«Una vera azione preventiva? Evitare la guerra». (tpfs*)
Intervista con l'arcivescovo Renato Raffaele Martino, nuovo presidente del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, di Gianni Cardinale, dalla rivista 30Giorni del febbraio 2003


Dopo sedici anni passati al Palazzo di Vetro di New York, l'arcivescovo Renato Raffaele Martino è stato chiamato a guidare il Pontificio Consiglio della giustizia e della pace. Dicastero che ha il compito primario di mirare a far sì che nel mondo siano promosse appunto la giustizia e la pace "secondo il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa". Succede, in questo incarico, a personalità prestigiose come il cardinale francese Roger Etchegaray e il compianto cardinale vietnamita François Xavier Nguyên Van Thuân.
Martino ha 70 anni. Originario di Salerno, è entrato nella diplomazia vaticana nel 1962 e ha lavorato nelle nunziature di Nicaragua, Filippine, Libano, Canada e Brasile. Tra il 1970 e il 1975 ha guidato il dipartimento per le organizzazioni internazionali della Segreteria di Stato. Nel 1980 viene promosso arcivescovo e pro-nunzio in Thailandia, delegato apostolico in Singapore, Malaysia, Laos e Brunei. Nel 1986 diventa osservatore permanente alla sede Onu di New York. È il terzo ecclesiastico a ricoprire questo incarico, dopo monsignor Alberto Giovannetti e l'arcivescovo, oggi cardinale, Giovanni Cheli.
Nominato l'1 ottobre e insediatosi i primi di dicembre dello scorso anno, l'arcivescovo Martino si è gettato subito a capofitto nel suo nuovo incarico. Ha presentato il messaggio papale per la Giornata mondiale della pace che si celebra ogni capodanno, ha concelebrato la messa solenne dell'1 gennaio nella Basilica vaticana e il giorno dopo è stato ricevuto in udienza privata da Giovanni Paolo II. Ha già compiuto degli interventi sulla situazione esplosiva del Venezuela e sul conflitto civile che sta vivendo la Costa d'Avorio. E soprattutto non ha fatto mancare la sua voce su quello che sta succedendo in Medio Oriente. Da qui parte l'intervista che il presule campano ha concesso a 30Giorni:

Eccellenza, come sta seguendo la Santa Sede l'evolversi della crisi irachena, con i venti di guerra che soffiano sempre più impetuosi su Baghdad?
RENATO RAFFAELE MARTINO: C'è grande apprensione. La guerra è distruzione, spargimento di sangue, miseria, espressione di odio. E non risolve niente. Ogni guerra è così. Anche quella annunciata contro l'Iraq.

Eppure un sondaggio condotto a dicembre dall'Università Lemoyne di Syracuse — Stato di New York — ha rivelato che i cattolici statunitensi sono in maggioranza favorevoli al conflitto.
MARTINO: Evidentemente si tratta di persone che non hanno mai visto la guerra. Ma se ci sarà l'attacco contro l'Iraq, le conseguenze toccheranno purtroppo anche il popolo americano. E se ne accorgeranno solo dopo, quando vedranno tornare a casa le bare dei propri cari. Perché non cercare di fare veramente di tutto per prevenire questa guerra? Una vera azione preventiva è cercare di non fare la guerra. Del resto la grande manifestazione svoltasi il 18 gennaio a Washington contro la guerra dimostra che anche negli Usa l'opinione pubblica si sta mobilitando e fa sentire la sua voce. Ho saputo che proprio in questi giorni [primi di febbraio, ndr ], nell'aeroporto militare di Sigonella sono stati scaricati 100mila sacchi per cadaveri e 6000 bare... Il New York Times poi ha pubblicato un'inserzione di due pagine con l'appello per la pace di intellettuali e artisti che è stato sottoscritto da 45mila persone.

A proposito di manifestazioni pacifiste. Negli ultimi tempi, anche da autorevoli commentatori, viene ripetutamente affermato che il Papa "è per la pace, ma non è un pacifista"…
MARTINO: Di per sé si tratta di una affermazione ovvia. Ma questo non vuol dire che il Papa non sia in sintonia con i tanti cattolici e uomini di buona volontà che manifestano pubblicamente per la pace. Anzi… ricevendo sette nuovi ambasciatori lo scorso 13 dicembre il Papa ha detto: "Volere la pace non è un segno di debolezza, bensì di forza".

