorio, la biografia continua elencando migliorie per
l’ecclesia sanctae Dei genetricis ad Praesepem, fra cui imaginem auream Dei genetricis
amplectentem Salvatorem dominum Deum nostrum[1023], la riparazione del tetto e l’esecuzione di pitture per la chiesa
sancti Chrysogoni[1024] con la vicina erezione di un monastero al quale offrì pro
sustentatione praedia et dona atque familiam[1025] e la risistemazione del monasterium sanctorum Iohannis Evangelistae,
Iohannis Baptistae et sancti Pancratii secus ecclesiam Salvatoris antiquitus institutum, quod ab omni ordine
monachico extiterat nimia incuria distitutum, in quo praedia et dona contulit, et quae invenerat de ipso
monasterio alienata, reddito pretio, in eundem locum restituit[1026]. È da notare l’importanza che si
attribuisce alle fondazioni monastiche, l’attenzione costante ai praedia che debbono garantire la
sussistenza del monastero stesso e, nel caso del Laterano, l’intervento per la restituzione di ciò
che nel tempo era stato alienato. Segue l’elenco di ulteriori oggetti di arredamento liturgico offerti dal
pontefice, la notizia del rifacimento totale del tetto presso l’oratorio sancti Andreae apostoli ad
sanctum Petrum apostolum, con pitture ed una immagine aurea gemmata di Sant’Andrea[1027], il totale rinnovamento,
comprensivo di affreschi, della basilica sancti Callisti[1028], il rifacimento del tetto delle basiliche
sanctorum Processi et Martiniani, beati Genesii martyris e sanctae Dei genetricis quae
appellatur ad Martyres[1029].
Ancora si racconta delle opere di ampliamento degli edifici liturgici di due diaconie che erano precedentemente
dotate solo di un parvum oratorium e, precisamente della basilica sanctae Dei genetricis quae
appellatur Acyro e della diaconia sanctorum Sergii et Bachi sitam ad beatum Petrum
apostolum[1030].
Di quest’ultima si afferma anche che concedens omnia quae in usu diaconie existunt, statuit perpetuo
tempore pro sustentatione pauperum in diaconiae ministerio deservire[1031]. L’attenzione non solo al rinnovamento
dell’edificio, ma anche alla possibilità di sussistenza del clero chiamato a servirlo ed al
procacciamento dei beni necessari al regolare funzionamento del ministero assegnato vale qui, come già si
è visto precedentemente per i monasteri, anche per questa diaconia.
L’elenco delle opere realizzate prosegue con la notazione degli interventi presso il cimitero beatae
Petronille, con la sistemazione degli accubita quae sunt ad beatum Petrum, con il rifacimento del
tetto della basilica beati Marci sitam foris muros, con lavori alla chiesa beati Pauli apostoli, ed
alla basilica sancta Dei genetrice ad Praesepe, già precedentemente nominata[1032]. Il fatto che lo stesso
edificio ricorra più volte è segno che, anche in questo caso, la biografia non era scritta di
getto, ma veniva aggiornata man mano che scorreva il tempo. Inoltre, la notazione degli accubita per San
Pietro, mostra, se ce ne fosse ancora bisogno, che l’interesse non era rivolto solo alla
funzionalità liturgica in senso stretto, ma all’insieme delle condizioni necessarie per la vita
della chiesa nella sua globalità. Si ricorda, infine, il totale rifacimento della chiesa sanctorum
Marcellini et Petri iuxta Lateranis ed un intervento al cimitero beatorum martyrum Ianuarii, Urbani,
Tiburtii, Valeriani et Maximi[1033].
La notizia del restauro delle mura cittadine segue le informazioni sull’ingente lavoro di manutenzione e
miglioramento degli edifici ecclesiastici: huius temporibus plurima pars murorum huius civitatis Romanae
restaurata est; alimoniam quoque artificum et pretium ad emendum calcem de proprio tribuit[1034]. Dopo i due progetti di
interventi sulle mura andati a mal partito, nel corso dei pontificati di Sisinnio e di Gregorio II, come si
è visto, Gregorio III riuscì finalmente a portare a termine, anche se non completamente, il loro
restauro. L’impresa doveva essere enorme ed il Liber afferma che la plurima pars murorum fu
risistemata. Questa volta doveva essere evidente che il triplice pericolo, quello longobardo, quello arabo e
quello bizantino, non consentiva un ulteriore rinvio del restauro dell’opera perché fosse al meglio
delle sue funzionalità[1035]. Un particolare dice la determinazione di Gregorio III in quest’opera:
alimoniam quoque artificum et pretium ad emendum calcem de proprio tribuit. Non dovettero cioè
essere utilizzati - a stare alle informazioni del Liber - né il denaro che proveniva dalla
riscossione delle tasse, né quello che apparteneva propriamente alla sede apostolica, ma quello che
proveniva al pontefice dai beni familiari e, comunque, personali, segno, fra l’altro, che il pontefice
stesso doveva essere persona benestante. Questo intervento dava, comunque, la misura del ruolo cittadino del
pontefice che si proponeva come finanziatore ed, evidentemente, organizzatore del materiale necessario
all’opera e degli stessi artificum che dovevano eseguire il lavoro.
Il Liber narra poi dell’azione papale che garantì il recupero del Gallensium castrum:
huius denique temporibus Gallensium castrum, pro quo cotidie expugnabatur ducatus Romanus a ducatu Spolitino,
dans pecunias non parvas Trasimundo duci eorum, ut cessarent bella et questiones, potuit causam finire et in
conpage sanctae reipublicae atque corpore Christo dilecti exercitus Romani annecti praecepit[1036]. L’importanza del
castrum in questione era data massimamente dalla sua ubicazione che, ai tempi di Gregorio III, garantiva
la percorribilità in sicurezza dell’unica via di collegamento con Ravenna, mentre, una volta
conquistato dal ducato di Spoleto, consentiva ai longobardi un agevole passaggio ai territori longobardi di
Chiusi[1037].
Il duca Trasimundo si era impossessato di tale fortificazione, ma la sede apostolica riuscì ad ottenerla
indietro dans pecunias non parvas. Se nel testo viene esaltata ancora una volta la capacità della
chiesa di Roma di districarsi con successo in contesti difficili, si può leggere tra le righe
l’assoluta libertà di movimento della sede apostolica che, nell’azione di recuperare il
Gallensium castrum, non consultò nessuno dei referenti bizantini da cui formalmente dipendeva,
anche perché i rapporti con Costantinopoli erano in quel momento interrotti e Ravenna era da poco caduta o
prossima a cadere, per la prima volta, in mano dei longobardi[1038]. Ancor più significativa è
l’espressione con la quale viene descritta la riacquisizione dei possedimenti: il castrum Gallensium
venne accolto in conpage sanctae reipublicae ma anche in corpore Christo dilectiexercitus Romani,
dove la santa res publica è ancora l’impero romano[1039], mentre l’exercitus Romanus amato da
Cristo è, probabilmente, la milizia del ducato di Roma. Il testo è volutamente ambiguo, potendo
essere letto come attestazione sia di una riconsegna del castrum all’impero, sia di una restituzione
alla città di Roma in quanto tale.
Inoltre, l’esplicita menzione di Trasimundus lascia intravedere l’intesa fra Roma ed il ducato
di Spoleto attestata da altre fonti che genererà la ferma opposizione del regno longobardo, preoccupato di
una alleanza alle sue spalle[1040].
Dopo un ulteriore menzione di donazioni di oggetti liturgici a diverse chiese, il Liber accenna brevemente
all’avvenuto restauro delle mura di Centumcellae, l’odierna Civitavecchia: nam et in
Centumcellensium civitate muros dirutos pene a fundamentis fortissime construere fecit[1041]. L’opera di
consolidamento delle difese del ducato di Roma prosegue così anche lungo la costa, a confermare che il
restauro delle mura di Roma non fu un fatto occasionale, ma faceva parte di una prospettiva difensiva più
ampia.
La biografia ritorna poi a parlare dell’oratorio costruito in San Pietro per la custodia delle reliquie
raccolte toto in orbe terrarum[1042], descrivendo il decreto pontificio che prevedeva il servizio liturgico
continuo di monaci e sacerdoti con precise scadenze. Segue immediatamente la notizia che Gregorio III dispose che
anche in cimiteriis circumquaque positis Romae, nelle memorie stabilite, fossero celebrate liturgie in
onore dei santi e dei martiri, con l’offerta di oblationes de patriarchio per questo e la
designazione di un sacerdos appositamente incaricato[1043].
La notizia si chiude poi, ma solo in alcuni manoscritti[1044], con l’abituale elencazione delle ordinazioni celebrate dal
pontefice, con l’aggiunta di un’ulteriore notizia riguardante il mondo germanico, ossia la
concessione del pallio a Wilcharius, in civitate Vegenna, l’odierna Vienna cui segue, infine,
l’indicazione della data della morte e della sepoltura e della vacanza fino alla nuova
elezione[1045].
Queste ultime note debbono essere state aggiunte alla redazione della notizia da un interpolatore dello
scrinium pontificio che ha completato la notizia nel corso del pontificato di papa Stefano II,
poiché non figurano nella maggior parte delle famiglie di manoscritti ed, in particolare, in quelle
più antiche[1046].
Della stessa mano viene considerata l’interpolazione più importante della notizia di Gregorio III,
che venne aggiunta subito prima del racconto del restauro delle mura e dell’episodio della restituzione del
castrum di Gallese: huius temporibus concussaque est provincia Romana dicionis subiecta a nefandis
Langobardis seu et rege eorum Liutprando[1047]. Il que enclitico in concussaque è un chiaro indizio
che l’interpolazione venne inizialmente aggiunto a margine del manoscritto, per poi passare, nelle copie
successive, all’interno del testo[1048]. Il fatto che venga stigmatizzata l’azione compiuta a nefandis
Langobardis, senza alcuna distinzione fra il regno di Liutprando ed i due ducati di Spoleto e Benevento che
erano, invece, negli ultimi anni di Gregorio III alleati di Roma, permette di determinare con certezza che
l’interpolazione deve essere datata ad un tempo in cui ormai la rottura con il mondo longobardo era totale
e, precisamente, nel corso del pontificato di Stefano II[1049].
Giunto a Roma Liutprando, racconta l’interpolatore, si accampò nello stesso luogo dove già si
era arrestato ai tempi di Gregorio II: veniensque Romam in campo Neronis tentoria tetendit, depraedataque
campania multos nobiles de Romanis more Langobardorum totondit atque vestivit[1050]. Il Liber interpolato annota qui un
ulteriore indiretto riferimento all’importanza delle campagne romane che vengono depredate, oltre a fornire
la notizia delle vessazioni dei nobiles che le abitavano.
Gregorio III si decise, allora, a chiedere l’aiuto di Carlo Martello che era a quel tempo reggente del
regno franco: pro quo vir Dei undique dolore constrictus sacras claves ex confessione beati Petri apostoli
accipiens, partibus Franciae Carolo sagacissimo viro, qui tunc regnum regebat Francorum, navali itinere per
missos suos direxit, id est Anastasium, sanctissimum virum, episcopum, necnon et Sergium presbiterum, postulandum
ad praefato excellentissimo Carolo ut eos a tanta oppressione Langobardorum liberaret[1051].
L’interpolazione si rivela particolarmente importante per comprendere il lavoro dei redattori del
Liber. La notizia aggiunta in un secondo momento non è falsa, pur essendo stata aggiunta
successivamente[1052]. Infatti, anche se la notizia dell’assedio di Liutprando alle mura di
Roma ha come unica fonte il Liber pontificalis, sono, invece, sopravvissute due lettere inviate da
Gregorio III a Carlo Martello per chiedere un suo aiuto contro il re longobardo che confermano indirettamente
l’avvenimento della discesa del re a Roma[1053] e direttamente la richiesta di aiuto pontifico alla corte
franca[1054]. Si deve
ritenere, quindi, che lo scrinium pontificio non ritenesse allora opportuno far circolare la notizia della
richiesta di aiuto al regno franco, in un momento in cui la situazione generale era estremamente difficile e
sarebbe stata pericolosa una manifestazione esplicita della sfiducia che la sede apostolica nutriva verso il
regno longobardo.
Si manifesta qui un criterio selettivo nel racconto della vita dei pontefici: alcune notizie sono omesse non
perché i redattori non ne sono a conoscenza, ma piuttosto perché non ne ritengono opportuna la
pubblicità. L’interpolatore che ha lavorato al tempo di Stefano II deve aver ritenuto che la notizia
non solo non era più rischiosa per la chiesa di Roma, ma anzi era utile per mostrare che l’operato
del nuovo pontefice si poneva sulla linea dei suoi predecessori che già, al tempo appunto di Gregorio III,
si erano rivolti in cerca di aiuto al regno franco.
In effetti le lettere non ottennero l’effetto desiderato. La sede apostolica doveva aver sottovalutato
l’amicizia che esisteva a quel tempo fra il regno franco e quello longobardo[1055]. Nelle due epistole inviate
alla corte franca gli storici hanno concordemente sottolineato una espressione significativa con la quale
Gregorio III motiva la sua richiesta di aiuto a Carlo Martello: egli deve scendere a Roma per difendere tales
ac tanti filii suam spiritualem matrem, sanctam Dei Ecclesiam, ejusque populum peculiarem[1056]. Il soccorso nella difesa
di Roma implica, cioè, la difesa della stessa chiesa che è madre, ma anche del suo populus
peculiaris che sono gli abitanti che si giovano della protezione del pontefice. L’espressione
populus peculiaris ricorre sei volte nella prima e due volte nella seconda lettera ad indicare una
relazione strettissima fra la difesa della chiesa ed il soccorso della popolazione del ducato romano. Questo
legame peculiare della sede apostolica con la città ed i territori vicini è chiaramente
riconoscibile fra le righe scritte dai redattori del Liber, ma non appare ancora in maniera così
esplicita come nelle due lettere a Carlo Martello. È come se il linguaggio del Liber pontificalis
fosse più trattenuto, meno esplicito, rispetto a ciò che la diplomazia pontificia affermava
esplicitamente in documenti riservati inviati direttamente ai diversi protagonisti della vicenda storica in
corso.
Il silenzio del Liber pontificalis sulla questione può esser così interpretato come
manifestazione della consapevolezza di una situazione di estrema difficoltà nella quale il pontefice
doveva operare in una così complessa situazione politica. Non era più il tempo nel quale si poteva
confidare nella protezione dell’impero, che anzi l’imperatore stesso si comportava come un nemico,
oltre ad essere, di fatto, impossibilitato ad agire in una qualsivoglia forma di aiuto verso Roma e
l’esarcato. D’altro canto il potere longobardo era frammentato nello scontro che si riproponeva
periodicamente fra il regno ed i ducati di Spoleto e Benevento. Ma questa frammentazione non pacifica doveva pure
essere preferibile per la sede apostolica al grande pericolo che si stava profilando all’orizzonte di una
supremazia totale del re Liutprando, perché questa avrebbe significato necessariamente per il vescovo di
Roma ritrovarsi in balia del suo potentato, una volta che l’Italia fosse stata unificata nel nome del regno
longobardo. Gregorio III era ricorso ancora una volta alla autorità morale della sede di Pietro, che
costituiva un baluardo dinanzi al re ed ai duchi, ma le lettere inviate a Carlo Martello ed i silenzi del
Liber pontificalis fanno comprendere che il papa ed il suo scrinium avevano ben intuito che
quell’autorità puramente spirituale non sarebbe più bastata, in un breve volgere di tempo.
La biografia di papa Zaccaria si apre con alcune indicazioni sul suo carattere, ma non si sofferma sui
particolari del suo curriculum vitae di ecclesiastico. Fu eletto nel 741, l’anno stesso della morte
dell’imperatore Leone III e della conseguente piena assunzione del trono del figlio Costantino V che era,
però, già associato al padre come co-regnante.
Subito una omissione dei redattori del Liber deve essere segnalata: essi non fanno alcuna menzione di un
evento di grande rilevanza e cioè del fatto che, per la prima volta, il pontefice fu consacrato solo una
settimana circa dopo la morte del suo predecessore, e quindi senza nessuna iussio
dell’esarca[1057]. Certamente, come si è visto e si vedrà, la città
stessa di Ravenna era in una condizione difficilissima: il porto di Classe era appena stato conquistato e poi
restituito dai longobardi, la città stessa, da poco caduta una prima volta nelle mani dei conquistatori
per essere ripresa dalle forze imperiali guidate dal duca di Venezia, stava per essere presa definitivamente dai
longobardi e cessare di essere per sempre bizantina. Ma il silenzio sulla novità in fatto di elezione
papale rappresenta una svolta epocale, al di là delle condizioni in cui versavano l’impero e
l’esarcato, che sempre avevano preteso che si procedesse alla consacrazione, una volta avvenuta
l’elezione, solo dopo una loro previa autorizzazione[1058]. Da Zaccaria in poi, invece, i pontefici sarebbero
stati ordinati vescovi di Roma a motivo della loro elezione che diveniva condizione sufficiente per la loro
consacrazione, senza che le autorità imperiali di Costantinopoli dovessero esserne previamente
informate.
