Le religioni orientali (tpfs*)
Conferenza di padre Franco Cagnasso (PIME, Pontificio Istituto Missioni Estere)
pubblicata in Consacrazione e servizio (anno L 7-8 luglio/agosto)
Atti dell'Assemblea USMI 2001, Le religiose in un mondo dalle molte religioni, pp. 95-105

Pubblichiamo on-line, per i nostri lettori, una interessantissima conferenza di p.Franco Cagnasso sulle religioni orientali. La considerazione iniziale dell'autore è comprensibile a partire dal fatto che la tavola rotonda dell'Assemblea USMI 2001 prevedeva due interventi specifici, uno sull'ebraismo (del p.G.Cottier, O.P.) ed un secondo sull'islam (del p.M.Borrmans, p.b.), unificando, invece, tutte le religioni orientali nell'unico intervento che vi proponiamo. Ci è sembrato opportuno conservare tali riflessioni introduttive, perché segnalano un atteggiamento diffuso, ben più ampio del momento specifico in cui la conferenza è stata pronunciata, che viene ben analizzato da p.Cagnasso.

L'Areopago


E' impossibile offrire anche soltanto una sintesi schematica sulle spiritualità, le idee, le tradizioni, i riti, gli stili delle così dette Religioni orientali in 20 minuti. Esse sono praticate dagli sterminati popoli dell'India, della Cina, del Sud Est asiatico, del Giappone; hanno tradizioni millenarie molto diverse fra loro; si trovano in situazioni sociali, politiche ed economiche differenti. Mi propongo piuttosto di interrogarmi su alcuni modi di pensare e di percepire le Religioni orientali che sono diffusi nell'opinione pubblica occidentale. Non verifico se questi modi siano corretti, cioè se nascono da ciò che le religioni orientali sono, o da ciò che noi pensiamo che siano. Accetto come dato di fatto che esse siano viste in un certo modo, e faccio qualche commento. Il primo spunto mi viene offerto dalla stessa scelta operata dalle organizzatrici di questa Assemblea. Esse hanno riunito sotto l'unica voce "Religioni orientali" religioni varie e profondamente diverse come il Buddismo, l'Induismo, lo Scintoismo, il Confucianesimo. E' un errore? Una generalizzazione indebita? In un certo senso sì, tuttavia è una generalizzazione normalmente accettata, percepita come giusta, o almeno non del tutto arbitraria. Come mai? Perché storicamente queste religioni sono lontane da noi, molto più lontane dell'Ebraismo - di cui siamo figli e che ci è perciò vicinissimo - e dell'Islamismo. L'Europa, mentre ha avuto per secoli incontri, scontri e frizioni con i Musulmani, e ha conosciuto la presenza ininterrotta al suo interno di comunità ebraiche, con le "Religioni orientali" ha avuto invece contatti rari, sporadici. Erano viaggiatori, studiosi, commercianti, missionari che riferivano e narravano, spesso creando un clima favoloso e un senso di esoticità e di mistero. Solo l'epoca coloniale, relativamente recente, ha portato in Asia militari, commercianti, funzionari in numero più alto. E' infatti questa l'epoca in cui cresce l'interesse per le culture e le religioni asiatiche.
Le quali però, anche in epoca coloniale restano pur sempre molto lontane.

Queste religioni sono raccolte sotto il termine comune di "Religioni orientali" non solo per evidenti motivi geografici (cioè perché sono sorte ed esistono soprattutto in oriente), ma anche perché la distanza sfuma i confini, non permette di cogliere i particolari, toglie il senso della profondità, appiattisce e genera, di conseguenza, la sensazione che queste religioni abbiano qualcosa di molto comune. Sono spesso percepite come un tutt'uno affascinante benché lontano, irraggiungibile.

Non si tratta soltanto di una credenza popolare. Studiosi, storici, sociologi, filosofi si sono interrogati e s'interrogano su quanto vi sia o non vi sia di specifico e caratteristico in Oriente e in Occidente, sulle "anime" di questi due mondi.
Spesso si accetta una schematizzazione che risale ad un passato ormai lontano e che ha fatto breccia: l'Occidente è tecnologico, pragmatico, logico, aggressivo, spesso agnostico o ateo; l'Oriente è contemplativo, tollerante, intuitivo, passivo. L'Occidente fa, l'Oriente contempla; l'Occidente pensa, l'Oriente intuisce; l'Occidente divide e distingue, l'Oriente unisce e ingloba, anziché contrapporre compone…
Sembra esserci, fra questi due mondi (al loro interno complessi e diversificati… all'infinito) come un moto di attrattiva e di repulsione insieme, di ammirazione e di timore o sospetto.

