Brani di difficile interpretazione della Bibbia XI, Gen 2, 16-17, “Dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti” (tpfs*)

di A.Plé


Il brano seguente è tratto dal volume di A. Plé, Per dovere o per piacere?, Gribaudi, Torino. Ci è stato suggerito da Carlo Ancona.


Il racconto che fa la Genesi del primo «peccato» sembra fondare la morale sulla sola obbedienza a Dio. Effettivamente tutto incomincia con una proibizione: «Tu puoi mangiare frutti di tutti gli alberi del Giardino. Ma dell'albero della scienza del bene e del male non ne mangerai, perché se ne mangiassi certamente moriresti » (Gen 2, 16-17)... esso significa che è riservato a Dio sapere (o decidere) ciò che è buono e ciò che è cattivo per l'uomo. Adamo ed Eva possono mangiare frutti di tutti gli alberi, compreso l'«albero della vita» (simbolo d'immortalità), ma è proibito loro, sotto pena di morte, di decidere a modo loro del bene e del male. Finché ascoltano ed osservano ciò, Adamo ed Eva vivono felici, in familiarità con Dio che passeggia nel giardino e parla con loro (Gen 3, 8). Ma sopravviene il «tentatore» e ciò che allora accade richiede una fine esegesi. Mi atterrò a quella di Dominique Barthélemy che mi sembra assai pertinente. Il serpente tentatore è il provocatore. Cerca di travisare l'idea o l'immagine che Adamo ed Eva si fanno di Dio. Invece di un padre amorevole, mira a farne un despota geloso della propria autorità. Il «tentatore» inizia il suo lavoro di falsario esagerando la proibizione di Dio: «Allora, Dio ha detto: voi non mangerete di nessun albero del giardino?» Ciò non è vero, ed Eva stessa corregge rispondendo al serpente: «noi possiamo mangiare i frutti degli alberi del giardino. Ma dei frutti dell'albero che è in mezzo al giardino, Dio ha detto: "Voi non ne mangerete, non ne toccherete, sotto pena di morte"» (v. 3). Ecco, Eva è già scossa. La proibizione divina incomincia a turbarla: riferendo ciò che Dio ha detto, essa vi apporta delle modifiche rivelatrici. Evita di nominare con il proprio nome l'albero della conoscenza del bene e del male e lo indica situandolo nel mezzo del giardino. Poiché è proibito, l'albero della scienza del bene e del male assume per lei una posizione centrale. La proibizione incomincia ad esercitare il suo fascino; Eva non vede più che quell'albero, là in mezzo, ed evita di pronunciarne il nome. Ma aggrava ancora ai propri occhi la gravità della proibizione: Dio ha proibito di mangiare di quell'albero: essa aggiunge che è anche proibito toccarlo. Diventa tabù. E' così perché sta già nascendo il desiderio di mangiarne: «La donna vide che l'albero era buono da mangiare e bello da vedere, ed anche desiderabile per acquistare saggezza» (v. 6). La proibizione accende il desiderio; è la spinta alla follia e all'ossessione. Dio appare allora come un'Autorità senza amore, preoccupata soprattutto di riservarsi uno dei privilegi della divinità. Non quello dell'immortalità - l'albero della vita non è proibito - ma, appunto, l'unico che sia proibito: quello della conoscenza del bene e del male. La tentazione è quindi di ordine morale, però mira ad un travisamento dell'immagine di Dio. Egli non è più, per Eva, un Padre buono con il quale si vive e che non fa paura. Diventa un autocrate geloso: «Ma no, non morirete affatto. Anzi, Dio sa che il giorno in cui ne mangerete, vi si apriranno gli occhi e sarete come degli dei che conoscono il bene ed il male» (v. 4 e 5). Dio li ha ingannati per salvare questo privilegio. Non si può più fare affidamento su questo Padre geloso. Bisogna liberarsi da questo giogo arbitrario. La conoscenza è immediata: appena Eva e Adamo hanno mangiato di quel frutto proibito, Dio appare loro come un giudice spietato, che