Se i redattori del Liber non potevano, forse, prevedere con sicurezza la prossima caduta di Ravenna e la
fine dell’esarcato con tutto il futuro decorso degli eventi, è certo che dovevano essere coscienti
della straordinarietà di ciò che era avvenuto nella consacrazione di Zaccaria, tanto più che
nella precedente notizia di Gregorio III era stata annotata la particolarità della sua elezione a furor di
popolo, in presenza ancora del feretro del predecessore. Si può affermare allora, con sufficiente
sicurezza, che il fatto sia stato volutamente sottaciuto per non dargli eccessiva pubblicità, in attesa di
ciò che sarebbe accaduto.
Nella descrizione dei tratti distintivi di Zaccaria emerge una attestazione, che sarà ripresa più
oltre dalla stessa biografia: egli viene definito amator cleri et omnis populi Romani[1059]. Subito la biografia lo
pone nella luce di un peculiare rapporto con il popolo di Roma, dove è veramente difficile, dato il
contesto storico, leggere la totalità della compagine imperiale: qui si tratta veramente di un rapporto
peculiare del pontefice con la sua città. Sembra qui riecheggiare l’espressione populus
peculiaris appena analizzata in questo lavoro nelle lettere inviate da Gregorio III a Carlo Martello.
Nella descrizione del carattere del pontefice si sottolinea la sua capacità di offrire sempre a chi aveva
errato una nuova possibilità: nulli malum pro malo reddens, neque vindicta secundum meritum tribuens,
sed pius ac misericors a tempore ordinationis suae omnibus factus, etiam et his qui ante sui fuerant persecutores
bona pro malis reddidit, eosque honoribus promovens simul et facultate ditavit[1060]. Il testo sembra fare
riferimento ad eventi non meglio identificati avvenuti nell’ambito delle sue conoscenze personali ed
ecclesiastiche precedentemente all’ordinazione. Il tentativo di tessere alleanze con chi era stato nemico,
in particolare il re longobardo, caratterizzerà anche il suo pontificato.
Prima di procedere alla narrazione delle gesta di Zaccaria, la biografia si sofferma lungamente sul contesto
delle lotte che si andavano sviluppando nel centro Italia, ritornando, di fatto, a descrivere eventi avvenuti nel
corso degli ultimi anni del pontificato di Gregorio III[1061].
Zaccaria, infatti, invenit totam Italiam provinciam valde turbatam, simul et ducatum Romanum, persequente
Liutprando Langobardorum rege ex occasione Trasimundi ducis Spolitini, qui in hac Romana urbe, eodem rege
persequente, refugium fecerat; et dum a praedecessore eius beate memoriae Gregorio papa, atque a Stephano,
quondam patricio et duce, vel omni exercitu Romano praedictus Trasimundus redditus non fuisset, obsessione facta
pro eo, ab eodem rege abstulte sunt a ducatu Romano civitates IIII, id est, Ameria, Ortas, Polimartium et Blera;
et sic isdem rex ad suum palatium est reversus per mensem augustum, indictione VII[1062]. Il passaggio fornisce qui
le motivazioni della discesa a Roma di Liutprando descritta dall’interpolatore della vita di Gregorio III.
Il re aveva l’intenzione di unificare sotto il suo governo tutti i possedimenti longobardi, riducendo
all’obbedienza il ducato di Spoleto e quello di Benevento. Trasimundo, duca di Spoleto, vistosi a mal
partito, si era rifugiato presso la sede apostolica, stringendo alleanza con Roma. Liutprando si era presentato
così in campo Neronis per ottenere la consegna di Trasimundo e spezzare l’intesa. Ma il papa
Gregorio III, insieme a Stephanus patricius et dux e tutto l’exercitus Romanus, non lo
avevano concesso. Qui appare con evidenza che non era solo il duca a rifiutare la propria sottomissione al re.
Anche la sede apostolica, infatti, non vedeva favorevolmente la scomparsa dei ducati longobardi che, in qualche
modo, si opponevano al dominio più forte del regno. Il papa è nominato unitamente alla figura del
dux di Roma ed all’intero exercitus; in questa maniera l’intera città, forte
delle sue mura, appare compatta nell’opporsi alla richiesta di Liutprando, anche se il ruolo del
protagonista è, ovviamente, recitato nella redazione dal pontefice.
Il re si era ritirato per venire in soccorso del duca di Aquitania che aveva dovuto affrontare l’avanzata
araba in Provenza, ma aveva mantenuto in suo potere le quattro cittadine di Ameria, Ortas,
Polimartium e Blera.
Ritiratosi Liutprando, i redattori del Liber raccontano che Trasimundus si adoperò per
rientrare in possesso del proprio ducato, nel quale il re aveva, invece, posto Hildericus a lui
fedele[1063]:
Trasimundus vero dux, habito consilio cum Romanis, collectoque generaliter exercitu ducatus Romani, ingressi
sunt per duas partes in fines ducatus Spolitini. Qui continuo, timore ductus, prae multitudine exercitus Romani,
eodem Transimundo se subdiderunt Marsicani et Forconini atque Valvenses seu Pinnenses. Deinde ingressi per
Savinense territorium venerunt in Reatinam civitatem. Qui continuo et ipsi se subdiderunt Reatini. Exinde
pergentes ingressus est Spoletio per mense decembrio indictione[1064]. L’azione di Trasimundo è descritta
come molto ampia, poiché evidentemente l’intero ducato era uscito dal suo controllo e, prima di
riprendere Spoleto dovette agire sulle direttrici delle antiche vie Valeria e Salaria; lungo il tracciato della
prima abitavano i Marsicani (nella zona dell’odierna Marsica, intorno alla piana del Fucino), i
Forconini (da Forcona, antica città nei pressi dell’Aquila odierna), i Valvenses
(abitanti nella zona della città allora episcopale di Valva) ed i Pinnenses (abitanti della
cittadina che oggi porta il nome di Penne, vicino Pescara), lungo la seconda si stendeva il territorium
Savinense, l’odierna Sabina, intorno a Rieti.
Ciò che è estremamente significativo è qui, però, l’affermazione che tutto
questo avvenne collectoque generaliter exercitu ducatus Romani. Il Liber insiste su questa presenza
dell’esercito di Roma quando afferma che il ducato spoletino timore ductus, prae multitudine exercitus
Romani si sottomise per questo a Trasimundo. Probabilmente si è qui in presenza di una esagerazione
dei redattori della biografia di Zaccaria, che, però, vogliono porre in rilievo la presenza
dell’exercitus ducati Romani a fianco delle truppe rimaste fedeli a Trasimundo e presentare la
città della sede apostolica come protagonista nelle vicende politiche dell’Italia di allora.
La debolezza delle truppe romane che avevano partecipato all’azione diviene manifesta nel prosieguo della
notizia quando si afferma: eratque magna turbatio inter Romanos et Langobardos, quoniam Beneventani et
Spolitini cum Romanis tenebant. Sed dum isdem Trasimundus, Spolitinus dux, noluit inplere quae praedicto
pontifici et patricio simul et Romanis promiserat pro recollegendas quattuor civitates qui pro eo perierant et
alia quae sponderat capitula, et praenominatus rex ad motionem contra ducatum Romanum se praepararet in his
praedictus beate memorie Gregorius papa divina vocatione ex hac luce subtractus est et divino nutu praenominatus
sanctissimus Zacharias in pontificatu est electus[1065]. Una volta che Trasimundo ebbe riconquistato il potere non
ottemperò alla promessa di restituire le quattro cittadine prese da Liutprando nel corso della ritirata,
né osservò et alia quae sponderat capitula. È evidente qui la superiorità
militare del ducato spoletino rispetto a quello romano, che non può nulla una volta che il duca Trasimundo
ha preso le sue decisioni. D’altro canto tutti appaiono in balia di quello che è veramente il potere
militarmente significativo che è quello del re longobardo: praenominatus rex ad motionem contra ducatum
Romanum se praepararet. Questo è l’evento temuto, al quale Roma può opporre solo
l’autorità morale del pontefice.
Proprio mentre queste vicende maturavano, afferma la biografia, Gregorius papa divina vocatione ex hac luce
subtractus est et divino nutu praenominatus sanctissimus Zacharias in pontificatu est electus. Da questo
momento la notizia inizia la narrazione vera e propria della vita del nuovo pontefice.
La prima azione del nuovo pontefice che viene descritta è volta a riottenere i territori perduti nel corso
del pontificato di Gregorio III. Essa è preceduta da una frase che evoca il sostegno divino: cui
omnipotens Deus tantam contulit gratiam ut etiam pro salute populi Romani suam ponere animam non
dubitaret[1066].
Ricorre qui per la seconda volta in questa biografia la menzione della cura particolare che Zaccaria aveva pro
salute populi Romani. Il redattore vuole sottolineare questo rapporto peculiare del pontefice con il
populus Romanus di cui fanno evidentemente parte le cittadine occupate che egli vuole liberare.
Il pontefice inviò, per questo, una delegazione presso Liutprando, il quale promise di restituire i
possedimenti: missa igitur legatione apud iamdictum regem Langobardorum salutaria illi praedicavit. Cuius
sancti viri ammonitionibus inclinatus praenominatas IIII quas a ducatu Romano abstulerat civitates reddere
promisit[1067].
Si noti come sembra, apparentemente, non esservi altra argomentazione offerta dal pontefice che la propria
autorità morale. Si sottolinea altresì che le cittadine erano state sottratte a ducatu
Romano e ad esso saranno restituite. Certamente il ducato romano è una porzione dell’impero
stesso, ma quest’ultimo non è minimamente menzionato.
Subito dopo appare, però, evidente che la legazione doveva aver assicurato al re la fedeltà alla
sua autorità contro i conati di indipendenza di Trasimundo. Veniva così ad essere completamente
rovesciata la politica di Gregorio III che aveva cercato nella divisione fra il re ed i ducati di Spoleto e
Benevento uno spazio di autonomia. Al tempo di Zaccaria doveva essere evidente che questa linea non era
più percorribile, per la debolezza del potere dei ducati longobardi dinanzi a quello del regno, e Zaccaria
non esitò, per questo, a sostenere Liutprando nella sua volontà di avere il controllo sui territori
spoletini: dumque motione facta, ad conprehendendum Trasimundum ducem Spoletio coniungeret, adhortatione
sancti viri exercitus Romanus in adiutorium praedicti regis egressi sunt. Et dum ipse Trasimundus suam
deceptionem conspiceret, egressus a Spolitina civitate sese praedicto tradidit regi[1068].
La sede apostolica che aveva protetto con le mura della città il duca, quando Liutprando si era presentato
per catturarlo, ora si volse contro di lui. È nuovamente menzionato esplicitamente l’exercitus
Romanus, che già era stato nominato nell’azione di riconquista di Trasimundo; qui si afferma che
gli armati di Roma furono mobilitati questa volta come alleati del re contro lo stesso duca spoletino. Trasimundo
prese allora la decisione, non certo per il potere militare del ducato di Roma, ma piuttosto per la forza del re
Liutprando, di consegnarsi, sottomettendosi esplicitamente al re[1069].
Grande rilievo è dato poi dal Liber al viaggio che il pontefice compì per recarsi
personalmente al cospetto di Liutprando che ritardava a consegnare i quattro castra che aveva promesso:
dumque isdem rex protraheret dilationem ad reddendum iuxta suam promissionem iamfatas IIII civitates,
prenominatus pontifex, ut vere pastor populi sibi a Deo crediti, spem ponens in Deum, egressus ex hac Romana
civitate cum sacerdotibus et clero, perrexit fiducialiter et audacter ad ambulandum in loco Teramnensium urbis,
ubi in finibus Spolitinis ipse resedebat rex[1070]. La decisione del viaggio viene posta nella prospettiva del pontefice visto
come vere pastor, che ricorrerà ancora più avanti.
Il viaggio è raccontato con dovizia di particolari, elencando i luoghi attraversati e le diverse
autorità inviate in successione ad omaggiare il pontefice: qui dum in Ortanam coniunxisset civitatem
ipseque rex eius cognovisset adventum, misit Grimualdum missum suum, qui ei obvius factus usque ad Narniensem
perduxit civitatem. Ad cuius sancti viri inobviam iam nominatus rex misit duces satrapas suos pluremque
exercitum; et a Narniensium civitate octavo fere miliario ab eodem rege eum suscipientes VI feria die,
perduxerunt ad basilicam beati Valentini episcopi et martyris sitam in praedicta Teramnensium urbe ducatus
Spolitini[1071].
Probabilmente, come già notava Duchesne[1072], un racconto così dettagliato - lo si vedrà anche
successivamente - era dovuto alla presenza dello stesso redattore ai fatti narrati.
Il Liber sottolinea poi che lo stesso re attese Zaccaria alle porte della basilica di San Valentino a
Terni: ante cuius fores basilicae isdem rex cum reliquos optimates et exercitu suo sanctum virum suscepit,
factaque oratione, mutua salutatione sibi et persolventes, dum divinis eum fuisset commonitus conloquiis
inpensaque caritate, ab eadem ecclesia egressus, in eius obsequium dimidium fere miliarium perrexit. Et sic in
suis tentoriis uterque eadem sexta feria die sunt morati[1073].
Tutta l’attenzione del racconto è volta a mostrare la capacità del pontefice di toccare il
cuore del re, predicando a lui il valore della pace e chiedendo di rientrare in possesso dei castra
sottratti: sabbato vero iterum convenientes, divina perfusus gratia, Deo placitis ammonitionibus eum est
adlocutus, praedicans ei ab hostili motione et sanguinis effusione quiescere et ea quae pacis sunt semper
sectare. Cuius piis eloquiis flexus, in constantia sancti viri et ammonitione admiratus, omnia quaecumque ab eo
petiit per gratiam Spiritus sancti obtinuit, et praedictas IIII civitates quas ipse ante biennium per obsessione
facta pro praedicto Trasimundo duce Spoletino abstulerat, eidem sancto cum eorum habitatoribus redonavit
viro[1074].
Liutprando appare qui come un protagonista passivo, piis eloquiis flexus, in constantia sancti viri et
ammonitione admiratus, poiché il redattore è interessato a mostrare l’operato del papa,
più che il dialogo fra i due soggetti. Se sono nominate le circostanze concrete della presa delle quattro
cittadine, per obsessione facta pro praedicto Trasimundo duce Spoletino, si evita, però, di fare
qui il nome del ducato romano che aveva protetto il duca.
Segue poi l’elenco delle concessioni che il re fece al pontefice: quas et per donationem firmavit in
oratorio Salvatoris sito intro ecclesia beati Petri, in eius nomine aedificato. Nam et Savinense patrimonium, qui
per annos prope XXX fuerat abstultum, atque Narniensem etiam et Ausimanum, atque Anconitanum necnon et Humanatem,
et vallem qui vocatur Magna, sitam in territorio Sutrino, per donationis titulo ipso beato Petro apostolorum
principi reconcessit; et pacem cum ducato Romano ipse rex in viginti confirmavit annos. Sed et captivos omnes,
quos detenebat ex diversis provinciis Romanorum, missis litteris suis tam in Tusciam suam quamque trans Pado, una
cum Ravinianos captivos, Leonem, Sergium, Victorem, et Agnellum consules, praedicto beatissimo redonavit
pontifici[1075].
Innanzitutto la notizia sottolinea il luogo nel quale i documenti vennero firmati, l’oratorium
Salvatoris sito intro ecclesia beati Petri, in eius nomine aedificato. L’insistenza sul nome del
Salvatore e su quello del beatus Petrus come di coloro ai quali l’oratorio era dedicato indicano
certamente il luogo geografico dell’avvenimento, ma nella notizia sembra di cogliervi un’enfasi che
sottolinea che le donazioni avvenivano in nome del Salvatore stesso e del suo vicario Pietro, rappresentati dal
pontefice in terra. I territori del ducato romano riconsegnati al pontefice sono i quattro castra per i
quali Zaccaria si era messo in viaggio.
Ma, dopo la loro menzione, il Liber aggiunge un ulteriore riferimento ad altri territori, a partire dal
Savinense patrimonium, qui per annos prope XXX fuerat abstultum. Insieme a questo patrimonium,
furono consegnati a Zaccaria ulteriori possedimenti: atque Narniensem etiam et Ausimanum, atque Anconitanum
necnon et Humanatem, et vallem qui vocatur Magna, sitam in territorio Sutrino. Si noti che si tratta qui non
solo di territori vicini al ducato romano, ma anche di patrimonia della costiera adriatica, quindi
pertinenti all’esarcato ravennate: l’Ausimanum (cioé intorno all’odierna Osimo),
l’Anconitanum (vicino l’attuale Ancona) e l’Humanatem (vicino all’odierna
Numana).
Nelle biografie dei pontefici non si era mai menzionato precedentemente il fatto che la conquista longobarda
avesse incamerato i patrimonia della sede apostolica nella Sabina trent’anni prima, quindi nel 712,
ai tempi del pontificato di Costantino, all’inizio del regno di Liutprando, mentre le altre restituzioni
riguardano patrimonia da poco alienati dai longobardi. Le restituzioni vanno qui intese non come una
cessione di sovranità, quanto come un ritorno alla piena disponibilità delle proprietà della
chiesa confiscate in questi territori, similmente a quanto era avvenuto per il patrimonio delle alpi Cozie, in
Liguria[1076].
Si sottolinea poi che il re concesse questi territori per donationis titulo ipso beato Petro apostolorum
principi, dove la successione del pontefice dal beatus Petrus è il motivo della restituzione,
essendo l’unico titolo che Zaccaria può vantare dinanzi al re longobardo.