Quanto siano vere queste descrizioni è difficile dirlo. Si potrebbe dibattere per ore. E' comunque evidente che si tratta di semplificazioni, e come tali da prendere con molta cautela. Allo stesso tempo, proprio perché semplici, sono facili da ritenere, incidono profondamente sul modo di pensare e di vedere.

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Con questo primo approccio, ho già indicato qualche elemento che può entrare in gioco nel rapporto fra Occidentali e Religioni d'Oriente.
Tutti sappiamo che l'Occidente sta attraversando un'epoca di smarrimento. Si corre freneticamente verso il nuovo, fino a teorizzare la necessità di lasciare del tutto da parte la storia, il passato, e perciò si guarda con sospetto anche alla religione organizzata, che viene dal passato.
D'altra parte, ci si interroga con paura sul futuro della modernità, della tecnologia, sugli stili di vita, sulla nostra capacità di manipolare la natura e l'uomo.
Ma spesso anche chi teme la folle corsa verso il futuro non si sente di appoggiarsi ad una religione organizzata. Si parla di "pensiero debole" che rifiuta la metafisica, la fede appare come impossibile, le religioni come complici di quegli errori che ci hanno condotto in un vicolo cieco. C'è chi confessa di invidiare i credenti eppure non riuscire ad imitarli, perché siamo nell'epoca del dubbio.

In queste condizioni, percepire - anche se indistintamente e confusamente - che da qualche parte, nel "lontano Oriente" persiste un modo di vivere del tutto diverso, guidato da criteri e valori che qui non ci sono mai stati o si sono smarriti, e che sono capaci di riportare a ritmi di vita più umani, a rapporti sociali più rispettosi, a una vita interiore pacificata, significa provare simpatia e desiderio per questo mondo lontano, significa sognarlo.

Ecco allora studiosi e viaggiatori del mondo anglosassone prima, poi i giovani del '68, che hanno preso la via dell'Oriente, seguiti, più recentemente, da altre categorie - in generale benestanti, rappresentate anche da attori famosi, qualche uomo o donna d'affari, sportivi…

Questa ricerca è spesso stata delusa. Non si saprà mai quanti sono letteralmente scomparsi in India, Tailandia e altri paesi d'Oriente. Nel 1978 il Console italiano a Bombay mi diceva che il lavoro principale del Consolato consisteva nel rimpatriare connazionali ridotti in miseria, derubati, rovinati dalla droga, squilibrati da pratiche strane nelle quali spesso avevano tentato di unire libertà sessuale e uso delle droghe con ricerca religiosa e pratiche ascetiche anche molto dure comandate da un maestro la cui voce era inappellabile. Persone fragili, per lo più, che si spezzavano del tutto a contatto con esperienze traumatiche.

Ma non è tutto qui. C'è chi ha abbracciato l'Induismo o il Buddismo, chi ha ritrovato Cristo e una fede cristiana viva, iniziando a viverla con intensità, chi è rimasto sostanzialmente com'era, agnostico, indaffarato, ma tiene nel cassetto un libro di yoga e ogni tanto si propone di riprenderne la pratica, e anche chi ha fatto una sua personale sintesi religiosa sincretistica.

L'attrattiva dell'Oriente, si è resa più concreta anche grazie alla presenza di Orientali che si sono trasferiti in Europa e in Nord America per proporre sistemi di meditazione, yoga, metodi di medicina alternativa, filosofie orientali. Spesso abbiamo assorbito mentalità e idee che ci arrivavano in realtà attraverso l'America, ricca di movimenti religiosi orientaleggianti in quanto ispirati all'Oriente oppure nati da orientali, ma poi profondamente rielaborati e rimaneggiati.
L'idea della reincarnazione non è più vista come una stranezza che si attribuiva a popoli antichi, ma è un diffuso modo di pensare, spesso un'istintiva alternativa ai dubbi sulla sopravvivenza dell'anima (paradiso e inferno) o sulla resurrezione dei corpi. Le pratiche yoga sono anch'esse diffuse in mille modi, con e senza significato religioso, addirittura come pura ginnastica, affiancata da molte altre pratiche che cercando di armonizzare corpo e spirito, vita interiore e salute fisica.