vuole vendicare il tentativo di usurpazione dei suoi diritti. Bisogna nascondersi. Egli fa paura. «Allora i loro occhi si aprirono», continua il racconto del «peccato originale». E che cosa vedono? Il Bene e il Male di cui potranno essi stessi giudicare? No. «Si accorsero che erano nudi» (v. 7). Erano nudi anche prima della ribellione ma non ne avevano «vergogna» (Gen 2, 25). Ora, questa nudità riesce loro intollerabile: «Cucirono delle foglie di fico e si fecero dei perizomi». Cercano rifugio nel coprirsi: si nascondono agli sguardi dell'altro. Devono «sembrare» per nascondere l'essere che sono divenuti, o piuttosto ciò che hanno perduto del loro essere e di cui si trovano «denudati»; è questa «mancanza» che devono nascondere allo sguardo dell'altro, di se stessi e di Dio. «Darsi delle arie agli occhi degli altri ed anche di se stessi: per questo si ricopre il corpo con un'acconciatura», osserva D. Barthelémy, che spiega cosi il bisogno di rivestirsi, primo effetto del peccato originale: L'uomo è un essere che cerca di coprirsi assai più che di vestirsi. Cerca di recitare un personaggio, d'avere un'apparenza, d'avere un aspetto... d'angelo, e così la donna. Ma, per essere esatti, si tratta di un tentativo dell'uomo per aver l'aria di essere; di essere almeno agli occhi degli altri, se non riesce con sufficiente sicurezza ad essere ai propri occhi. Questo dà almeno una certa tranquillità: rendersi conto che si può sembrare attraente o amabile per un altro. Ciò aiuta anche a pensare che si potrebbe esserlo in realtà, e che dubitarne può essere esagerato pessimismo. «Se si pecca senza essere visti il male è solo la metà. Se si pecca essendo visti la cosa diventa drammatica», continua il nostro esegeta. Dopo questo « peccato originale» l'uomo si sente guardato, ossia giudicato. Lo sguardo dell'altro è il suo tormento. Ne ha paura, ma non può farne a meno. L'abito è un espediente che gli permette di mostrarsi nascondendosi. Ma lo sguardo di Dio attraversa l'abito e il nascondiglio: «Essi udirono il passo di Yahvé-Dio che passeggiava nel giardino al fresco del mattino e l'uomo e la donna si nascosero davanti a Yahvé-Dio tra gli alberi del giardino. Yahvé-Dio chiamò l'uomo: "Dove sei?", disse. "Ho udito il tuo passo nel giardino - egli rispose - ed ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto”» (vv. 8-10). «Ho avuto paura». Ed infatti Dio prende delle terribili sanzioni, la più grave delle quali è l'esclusione e il bando dal «Paradiso», l'interdizione della felicità. Da allora, l'immagine che l'uomo si foggia di Dio sfigura il volto di Dio e anche dell'uomo. Un abisso li separa. L'uomo ha paura di quel Giudice che lo spia incessantemente per condannarlo e condannarlo a morte. Lo sguardo di Dio è intollerabile. il grido d'angoscia di Giobbe è il grido stesso dell'umanità condannata a vedere in Dio un Giudice irraggiungibile e spietato:
Condannato alla morte, l'uomo è per di più «spiato» dal Giudice divino. Questa deformazione dell'immagine di Dio è la causa e l'effetto del peccato originale. D. Barthelémy condensa così la sua esegesi della Genesi: il dramma della caduta non può essere unicamente il fatto d'aver cercato di divenire Dio al posto di Dio. L'uomo si sarebbe reso conto che non vi sarebbe mai pervenuto, avrebbe cozzato contro questa impossibilità e sarebbe tornato indietro. Ma alla radice del suo comportamento vi è l'ignoranza di chi sia il Padre; e poi vi è una volontà di illudersi e di immaginare il Padre come un despota geloso, per giustificare la propria disperata ribellione. Ed è proprio questa caricatura dell'immagine di Dio che sarà più difficile estirpare dall'uomo.


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