Fra le concessioni del re viene, infine, nominata una pacem cum ducato Romano in viginti annos,
cioè l’assicurazione di non insidiare la sede apostolica nei suoi territori, ed, infine la
liberazione di numerosi prigionieri, fra i quali, i Ravinianos captivos e, fra di essi, Leonem,
Sergium, Victorem, et Agnellum consules. Anche qui l’azione pontificia ottenne risultati che andavano
al di là dei territori che immediatamente la circondavano, perché si trattava di nobili che erano
stati fatti prigionieri nella relativamente lontana Ravenna.
Segue la descrizione di un’ordinazione episcopale che Zaccaria celebrò nella basilica ternana di San
Valentino: in praedicta vero basilica beati Valentini per eiusdem regis petitionem, in locum Cosinensis
antestitis qui transierat, alium ordinavit episcopum. In cuius consecratione dum adesset ipse rex cum suis
iudicibus, conpunctione inspirationis divine, dum tante orationis dulcedine ab eo prolata, sanctumque virum
conspicerent fundere preces, plures ex eisdem Langobardis in lacrimis sunt permoti[1077]. Il Liber descrive
l’azione come richiesta dal re longobardo che, evidentemente, si preoccupava della gerarchia ecclesiastica
cattolica nei suoi territori[1078]. La descrizione della commozione dei longobardi presenti, oltre ad essere un
ulteriore indizio della presenza del redattore del Liber alla vicenda stessa, insiste sulla venerazione
che la corte del re doveva avere verso la chiesa cattolica.
Alla celebrazione seguì il pranzo offerto dal pontefice al re: eodem vero die dominico post peracta
missarum solemnia ad prandium eundem regem ad apostolicam benedictionem suscipiendam ipse beatissimus pontifex
invitavit. Ubi cum tanta suavitate esum sumpsit, et hilaritate cordis, ut diceret ipse rex tantum se numquam
meminisse commessurum[1079]. Anche qui la presentazione è enfatica con i complimenti e la gioia
del re stesso ut diceret ipse rex tantum se numquam meminisse commessurum. Il quadro viene presentato come
idilliaco, in un accordo che sembra ormai stabilito.
Segue la solenne riconsegna dei quattro castra, con la partecipazione di diversi gastaldi longobardi:
alio vero die, quae fuit secunda feria, valefaciens ei ipse rex misit in eius obsequium Agiprandum ducem
Clusinum, nepotem suum, seu Tacipertum gastaldium in eius obsequium, et Ramningum gastaldium Tuscanensem atque
Grimualdo, qui eidem sancto viro usque ad praedictas civitates obsequium facerent, easdemque civitates cum suis
habitatoribus traderent. Quod et factum est: in primis Amerinam civitatem, deinde Ortanam. Dumque in Polimartio
castro coniunxisset eumque recepisset et fuisset itineris longitudo per circuitum finium reipublicae eundi usque
ad Bleranam civitatem per partes Sutrinae civitatis, per fines Langobardorum Tusciae, quia de propinquo erat, id
est per castro Bitervo, ipse missus regis Grimualdus eundem beatissimum pontificem perduxit usque ad praedictam
Bleranam civitatem[1080]. Il termine impiegato per circuitum finium reipublicae rimanda ancora
formalmente all’impero, dando per scontato che non sia ancora da specificare di quale res publica si
stia trattando.
Il Liber conclude la descrizione del viaggio pontificio, dopo la riconsegna dell’ultimo
castrum, con il ritorno in Roma: quam et ipsi sancto viro praenominatus Ramingo gastaldius et iamdictus
Grimoaldus missus contradiderunt. Et sic regressus est, Deo propitio, cum victoriae palma in hac urbe Roma. Qui
etiam omnem populum adgregans, eos est adlocutus ut ad persolvendas omnipotenti Deo gratiarum actionem ab
ecclesia sancte Dei Genetricis qui vocatur ad Martyres egressi omnes cum letania generaliter properarent ad
beatum Petrum, principem apostolorum. Et ita factum est[1081]. Il pontefice è descritto come un trionfatore
che rientra nella sua città, cum victoriae palma. È lui stesso a convocare la popolazione ed
a compiere la sua adlocutio così come a presiedere le successive litanie e celebrazioni di
ringraziamento a Dio.
La narrazione del primo viaggio di Zaccaria si è appena conclusa che subito il Liber tratta del
secondo, sempre per implorare la restituzione di territori da parte di Liutprando, ma questa volta con un
itinerario che porterà il pontefice fino alla capitale del regno longobardo, Pavia.
Il racconto inizia con la collocazione cronologica all’XI indizione, cioè dopo l’agosto 742,
nel secondo anno di pontificato di Zaccaria: his autem expletis Xa indictione, in subsequenti XIa indictione,
dum nimio opprimeret praedictus rex provinciam Ravennatium, fuissetque praeparatus ad motionem faciendi et
obsedendi Ravennatium urbem, cognita motionem eiusdem regis, Eutychius excellentissimus patricius et exarchus una
cum Iohanne archiepiscopo ecclesiae Ravennatis atque universum populum praedicte civitatis et utrarumque
Pentapolim et Emilie, facta in scriptis obsecrationem, praedicto sancto miserunt viro, petentes ut pro eorum
curreret liberatione[1082]. Era avvenuto evidentemente che il re, dopo aver concesso al pontefice la
restituzione non solo dei quattro castra, ma anche dei patrimonia che nel tempo erano stati
requisiti, aveva deciso l’assedio di Ravenna, per impadronirsi dell’esarcato. È evidente che
Liutprando considerava già il ducato di Roma e l’esarcato di Ravenna come due entità
distinte, probabilmente illudendosi di poter conquistare il secondo, senza che avvenisse una convinta rimostranza
del primo. In effetti, la cronologia degli avvenimenti è estremamente ravvicinata e si può supporre
che il re avesse confidato di accontentare la sede apostolica concedendole più di quanto richiesto, per
preparare l’occupazione di Ravenna. Lo svolgersi degli eventi raccontati dal Liber e la
determinazione del pontefice mostrano, come si vedrà, che così non sarebbe stato. Furono
Eutychius excellentissimus patricius et exarchus una cum Iohanne archiepiscopo ecclesiae Ravennatis atque
universum populum praedicte civitatis et utrarumque Pentapolim et Emilie a scrivere immediatamente a Roma per
chiedere aiuto contro l’attacco longobardo che si andava dispiegando. La debolezza dell’esarcato
appare qui evidentissima. Nella vita di Gregorio II si erano avuti i ripetuti tentativi da parte degli ufficiali
imperiali di eliminare il pontefice e la debolezza dell’apparato bizantino era apparso dalla
incapacità di portare a compimento gli ordini che venivano da Costantinopoli; proprio Eutychius era
stato protagonista dell’ultimo tentativo al seguito della discesa a Roma del re longobardo. Nella vita di
Gregorio III l’esarca Eutychius, donando alcune colonne per una cappella destinata alla
conservazione delle reliquie ed alla esposizione di immagini sacre aveva segnalato la sua distanza
dall’imperatore che, invece, chiedeva obbedienza nella lotta iconoclasta. Ora lo stesso esarca, insieme
all’arcivescovo, deve chiedere a Roma di intervenire, altrimenti la fine di Ravenna è segnata. Il
Liber rende percepibile il declino di Ravenna che non è più in grado non solo di controllare
il resto dell’esarcato, ma neanche di poter sopravvivere con le proprie forze.
Il redattore del Liber annota che allora Zaccaria inviò una delegazione al re perché
cessasse dall’assedio e restituisse Cesinatem (l’odierna Cesena) a Ravenna: qui sanctus vir
missa legatione et munera ad obsecrandum eundem regem per Benedictum episcopum et vicedominum atque Ambrosium
primicerium notariorum, petiit ut a monitione cessaret, et Cesinatem Ravinianis redderet castrum. Sed passus non
est[1083]. I
longobardi avevano già preso Cesinatem ed erano, quindi, a ridosso della città
dell’esarca. Mentre nel corso del primo viaggio si era più volte ripetuta l’espressione et
ita factum est, qui la secca espressione contraria sed passus non est dice la riluttanza del re ad
abbandonare il progetto di conquistare Ravenna, ponendo fine al governo bizantino della regione.
La biografia di Zaccaria racconta che allora il pontefice si mise in viaggio personalmente, visto il fallimento
delle sue ambascerie: cuius dum duram perseverantiam conspiceret iam nominatus sanctissimus vir, tropeo fidei
monitus relicta Romana urbe iamdicto Stephano patricio et duci ad gubernandum, non sicut mercenarius, sed sicut
vere pastor, relictis ovibus, ad ea quae periturae erant redimendas cuccurrit[1084]. I termini che descrivono il re cominciano ad
indurirsi ed il Liber denuncia la sua duram perseverantiam. Si deve notare inoltre come, nel
linguaggio della biografia, il ruolo del dux Stephanus sia chiaramente sottoposto a quello del pontefice:
è Zaccaria, prima di allontanarsi dalla città, a dare le istruzioni per il periodo di assenza. Il
fatto, d’altronde, non deve stupire, se il pontefice è oramai l’unica figura che può
qualcosa per la salvezza dell’esarca, che, nell’organizzazione bizantina, era il diretto superiore
del dux. La notizia di Zaccaria riprende poi, ampliandola, l’immagine del pastore: non sicut
mercennarius, sed sicut vere pastor, relictis ovibus, ad ea quae periturae erant redimendas cuccurrit, dove
oves periturae sono ovviamente gli abitanti di Ravenna e delle città della Pentapoli. Anche
l’utilizzo della parabola evangelica veicola così la consapevolezza del Liber che Ravenna sta
per essere perduta, oltre a consegnare una immagine del pontefice come di una persona a cui è chiaramente
conferito un ruolo non solo nelle vicende teologiche, ma anche in quelle politiche della penisola.
Il Liber descrive poi l’arrivo di Zaccaria nella Pentapoli: ad cuius obviam occurrit denominatus
excellentissimus exarchus usque ad basilicam beati Christophori, positam in loco qui vocatur ad Aquilam,
quinquagesimo fere miliario a Ravennatium urbe. Egressis autem de civitate Raviniani, viri atque mulieres diversi
sexus aetatis, agentes gratias omnipotenti Deo, profusis lacrimis eundem sanctum susceperunt pontificem,
clamantes, atque dicentes: «Bene venit pastor noster qui suas reliquid oves et ad nos quae periture sumus
liberando occurrit»[1085]. Data la distanza da Ravenna, si può ipotizzare che la basilica
beati Christophori, non meglio identificata, fosse nei pressi dell’odierna Rimini[1086]. Il redattore del
Liber pone nella bocca dei ravennati corsi incontro al pontefice ancora la metafora del pastore che cerca
le pecore periture. L’indicazione della composizione dei ravennati viri atque mulieres diversi
sexus aetatis che rendono grazie a Dio sottolinea la necessità di un intervento che riguarda tutta la
città in pericolo.
Il Liber racconta che i messi pontifici vennero a sapere che il re aveva organizzato le cose in modo da
rendere impossibile l’incontro con il pontefice e ne informarono il pontefice: ex eadem namque
Ravennatium urbe misit ad praenominatum regem Stephanum presbiterum et Ambrosium primicerium, adnuntians ei suum
adventum. Qui viri ingressi in finibus Langobardorum, in civitate qui vocatur Imulas, cognuscentes quod
praepeditio meditabatur ad fiendam praedicto sancto viro, ne illuc ambularet, per epistula scripta per noctis
silentio nuntiaverunt[1087].
L’ostacolo, però, dette ancora maggior coraggio a Zaccaria che si decise a presentarsi al re nella
sua capitale: quo cognito, iam nominatus pontifex, lucescente die sabbato, non mortis timore perterritus sed
Christi fretus auxilio, audacter egressus a Ravennantium urbe, in finibus Langobardorum ingressus, sequipes
factus est suis missis[1088]. Ciò che viene sottolineata qui è l’audacia del
pontefice che non mortis timore perterritus sed Christi fretus auxilio all’alba si mise in marcia.
Si noti che probabilmente non c’era in realtà alcun pericolo di vita - Liutprando aveva appena
trattato in maniera estremamente benevola il pontefice nell’incontro ternano - ma il redattore vuole
caricare emotivamente il lettore facendolo partecipare all’evento, immedesimandosi nel pontefice e nel suo
coraggio.
Nel frattempo il re aveva già rifiutato di incontrare i messi pontifici, ma quando sopraggiunse Zaccaria
gli inviò incontro i notabili della sua corte, perché non poteva evidentemente lasciare un
così illustre personaggio senza onori: quos quidem praecedentes ante eum iamdictus rex dolore perpulsus
suscipere noluit. Ipse vero summus pontifex XXVIII° die mensis iunii ad Padum coniunxit; ubi ad suscipiendum
eum ipse rex suos misit optimates. Cum quibus Ticino coniungens, ubi ipse residebat rex, foris muros eiusdem
civitatis pertransiens, ad horam orationis nonam pro vigiliarum beati apostolorum principis Petri celebranda
solemnia missarum, in basilicam eius, qui vocatur ad Caelum aureum perrexit.Et post suppleta libatione in eadem
urbem ingressus moratus est[1089]. Subito il redattore sottolinea la celebrazione dell’eucarestia nel
corso di una memoria liturgica beati apostolorum principis Petri e nella basilica a lui dedicata, San
Pietro in Ciel d’oro; è così doppia la menzione di Pietro - e conseguentemente
dell’autorità petrina di Zaccaria - quella liturgica e quella geografica.
Se il Liber aveva descritto in maniera estremamente positiva l’incontro ternano, sottolineandone la
sensazione di grande sintonia che si era creata, l’incontro pavese è, invece, descritto in maniera
contraria, senza dare spazio a nessuna espressione di profonda condivisione di intenti: alio quoque die, pro
natale celebrandum ipsius principis apostolorum, in praedicta ecclesia a praenominato rege invitatus missarum
solemnia celebravit. Ibique mutuo invicem salutantes pariter susciperunt cives et sic in praenominata civitate
regressi sunt. Quem sanctum virum alio die isdem rex per optimates suos ad suum palatium procedere invitavit. Et
ab eodem rege nimis honorifice susceptus, salutaribus monitis eum adlocutus est, obsecrans ne amplius
Ravennantium provinciam opprimeret per facta motione, sed magis et abstultis Ravennantium urbis redonaret
finibus, simul et castrum Cesinate[1090]. Ancora una volta si ricorda la memoria liturgica principis
apostolorum, forse scelta appositamente dal pontefice come giorno per presentarsi nella capitale longobarda.
La celebrazione avviene essendo Zaccaria a praenominato rege invitatus, ma niente dell’emozione che
si era verificata in occasione dell’ordinazione episcopale a Terni sembra manifestarsi. Alla liturgia segue
l’incontro fra le due personalità del quale il Liber ricorda le richieste rivolte da Zaccaria
a Liutprando.
Solo alla fine, racconta il Liber, il re sembrò concedere al pontefice quanto egli richiedeva, ma
comunque in una forma non completa: qui praedictus rex post multa duritia inclinatus est fines Ravennantium
urbis dilatare, sicut primitus detinebant, et duas partes territorii castri Cesinae ad partem reipublice
restituit; tertiam vero partem de eundem castrum sub optentu retenuit per inito constituto, ut usque ad kal. iun.
eius missi a regia reverterentur urbe, eundem castrum et tertiam partem, quem pro pignoris causam detinebat,
parti reipublicae restitueret[1091]. Il consenso del re è descritto come giunto post multa duritia
e riguarda inizialmente solo duas partes territorii castri Cesinae. Si noti che il Liber descrive
la restituzione come fatta ad partem reipublice, nominando così esplicitamente l’impero. Le
pecore perdute ed in pericolo di vita sono così espressamente salvate dal pontefice, ma per essere
restituite a quella compagine imperiale di cui facevano parte.
Il redattore della vita di Zaccaria racconta poi del ritorno del pontefice, che viene accompagnato da dignitari
longobardi incaricati della restituzione di Cesena: post hec autem his ipse rex egressus de loco in locum
usque ad Padum eidem sancto viro conviatus deduxit; in quo loco valefaciens cum digna ordinatione eum reppedandum
absolvit, dans in obsequium eius duces et primatos suos, sed et alios viros, qui sepedicta Ravennantium
territoria et Cesinate redderet. Et ita factum est. Operatus est autem Deus mirabiliter et Ravennantium atque
Pentapolensium populus ab oppressione et calamitate qua detinebantur liberavit; et saturati sunt in frumento et
vino[1092]. Si
noti come il Liber presenta l’evento del saluto del re, avvenuto cum digna ordinatione;
l’espressione è rispettosa verso il pontefice, ma non induce a cogliere un clima cordiale.
L’estrema compostezza del racconto del saluto al re longobardo cede, invece, il posto alla gioia nel
ravennate e nella Pentapoli al sopraggiungere di Zaccaria, quando si sottolinea che la liberazione divina era
avvenuta mirabiliter e si aggiunge l’espressione chiaramente enfatica et saturati sunt in
frumento et vino. Queste espressioni di gaudio mostrano chiaramente come il differente tono del racconto
dell’incontro ternano rispetto a quello di Pavia non possa essere ascritto semplicemente alla presenza nel
primo dello stesso redattore; è, invece, evidente che il Liber pone qui un accento differente ad
indicare che, se pure le richieste del pontefice erano state esaudite, la concordia non era stata
ristabilita.
