Brani di difficile interpretazione della Bibbia XIII, Ef 5,21-33, “Le mogli devono essere sottomesse ai loro mariti in tutto... Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!” (tpfs*)

di M.Zerwick s.j.

Il brano seguente è tratto dal volume di M.Zerwick s.j., Lettera agli Efesini, Città Nuova, Roma, 1971. Restiamo a disposizione per l'immediata rimozione se la sua messa a disposizione on-line sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

L'Areopago


21 Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo.
 
E' sorprendente quanto significativo che questa esortazione (nel greco “sottomettendovi”) concluda grammaticalmente la sezione precedente, che così si strutturava: “siate ripieni di Spirito Santo... intrattenetevi tra di voi... cantando... ringraziando...”. Dunque, è come per chiudere sulla stessa linea di pensiero, che si aggiunge: “sottoponendovi vicendevolmente”. E però quest'ultima espressione diventa ad un tempo il titolo di ciò che segue. Ebbene, inavvertitamente si passa dalle funzioni religiose alla vita quotidiana della famiglia. Paolo non avrebbe potuto esprimere con maggiore efficacia e chiarezza quanto egli, quasi spontaneamente, presuppone: che cioè la vita cristiana è indivisibile, che non ci possono essere due campi distinti, chiesa e casa, domenica e giorni feriali, liturgia e vita. I due campi appartengono l'un l'altro e devono scambievolmente compenetrarsi: dal culto divino nasce per la vita quotidiana una comprensione sempre nuova della volontà di Dio, e con essa anche la forza di compierla; e viceversa, la vita vissuta di ogni giorno, gioie e dolori, successi e insuccessi, speranze e preoccupazioni, è ciò che il cristiano porta con sé quando si presenta a Dio nella liturgia assieme ai fratelli. Nell'epistola ai Colossesi c'è un brano parallelo al nostro dal significato analogo, cosicché i due testi si confermano e si illuminano a vicenda. In tal passo, la menzione della gratitudine fa parlar l'apostolo dell'incontro della comunità dove quest'atteggiamento cristiano si esprime in modo particolare: “Istruitevi e ammonitevi gli uni gli altri in ogni sapienza. Mossi dalla grazia, cantate a Dio nei vostri cuori con salmi, inni, cantici la vostra riconoscenza”. Nello stesso passo, e con chiarezza ancor maggiore, il pensiero sfocia in tutta l'ampiezza e la larghezza della vita quotidiana: “E qualsiasi cosa facciate, in parole e opere, fate tutto nel nome del Signore Gesù, rendendo grazie per mezzo di lui a Dio Padre” (3,16 ss.). Di nuovo, dunque, la significativa immediatezza con cui l'apostolo passa dal culto alla vita, e dalla vita al culto. Secondo Paolo, la famiglia cristiana è basata sulla giusta subordinazione dei suoi membri. Questo – è vero – vale per ogni altra famiglia che sia ordinata; ma l'aspetto cristiano è che la subordinazione, richiesta già dalla natura, viene ormai attuata “nel timore di Cristo”, cioè in santo rispetto davanti a Cristo il Signore. Questo conferisce una nuova consacrazione a tutta la vita; questo rende facile la subordinazione, che altrimenti è pesante per l'uomo; questo concilia la subordinazione con la dignità della persona, e dà fondamento solido al giusto ordine anche là dove le insufficienze di chi è alla guida metterebbero in pericolo l'ordine stesso.

( 21 Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo),
22 le donne ai loro mariti come al Signore, 23 perché è l'uomo il capo della donna, come anche Cristo è il capo della Chiesa, egli il salvatore del suo corpo. 24 Dunque, come la Chiesa è soggetta a Cristo, così devono esserlo le mogli ai loro mariti in tutto.