C'è chi ha ipotizzato un suo viaggio, come inviato speciale del Papa, a Washington e Baghdad per scongiurare la guerra. Cosa c'è di vero?
MARTINO: Per ora non è previsto niente di tutto questo. Certo, se la situazione precipitasse, non è da escludere…

Per febbraio, l'ambasciata statunitense presso la Santa Sede ha organizzato un simposio per dimostrare che la cosiddetta "guerra preventiva" è giustificata dal punto di vista della dottrina cattolica. Crede sia possibile questa compatibilità?
MARTINO: No. Le espressioni usate dal Papa nei vari discorsi pronunciati tra dicembre e gennaio sono state chiarissime. Soprattutto in quello al corpo diplomatico del 13 gennaio. A questi discorsi si sono aggiunti interventi di autorevoli esponenti ed organi della Santa Sede che hanno pronunciato in modo univoco un secco no ad ogni ipotesi della cosiddetta "guerra preventiva". Penso alle dichiarazioni dei cardinali Angelo Sodano e Camillo Ruini, a quelle dell'arcivescovo Jean-Louis Tauran, alla Radio Vaticana, all' Osservatore Romano , alla stessa Civiltà Cattolica che ha dedicato ben due editoriali [quelli del 2 novembre 2002 e del 18 gennaio 2003, ndr ] a confutare in linea di principio la fondatezza morale e giuridica della cosiddetta "guerra preventiva". Ed è bene ricordare che tutti questi interventi non sono stati fatti a titolo personale, né poteva essere altrimenti. La "guerra preventiva" è una guerra di aggressione, non giustificabile dal punto di vista morale e del diritto internazionale. Per intervenire bisogna avere le prove e la guerra deve essere sempre l'ultima ratio , "nel rispetto di ben rigorose condizioni", come ha esplicitamente ricordato il Papa ai diplomatici il 13 gennaio. Continuava Giovanni Paolo II: "Né vanno trascurate le conseguenze che essa comporta per le popolazioni civili durante e dopo le operazioni militari".

Eppure si afferma che queste prove esistono.
MARTINO: Non c'è la dimostrazione chiara e lampante che l'Iraq sia tra i responsabili del terrorismo internazionale. Né che sia dotato di armi di distruzione di massa tali da costituire un pericolo imminente per l'umanità. Se ci sono prove serie in questo senso sarebbe bene che venissero prodotte. Come fece ai tempi di John Kennedy l'ambasciatore Usa presso l'Onu, Adlai Stevenson, quando rese pubblici ventisei fotogrammi che documentavano la presenza di missili sovietici a Cuba. Altrimenti affermazioni di questo genere hanno lo stesso valore di quelle contrarie. Gli ispettori dell'Onu in base alla risoluzione 1441 del Consiglio di Sicurezza sono là proprio per accertare l'eventuale presenza di armi di distruzione di massa, per distruggerle o renderle inoffensive.

Anche in occasione della guerra del Golfo del '91, la Santa Sede espresse la sua contrarietà. Quali sono le differenze tra allora e oggi?
MARTINO: All'epoca c'era stata l'invasione di uno Stato sovrano, il Kuwait, e almeno dal punto di vista del diritto internazionale poteva essere considerata giustificata. Oggi no. Credo che non si debba abbandonare un approccio multilaterale alla crisi irachena, come indicato chiaramente nella risoluzione 1441. Quando infatti a decidere non è solo uno Stato ma più governi, è più facile che le soluzioni adottate siano accurate ed eque.

Comunque dopo gli attacchi dell'11 settembre è necessaria una risposta da parte della comunità internazionale…
MARTINO: Certamente. Ma, come ha scritto La Civiltà Cattolica nel suo ultimo editoriale, gli strumenti più adatti a combattere il terrorismo sono la diplomazia e l' intelligence . E non la guerra. E poi bisogna sempre ricordare che per eliminare il fenomeno terribile del terrorismo non basta rendere inoffensivi i singoli terroristi. Bisogna anche che i Paesi ricchi si mettano una mano sulla coscienza e riconoscano quanta responsabilità hanno nei confronti di quelle società, i cui giovani vivono un presente terribile e non hanno una speranza ragionevole per un futuro più dignitoso, anzi sono senza futuro, tanto che per loro vivere o morire è la stessa cosa. Il vivaio del terrorismo si trova in quelle realtà in cui domina la povertà, dove le promesse non sono state mantenute. Penso soprattutto alla situazione permanentemente esplosiva che vive la Terra Santa. La delusione per le promesse non mantenute è grande e non sempre si risolve in rassegnazione… Del resto, quando i Paesi ricchi si atteggiano a donors , anche con le migliori intenzioni, a malapena con quel che donano pagano gli interessi sui debiti accumulati con centinaia di anni di sfruttamento di quelli rimasti poveri.