Il seguito della notizia lo mostra con evidenza assoluta, quando racconta delle preghiere del pontefice a Dio
perché protegga il popolo dal pericolo rappresentato dal re longobardo: regressus autem in urbe Romana
cum omnibus qui secum erant, gratias agentes Deo, denuo natale beatorum principum apostolorum Petri ac Pauli cum
omni populo celebravit, et sese in orationibus dedit, petens ab omnipotenti Deo misericordiam et consolationem
fieri populo Ravennantium et Romano ab insidiatore et persecutore illo Liutprando rege[1093]. La protezione divina
è richiesta esplicitamente
ab insidiatore et persecutore illo Liutprando rege; la redazione non usa qui mezzi termini, ma dipinge con
tinte molto scure il re. Evidentemente lo scrinium pontificio doveva essere ben cosciente che i termini
dell’accordo su Ravenna dovevano essere solo momentanei e che presto il re longobardo avrebbe riaperto la
questione. L’unico baluardo contro la fine del potere bizantino nella città dell’esarca era
rappresentato dalla contrarietà del pontefice a questo progetto, ma i redattori del Liber dovevano
avvertire che questo schermo difensivo non avrebbe retto a lungo.
I toni antilongobardi si aggravano ulteriormente nel testo immediatamente successivo che recita: cuius preces
non dispiciens divina clementia eundem regem ante constitutum de hac subtraxit luce. Et quievit omnis persecutio,
factumque est gaudium non solum Romanis et Ravennianis, sed etiam et genti Langobardorum; quoniam et Hilprandum
nepotem suum quem ipse reliquerat, regem malivolum, proiecto de regno, Ratchisum qui fuerat dux sibi Langobardi
elegerunt in regem[1094]. La morte di Liutprando, che avvenne nel 744, viene qui posta in diretta
connessione con le preghiere del pontefice; Dio sottrasse il re da questa vita ante
constitutum[1095]. La notizia della morte del re portò letizia Romanis et
Ravennianis, che sono vicini, ma insieme separati, quasi rappresentassero due entità congiunte, ma
anche ai longobardi; il Liber, sottolineando che fu rifiutato come successore del re Ilprando, che aveva
condiviso la politica di Liutprando, e scelto al suo posto Ratchis, cerca di consegnare una immagine del regno
longobardo lieto per la morte del suo re.
Ratchis si affrettò a riproporre al pontefice, che glielo aveva richiesto, un trattato di pace ventennale:
ad quem missa relatione ipse beatissimus pontifex continuo ob reverentiam principis apostolorum et ejus
precibus inclinatus, in XX annorum spatium inita pace, universus Italiae quievit populus[1096]. La soddisfazione del
Liber - universus Italiae quievit populus - è evidente, ma l’evoluzione dei fatti
smentirà l’ipotesi di un ventennio di pace.
La notizia del Liber passa poi a descrivere i lavori eseguiti da Zaccaria nel patriarchio Lateranense:
hic in Lateranense patriarchio ante basilicam beate memorie Theodori papae a novo fecit triclinium quem
diversis marmorum et vitro, metallis atque musibo, et pictura ornavit; sed et sacris imaginibus tam oratorium
beati Silvestri quamque et porticum decoravit; ubi etiam et suam substantiam omnem per manus Ambrosii primicerii
notariorum introduci mandavit[1097]. La costruzione di un triclinium indica un accresciuto ruolo
abitativo e di rappresentanza del complesso stesso, per il quale vennero impiegati numerosi fondi e
principalmente quelli appartenenti personalmente al pontefice[1098]. L’elenco dei diversi materiali impiegati e
delle tecniche utilizzate sottolinea la cura con cui fu realizzato. Insieme ad esso si parla dei lavori che
riguardarono l’oratorium beati Silvestri ed il porticum.
Continua ancora il Liber: fecit autem a fundamentis ante scrinium Lateranensem porticum atque turrem
ubi et portas ereas atque cancellos instituit et per figuram Salvatoris ante fores ornavit; et per ascendentes
scalas in superioribus super eandem turrem triclinium et cancellos ereos construxit, ubi et orbis terrarum
descriptione depinxit atque diversis versiculis ornavit. Et omnem patriarchium paene a novo restauravit: in
magnam enim penuriam eundem locum invenerat[1099]. Qui la descrizione si amplia ad una turris ed a diversi
cancelli e portae. L’insieme degli elementi farebbe qui pensare ad un irrobustimento dei
sistemi difensivi del palazzo stesso. La descrizione della realizzazione di una orbis terrarum descriptio
indica al lettore come la sede apostolica dovesse essere sempre pensata in dimensione universale e non
semplicemente romana. Il redattore sottolinea che l’intera struttura del patriarchio venne rinnovata,
mentre il pontefice l’aveva trovata in magnam penuriam[1100].
Il Liber prosegue poi con le benemerenze acquisite dal pontefice con lavori di abbellimento nelle
basiliche di San Pietro e San Paolo e con la donazione di codici che erano in suo possesso: hic in ecclesia
sanctorum principum apostolorum Petri et Pauli pendentia vela inter columnas ex palleis siricis fecit. Hic in
ecclesia praedicti principis apostolorum omnes codices domui suae proprios qui in circulo anni leguntur ad
matutinos armarium opere ordinavit[1101].
Viene poi fornita una prima indicazione sui lavori realizzati dal pontefice presso le domuscultae della
campagna romana: hic domum cultam Lauretum noviter ordinavit, adiciens ei et massam Fontiianam, qui
cognominatur Paunaria[1102]. Rimandando alla parte sintetica per una trattazione della complessa
questione dell’identità peculiare e del ruolo delle domuscultae, si noti qui, innanzitutto,
che non si tratta di una fondazione ex novo, ma di una risistemazione - noviter ordinavit - segno
che tale struttura era preesistente ai tempi di Zaccaria, sebbene il termine domusculta compaia nel
Liber pontificalis per la prima volta con il suo pontificato. I redattori delle biografie avevano
più volte fatto riferimento a praedia destinati al sostentamento di ecclesiae,
monasteriae o diaconiae, mentre qui questa struttura agraria, questa domus con annessi
terreni coltivati, non ha una specifica destinazione, ma sembra al servizio della stessa sede apostolica nel suo
complesso.
Il pontefice stabilì poi che fosse messa a disposizione una consistente somma d’oro per
l’illuminazione perpetua delle due basiliche dei principi degli apostoli e fornì di ulteriori
suppellettili la basilica di San Pietro: hic XX auri libras pro emendo oleo annue ut de lucro eorum in
luminariis apostolicis proficiat instituit, et constitutum sub anathematis vinculo obligavit. Hic fecit vestem
super altare beati Petri ex auro textam, habens nativitatem domini Dei, et Salvatoris nostri Iesu Christi,
ornavitque eam ex gemmis preciosis, simulque et vela sirica alithina IIII quatuor, quas et ornavit in rotis et
ornamentis variis aurotextis. Item fecit coronam de argento purissmo cum delfinos ex proprio suo, pens. lib.
CXX[1103].
La notizia pontificia si volge poi a Costantinopoli, descrivendo l’invio della synodica papale:
hic beatissimus vir, iuxta ritum ecclesiasticum, fidei suae sponsionis orthodoxam ecclesie misit
Constantinopolitanae synodicam, simulque et aliam suggestionem dirigens serenissimo Constantino
principi[1104].
Evidentemente Zaccaria, che pure era stato eletto senza attendere la iussio imperiale, aveva mantenuto
iuxta ritum ecclesiasticum l’uso di inviare alla capitale la notizia della propria
consacrazione[1105].
Descrivendo il contesto dell’invio della synodica, il Liber si sofferma a descrivere la
difficile situazione nella quale versava la capitale imperiale: et pergentibus apostolicae sedis responsalibus
regiam urbem, invenerunt intro palatium regiae potestatis invasorem quendam et rebellem, Artaustum nomine. Dum
enim isdem imperator ad dimicandum Agarenorum properasset gentem, ilico praelatus Artaustus datis populo qui
regia remanserunt urbem praemiis, imperialem arripuit solium. Et postmodum adgregans Orientalium exercituum
multitudinem, antelatus Constantinus princeps pergensque Constantinopolim, eandem viriliter expugnans atque
extrinsecus circumvallans conprehendit civitatem, et pristinum regni sui adeptus est fastigium, statimque iamfati
Artausti eiusque filiorum eruit oculos et plures ex suis rebellibus exules a propriis fecit
habitaculis[1106]. Costantino V (741-775), che era già coreggente, era succeduto al
padre nello stesso anno in cui Zaccaria era divenuto pontefice. Nel secondo anno del suo regno, mentre era
impegnato a fronteggiare gli arabi, l’imperatore dovette affrontare la rivolta di Artavasde, che
riuscì a sconfiggere definitivamente solo nel 744. Il Liber, per descrivere la situazione, utilizza
dei termini che mostrano una fedeltà della sede apostolica al legittimo imperatore, chiamando Artavasde
con gli appellativi di invasor e rebellis. I redattori del Liber omettono qui il fatto che,
nel protrarsi della contesa, alcune lettere pontificie erano state datate non più con gli anni del regno
di Costantino, bensì con quelli dell’usurpatore[1107], segno che la sede apostolica doveva avere in
qualche modo riconosciuto, sia pure per un breve lasso di tempo, il suo regno, forse anche perché
Artavasde non era iconoclasta come l’imperatore Costantino.
Il Liber prosegue riferendo che, una volta riconquistato il potere, Costantino richiese espressamente di
incontrare l’inviato che era latore della synodica di Zaccaria: post hec vero requirens missum
apostolicae sedis, qui ibidem in temporis perturbatione contigerat advenisse, eumque reppertum, ad sedem absolvit
apostolicam. Et iuxta quod beatissimus pontifex postulaverat, donationem in scriptis de duabus massis quae
Nimphas et Normias appellantur, iuris existentes publici, eidem sanctissimo ac beatissimo papae sanctaeque
Romanae Ecclesiae iure perpetuo direxit possidendas[1108]. La descrizione dell’incontro ha i toni della concordia e la crisi
iconoclasta sembra lontana. L’imperatore è presentato come desideroso di ricevere i documenti
pontifici, poiché è lui stesso a farne richiesta, ed, inoltre, nel rimandare indietro il
messaggero, concede che le due massae che il pontefice aveva richiesto gli siano concesse. Il Liber
torna qui a sottolineare l’importanza delle campagne circostanti l’urbe. I due possedimenti agricoli
di Nimphas (l’attuale Ninfa nella pianura pontina) e Normias (l’odierna Norma) dovevano
appartenere ai beni imperiali e Zaccaria doveva averne fatto esplicita richiesta all’imperatore. Si
sottolinea due volte l’esistenza di precise disposizioni giuridiche in merito, quando si afferma che la
donazione avvenne in scriptis, iuris existentes publici e quando si sottolinea che avvenne iure
perpetuo. Non vengono rese note dal Liber ulteriori particolari che aiutino a comprendere il motivo
della donazione[1109]. La sua menzione sottolinea, comunque, il perdurare delle relazioni
giuridiche con l’impero; lo scrinium pontificio vuole mostrare che il rapporto con l’impero
è vitale e che la sede apostolica è pienamente inserita in esso. D’altro canto, la notizia
manifesta altresì l’importanza che la sede apostolica attribuiva al territorio del ducato romano ed
allo specifico valore delle campagne circostanti l’urbe.
Il Liber descrive poi il pellegrinaggio a Roma di Carlomanno e la sua successiva decisione di prendere i
voti monastici: huius temporibus Carolomannus, filius Caroli Francorum regis, praesentis vite relinquens
gloriam atque potestatem terrenam, ad beatum Petrum apostolorum principem devotus cum aliquantis suis advenit
fidelibus, seseque eidem Dei contulit apostolo atque in spiritali habitu fore spondens permansurum, clericatus
iugum ab eodem sanctissimo suscepit pontifice. Et post aliquantum temporis ad beati Benedicti quod Aquinensium
finibus situm est profectus est monasterium, in quo et suam finiri vitam iure professus est
iurando[1110]. La
notizia ovviamente conferisce prestigio alla sede apostolica; si sottolinea che il filius Caroli Francorum
regis era ad beatum Petrum apostolorum principem devotus e che clericatus iugum ab eodem
sanctissimo suscepit pontifice; la sua vita monastica è così posta in stretto legame con la
persona stessa del pontefice[1111].
Successivamente il redattore riferisce della vicenda che vide Zaccaria protagonista della liberazione di alcuni
schiavi che erano destinati alle regioni del nord Africa, occupate dagli arabi: porro eodem in tempore
contigit plures Veneticorum hanc Romanam advenisse in urbem negotiatores; et mercimonii nundinas propagantes,
multitudinem mancipiorum, virilis scilicet et feminini generis, emere visi sunt; quos et in Africam ad paganam
gentem nitebantur deducere. Quo cognito, isdem sanctissimus pater fieri prohibuit, hoc iudicans quod iustum non
esset ut Christi abluti baptismo paganis gentibus deservirent; datoque eisdem Veneticis pretio quod in eorum
emptione se dedisse probati sunt, cunctos a iugo servitutis redemit atque more liberorum degendos
absolvit[1112].
Il pontefice, ritenendo che non fosse giusto che battezzati finissero schiavi di possidenti non cristiani,
datoque pretio, cunctos a iugo servitutis redemit atque more liberorum degendos absolvit. Zaccaria
viene qui presentato come liberatore degli schiavi, come benefattore di fronte a questa peculiare forma di
povertà.
La notizia, che aveva già trattato della morte di Liutprando, torna a parlare dei longobardi e del nuovo
regnante Ratchis: ipsis itaque temporibus Ratchis Langobardorum rex ad capiendam civitatem Perusinam, sicut
caetera Pentapoleos oppida, vehementi profectus est cum indignatione; quam et circumdans fortiter
expugnabat[1113].
Il testo mostra che Perusia (l’odierna Perugia) era ancora in mano imperiale e, con lei,
l’unica via che collegava Roma a Ravenna senza entrare in territorio longobardo. Segnala inoltre che la
città faceva parte non del ducato romano, ma della Pentapoli, mentre il ducato romano doveva cominciare
con Ameria, l’odierna Amelia[1114]. Il Liber aveva scritto del rinnovo della pace ventennale garantito
dal nuovo re, ma evidentemente questi aveva poi mutato opinione ed iniziato una nuova campagna bellica.
Nuovamente il regno longobardo attentava all’esarcato, senza mettere in discussione i territori del ducato
romano, ma, ancora una volta, questa politica provocò la reazione del pontefice: hoc audiens
sanctissimus papa, continuo spe divina fretus, assumptis aliquantis ex suo clero cum optimatibus, quantotius ad
eandem pervenit civitatem; impensisque eidem regi plurimis muneribus atque oppido eum deprecans, opitulante
Domino, ab obsessione ipsius civitatis eum amovit[1115]. Anche il terzo viaggio di Zaccaria per implorare la cessazione delle
ostilità e l’incolumità dei territori ebbe, come i precedenti, esito positivo. Nuovamente il
pontefice non si mosse con armati dell’exercitus Romanus, bensì aliquantis ex suo clero
cum optimatibus. Questa volta il Liber segnala che a fianco del clero dovevano esservi anche
optimates, personalità laiche dell’urbe. Se viene sottolineato che Zaccaria si
presentò al re impensisque plurimis muneribus, certamente non furono semplicemente questi a far
desistere Ratchis dall’impresa: piuttosto i re longobardi non si sentivano ancora di poter scavalcare
l’autorità pontificia e di poter agire contro quella volontà.
La biografia di Zaccaria prosegue poi raccontando la monacazione del re e della sua famiglia: cui et
salutifera praedicans, Deo auctore, valuit animum eius spiritali studio inclinare. Et post aliquantos dies isdem
Ratchis rex, relinquens regalem dignitatem, devote cum uxore et filiis ad beati Petri principis apostolorum
coniunxit limina, acceptaque a praelato sanctissimo papa oratione clericusque effectus, monachico indutus est
habitu cum uxore et filiis[1116]. L’evento, che dovette accadere nel giugno 749[1117], viene presentato come
generato dalla salutifera praedicatio del pontefice; potrebbe, però, avere avuto invece come
motivazione il fatto che il re fosse stato deposto da quella parte dei longobardi che chiedevano una politica
più aggressiva nei confronti dell’impero. Le fonti non specificano nulla in merito e gli storici
sono divisi su questo[1118]. Anche se il Liber non ne fa cenno nella notizia di Zaccaria, Astolfo
prese il posto di Ratchis e, dopo aver consolidato il proprio governo sul ducato di Spoleto e di Benevento, un
anno prima della morte di Zaccaria, nel 751, riprese l’offensiva che né Liutprando, né
Ratchis avevano voluto portare alle estreme conseguenze, conquistò Ravenna e pose fine alla vita
dell’esarcato[1119]. Il ducato romano non era riuscito così, con le sole proprie forze,
ad impedire questa fine. Nell’anno successivo, il 752, Astolfo avrebbe iniziato il suo tentativo di far
entrare anche il ducato di Roma nell’ambito della propria influenza, l’unico ad esserne rimasto
esente, nel desiderio di unificare così di fatto l’Italia settentrionale e centrale sotto il proprio
potere[1120].