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Senza pretendere di suddividere le cose buone e quelle non buone fra le molte che vengono dalle Religioni orientali o dall'Oriente in genere, mi chiedo: che cosa spinge verso queste religioni o filosofie? Che cosa si cerca in esse? Spesso ci si rivolge verso Oriente come sbocco per un bisogno di personalizzare la propria ricerca religiosa. Si ha del cristianesimo una visione esteriore, superficiale e di massa.
Molti occidentali sono "vaccinati" contro il cristianesimo. La vaccinazione consiste nell'inoculare quel tanto di agenti patogeni che - senza danneggiare l'organismo - lo costringono a produrre gli anticorpi che lo difenderanno per sempre dalla malattia. Molti prendono dal catechismo e dalla sacramentalizzazione quel tanto che, senza cambiare la loro vita, li persuade di conoscere il cristianesimo e di non potervi trovare risposte alle loro esigenze. Così sono "immuni" dall'evangelizzazione. Tuttavia rimane un bisogno religioso inappagato, e allora ecco l'Oriente, con il fascino di un viaggio verso l'ignoto, dove si è soli a decidere, senza preti né l'obbligo di andare a Messa o di stare insieme alle riunioni, l'attrattiva di una profondità di cui si ha nostalgia. Stanchi, per ragioni più o meno valide, della loro blanda esperienza di vita cristiana, alcuni temono le risposte troppo sicure, le parole già udite, gli inviti morali già imparati e forse non seguiti. Vogliono sondare, provare, cercare senza dovere subito dire "sì" oppure "no", senza un immediato appello ad un impegno percepito come gravoso.

L'Oriente si presenta meno dogmatico, più duttile ed esperienziale. Ciò che attira non è un complesso dottrinale che si ritiene più vero del catechismo cristiano. Si conoscono forse elementi dottrinali sparsi che attirano perché sembrano meglio rispondere a certe sensibilità di oggi (come ad esempio il rispetto per la natura e la vita come si pensa praticato dall'Induismo e dal Buddismo, la non violenza, tolleranza, ecc.), ma soprattutto ci si sente attratti da una proposta di fare esperienza di ciò che un maestro ha fatto. Si impara a familiarizzarsi con il silenzio, con il proprio corpo, con la vita interiore e gradualmente, in parallelo, si acquisiscono le posizioni dottrinali che stanno alla base di queste esperienze. Prima si fa, poi si teorizza. Il Maestro appare autorevole e profondo, anziché autoritario e rigido come spesso appare il prete, disponibile e accogliente anziché indaffarato ed esigente. La comunità piccola, familiare, motivata, anziché anonima e fredda.

L'Oriente sembra particolarmente adatto ad una cultura come la nostra che ha paura della fede, e spesso la identifica con il fanatismo, il fondamentalismo, l'aggressività. Non propone una fede nell'Altro, ma un'esperienza per se stessi.
Si è polemizzato circa le opinioni espresse dal Papa nel suo libro "Varcare le soglie della speranza" a proposito del Buddismo. C'è chi ritiene che dire che il Buddismo è ateo sia offensivo. Non entro in merito alla specifica questione, ma è comunque innegabile che il Buddismo non ti dice che devi credere in Dio, tanto meno ti descrive il Dio in cui credere. L'anno scorso su un giornale indiano leggevo un dibattito fra lettori proprio a proposito della possibilità di essere buddisti pur avendo opinioni diverse circa l'esistenza di Dio e di una vita dopo la morte. Nessuno poneva in dubbio tale possibilità. Spesso ci si accosta all'Oriente fidandosi di un maestro che si presenta come rispettoso di qualsiasi posizione abbia il discepolo, che non vuole cambiare le sue convinzioni o toglierlo dai suoi dubbi, ma portarlo - così come è - a sperimentare la pace interiore, un rinnovamento "morbido". I figli della nostra società sempre più individualista si sentono attratti da una proposta che non fa aderire ad una comunità ma percorrere un cammino personale; che non propone dogmi ma esperienze; che non chiede di rinnegarsi ma di ritrovarsi, liberandosi dagli affanni e dal dolore.