Alcuni analisti affermano che il terrorismo odierno sia il frutto del fanatismo religioso…
MARTINO: Assolutamente no. Allora dovremmo definire terroristi anche quanti uccidono i medici che procurano gli aborti volontari — e negli Stati Uniti ci sono stati casi di questo genere — col paradosso di poter accusare di filoterrorismo anche i semplici pro-life che non hanno commesso alcun delitto… Il fanatismo, il fondamentalismo si trovano dappertutto. Ma non hanno niente a che spartire con la vera religione, col Vangelo, con il Corano, con la Torah. Si tratta di aberrazioni, strumentalizzabili, che si possono trovare in ogni religione.

Quindi non condivide la teoria dello scontro tra civiltà del professor Samuel Huntington…
MARTINO: Il conflitto tra civiltà è possibile, ma come fatto culturale, non religioso. Bisogna distinguere bene le cose. Comunque per evitare questo scontro l'Onu promuove il dialogo tra le civiltà e lo ha fatto con una risoluzione proposta dall'Iran.

Prima di chiederle della sua esperienza al Palazzo di Vetro, un'ultima domanda riguardante il suo nuovo incarico. Lo scorso anno sembrava imminente la pubblicazione, da parte del dicastero che ora presiede, di un compendio della dottrina sociale della Chiesa. A che punto siamo?
MARTINO: Penso che ci sarà un ritardo, dovuto alla mia nomina. Ovviamente non posso firmare nulla che non abbia letto, studiato, corretto. Ci vorrà ancora un po'.

Pensa potrà essere pubblicato nel 2003?
MARTINO: Dipende dal tempo che potrò dedicarvi.

Eccellenza, come può descrivere, in sintesi, il ruolo della Santa Sede nell'Onu?
MARTINO: Bastano poche parole: difesa della vita, difesa della famiglia, difesa della libertà religiosa, azione incessante per la pace nel mondo.

Qual è il ricordo meno piacevole dei 16 anni passati a New York?
MARTINO: Il ricordo più sofferto fu quello legato alla Conferenza sulla popolazione e lo sviluppo svoltasi nel 1994 al Cairo, dove si ebbe uno scontro molto duro con diverse delegazioni, tra cui quella Usa, la quale spingeva affinché l'aborto fosse riconosciuto come un diritto universale. Uno degli esperti statunitensi, poi, l'ex senatore Tim Wirth, ebbe anche atteggiamenti arroganti e irrispettosi. E la mia non è una valutazione esclusivamente soggettiva. Basta leggersi, a riguardo, le memorie dell'allora ambasciatore Usa presso la Santa Sede, Raymond Flynn, pubblicate di recente.

Il ricordo più lieto?
MARTINO: È sempre legato alla Conferenza del Cairo perché alla fine, con l'appoggio di oltre quaranta delegazioni, riuscimmo a far passare nel documento finale il famoso articolo 8.25 in cui si stabilisce che l'aborto in nessun caso può essere considerato un metodo di pianificazione familiare. Un principio che ha resistito in questi nove anni, nonostante i circoli abortisti abbiano cercato di annullarlo nelle conferenze successive.

Comunque l'attività della Santa Sede non si è "limitata" ai temi riguardanti l'aborto e la contraccezione…
MARTINO: La difesa della vita non riguarda solo la giusta e sacrosanta lotta contro l'aborto. Un altro dei punti qualificanti della presenza della Santa Sede all'Onu è quello di promuovere il disarmo, di appoggiare i tentativi di ridurre il debito estero dei Paesi più poveri e ovviamente la promozione della pace.