Il Liber, che parlerà di Astolfo e dei suoi progetti solo nella biografia successiva, quella di
Stefano II, prosegue invece, raccontando il rinvenimento in Roma delle reliquie di San Giorgio: huiusdemque
temporibus magnum thesaurum Dominus Deus noster in hac Romana urbe per eundem almificum pontificem propalare
dignatus est. In venerabile itaque patriarchio sacratissimum beati Georgii martyris hisdem sanctissimus papa in
capsa reconditum repperit caput; in qua et pittacium pariter invenit, litteris exaratum grecis, ipsud esse
significantes. Qui sanctissimus papa omnino satisfactus, ilico adgregato huius Romane urbis populo, cum hymnis et
canticis spiritualibus in venerabili diaconia eius nomini, sitam in hac Romana civitate, regione secunda, ad
Velum aureum, illud deduci fecit, ubi immensa miracula et beneficia omnipotens Deus ad laudem nominis sui per
eundem sacratissimum martyrem operare dignatur[1121]. Se il redattore del Liber doveva essere certamente interessato a
questo ritrovamento, il suo racconto sembra anche voler spostare l’attenzione del lettore dalla difficile
situazione politica ad un evento nel quale era possibile cogliere la forza della presenza divina che sosteneva il
papa e la sua azione – sebbene non sia sottolineato, potrebbe avere un qualche significato anche il fatto
che San Giorgio fosse già allora considerato uno dei “santi guerrieri” dalla tradizione
cristiana, capace, con la sua intercessione, di difendere la chiesa dai suoi nemici.
La biografia di Zaccaria torna poi a narrare delle opere realizzate dal pontefice nelle campagne laziali:
huius temporibus defunctus Theodorus maior filius Megisti cata Xanthi, ob veniam suorum delictorum, praedium
quo ex haereditate fruebatur paterna, situm quinto ab hac Romana urbe miliario, via Tiburtina, in quo et
oratorium sanctae Cecilie esse dinoscitur, beato Petro dereliquid. Quod ipse beatissimus papa magne
constructionis fabricis atque picturis decoravit; ampliavitque in eo fines ex omni parte; data enim digna
recompensatione his qui in vicino eiusdem loci possessiones tenere videbantur, nemini vim inferens, sed magis, ut
condecet patri, cuncta secus eundem locum amica pactione emit, praedia et domum cultam beato Petro eundem locum
iure perpetuo statuit permanendum; quae et domus culta sanctae Ceciliae usque in hodiernum diem vocatur.
Construxit quippe in ea et oratorium sancti abba Cyri ubi et multas sanctorum condidit reliquias.Quam
videlicet domum cultam usui proprio, dominicae videlicet rationis, descripsit[1122]. Il testo tratta di una seconda
domusculta, dopo quella di Lauretum di cui già il Liber ha trattato. Il biografo
descrive il modo di acquisizione dei terreni stessi, che giunsero in possesso della chiesa di Roma tramite la
donazione di un privato identificato solo con il suo nome, il defunctus Theodorus maior filius Megisti cata
Xanthi. Se le massae di Ninfa e Norba erano state acquisite dalle proprietà statali, qui,
invece, il possesso viene determinato per via testamentaria dal defunto che lo offre, ob veniam suorum
delictorum. A partire da questa donazione, il Liber descrive l’opera di edificazione del
complesso ed insieme l’ampliamento in eo fines ex omni parte. In questa maniera il terreno del
defunto Teodoro sembra essere solo il nucleo di un’azienda agricola che viene allargata con
l’acquisto di ulteriori appezzamenti di terra. Il redattore sottolinea l’equità dei pagamenti
con i quali Zaccaria ottenne dai precedenti possessori le terre vicine: data enim digna recompensatione his
qui in vicino eiusdem loci possessiones tenere videbantur, nemini vim inferens, sed magis, ut condecet patri,
cuncta secus eundem locum amica pactione emit. La descrizione dell’ampliamento di questa azienda
agricola mostra non una campagna lasciata a se stessa, bensì una preesistente attività sia del
donatore Teodoro, sia dei diversi possessori che, evidentemente, cedevano qualcosa che aveva di per sé un
valore. Il pontefice stabilì che essa dovesse permanere nelle proprietà della sede apostolica
iure perpetuo e le assegnò anche la peculiare finalità dominicae rationis,
cioè il sostentamento delle spese stesse della mensa pontificia[1123]. In effetti, il redattore attesta con una
particolare espressione, di conoscerne bene il nome di tale domusculta: quae et domus culta sanctae
Ceciliae usque in hodiernum diem vocatur.
Segue un'ulteriore indicazione di una donazione che venne fatta alla sede apostolica: hic constituit aliam
domum cultam in quartodecimo miliario ab hac Romana urbe patrimonio Tuscie; constitutionibus obligavit usui
ecclesie permanendum, tam loca quae ab Anna, relicta quondam Agathonis primicerii, beato Petro esse videtur
concessa[1124]. I
terreni offerti ab Anna, relicta quondam Agathonis primicerii vennero utilizzati per la realizzazione di
un’altra domus culta.
La biografia prosegue poi narrando di due altre massae che vennero trasformate in domus cultae, sul
litorale a sud di Roma: hic massas quae vocantur Antius et Formias suo studio iure beati Petri adquisivit,
quas et domos cultas statuit[1125]. Il Liber sottolinea così che Anzio e Formia, delle quali non
si racconta per quale via siano pervenute in possesso della chiesa di Roma, furono organizzate in maniera
similare alle altre domus cultae di cui si è già parlato.
Segue una considerazione più generale, con la quale si ricorda che l’esistenza delle diverse
domus cultae venne sancita dal pontefice con decreto, perché permanesse nel tempo, e che, in vista
di questa continuità di esercizio, egli stabilì anche un collegium sacerdotale
specificamente addetto: et de omnibus superius adnexis domocultis apostolice exarationis constituta faciens
atque sacerdotale collegium aggregans, sub anathematis interdictionibus statuit nulli quoquo modo successorum
eius pontificum vel alie cuilibet persone licere ipsas domus cultas ab usu ecclesiae quoquo modo
alienare[1126].
Segue una breve notizia sulla realizzazione di suppellettili per un altare della basilica di San Pietro e,
successivamente, una presentazione più ampia del sistema di distribuzione di cibo a favore degli indigenti
sostenuti dalla carità del papa: hic beatissimus papa statuit ut crebris diebus alimentorum sumptus,
quae et elymosina usque nunc appellatur, de venerabili patriarchio a paracellariis pauperibus et peregrinis qui
ad beatum Petrum demorantur deportari eisque erogari, necnon et omnibus inopibus et infirmis per universas
regiones istius Romane urbis constitutis eandem similiter distribui ipsam alimentorum constituit
elimosynam[1127].
Il testo rende noto che una riserva di alimenti doveva essere stata approntata presso il patriarchio e che da
esso alcuni incaricati, i paracellarii, dovevano portarlo ai poveri che stazionavano presso la basilica di
San Pietro e per universas regiones istius Romane urbis.
Il Liber racconta poi della riparazione del tetto tituli beati Christi martyris Eusebii che stava
per cadere[1128] ed
aggiunge che il pontefice intervenne su numerosi edifici ecclesiastici: hic praecipuus pontifex multa loca
sanctorum in meliorem statum perduxit et vestes optimas super altaria earumdem Dei ecclesiarum
fecit[1129].
La biografia prosegue lodando Zaccaria perché il clero poté, nel corso del suo pontificato, godere
di un trattamento economico migliore e perché l’intera popolazione romana visse tempi favorevoli:
hic dilexit clerum suum valde atque presbiteria eis annue in duplo et amplius tribuit, omnes utpote pater et
bonus pastor amplectens et utiliter fovens et penitus quempiam minime tribulare permittens. Huius denique
temporibus in magna securitate et letitia populus a Deo illi commissus degens vixit[1130]. Si noti ancor che il
populus a Deo illi commissus non è qui l’intera chiesa cattolica, ma, piuttosto, il ducato e
la città di Roma.
La biografia ricorda anche l’alta cultura ed il lavoro intellettuale del pontefice che tradusse in greco i
Dialoghi di papa Gregorio Magno: hic beatissimus papa suo prudentissimo studio quos beatae
recordationis Gregorius papa fecit quattuor Dialogorum libros de latino in greco translatavit eloquio et plures
qui latinam ignorant lectionem per eorum inluminavit lectionum historiam[1131]. Qui l’orizzonte si amplia nuovamente ed
il pontefice viene presentato come capace di servire anche i plures qui latinam ignorant lectionem; in
questa notazione è evidente l’orizzonte universale nel quale il papato continuava a porsi, pur nella
difficoltà dei tempi.
Un postillatore ha aggiunto alla notizia le consuete informazioni sulle ordinazioni celebrate dal pontefice e
sulla morte e sepoltura del pontefice, datate con il sistema tradizionale delle indizioni imperiali: hic fecit
ordinationes III per mens. mart., presbiteros XXX, diaconos V, episcopos per diversa loca numero LXXXV.
Qui sepultus est ad beatum Petrum apostolum, id. mart., indictione V. Et cessavit episcopatus dies
XII[1132].
È importante notare, anche se il Liber non lo fa, che la vacanza seguita alla morte di Zaccaria fu
la prima che avvenne dopo che l’esarcato era stato conquistato dai longobardi e, quindi, colui che per
pubblico diritto era incaricato di approvare con la iussio l’elezione pontificia a nome
dell’imperatore perché si giungesse alla nuova consacrazione, cioè l’esarca, non
c’era più[1133].
Si è già visto come la compagine imperiale segnalasse che la figura del pontefice le era soggetta
attraverso il meccanismo giuridico della iussio necessaria per procedere alla consacrazione. Se
l’elezione era lasciata al clero ed ai maggiorenti della popolazione, la res publica imperiale
interveniva in seconda battuta confermandola giuridicamente ed autorizzando l’ordinazione episcopale.
In tutte le elezioni da Sabiniano a Gregorio III, con l’eccezione, forse, del caso di Martino I, sempre la
sede apostolica si sottomise a questa norma. I ripetuti riferimenti del Liber all’evoluzione della
procedura, che vide prima l’imperatore avocare a sé la iussio, ai tempi di Agatone, e poi
nuovamente concederla all’esarca, ai tempi di Benedetto II, così come la notazione sulla
sollevazione dal pagamento delle tasse dovuto ad ogni nuova elezione, ancora ai tempi di Agatone, mostrano
l’attenzione che i redattori del Liber mantenevano sulla questione.
Inoltre, man mano che si aggravava la tensione sui canoni del concilio Quinisesto, le elezioni di Conone e Sergio
I avevano visto, in occasione della sede vacante, la creazione di partiti a favore di candidati al seggio
pontificio che dovevano avere alle spalle condizionamenti da parte di ufficiali vicini all’esarca ed
all’imperatore stesso. Anche l’elezione di candidati deboli, anche fisicamente, visti probabilmente
come figure di compromesso - si veda il caso emblematico di Sisinnio - mostrano a sufficienza quanto la scelta
del nuovo pontefice fosse una cartina al tornasole dei rapporti fra il papato e l’impero.
L’ultimo periodo analizzato in questa tesi vede un significativo evolvere della situazione. Se niente viene
detto esplicitamente nel caso della consacrazione di Gregorio II, che dovette avvenire secondo le norme consuete
con l’approvazione esarcale, il Liber si sofferma, come si è visto, sulla modalità
particolare di elezione di Gregorio III che fu acclamato ante feretrum sui antecessoris[1134] a furor di popolo.
L’evento mostra il superamento di quelle divisioni che avevano caratterizzato le discusse elezioni di
Conone e Sergio I, alle quali si è appena fatto riferimento, con la scelta di un candidato forte, ben
visto da tutti indistintamente. Gregorio III dovette, comunque, attendere, anche se il Liber non accenna
al fatto, la normale autorizzazione dall’esarca.
Ben diverso è il caso di Zaccaria che dovette, invece, per la prima volta essere consacrato solo otto
giorni dopo la morte del predecessore, senza che si attendesse alcuna iussio in merito. Il suo pontificato
segna così l’indipendenza assoluta della scelta del pontefice dall’amministrazione bizantina.
L’elezione resta una scelta del clerus e del populus di Roma, mentre la consacrazione
è affare che riguarda, da questo momento, la sola chiesa.
L.-M. Hartmann aveva ipotizzato, alla fine dell’ottocento, che nel caso di Zaccaria la necessaria
iussio fosse stata demandata al duca di Roma[1135]. Questa tesi non modificherebbe comunque il quadro generale, dato che il
dux appare, nella vita di Zaccaria, come un funzionario che sostanzialmente obbedisce alla figura del
pontefice[1136]. Ma,
proprio per questo motivo, tale ipotesi appare improbabile perché, se una nuova norma fosse stata
approvata in merito all’emissione di una iussio da parte del duca di Roma, non si vede perché
il Liber avrebbe dovuto tacere un dato così favorevole alla sede apostolica.
Il fatto che l’elezione e la consacrazione divengano con Zaccaria eventi totalmente “romani”
appare, invece, come il naturale sviluppo della generale situazione politica che vede, come si è
già notato, ormai non più Roma dipendente dall’amministrazione esarcale, ma piuttosto
quest’ultima che si appella all’urbe nel disperato tentativo, peraltro infruttuoso, di sopravvivere.
Lo sganciamento amministrativo è la necessaria conseguenza dell’estinzione reale del potere di
Ravenna che era ormai alle sue ultime battute.
L’invio della successiva synodica a Costantinopoli[1137] dichiarante fra l’altro la consacrazione di
Zaccaria, è un’ulteriore attestazione che il fatto non doveva nemmeno più creare problema,
come poteva essere avvenuto ai tempi di Martino I se fosse provata in quel caso una consacrazione senza
iussio amministrativa, poiché la capitale doveva essere bene a conoscenza della situazione nella
quale versavano i possedimenti imperiali in Italia.
Ma l’evento che rese assolutamente indipendente la consacrazione del pontefice dall’autorità
esarcale, cui era stata sottoposta fino allora giuridicamente dall’imperatore, fu la fine stessa della
magistratura dell’esarca, coincidente con la caduta di Ravenna. In questo senso, la consacrazione di
Zaccaria senza l’attesa di una iussio in merito è solo un’anticipazione di qualcosa che
doveva essere avvertito come già iscritto nel futuro sviluppo delle cose. Alla morte di Zaccaria, Stefano
II fu così il primo ad essere consacrato vescovo di Roma senza che ci fosse più un esarca cui
chiedere l’autorizzazione in merito.
Dopo che il punto di massimo conflitto fra l’impero e la sede apostolica si era toccato con la deportazione
di Martino I e l’elezione del nuovo pontefice Eugenio I, mentre il predecessore era in esilio, il periodo
successivo aveva visto addirittura due volte incontrarsi de visu l’imperatore ed il pontefice:
Costante II era giunto fino a Roma e papa Costantino si era recato nella capitale. Ma i due incontri avevano
mostrato quanta distanza intercorresse fra le due autorità. Il Liber aveva chiaramente lasciato
intuire che la venuta dell’imperatore nell’urbe non aveva giovato in alcun modo alla città ed
aveva fatto capire, sia pure con le abituali omissioni, che il viaggio del pontefice a Costantinopoli era
avvenuto a partire da un severo invito a rendere conto dell’operato della sede romana dinanzi al giudizio
imperiale e non in vista di un incontro cordiale e di reciproca comunione. Nello stesso tempo, però,
l’orizzonte della sede apostolica era rimasto quello dell’unico impero romano universale ed i due
incontri avevano visibilmente significato che l’imperatore era il signore di Roma e che il pontefice
riconosceva tutta la sua autorità, mentre il vescovo dell’urbe chiedeva, allo stesso tempo, che
venisse accolta la propria visione in ottemperanza al ruolo di guida della chiesa universale che affermava di
aver ricevuto.
I tre pontificati che vanno dal 715 al 752 vedono, invece, una conflittualità decisa ed esplicitamente
espressa dal Liber, sia in materia politico-economica che teologica, nel corso del pontificato di Gregorio
II, una tensione che tocca il suo culmine nel successivo pontificato di Gregorio III divenendo una svolta senza
ritorno, anche se i toni della biografia pontificia sono paradossalmente molto più sfumati, ed un rapporto
apparentemente più sereno durante il pontificato di Zaccaria, quando, però, la frattura decisiva
sembra ormai essere già avvenuta.
Si è visto come la biografia di Gregorio II si apra con frequenti riferimenti positivi alla casa
imperiale, segnando per la prima volta il tempo del pontificato con il riferimento agli imperatori
regnanti[1138] e
continui poi, secondo consuetudine, con la menzione di sinodiche scambiate con il patriarcato costantinopolitano,
mentre si sottolinea che anche la vita pratica dell’urbe era legata alla circolazione delle merci
all’interno della compagine imperiale - alcune opere di restauro di edifici ecclesiastici romani vennero
effettuate con legname proveniente dalla Calabria, cioè da territori appartenenti alla comune res
publica.
La notizia prosegue con toni di approvazione della politica imperiale nella descrizione degli eventi che videro
prima prevalere l’imperatore Teodosio III sul rivale Anastasio, con la conseguente ricollocazione delle
immagini del sesto concilio ecumenico nella capitale, e poi Leone III difendere vittoriosamente Costantinopoli
dall’ultimo assedio degli arabi, Deo eis contrario[1139].
Subito dopo e all'improvviso, il Liber, come si è visto, modifica i toni e presenta la fortissima
ostilità del nuovo imperatore contro la sede apostolica, con una serie ripetuta di tentativi di
eliminazione del pontefice stesso.