Il cristianesimo appare a molti prima di tutto con le sue esigenze etiche. Addirittura, spesso si conoscono (male) soltanto alcune di esse: morale sessuale specialmente, e obblighi di pratica religiosa. Oppure, se si è più informati e addentro, si identifica la vita cristiana con l'impegno caritativo, sociale. Magari lo si ammira, ma se ne costata anche l'inadeguatezza a risolvere i problemi del mondo e della nostra società. A fronte di una religione volontaristica, si pone la proposta di qualcosa che impegna soltanto te, che ti accompagna gradualmente, che puoi lasciare se non ne sei convinto. Qualcosa che si propagherà impercettibilmente, senza rotture e conflitti, portando finalmente te alla pacificazione interiore, e poi la società e il mondo intero.
Il Budda raffigurato con un impercettibile sorriso, che promette distacco e calma interiore, o il "Budda che ride" come è raffigurato spesso in Cina, circondato da bimbi festosi che giocano su di lui sembra più attraente, più accostabile, più umano dell'Uomo sofferente sulla croce e del suo duro invito a seguirlo.

Torno a dire: si tratta di semplificazioni. Tra l'altro bisogna ricordare che ci sono non soltanto varie religioni in Oriente, molto diverse fra loro, ma che all'interno di ciascuna esistono varianti notevolissime e addirittura opposizioni fino a costituire quasi religioni in sé. Tre sono le vie principali nell'Induismo, ad esempio; e se la via della bhakti viene giudicata più vicina alla mentalità cristiana per il suo discorso sull'amore, quella dell'advaita può far comprendere meglio la trascendenza e quindi la non definibilità di Dio. Il Buddismo a sua volta si divide nei famosi "piccolo veicolo" e "grande veicolo", il primo più facilmente qualificabile come ateo o non teista, il secondo invece colmo di divinità e devozioni. Ma oltre a queste ci sono scuole, correnti, metodi diversi. In Occidente la presenza delle Religioni orientali riflette questa varietà e addirittura l'accresce, perché tutte, specie quando possono contare membri di origine e cultura occidentale, sono reinterpretate e riespresse, a volte con profondi mutamenti, all'interno di questa cultura e mentalità.

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Come situarci di fronte a queste realtà nuove, che solo pochi anni fa ci erano sconosciute o note soltanto per qualche lettura scolastica?
Non ho ricette. Credo però che un contatto, e anche un confronto sereno e aperto con esse possa essere ricchezza per entrambe le parti se sa cercare allo stesso tempo ciò che unisce, ciò che si può imparare, e ciò che è diverso, ciò che fa essere se stessi nella propria identità.
Non bisogna pretendere di uniformare tutto, di sentirsi bene solo se tutto è uguale, né sentire il bisogno di distinguersi e di eccellere a tutti i costi, come se il bene che trovo nell'altro fosse rubato a me.
Al Sinodo per l'Asia tenutosi in Vaticano nel 1998, è risuonato con insistenza l'appello dei Vescovi cattolici perché in Asia si annunci un cristianesimo che sia più una "via" verso la vita che non l'esposizione di una verità. Il maestro orientale sembra dire: "Io ho fatto così, se vuoi seguimi", anziché "si deve credere questo e fare così". L'accesso alla religione è progressivo e accompagnato.
Il cristianesimo, secondo i Vescovi che sono intervenuti, deve trovare un approccio analogo, che non è rinuncia alla verità nella sua interezza, ma introduzione progressiva e sperimentale ad essa, una pedagogia che tiene conto anche di un certo diverso ordine d'importanza delle cose da credere e da praticare. Occorrono apostoli che sappiano far percorrere un cammino, che rispettino tempi e situazioni diverse delle persone.
I Vescovi parlavano di un'esigenza dell'Asia, dando per scontato che per l'Occidente va bene un approccio più intellettuale e catechetico. "Ma è proprio così? - mi domandavo e mi domando - o non è forse l'accostarsi di molti occidentali alle religioni orientali un segno che anche qui si cerca un'evangelizzazione che parte dal cuore e dalla vita, dal rapporto personale e dal rispetto della libertà?". D'altra parte, la prassi catecumenale dei primi secoli era simile a quanto sembra essere esigenza di oggi: un'introduzione ad una vita nuova e ad una comunità, più che un'esposizione dottrinale. Il Nuovo Catechismo degli Adulti sembra richiedere gli stessi criteri, i quali però possono essere applicati solo se c'è un notevole cambiamento di mentalità, se si formano maestri e creano ambienti capaci di accompagnare questi cammini. Ci sono, anche da noi, ambienti che propongono tempi di preghiera, silenzio o servizi di carità in maniera che definirei "de-strutturata", così da permettere a chi li accosta di sperimentare, di percorrere comunque un pezzo di strada. Forse ne occorrono molti di più.