Le donne devono essere sottomesse ai loro uomini come al Signore. Nella nostra lingua, il “come” ha un valore piuttosto comparativo; un valore causale l'avrebbe un “in quanto al Signore”. La parola greca, invece, assomma in sé i due significati ed ha qui soprattutto il valore causale, è l'applicazione dell'affermazione precedente “nel timore di Cristo”.
“Perché è l'uomo il capo della donna, come anche Cristo è il capo della Chiesa, egli il salvatore del suo corpo”. Il matrimonio è dunque chiamato a riprodurre il rapporto di Cristo con la sua Chiesa, e come Cristo è il capo della Chiesa, tale deve essere l'uomo per la donna. La parola “capo” esprime soprattutto la posizione di signore e padrone: naturalmente Cristo, come capo della Chiesa, è per lei molto di più di ciò, è fonte della sua vita, motivo e fine della sua crescita - ciò che non può certo dirsi dell'uomo nei confronti della donna. Fin dal principio Paolo vuol togliere ogni duro autoritarismo dalla posizione di comando dell'uomo, ed escludere ogni possibile inflessibilità o abuso egoistico. Ecco perché aggiunge la frase, qui piuttosto sorprendente, “Cristo, il salvatore del suo corpo”: la posizione di comando dell'uomo deve essere tutta indirizzata alla “salvezza” della moglie, come fa Cristo nei confronti della Chiesa. Così vede Paolo il rapporto dalla parte dell'uomo; ripete poi lo stesso pensiero visto dalla parte della donna: “Come la Chiesa è soggetta a Cristo, così devono esserlo le mogli ai loro mariti in tutto”. Formulando il principio sotto i due aspetti, viene escluso senz'altro ogni malinteso: all'uomo l'apostolo assegna la parte direttiva e di guida del matrimonio, alla donna quella subordinata; e ciò vale “in tutto”, cioè nello svolgersi di tutta la vita. La novità sta nella visione religiosa: le due parti vengono esortate a vivere nell'ordine detto, partendo dalla fede: dall'esempio di Cristo, l'uomo deve dedurre che la sua funzione direttiva è un condurre alla salvezza; e la donna deve esercitare l'obbedienza, la sottomissione, come un servizio, prestato a Cristo stesso. In tutto ciò possiamo scorgere una verità cristiana di valore perenne: la vita in comune nel matrimonio viene pensata religiosamente come frutto della fede e della vita di grazia. Ma l'immagine dei rapporti tra gli sposi che Paolo aveva davanti a sé; era quella del suo tempo, con la posizione di inferiorità di solito assegnata dal mondo antico alla donna. Proprio allora, cominciava appena a farsi strada una valutazione diversa della donna, che almeno nei principi la equiparava all'uomo. Nel pensiero di Gesù le cose si presentavano chiare: già dal tempo della creazione uomo e donna sono perfettamente uguali nella loro essenza e nel loro valore; ma il suo insegnamento non era ancora penetrato nella vita pratica al tempo degli apostoli. Che Paolo stesso, però, si trovi sulla linea di questo pensiero, lo mostrano le righe seguenti.

25 Voi, uomini, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e per essa ha dato se stesso,26 per santificarla purificandola con lavacro dell'acqua nella parola 27 per farsela comparire innanzi, la Chiesa, gloriosa, senza macchia né ruga né alcunché di simile, perché invece sia santa e irreprensibile.
 