Il redattore, come si è visto, presenta due motivi di questo durissimo scontro, il primo economico ed il
secondo teologico; egli non li sovrappone e li tiene distinti[1140].
Nei primi progetti imperiali per l’uccisione di Gregorio II il motivo del complotto viene indicato
nell’azione del pontefice che censum in provincia ponere praepediebat, et suis opibus ecclesias
denudari, sicut in ceteris actum est locis[1141]. Nei successivi, invece, emerge il motivo della scelta iconoclasta
dell’imperatore: le posizioni di Leone III contro le immagini sacre, infatti, fecero sì che il
pontefice, despiciens profanam principis iussionem, iam contra imperatorem quasi contra hostem se armavit,
rennuens heresem eius, scribens ubique cavere se christianos quod orta fuisset impietas[1142]. Per questa ferma
opposizione di Gregorio II, a Costantinopoli se ne decretò nuovamente l’eliminazione.
È ora il momento, in sede di sintesi, di inserire questi eventi nell’evoluzione del quadro storico
più generale, per comprendere appieno la lettura che il Liber ne propone.
Merita innanzitutto di essere precisata la questione del census. La notizia trasmessa dal Liber di
uno scontro del pontefice con l’imperatore in materia fiscale è confermata dalla
Chronographia di Teofane il Confessore[1143]. Lo storico bizantino afferma che Gregorio, informato dei decreti
iconoclasti, «rifiutò di pagare le tasse dell’Italia e di Roma»[1144]. Si noti subito che, mentre
la biografia di Gregorio II premette la questione fiscale a quella teologica, Teofane ne inverte l’ordine.
La versione romana sembra, però, preferibile poiché il Liber avrebbe avuto tutto da
guadagnare nel porre in prima linea lo scontro teologico, sul quale, in effetti, la redazione si
diffonderà ampiamente: l’aver presentato la contesa fiscale a parte rende attendibile il fatto che
Leone III abbia prima emanato un decreto su questa materia e abbia successivamente aperto la crisi teologica.
La reazione pontificia rende evidente che non si trattava del normale prelievo del gettito fiscale, ma che
l’imperatore lo aveva elevato e aveva mutato i modi della sua riscossione. Gli storici sono d’accordo
nel riconoscere che il provvedimento riprendesse e portasse ad ulteriori conseguenze le riforme già
iniziate da Costante II e segnalate nella biografia di papa Vitaliano[1145]. Tali provvedimenti erano stati poi almeno
parzialmente smentiti, a motivo del legame dei territori del sud Italia con la sede romana, nel corso del
pontificato di Giovanni V dall’imperatore Costantino IV[1146] e durante quello di Conone da Giustiniano
II[1147].
Il Liber e la Chronographia concordano nell’attestare che, nel caso del nuovo provvedimento,
non si trattava di un decreto riguardante specificamente la Chiesa e le sue proprietà e nemmeno
semplicemente una parte del territorio, come ad esempio il ducato romano: la biografia pontificia parla, infatti,
di esazione fiscale in provincia, dove si deve ipotizzare che ci si riferisca alla provincia
Italiae; conformemente al Liber, Teofane, da parte sua, parla di tasse “dell’Italia e di
Roma”[1148].
La reazione che il provvedimento generò - il rifiuto pontificio di pagare le tasse - unitamente alla
controreazione che si determinò - la decisione da parte imperiale di perpetrare l’assassinio del
papa - fanno intuire che non si trattava di una semplice evoluzione in continuità del sistema fiscale in
uso, bensì che la posta in gioco doveva essere molto elevata. Un semplice accrescimento del gettito
richiesto sembra non essere sufficiente a motivare l’accaduto. L’ipotesi più attendibile
è che la riforma fosse un primo passo nella direzione di una radicale ristrutturazione dell’esazione
fiscale che doveva vedere esautorato il personale dipendente dalla Chiesa di Roma, misura che si
raggiungerà, come si vedrà fra breve, con le nuove normative che saranno emanate dallo stesso Leone
III durante il pontificato di Gregorio III.
Prima di procedere nell’analisi storica, è bene sottolineare i punti fermi che il decreto rende
evidenti, pur nell’incertezza delle sue determinazioni particolari.
Innanzitutto la notizia ha come presupposto il fatto che, come si è già affermato ripetutamente nel
corso di questa tesi[1149], l’esazione fiscale era pienamente in vigore, non essendosi mai
interrotta né nel ducato romano, né nei restanti territori imperiali della penisola.
L’amministrazione statale era, quindi, ai tempi del decreto pienamente funzionante ed era in discussione,
invece, chi ne dovesse avere il pieno controllo.
In secondo luogo appare nuovamente manifesto che, nella raccolta delle entrate fiscali, un ruolo decisivo era
giocato dagli stessi vescovi e dalle loro amministrazioni locali con i relativi addetti - ecclesiastici e non. Se
il pontefice rifiutava il pagamento delle tasse dovute dalla provincia e se, da parte imperiale, si tentava la
sua eliminazione per ottenere un maggior controllo dell’esazione fiscale, questo era segno che egli doveva
rivestire il doppio ruolo di ministro della chiesa ed, insieme, di responsabile della res publica
imperiale. Egli doveva a sua volta fare riferimento agli altri vescovi che dovevano ricoprire almeno un ruolo di
garanti nello svolgimento dell’amministrazione civile.
La notizia conferma così quello che si era già visto nella notizia di Severino: era già
allora apparso che le pubbliche sostanze per il pagamento di soldati imperiali di stanza nell’urbe erano
custodite all’interno dello scrinium pontificio: evidentemente l’amministrazione episcopale
era così coinvolta nella colletta della pubblica tassazione da essere di fatto responsabile del luogo
fisico della custodia del denaro della res publica per il pagamento degli stipendi in Roma. Si può
ipotizzare, a partire dalla nuova notizia su Gregorio II, che non solo le tasse raccolte nel ducato di Roma, ma
anche parte di quelle che venivano prelevate nel resto d’Italia dovevano servire a sostenere le pubbliche
spese e gli stipendi dell’urbe e dei territori circostanti[1150]. Il pubblico denaro, una volta raccolto, non veniva
inviato totalmente a Costantinopoli, ma veniva in parte riutilizzato per le necessità della pubblica
amministrazione e dell’esercito, con il controllo e l’intervento a fianco dei pubblici ufficiali
degli stessi vescovi e delle loro amministrazioni[1151].
Infine, il fatto che il rifiuto papale di consegnare l’importo delle tasse riguardasse non solamente le
proprietà ecclesiastiche, ma anche il censum richiesto in provincia[1152], manifesta il ruolo
esercitato dal pontefice come mediatore fra le esigenze del potere regionale e di quello centrale[1153]: Gregorio II si ergeva in
qualche modo a difesa dello status quo, facendosi probabilmente interprete della popolazione della
provincia contro l’esigenza statale di accrescere il gettito fiscale[1154].
Lo scontro dovette essere frontale se, ancor prima dell’inizio della crisi iconoclasta, ci furono, come
segnala il Liber, ben due tentativi di sopprimere il pontefice. Se l’opposizione pontificia alle
richieste imperiali aveva certamente anche una valenza politica[1155], essa va situata nel contesto storico
dell’epoca: la richiesta imperiale di un maggior controllo diretto sul gettito fiscale si rivelò
improponibile, poiché rivolto ad una provincia dell'impero alla quale Costantinopoli non era più in
grado di prestare aiuto. Il secondo decreto fiscale di Leone III porterà, di fatto, alla divaricazione in
due diverse amministrazioni, l’una direttamente dipendente dalla capitale in Calabria e Sicilia e
l’altra dipendente da Roma nel ducato romano.
Alla questione fiscale si aggiunse presto la discussione teologica. Essa nacque certamente in maniera
indipendente dalla politica fiscale di Costantinopoli. Certamente, però, l’imperatore non
mancò di far pesare le proprie decisioni in campo teologico, chiedendo a Roma di uniformarsi ad esse ed
accusandola di un’ulteriore grave disobbedienza al potere centrale, quando essa gli si oppose anche in
questo campo. I capi di imputazione diventarono così due, la protesta in campo fiscale-amministrativo ed
il rifiuto teologico dell’iconoclastia.
La sede apostolica denunziò immediatamente con la più grave delle accuse, quella di heresis,
la posizione imperiale. I redattori ometteranno, dal momento in cui scoppiò la crisi iconoclasta, ogni
riferimento alla questione economica, mentre daranno grandissimo risalto alla questione teologica.
A differenza delle precedenti questioni dogmatiche affrontate dalla sede apostolica dopo Gregorio Magno in
contrapposizione con la sede costantinopolitana - quella riguardante le volontà di Cristo e quella
inerente ai canoni del concilio Quinisesto - il Liber sottolinea con enfasi, come si è già
notato, che tutto l’esarcato si schierò con decisione dalla parte del pontefice. Forse
l’azione pontificia contro l’aumento del gettito fiscale contribuì alla costituzione
dell’incondizionato appoggio ricevuto nel rifiuto dei decreti imperiali contro le immagini, ma certo la
tradizione della venerazione delle immagini doveva essere forte nella popolazione, così come sarà
manifesto dalle reazioni avvenute nella stessa capitale dell’impero, dove non si poneva il caso della
questione fiscale.
La nuova lotta rende evidente come la sede apostolica sia ritenuta e si ritenga pienamente parte della compagine
imperiale. L’imperatore ordinò a Roma di sottomettersi alle proprie decisioni, poiché il
pontefice e l’intero ducato erano suoi sudditi - et si adquiesceret pontifex, gratiam imperatoris
haberet; si et hoc fieri praepediret, a suo gradu decideret[1156]. Ai suoi occhi era evidente che un rifiuto romano in
questo campo era, per ciò stesso, una gravissima disobbedienza al potere imperiale, tale da renderne
necessaria la rimozione.
D’altro canto, la sede romana si muoveva, dal proprio punto di vista, nello stesso orizzonte universale.
Chiedeva, infatti, in risposta che fosse Costantinopoli a recedere dalle posizioni assunte, pretendendo
obbedienza in campo teologico - despiciens ergo pius vir profanam principis iussionem, iam contra imperatorem
quasi contra hostem se armavit, rennuens heresem eius, scribens ubique cavere se christianos quod orta fuisset
impietas[1157].
Il pontefice non si limitava, cioè, a chiedere la libertà di venerare le immagini, ma si rivolgeva
all’imperatore chiedendo che egli si facesse garante dell’iconodulia in tutto l’impero,
sconfessando i decreti iconoclasti che aveva emanato.
Il silenzio sulla questione fiscale, dopo la breve ammissione dell’esistenza della questione nella vita di
Gregorio II, e l’enorme risalto dato alla questione iconoclasta mostrano a sufficienza come i redattori del
Liber volessero presentare ai propri lettori da un lato la fedeltà di Roma alla compagine imperiale
e, dall’altro, il dissenso irremovibile sul fronte teologico.
In effetti, il redattore della vita di Gregorio II, dopo aver mostrato la contrapposizione sul tema del
censum e la fortissima denuncia dell’heresis imperiale, smorza i toni nel prosieguo della
notizia: vuole evidentemente orientare a vedere come, nonostante i gravissimi avvenimenti, la sede apostolica
mantenesse la propria fedeltà all’ecumene imperiale. Infatti, dinanzi al fatto che sibi omnes
ubique in Italia duces elegerunt [...et] cognita vero imperatoris nequitia omnis Italia consilium iniit ut sibi
eligerent imperatorem et ducerent Constantinopolim[1158], il Liber evidenzia il netto rifiuto pontificio di tale autonomia.
Gregorio II continuò a sostenere tutti nella fedeltà all’impero - afferma il Liber -
sperans conversionem principis[1159]. Quando si verificarono gli ulteriori tentativi di soppressione del
pontefice ed anche i longobardi si strinsero a difesa del pontefice, Gregorio II continuò ad ammonire i
romani ne desisterent ab amore vel fide Romani imperii[1160]. Lo stesso atteggiamento di fedeltà è
sottolineato dal Liber quando si presentò il caso dell’insurrezione anti-imperiale di
Tiberius Petasius. In quell’occasione, infatti, fu il pontefice stesso a venire in aiuto
dell’esarca con il quale si era da poco riconciliato; quest’ultimo che si turbò profondamente
alla notizia dell’insurrezione, trovò il papa che lo confortò e che inviò con lui
proceres ecclesiae atque exercitus nell’impresa[1161].
Il racconto di questi tre eventi in successione mostra a sufficienza come la biografia di Gregorio II, una volta
manifestato il profondo dissapore dinanzi alle terribili macchinazioni per l’eliminazione del pontefice,
fossero esse dovute alle addotte ragioni di ordine fiscale o religiose, volesse, però, dichiarare al
contempo la lealtà del papa nei confronti della casa imperiale. La sede apostolica continuava a pensarsi
nell’orizzonte universale dell’unica res publica romana governata da Costantinopoli.
La biografia di Gregorio III torna ad affrontare la questione iconoclasta che si andava aggravando, ma omette
ogni riferimento ad ulteriori questioni politico-economiche che ci sono, invece, testimoniate dall’opera di
Teofane.
Il Liber, raccontando il prosieguo della disputa teologica sulle immagini, riferisce, come si è
visto, dell’invio di lettere inviate in successione dal pontefice all’imperatore. Ripetuta è,
però, la sottolineatura che questa corrispondenza non raggiunse mai Leone III, perché fu
intercettata in Sicilia. L’isola appare come un blocco insuperabile per i messi papali, che non sono
evidentemente ben accetti dalle autorità bizantine che la governano e che hanno ricevuto precisi ordini in
merito da Costantinopoli.
La posizione di Gregorio III contro l’imperatore è, se possibile, ancora più ferma di quella
del suo predecessore. Già la biografia di Gregorio II aveva utilizzato il termine heresis in
riferimento all’iconoclastia, ora il Liber riporta le decisioni del concilio che fu indetto da
Gregorio III a Roma nel 731: l’assise dichiarò che sit extorris a corpore et sanguine domini
nostri Iesu Christi vel totius ecclesiae unitate atque compage[1162] chiunque sia trovato contrario alle sacre
immagini.
La durissima accusa è appena attenuata dal fatto che, se pure la scomunica è chiaramente
indirizzata contro le posizioni imperiali, egli non viene nominalmente anatematizzato. Quando finalmente un
messaggero riuscì a raggiungere Costantinopoli, il Liber lo descrive come inviato tam Anastasio
invasori sedis Constantinopolitane quamque principibus Leoni et Constantino[1163], denunciando il patriarca Anastasio come
invasor della sede episcopale ed omettendo di attaccare direttamente l’imperatore. Come già
era avvenuto al tempo della questione ditelita, il Liber evita di dichiarare direttamente come eretici
l’imperatore Leone III e Costantino suo figlio, ma attacca nominalmente solo il patriarca
Anastasius.
Si deve notare che il concilio vide la partecipazione delle supreme autorità ecclesiastiche
d’occidente, cioè gli arcivescovi di Ravenna e di Grado. La loro presenza è enfatizzata da
Liber che scrive, come si è visto, della presenza degli arcivescovi: residentibus cum eodem
summo et venerabili papa archiepiscopis: id est Antonino Gradense archiepiscopo, Iohanne archiepiscopo
Ravenne[1164].
Non viene qui nominato l’arcivescovo di Siracusa che, evidentemente, non partecipò alla condanna
dell’iconoclastia. Inoltre il Liber sottolinea che i lavori si svolsero cum ceteris episcopis
istius Sperie partis numero [XCIII][1165]. Si noti l’espressione Sperie pars con la quale si intendeva
all’epoca l’occidente in genere. Il Liber evidenzia che la pars occidentalis
dell’impero, per quanto esigua nella sua ampiezza, è radunata contro l’imperatore. Inoltre
vengono evidenziate tutte le autorità laiche, sebbene senza precisarne ulteriormente gli uffici:
nobilibus etiam consulibus et reliquis christianis plebibus stantes. Nelle precedenti biografie dei
pontefici non erano mai state utilizzate espressioni come nobiles o consules, che qui, invece,
compaiono, insieme all’intera christiana plebs, a sottolineare che non è solo la gerarchia
ecclesiastica, ma anche la componente civile coinvolta nel decreto. La contrapposizione è teologica, ma
implica anche una vera e propria spaccatura in due parti dell’unica compagine imperiale. Come la via del
sud Italia e della Sicilia è interdetta ai messaggeri pontifici, così il centro ed il nord
dell’Italia imperiale appaiono strenuamente uniti a difesa dell’iconodulia.
L’esplicita contrapposizione in campo iconoclasta, si accompagna con il silenzio sulle gravi decisioni
politico-economiche ed addirittura militari che sono testimoniate da Teofane il Confessore.
Lo storico bizantino, dopo aver affermato che l’imperatore era furioso «per la secessione di Roma e
dell’Italia»[1166], con evidente riferimento alle posizioni iconodule di Roma e della
provincia, informa che Leone III decise in risposta l’invio di una flotta guidata da Manes, stratego dei
Cibyrreoti, evidentemente per riprendere il pieno controllo della situazione. La flotta, però, fece
naufragio nel Mediterraneo. L’evento dice nuovamente la determinazione con cui Leone III, che già
aveva cercato inutilmente di sopprimere Gregorio II, si mosse per reprimere il dissenso romano[1167]. Il fallimento di questo
progetto militare spinse l’imperatore - continua Teofane - ad un’azione di carattere non più
militare, ma economico: «posseduto da una mentalità araba, impose una tassa personale di un terzo
sulle popolazioni della Sicilia e della Calabria. E per quel che riguarda i cosiddetti patrimoni della santa sede
apostolica che è onorata nell’antica Roma (questi ammontavano a tre talenti e mezzo d’oro ed
erano pagati dai tempi antichi alle chiese) ordinò che fossero versati al pubblico
tesoro»[1168].