Ricordo un bel libro pubblicato anni fa da un missionario francese in Taiwan intitolato "La profondeur de Dieu" di Yves Raguin. Stimolato dal contatto con il Buddismo, l'Autore proponeva di fare esperienza di Dio anzitutto in se stesso, nella profondità della propria esistenza personale. Dopo di lui molti altri hanno ripreso e stanno riprendendo questo modo di accostarsi al Dio di Gesù Cristo, tuttavia resta dominante nella percezione cristiana l'idea di Dio come esterno a me, spesso è ancora visto soprattutto come un Giudice, un controllore che dall'alto verifica i comportamenti morali dell'uomo.
L'argomento andrebbe molto approfondito. La fede cristiana, vicinissima alle fedi ebraica e islamica, crede nella "alterità" di Dio, lo invoca come "Padre che sei nei cieli".
D'altra parte, essa presenta anche i temi affascinanti dell'unità profonda che - in Cristo - ci rende partecipi della vita trinitaria. Ci chiede di uscire per incontrare l'Altro, ma ci dice che questo Altro è "più intimo a me di me stesso" (S. Agostino). Non è forse S. Paolo a scrivere che la preghiera è il grido dello Spirito dentro di noi? A presentarci la vita di fede come una fusione sempre più intima tra il nostro spirito e lo Spirito di Cristo? Un Dio interiore all'uomo non è affatto estraneo alla tradizione dei mistici cristiani, come non lo è nemmeno a molte esperienze di religiosità semplice, popolare.
Il cristianesimo compone trascendenza e immanenza di Dio proprio nei suoi due misteri fondamentali: la Trinità e l'Incarnazione. Accolto nella sua completezza supera il rischio di sottolineare solo un aspetto, l'inaccessibilità di Dio o la sua confusione con il mondo e l'uomo, oppure la divinizzazione dell'io quando, rientrando in se stessi, non s'incontrasse altro che se stessi nella propria impermanenza avvolta dal buio fitto e silenzioso del nulla. Sembrano discorsi da specialisti in teologia o in mistica, invece possono essere vissuti e di fatto lo sono dal credente più semplice che accoglie il Vangelo con tutta la concretezza umana di Gesù che prende in braccio i bambini, piange per la morte di un amico, viene tentato dal demonio… eppure si proclama "Io sono".
Il Buddismo giunge su una soglia (o forse varca un confine) dove nulla e tutto sembrano avere lo stesso nome, dove l'io si ritrova completamente perdendosi.
Se è vero che il Vangelo ci insegna, e lo Spirito ci ispira, a chiamare Dio con il nome familiare di Padre, è anche vero che noi siamo chiamati ad avere un profondo rispetto di Colui che nessuno ha mai visto.
Lo smarrimento del credente di fronte alla maestà di Dio, al suo silenzio, lo stare a bocca chiusa davanti al suo mistero non sono esperienze estranee al cristianesimo!
Ci sono nomi diversi, certo anche contenuti diversi, ma risonanze simili, che possono permettere almeno in una certa misura di comprendere l'esperienza religiosa dell'altro e di apprezzarla.
Credere in Cristo e fare di lui il solo Maestro non significa negare automaticamente tutto quanto altri insegnano. Ci sono Buddisti convertiti al Cristianesimo che vedono la loro adesione a Cristo come il compimento pieno di ciò che cercavano e a cui non rinunciano. Cristo è Unico perché solo lui è salvezza, solo Lui è maestro nel senso che è criterio per ogni altra realtà. Tuttavia altre realtà esistono e hanno valore, come i santi che vanno imitati e venerati in riferimento a Cristo, ma non annullati o negati. Cristo è discriminante, specialmente con la sua croce che era ed è tuttora scandalo e follia. Non può non esserlo, però stiamo attenti che non diventi banalità o caricatura, come spesso avviene. In molti di quei cristiani "vaccinati" contro il cristianesimo di cui parlavo ci sono immagini e idee che identificano la vita cristiana solo con l'idea di sacrificio, disciplina, sofferenza. La croce per loro non è l'incredibile amore di Dio che si carica delle nostre pene per liberarcene, e che ci attira proprio perché così carica di amore e di speranza, ma è il castigo di un Dio terribile e incomprensibile.