Periodicamente hanno un certo risalto sulla stampa le richieste da parte di alcune Ong di espellere la Santa Sede dall'Onu. Si tratta solo di gesti goliardici?
MARTINO: Talleyrand diceva: "Calunnia, calunnia, qualcosa resta". I gruppi Ong non incidono sulla posizione degli Stati membri. Anzi. Il Congresso Usa, ma anche il Senato cileno e quello filippino, hanno approvato risoluzioni in favore della presenza e del ruolo della Santa Sede nell'Onu e sulla scena internazionale. Questi gruppi comunque hanno una loro pericolosità perché possono influenzare l'opinione pubblica godendo di cospicui finanziamenti da parte di grandi fondazioni. Bisogna stare quindi molto attenti…

La Santa Sede sta pensando di elevare il suo status a membro effettivo dell'Onu?
MARTINO: Vi ha accennato lo stesso cardinale segretario di Stato Angelo Sodano. La questione è allo studio. Attualmente la Santa Sede è l'unica realtà statuale ad avere lo status di osservatore, fino a pochi mesi fa c'era anche la Svizzera. Se vi sarà adesione piena, questa sarà ovviamente nel solco del magistero dei pontificati del secolo scorso. Pensi che lo stesso Benedetto XV era favorevole all'ingresso della Santa Sede nella Società delle Nazioni, ma all'epoca fu l'Italia ad opporsi a questa eventualità. La questione romana non era stata ancora risolta…

Lei ha conosciuto tre segretari generali dell'Onu. Può tracciarne un breve ricordo?
MARTINO: Il primo è stato Pérez de Cuéllar. Rammento che dopo aver avuto due mandati poteva ottenerne un terzo, e gli chiesi se avesse pensato a questa opportunità. Mi rispose: "È meglio chiudere in bellezza…". In effetti con lui l'Onu riuscì a riportare la pace in alcuni Paesi centroamericani, come il Guatemala, il Salvador e il Nicaragua.

Poi è stata la volta di Boutros-Ghali.
MARTINO: Ghali è sempre stato molto vicino alle posizioni della Santa Sede. Forse avrebbe meritato un secondo mandato. Ma, come è noto, non godeva più della fiducia degli Stati Uniti…

Infine Kofi Annan.
MARTINO: Persona squisitissima, che nonostante le difficoltà ha saputo finora affrontare positivamente i momenti di crisi in Iraq coagulando il multilateralismo e l'interdipendenza. La sua opera in questo senso è apprezzata da tutti. E poi è un vero credente e in particolare confida nell'efficacia della preghiera. A questo proposito vorrei raccontare un episodio illuminante.

Prego.
MARTINO: Erano i primi mesi del 1998, e anche allora spiravano venti di guerra verso l'Iraq. Gli ispettori sarebbero andati via, non cacciati, su iniziativa del loro capo, il signor Richard Butler. Ricordo che un sabato mattina ricevetti una telefonata del cardinale Sodano, il quale mi manifestava la preoccupazione del Papa per la situazione e mi chiedeva di contattare Annan per incoraggiarlo, a suo nome, a recarsi a Baghdad. Tutti ritenevano infatti che un viaggio del genere avrebbe fatto rientrare la crisi. Il giorno dopo, domenica, era in programma la messa del compianto cardinale O'Connor, l'allora arcivescovo di New York, per la celebrazione della Giornata della pace, alla quale avrebbe partecipato anche Annan. Approfittai dell'occasione per comunicargli oralmente il messaggio del Pontefice. Mi rispose che al momento non c'erano le condizioni per andare a Baghdad, mancando il consenso nel Consiglio di sicurezza, ma aggiunse che, siccome era il Papa a chiederlo, avrebbe fatto un ulteriore tentativo. Il mercoledì seguente, a sorpresa, Annan mi telefonò, e mi disse: "Domani parto, però chieda al Santo Padre di pregare per questa mia missione". Annan si recò a Baghdad, parlò con Saddam — senza arroganza — e la crisi rientrò. Ma il fatto più commovente fu che all'uscita di quel colloquio decisivo, Annan disse pubblicamente: "Non bisogna sottovalutare il valore della preghiera". E la stessa frase la ripetè giorni dopo al Palazzo di Vetro.

Cosa le ha detto Annan prima di lasciarla partire per Roma?
MARTINO: Mi ha salutato con questa parole: "Quanto mi dispiace che parta, perché quando vedo lei mi rassicuro, in quanto so che è una persona che prega per me".

E lei cosa ha risposto?
MARTINO: L'ho rassicurato: "Non si preoccupi, continuerò a pregare per lei. E anche il mio successore, Celestino Migliore, lo farà".


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