Il testo di Teofane sostiene, dunque, che l’impossibilità di riprendere il controllo su Roma e sui
territori da lei dipendenti, portò l’imperatore alla decisione di punire l’urbe con una
ritorsione di tipo economico[1169]. Il decreto aveva un doppio obiettivo, a stare alla notizia di Teofane:
elevare la tassa sulle persone, nei territori di Sicilia e Calabria[1170], e colpire direttamente la Chiesa di Roma stornando
i suoi proventi nelle due suddette regioni per versarle nella tesoreria imperiale. L’incremento della tassa
dovuta da ogni abitante accresceva il carico fiscale che già Giustiniano II aveva imposto ad ogni
cittadino. La delimitazione alle sole Sicilia e Calabria è, però, estremamente significativa.
Poiché la notizia è inserita nel contesto della polemica anti-romana è evidente che se la
tassazione non viene imposta a Roma, al suo ducato ed al resto della provincia, è solo
perché Leone III ritiene ormai impossibile alcun controllo su quei territori. Il decreto è un
chiaro segno del fatto che l’imperatore ha ormai rinunciato, dopo il naufragio della flotta, ad imporre le
proprie decisioni su Roma. E vi ha rinunciato obtorto collo: non cioè per convinzione benevola,
bensì nella raggiunta consapevolezza che la situazione politica generale impedisce ormai alla sua
autorità di poter modificare il regime fiscale nelle zone controllate da Roma. Egli sa, realisticamente,
di poter contare sull’obbedienza alle decisioni imperiali da parte delle popolazioni della Sicilia e della
Calabria e solo di esse. Se ha rinunciato al controllo fiscale dei territori legati a Roma, si mostra però
estremamente deciso nel prendere in mano la situazione economica del sud Italia, dove, invece, il controllo
romano è molto più debole.
Assodato questo, diviene meno importante cosa si debba intendere con l’espressione “un terzo”,
riferita all’aumento della tassazione. L’interpretazione abituale vi vede un incremento della
tassazione[1171] che
l’imperatore, avendo ormai pieno controllo sulla Sicilia e la Calabria, può tranquillamente imporre
senza trovare ostacoli nell’amministrazione ecclesiastica, mentre Guillou propone di leggervi
l’esautorazione della Chiesa dall’amministrazione delle imposte, ipotizzando che due terzi delle
terre tassabili fossero governate dalla Chiesa di Roma[1172]; tale esautorazione è comunque evidente dalla seconda parte della
notizia.
Teofane continua, appunto, affermando che Leone III «per quel che riguarda i cosiddetti patrimoni della
santa sede apostolica che è onorata nell’antica Roma (questi ammontavano a tre talenti e mezzo
d’oro ed erano pagati dai tempi antichi alle chiese) ordinò che fossero versati al pubblico
tesoro», specificando che «questi ammontavano a tre talenti e mezzo d’oro»[1173].
Il particolare indica con chiarezza che tutte le rendite dei patrimonia della Chiesa romana presenti in
Sicilia e Calabria sarebbero, da quel momento in poi, state devolute direttamente al fisco imperiale. Il
presupposto di questa azione era, ovviamente, che le proprietà erano state confiscate ed alienate dalla
proprietà della Chiesa stessa di Roma, che non avrebbe più potuto trarne alcun
guadagno[1174].
Questa è la conclusione che viene tratta concordemente da tutti gli studiosi: il secondo decreto in
materia fiscale di Leone III aveva privato la sede apostolica di tutte le sue proprietà nel sud Italia che
erano state incamerate dall’imperatore. Si deve notare, al contempo, che anche la Chiesa di Ravenna venne
esautorata dai suoi possedimenti nel meridione d’Italia[1175].
L’evento viene connesso dagli storici moderni ad un ulteriore cambiamento di enorme portata che non
è testimoniato esplicitamente né dal Liber pontificalis, né da Teofane, ma che
è comprovato dagli eventi storici successivi, nella seconda metà dell’VIII e nel IX secolo:
l’imperatore trasferì definitivamente la giurisdizione canonica delle diocesi della Sicilia e della
Calabria alla Chiesa di Costantinopoli, sottraendola a quella di Roma. Tale trasferimento sarà contestato
ai successivi imperatori dai papi Adriano I (772-795) e Nicola I (858-867)[1176].
Il primo scriverà all’imperatore Costantino VI e ad Irene: dudum quippe, quando eos pro sacris
imaginibus erectione adortavimus, simili modo et de diocesi tam archiepiscoporum, quam et episcoporum sanctae
catholicae et apostolice Romanae ecclesiae, quae tunc cum patrimoniis nostris abstulerunt, quando sacras imagines
deposuerunt, commonentes, restituere eidem sanctae catholicae et apostolicae Romanae ecclesiae
quaesivimus[1177]. Dal testo, che non nomina esplicitamente le diocesi sottratte da
Costantinopoli a Roma, appare però evidente che tale spostamento di giurisdizione avvenne al tempo della
crisi iconoclasta, quando sacras imagines deposuerunt.
Il secondo, Nicola I, scrisse invece all’imperatore Michele III: oportet enim vestrum imperiale decus,
quod in omnibus ecclesiasticis utilitatibus vigere audivimus, ut antiquum morem, quem nostra ecclesia habuit,
vestris temporibus restaurare dignemini, quatenus vicem, quam nostra sedes per episcopos vestris in partibus
constitutus habuit, videlicet Thessalonicensem, qui Romanae sedis vicem per Eperum veterem Eperumque novum atque
Illiricum, Macedoniam, Thessaliam, Achaiam, Daciam riperensem, Daciam mediterraneam, Misiam, Dardaniam et
Praevalim (tenebat), beato Petro apostolorum principi contradicere nullus praesumat [...] Praetera Calabritanum
patrimonium Siculumque, quae nostrae ecclesiae concessa fuerunt et ea possidendo optinuit et disponendo per suos
familiares regere studuit, vestris concessionibus reddantur, quoniam irrationabile est, ut ecclesiastica
possessio, unde luminaria et concinnationes ecclesiae Dei fieri debent, terrena quamvis potestate
subtrahantur[1178][...] Inter ista et superius dicta volumus, ut consecratio Syracusano
archiepiscopo nostra a sede impendatur, ut traditio ab apostolis instituta nullatenus vestris temporibus
violetur. Dalla lettera di Nicola I appare evidente, anche se questa volta manca una determinazione
cronologica, che il pontefice reclamava la giurisdizione canonica dell’intera penisola greca che le era
stata sottratta[1179]. Successivamente chiedeva di entrare nuovamente in possesso delle antiche
proprietà che la Chiesa romana aveva in Sicilia - mentre non si fa menzione alcuna della Calabria -
aggiungendo, però, la richiesta che l’arcivescovo di Siracusa tornasse ad essere ordinato a Roma, e
quindi non a Costantinopoli, come avveniva ab origine. La situazione della Sicilia viene così
descritta successivamente dalla lettera, poiché in essa erano site molte proprietà della Chiesa di
Roma, ma la sua nuova situazione canonica è identica a quella delle regioni della Grecia, poiché la
giurisdizione episcopale è determinata da Costantinopoli, mentre il pontefice chiede che per entrambe sia
restituita a Roma.
La storiografia moderna, con rare eccezioni, colloca correttamente questo trasferimento di giurisdizione in
contemporanea con il secondo decreto fiscale di Leone III: egli avrebbe allo stesso tempo privato la Chiesa di
Roma e quella di Ravenna delle loro proprietà ed avrebbe posto i vescovi della Sicilia e della Grecia
(oltre che quelli della Calabria rimasta bizantina) sotto l’obbedienza del patriarca
costantinopolitano[1180]. Il fatto ha dalla sua la più alta probabilità anche
perché, dato l’intrinseco intreccio che era in vigore fra l’amministrazione civile e quella
ecclesiastica, non si sarebbe potuto modificare la prima senza intervenire anche sulla seconda.
I due provvedimenti - quello riguardante i patrimoni della chiesa di Roma e quello riguardante
l’inserimento canonico delle diocesi nel patriarcato di Costantinopoli - appaiono, nel contesto storico
dell’epoca, assolutamente in sintonia fra di loro, poiché è facile ipotizzare che il decreto
fiscale non comportasse una semplice acquisizione da parte dello stato di una proprietà ecclesiastica. Se
così fosse avvenuto, infatti, e se si fosse trattato semplicemente di una diversa finalizzazione ad uso
statale dei patrimonia della sede apostolica nel sud Italia sarebbe cessata la presenza stessa della
chiesa in alcuni di questi territori. Non si deve mai dimenticare, infatti, che la correlazione che il
Liber mostra più volte fra chiese, monasteri, diaconie e specifici possedimenti destinati a
sostenerli deve essere percorsa nei due sensi: senza questi patrimonia, da un lato, non potrebbe
sussistere la presenza della chiesa e dei suoi ministri, ma anche senza la presenza di personalità
ecclesiastiche gerarchicamente disposte sarebbe venuto a mancare quel sostegno e quel riferimento che era
abituale e necessario per la situazione del tempo.
Il fatto che il clero del sud Italia, unitamente alla gerarchia della penisola balcanica e dell’Illirico,
dovessero da quel momento in poi avere come supremo punto di riferimento il patriarca di Costantinopoli e non il
pontefice implicava che molte delle proprietà rimanessero in gestione alle diocesi di quei luoghi, mentre
quest’ultime dovevano assumersi contestualmente l’onere di amministrarle secondo la giurisdizione e
le esigenze amministrative e fiscali decise direttamente nella capitale[1181].
L’evoluzione che si è fin qui registrata appare avvalorata anche dagli studi di numismatica, che si
avvalgono a loro volta dei recenti scavi archeologici volti a valutare le condizioni economiche della Roma
altomedioevale e ad indagarne i canali di approvvigionamento. Nella prima metà dell’VIII secolo si
accentua, infatti, una regionalizzazione delle differenti valute che sempre meno transitano da un territorio
all’altro[1182]. Nel ducato di Roma, in particolare, si assiste ad un crescente utilizzo del
nome dei pontefici nella coniazione delle monete, occasionalmente dal 687 e stabilmente dal 740, anche se la
scomparsa del nome dell’imperatore avviene solo a partire dal 776 circa, subito dopo gli inizi del regno di
Leone IV[1183]. La
crescente differenziazione economica di Roma e Ravenna dal sud Italia è confermata anche
dall’impoverimento metallico delle monete del centro Italia rispetto a quelle costantinopolitane ed anche a
quelle emesse dalla zecca di Sicilia, poiché quelle di Roma e Ravenna diminuiscono progressivamente e
significativamente la quantità di oro presente nella lega del conio[1184].
Si deve, però, notare che il distacco amministrativo e canonico non implicava ancora, nella coscienza del
tempo, una rottura dell’unità dell’impero. Ne è prova, innanzitutto, la persistente
presenza di un esarca alle dipendenze dell’imperatore, nella persona di Eutichio[1185]. Ne è segno
ulteriore il costante sostegno fornito dalla sede apostolica agli iconoduli presenti nella capitale bizantina e
nelle diverse regioni dell’impero – e non si deve dimenticare, a riprova del persistente
universalismo nella mens dei protagonisti della vicenda politica e teologica, che sarà infine la
posizione di Roma a trionfare contro l’iconoclastia nella stessa Costantinopoli[1186].
Ne è prova indiretta, infine, il silenzio quasi assoluto del Liber su tali questioni:
dell’evoluzione economico-amministrativa appena descritta non si trova, infatti, alcuna esplicita menzione
nel Liber, con l’unica eccezione dell’annotazione della protesta fiscale di Gregorio II.
D’altro canto, deve essere rilevato che il redattore della vita di Gregorio III mostra di essere cosciente
di questi enormi cambiamenti - e non potrebbe essere diversamente - sebbene ne faccia menzione solo in forma
ellittica: egli, infatti, ripetutamente sottolinea che la Sicilia è ormai divenuta una terra ostile.
Nell’isola vengono arrestate tutte le missive inviate dalla sede apostolica a Costantinopoli, mentre i
latori delle stesse vengono imprigionati. Esplicita è la menzione della suprema autorità isolana,
Sergius patricius et stratigos insule Sicilie[1187], che interviene con il suo potere opponendosi ai messaggeri del pontefice
inviati all’imperatore per la questione iconoclasta: mai il Liber giunge ad affermare
esplicitamente, secondo il suo solito, che l’alto ufficiale agisce per esplicito mandato
dell’imperatore, ma è evidente che Leone III è il vero responsabile di ciò che avviene
e che, mentre il ducato e Ravenna gli si oppongono, la Sicilia ed i territori da lei dipendenti gli sono
pienamente sottomessi.
Perché, allora, eventi così decisivi vengono solo accennati indirettamente? I redattori, non
ignorando il taglio netto che l’imperatore imponeva al legame fra Roma ed il sud
d’Italia[1188]
ma descrivendolo solo obliquamente, sceglievano di relativizzarlo, evitando di presentarlo in un documento come
il Liber che aveva corso pubblico; evitavano così di sottolineare il cambiamento dinanzi a terze
autorità. Tutta l’attenzione veniva invece concentrata nel denunciare l’errore teologico,
nella speranza che, rimarginatasi la frattura iconoclasta, anche le altre questioni aperte sarebbero state
sanate.
È in questa direzione che deve essere interpretato il silenzio del Liber sulla nuova condizione
amministrativa e canonica del sud Italia. L’impero rompeva decisamente con Roma attraverso un’azione
a diversi livelli, intervenendo soprattutto sullo status amministrativo-economico ed ecclesiastico, mentre
la sede apostolica segnalava pubblicamente solo la frattura teologica. Lo scrinium pontificio presentava
così se stesso come intento a lavorare in vista di una ricostituzione dell’unità, invitando
l’imperatore al ravvedimento in campo ecclesiale.
Quest’unica lettura possibile degli eventi è avvalorata dalla considerazione della situazione
globale nella quale il pontefice si trovava ad agire: il redattore del Liber doveva essere conscio del
fatto che la sede apostolica si trovava, nello stesso tempo, a difendere sull’unica base della propria
autorità morale Ravenna, la Pentapoli ed i territori superstiti dell’esarcato dalla minaccia
longobarda. La notizia che la grave frattura con la politica della capitale non avveniva solo su questioni
teologiche in discussione, ma era ben più profonda poiché andava ad intaccare l’unità
amministrativa dei legami con l’impero, indeboliva l’immagine di Roma come rappresentante
dell’impero stesso. Lo stesso redattore, infatti, se da un lato non aveva alcun problema a manifestare la
risoluta opposizione romana all’iconoclastia, pur senza dichiarare l’esplicita scomunica
dell’imperatore, dall’altro aveva evidentemente remore a trattare delle gravissime misure canoniche
ed economiche subite dalla sede romana al tempo di Gregorio III, ben più gravi dell’aumento della
tassazione che il redattore della notizia di Gregorio II non aveva avuto problemi a riferire. Ed è proprio
la gravità delle nuove decisioni imperiali che il redattore non vuole sia ulteriormente divulgata,
preferendo comunicare l’impressione che i rapporti con Costantinopoli, pur se tesi, proseguono. La
reticenza del Liber è così dovuta anche all’esigenza di comunicare un’immagine
forte del legame fra la sede apostolica e l’impero da poter mettere sul tappeto a difesa
dell’esarcato.
A questo silenzio del Liber può essere imputato il rilievo relativo che è stato conferito a
questi eventi nella nascita della res publica di San Pietro, fino alla storiografia recente[1189]. Il lettore del
Liber, infatti, non venendo a conoscenza di questi eventi di importanza capitale nell’evoluzione
dell’esercizio dell’autorità nel centro Italia nella prima metà dell’VIII secolo,
perché essi sono taciuti, è portato a sottostimarne l’importanza ed a valorizzare solo
ciò che le biografie pontificie descrivono apertamente. L’indagine sulla progressiva indipendenza
del ducato di Roma chiede, invece, di essere inserita nella più ampia questione se la decisione di un
taglio netto non sia maturata a Costantinopoli prima che a Roma. Proprio lo sganciamento canonico del sud Italia
da Roma e dall’esarcato, mentre ancora Ravenna era città imperiale, mostra la risolutezza
dell’imperatore nel trarre le dovute conseguenze da una situazione che doveva a lui apparire come ormai
irreparabile, mentre forse a Roma si coltivavano residue speranze di una diversa evoluzione.
La reticenza del Liber ha impedito alla ricerca storica di cogliere pienamente l’enorme portato del
distacco definitivo del sud Italia da Roma: la secessione di quei territori ha come immediata e simmetrica
contropartita l’ammissione di una sostanziale indipendenza dell’urbe e dell’esarcato. In questa
prospettiva, la conseguenza più importante per la sede apostolica degli eventi della prima metà
dell’VIII secolo non deve essere individuata nella perdita economica subita: sembra ben più
rilevante, invece, il fatto che l’impero, con quella presa di posizione, si fosse ormai sganciato
consapevolmente da Roma, rinunciando all’idea di agire con determinatezza e senza risparmio di mezzi ed
energie nella provincia d’Italia[1190]. Le misure fiscali e canoniche non erano che la conseguenza di ciò
che si andava verificando a livello politico, nel difficile equilibrio internazionale di allora.