Non possiamo dimenticare l'invito a "prendere la croce" per seguire il Maestro. Né possiamo cercare una via che ci anestetizzi contro la sofferenza e i turbamenti della vita. L'invio missionario di Gesù, come le beatitudini, sono bellissimi ma carichi di dramma, il dramma del rifiuto, delle lacrime, della persecuzione e della sconfitta.
Cristo porta la spada, e la sua pace non è quella che dà il mondo. E' una pace che è dono quando noi accettiamo di perdere la nostra vita nel suo nome piuttosto che salvarla ad ogni costo.
Allo stesso tempo però dobbiamo renderci conto che queste realtà possono diventare alienazione se non sono capite nella loro profondità, se sono poste sulle spalle senza che si insegni ad accostarci a Cristo "mite e umile di cuore" per avere ristoro e conforto. La nostra morale e la nostra dottrina appaiono a volte come un carico pesante, e la croce come una sofferenza in più, "inventata" da Dio per punirci. La croce invece non è condanna per chi non ce la fa, è salvezza anche per il ladro crocifisso che nella vita ha sbagliato tutto e fallito. Essa non è proprietà dei credenti o dei buoni, ma segno levato sulle nazioni, tutte, perché tutte in qualche modo possano essere raggiunte dal torrente salvifico del sangue di Cristo. Presentiamola dunque con coraggio, ma anche con estrema umiltà e concretezza. Umiltà, perché non è merito nostro e perché anche noi ne abbiamo paura, la fuggiamo tanto spesso. Concretezza, perché essa è la dolente "lettura" della realtà umana. Cristo innalzato sulla Croce raccoglie in sé la sofferenza del mondo, ci ricorda che questa è la sorte di ogni essere vivente a causa della sua condizione mortale e di peccato, del suo egoismo, dell'avarizia e della sete di potere. "Cristo non è salito sulla sua, ma sulla nostra croce" dice S. Ambrogio. Allora diventa più luminoso anche l'invito alla carità interiore e a quella attiva, dinamica. Non è detto che la forma di "carità organizzata" che caratterizza l'Occidente cristiano degli ultimi secoli sia l'unica né la migliore, anche se ha indubbiamente un grande valore. Tuttavia l'amore deve trovare forme per esprimersi, per essere concreto. Esso è la lotta "contro" la croce, nel senso che accetta la croce per combattere il male che corrode il mondo e che inchioda innumerevoli vite su innumerevoli croci. Così ha fatto Gesù, che ha accettato la morte per vincere la morte, non perché l'amava.
Il cristiano guarda con rispetto alle vie che conducono a personalizzare la ricerca religiosa, che guidano in un cammino di interiorizzazione, che cercano la pace e l'equilibrio interiore ed esteriore - cose tutte che possono rendere migliori. Non solo, ma ha tanto da imparare da queste vie. Prima di tutto ritrovando nella propria tradizione dimensioni perdute o trascurate eppure presenti e forti; e poi anche accogliendo metodi, stimoli, richiami ed esperienze che sono compatibili con il Vangelo. Stando attento a non cadere nella presunzione di salvarsi con la propria scienza e con la propria ascesi, pone su tutto la luce che la grazia gli dona. Luce di un Dio misterioso e invisibile che si apre a noi e si comunica come fragile bimbo, come appassionato predicatore del Padre, come Fratello che muore per potere attirare e abbracciare tutti traendoli dalle profondità oscure della sofferenza e del peccato che spesso appaiono invincibili.


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