Il contesto storico vede così intrecciarsi lo scontro teologico iconoclasta, l’interposizione
longobarda fra i territori imperiali del centro e del sud Italia, le misure fiscali ed amministrative e lo
sganciamento canonico dall’obbedienza romana di Sicilia e Calabria. L’insieme di questi fatti appare
come un tornante decisivo nel crescere dell’autorità pontificia sul ducato romano: il pontefice
è sempre più l’effettiva autorità a cui ci si riferisce per gli eventi del centro
Italia, mentre egli è, al contempo, esonerato dal controllo del sud della penisola[1191].
Il fatto che questa svolta sia definitiva è facilmente verificabile nel fatto che il Liber non
tornerà più a riferire notizie che riguardino intromissioni economico-fiscali di Costantinopoli nei
territori circostanti l’urbe: il riferimento all’opposizione fiscale di Gregorio II è
l’ultimo ad essere registrato nelle biografie pontificie. Le due amministrazioni procederanno, da questo
momento, separatamente, anche se idealmente continueranno ancora a richiamarsi a vicenda e si appelleranno ancora
l’una all’altra.
In sintesi, si può allora affermare che il periodo che va dalla riconciliazione dell’esarca Eutichio
con il pontefice (nel 729) al decreto di Leone III che sancisce il distacco canonico delle diocesi del sud Italia
da Roma e sanziona la fine delle proprietà della sede apostolica in Sicilia e Calabria (732/733) è
il momento che segna il punto di non ritorno del processo[1192] che porterà all’effettiva indipendenza
della res publica di San Pietro: il ducato di Roma si caratterizza ormai come pienamente autonomo, da un
punto di vista amministrativo. Eppure questa autonomia romana, che è reale e definitiva, è ancora
pienamente inserita nella res publica guidata da Costantinopoli e non smette di riferirsi
all’unità ed alla universalità dell’impero romano stesso[1193].
Questo appare con evidenza dalle successive annotazioni del Liber ed, in particolare, dalla vita di
Zaccaria. Nella biografia di quest’ultimo, i riferimenti maggiori sono alla questione longobarda, che era
molto più pressante in quel frangente, mentre la descrizione dei rapporti con l’impero rimane
più nell’ombra[1194].
Solo verso la fine della biografia, dopo la lunga narrazione dei due viaggi sostenuti dal pontefice, per
incontrare il re longobardo prima a Terni e poi a Pavia, il Liber narra, in forma breve, della lotta di
Artavasde contro il figlio di Leone III, per l’usurpazione del trono, e della definitiva vittoria del
legittimo erede Costantino V, avvenuta nel 744. Neanche questi eventi spingono il redattore del Liber a
parlare del nuovo statuto canonico delle diocesi del sud Italia, dell’Illirico e dei Balcani. Il
Liber tace anche che, per un certo lasso di tempo, la sede apostolica aveva cominciato a datare, come si
è visto, i propri documenti a partire dal regno dell’usurpatore Artavasde. Tale datazione continua,
comunque, a manifestare come la cancelleria pontificia si presenti formalmente come dipendente
dall’amministrazione imperiale.
La descrizione della lotta intestina per il potere emerge nella redazione del Liber perché
collegata alla notizia dell’invio della synodica pontificia: con essa Zaccaria voleva sicuramente
informare Costantinopoli della avvenuta consacrazione papale ed, al contempo, invitarlo a recedere dalle
posizioni iconoclaste.
Il Liber, come si è visto, descrive come evento inatteso la scoperta da parte dei messi pontifici
della presenza di un usurpatore sul trono - et pergentibus apostolicae sedis responsalibus regiam urbem,
invenerunt intro palatium regiae potestatis invasorem quendam et rebellem, Artaustum nomine[1195] - mentre Roma, avendo
utilizzato il suo regno per la datazione dei propri documenti, era ovviamente al corrente del fatto.
Appare così evidente il desiderio del redattore di mostrare la fedeltà della sede apostolica al
legittimo sovrano che, al momento della redazione della vita di Zaccaria, doveva già aver riconquistato il
trono. Gli storici ipotizzano, comunque, che a quel momento non ci fosse più un apocrisario residente in
pianta stabile a Costantinopoli: l’assenza di un rappresentante ufficiale del pontefice presso la corte
imperiale viene datata a decorrere dall’insorgere della crisi iconoclasta e certamente a partire dal
distacco del sud Italia dal resto della provincia d’Italia[1196]. Il fatto, se provato, sottolineerebbe ulteriormente
la distanza che si andava creando fra Roma e Costantinopoli.
La notizia di Zaccaria conclude la descrizione del viaggio della delegazione pontificia nella capitale
utilizzando toni positivi, ma sorvolando completamente sia sulla questione iconoclasta sia su quella
canonico-amministrativa delle diocesi del sud Italia. Un evento in particolare viene messo in risalto, ad
indicare le buone relazioni intercorrenti fra Roma e l’imperatore: si ricorda il consenso
dell’imperatore, che nel frattempo aveva riconquistato il potere, alla richiesta pontificia di ottenere le
due massae Nimphas et Normias[1197], affermata con enfasi attraverso l’indicazione che la cessione
iuxta quod beatissimus pontifex postulaverat avveniva iuris existentes publici, eidem sanctissimo ac
beatissimo papae sanctaeque Romanae Ecclesiae iure perpetuo[1198]. Oltre alla realtà dell’avvenimento, la
redazione voleva evidentemente comunicare l’immagine di un’armonia regnante fra la sede apostolica e
la capitale dell’impero.
Ma è soprattutto l’intervento di Zaccaria a favore di Ravenna che mostra come la prospettiva della
sede apostolica continuò ad avere come riferimento il legame politico ed amministrativo con
Costantinopoli[1199].
L’unità territoriale dell’impero e la saldezza dei legami culturali sedimentatisi nei secoli,
pur nelle tensioni localistiche, sono le mete che Roma continuò a perseguire anche nella prima metà
dell’VIII secolo[1200]. E questa appartenenza ideale e storica all’impero fu anche il motivo
principale dell’avversione al progetto longobardo di un’unità della penisola sotto
l’egida di Pavia[1201].
La Capo ha giustamente sottolineato come l’azione della sede apostolica volta a conservare liberi dai
longobardi i territori del ducato romano e dell’intero esarcato non avesse come movente principale il
mantenimento di un orizzonte universale del papato, che era piuttosto garantito da ben altri presupposti e
rapporti, quanto l’attenzione ad una dimensione locale che privilegiava la continuità di una
tradizione culturale ed amministrativa e che garantiva l’identità stessa dei territori rimasti sotto
il governo imperiale al momento dell’invasione longobarda e delle successive conquiste[1202]. È a motivo del
radicamento storico nella comune appartenenza ideale e culturale all’impero dell’intero esarcato ed,
in particolare, di Roma e di Ravenna, che la sede apostolica, venutasi a trovare nella condizione di dover agire
in proprio per la debolezza imperiale, si schierò senza incertezza contro l’ipotesi di un governo
longobardo della penisola e cercò soluzioni alternative storicamente percorribili[1203].
La biografia di Zaccaria si chiude con un’ultima annotazione che mostra come la sede apostolica coltivasse
ancora l’idea della propria piena permanenza in ambito imperiale e si volesse collocare idealmente in
quella prospettiva: essa fornisce la notizia che lo stesso pontefice curò una traduzione in greco dei
Dialoghi di Gregorio Magno. Il redattore si compiace di indicare la finalità dell’opera di
Zaccaria: plures qui latinam ignorant lectionem per eorum inluminavit lectionum historiam[1204]. Evidentemente, mentre si
allentavano i legami politici ed economici con l’impero, era necessario far risaltare ancor più
l’orizzonte universale della prospettiva romana. L’annotazione manifesta chiaramente il desiderio che
Roma fosse percepita non come legata esclusivamente al mondo latino, bensì come costantemente rivolta
anche ad oriente. Si è già visto come, nello stesso senso, debba essere interpretata
l’espressione ricorrente toto in orbe terrarum[1205], che appare nella vita di Zaccaria: la sede
apostolica voleva mantenere una prospettiva universale e tale ampiezza di orizzonti era garantita, ancora, solo
dall’appartenere alla compagine imperiale.
E che tale orizzonte non fosse solo un’illusione, ma una persistente realtà, che neppure la rottura
amministrativa fu capace di infrangere totalmente, sarà provato dagli eventi successivi al periodo storico
in questione in questa tesi, quando ancora una volta Roma risulterà vincitrice dal punto di vista
teologico su Costantinopoli, come già era avvenuto al tempo della questione monotelita. Se i legami
politici tra le due città saranno sempre più deboli, pure la memoria di un’unità
ideale continuerà ad essere operante e a produrre effetti storicamente rilevanti[1206].
Le notizie sui rapporti della sede apostolica con l’esarcato di Ravenna illuminano ulteriormente
l’evoluzione dei rapporti con la sede imperiale.
Nella biografia di Gregorio II, più volte è descritta l’azione dell’esarca, ancora
pienamente inserito nell’orizzonte imperiale. Dietro l’azione del dux Basilius, del
chartularius Iordannes e del subdiaconus Iohannis, sostenuti anche dallo spatarius Marinus,
la redazione del Liber individua le trame del vero mandante, l’esarca Paolo: Paulus vero exarchus
inperatorum iussione eundem pontificem conabatur interficere[1207]. Anche una seconda volta - denuo[1208] - l’esarca si
mobilitò in tal senso. L’azione successiva, con l’intervento del dux Exhilaratus,
doveva avere nuovamente come protagonista lo stesso Paulus, se egli venne infine ucciso nella stessa
Ravenna nel prosieguo degli avvenimenti[1209]. Il nuovo esarca Eutychium, come si è visto, partendo
nuovamente da Napoli, si mosse per realizzare ciò che non era riuscito a Paolo – ut illud quod
facere nequiverunt perficeret ille[1210]. Fallita una prima volta la missione, per l’alleanza che aveva stretto
i romani ai ducati longobardi a difesa del pontefice, Eutichio tentò ulteriormente di ottenere il
risultato che gli era stato richiesto dall’imperatore unendosi, a sua volta, al re longobardo[1211] contro i due ducati di
Benevento e Spoleto e presentandosi con lui alle porte di Roma. Ma, una volta che Liutprando si piegò
all’obbedienza al papa, anch’egli dovette rinunciare ancora una volta ai suoi propositi, al punto che
fu lo stesso Gregorio II a sostenerlo nella lotta contro Tiberius Petasius che nelle campagne romane si
era proclamato imperatore[1212].
La successiva vita di Gregorio III lo ripresenta mentre, avendo l’imperatore ottenuto che la Sicilia
tramite lo stratigos Sergius si piegasse alla politica imperiale e si opponesse conseguentemente a
Roma[1213], offre,
invece, al pontefice columnas VI onichinas volutiles[1214], segno del suo definitivo passaggio
nell’orbita romana e della sua disobbedienza alla casa imperiale.
Si noti che, subito dopo l’obbedienza prestata da Liutprando al pontefice, nell’episodio della
rivolta di Tiberius Petasius, il Liber afferma: exarcho Roma morante[1215]: l’esarca continua,
cioè, ad avere una sua residenza - probabilmente nel palazzo imperiale sul Palatino - in Roma, della quale
è formalmente la massima autorità civile a rappresentare il potere imperiale, ma, in realtà,
egli ha cessato di essere il custode delle direttive di Costantinopoli.
È così evidente che i diversi tentativi di soppressione del pontefice da parte dell’esarca e
dei suoi collaboratori rappresentano, di fatto, l’ultimo intervento significativo da parte bizantina negli
eventi riguardante l’urbe ed i territori circostanti. Il fallimento del progetto di togliere dalla scena
Gregorio II segna la fine di ogni forma di controllo imperiale sulla città.
Nessun altro riferimento all’esarca troviamo nella vita di Gregorio III, anche se sotto il suo pontificato
Ravenna doveva essere già caduta una prima volta in mano longobarda, come si è visto, nel 732 o
più probabilmente nel 737-738[1216], evento che spiega ulteriormente la grande debolezza
dell’autorità esarcale che andava scomparendo con il tramontare dell’indipendenza della
città dal regno longobardo. In quella circostanza, fu Gregorio III ad inviare missive certamente
all’arcivescovo di Grado Antonino e, probabilmente anche al duca di Venezia Orso III[1217], come si è
già visto, perché venissero in soccorso dell’esarca Eutichio che doveva essersi rifugiato a
Venezia per riorganizzare le forze e cercare di riprendere Ravenna[1218].
Il Liber torna a parlare dell’esarca nel corso della biografia di Zaccaria quando il re Liutprando,
nel 743[1219],
riprese l’avanzata verso Ravenna, conquistando Cesena e preparandosi all’assedio della città
ravennate. Come si è visto, furono allora Eutychius excellentissimus patricius et exarchus una cum
Iohanne archiepiscopo ecclesiae Ravennatis atque universum populum praedicte civitatis et utrarumque Pentapolim
et Emilie ad inviare un’ambasceria al pontefice ut pro eorum curreret liberatione[1220]. È evidente che, se
il Liber si compiace che la richiesta di aiuto sia inviata al pontefice e non all’imperatore, questa
doveva, però, essere anche l’unica possibilità rimasta all’esarca ed
all’arcivescovo della città[1221]. Più volte il Liber aveva visto il pontefice ergersi a difesa
delle autorità esarcali, ma sempre quando esse si erano recate in Roma ed avevano incontrato
ostilità nell’urbe da parte del popolo romano o dell’exercitus. Ora Zaccaria era
chiamato all’estremo soccorso dell’esarca nella stessa città di Ravenna, lontano dalle mura di
Roma.
Zaccaria partì allora per intercedere presso il re per l’incolumità di Ravenna e della
Pentapoli. Più volte - si è già notato - il redattore utilizza la metafora del
pastore[1222] che
rischia la vita per salvare quae periturae erant oves. Infine, il pontefice ottenne che i longobardi si
ritirassero e ricevette personalmente dagli inviati del re la città di Cesena[1223].
Nel successivo attacco longobardo portato da Ratchis, deciso a conquistare civitatem Perusinam, sicut cetera
Pentapoleos oppida[1224] l’esarca non è più citato e nemmeno l’arcivescovo
ravennate, sebbene si tratti nuovamente di importanti capisaldi dell’esarcato: nella riuscita azione di
dissuasione del nuovo re longobardo, il Liber descrive solamente la risolutezza di Zaccaria
nell’affrontare la crisi.
Ravenna cadde lo stesso nel 751, per mano di Astolfo, e con lei finì l’esarcato e cessò la
presenza di un esarca nella provincia d’Italia, mentre correva il penultimo anno del pontificato di
Zaccaria. Eutichio deve essere considerato così l’ultimo esarca d’Italia[1225].
Questo evento è, però, taciuto dal biografo pontificio. L’evento dimostrava che, se per
l’impero non era stato più possibile difendere l’esarcato, nemmeno la sede apostolica con le
sue sole forze era più in grado di assicurarne l’intangibilità contro i longobardi.
Costantinopoli aveva governato Roma, politicamente ed amministrativamente, proprio tramite l’istituzione
dell’esarcato. Il legame con esso era divenuto sempre più formale, finché la sede apostolica,
nel pontificato di Zaccaria, aveva lei cercato di governare Ravenna, per sottrarla ai longobardi. Con la caduta
della città adriatica cessava ormai anche la dimensione formale del legame politico e amministrativo con
il quale l’impero controllava gli eventi dell’urbe.
Si è già notato, nel precedente capitolo, come i longobardi tornino ad essere nominati nel
Liber, dal quale erano assenti dai tempi di Sabiniano[1226], con il pontificato di Sergio I e poi con quelli dei
papi successivi. Non si assiste però mai, fino alla vita di Gregorio II, ad una ampia descrizione della
loro condizione e dei loro progetti, bensì si accenna solamente a singoli episodi che li vedono coinvolti.
Nelle biografie della prima metà dell’VIII secolo la loro presenza è, invece, massiccia. Il
costante riferimento alla loro ingombrante presenza nelle biografie dei pontefici da Gregorio II a Zaccaria
denota già, di per sé, la centralità del loro ruolo.
La vita di Gregorio II, nonostante contenga la descrizione degli attacchi longobardi prima contro Cuma, poi
contro Narni, Ravenna e Classe, poi ancora la spontanea consegna in mano longobarda di alcuni castra
dell’Emilia e della Pentapoli, poi la conquista di Sutri ed, infine, la discesa contro la stessa Roma del
re Liutprando, si apre con una notazione positiva riguardante la gens langobardorum, la conferma da parte
del re Liutprando della donazione delle Alpi Cozie - eo tempore Liutprandus rex donationem patrimonii Alpium
Cotziarum, quam Aripertus rex fecerat hicque repetierat, ammonitione tanti viri redditam
confirmavit[1227].
Ad essa fanno seguito le ripetute indicazioni delle incursioni longobarde volte ad acquisire territori
appartenenti all’impero, cui si è fatto cenno. Esse si indirizzavano su due principali direttrici:
quella di Ravenna e del porto di Classe includeva le restanti città dell’Emilia e della Pentapoli
mirando ad un progressivo, ma completo, assoggettamento dell’esarcato, mentre quella