Come Paolo ha fatto solo una raccomandazione alle donne, “siate sottomesse”, così pure per gli uomini ha una sola esortazione fondamentale che racchiude in sé tutto il resto: “amate le vostre mogli”. E di nuovo il modello è Cristo: “come anche Cristo ha amato la Chiesa e per essa ha dato se stesso”. Ma anche questo “come” ha probabilmente più di un semplice valore comparativo: l'agire di Cristo per la sua Chiesa deve essere anche il fondamento, la sorgente, dell'agire dell'uomo per la moglie: siccome Cristo ha sacrificato se stesso per amore della sua Chiesa - e il matrimonio è visto come rappresentazione del rapporto di Cristo con la Chiesa - per questo gli uomini devono amare le loro mogli, e mettere in atto l'amore anche da parte loro con dedizione pronta al sacrificio. Di solito come fine del sacrificio di Cristo sulla croce si indica la redenzione dal potere delle tenebre, la liberazione dal giudizio dell'ira di Dio, in breve, la remissione dei peccati (Gal 1,4). Qui, invece, viene accentuato fortemente il lato positivo di quest'opera redentiva, la santificazione, e precisamente non tanto la santificazione del singolo, ma piuttosto la santificazione della Chiesa nel suo insieme: essa avviene tramite il battesimo di membra sempre nuove, il che è allo stesso tempo purificazione e santificazione. L'espressione “lavacro dell'acqua nella parola” è probabilmente ciò che la teologia intende con “sacramento”: una “materia”, il lavacro dell'acqua, a cui si aggiunge, come “forma” che le dà significato, la parola, cioè la “formula battesimale”. “Nella parola” è un'espressione linguistica semitica che ha il valore di “insieme con”, “accompagnata da”.
La santificazione trova poi una descrizione figurata: sulla croce Cristo ha offerto se stesso per la Chiesa, “per presentarla gloriosa innanzi a sé”. La parola “presentare” può essere compresa e tradotta quasi come espressione tecnica per il “condurre” a nozze la sposa; in questo senso Paolo la riferisce anche a se stesso dove si attribuisce la qualità di “accompagnatore alle nozze”, in quanto a Cristo conduce come una casta vergine “la Chiesa di Corinto” (2 Cor 11,12). Che un tal “presentare” presupponga un plasmare, un formare, un far bello e perfetto, risulta chiaro per esempio dal modo in cui Paolo nella lettera ai Colossesi parla del suo lavoro apostolico: esso è un “rendere ogni uomo perfetto in Cristo” (1,28). Nel nostro passo, però, viene messo in evidenza che è Cristo ad accompagnare la propria sposa, è “lui stesso” a condurre sposa “a se stesso” la Chiesa, tutta gloriosa: è lui che si prepara la sposa, e fa sì che essa sia “senza macchia, né ruga, né alcunché di simile, che sia invece santa e irreprensibile”.
Ma in che senso la Chiesa è effettivamente così gloriosa e pura, così immacolata e fresca di giovinezza? Si pensa forse allo stato ultimo, alla Chiesa della fine dei tempi, tutta pura per le nozze eterne con l'Agnello? Niente affatto; nella misura in cui è il capolavoro del suo sposo, la Chiesa è già ora gloriosa e immacolata; e ciò che un giorno si renderà manifesto è proprio questa bellezza, che, pur essendo ora nascosta, già le appartiene. E ancora: Paolo pensa alla Chiesa come essa emerge permanentemente dal battesimo, nuova, splendida e pura. L'apostolo non vuol parlare ora di come essa si realizza a causa della debolezza degli uomini, perché quel che gli sta a cuore è l'intenzione della donazione di sé e dell'amore a Cristo.

28 Così anche i mariti devono amare le loro mogli come il loro proprio corpo. Chi ama la sua donna ama se stesso. Nessuno odiò mai la propria carne; anzi ciascuno la nutre e ne prende cura come Cristo fa per la Chiesa, 30 poiché noi siamo membra del suo corpo.
 
“Così anche i mariti devono amare le loro mogli come il loro proprio corpo”. Il pensiero non è proprio nuovo: dell'agire esemplare di Cristo, si ripropone solo un aspetto di cui si è già parlato brevemente poco fa, lì dove si afferma che Cristo è il “salvatore del suo corpo”. Lì appunto si staglia già con chiarezza il pensiero dell'amore che il capo ha per il proprio corpo; e questo vale ora anche per i mariti: “chi ama sua moglie, ama se stesso”. Un tal pensiero offre a Paolo un motivo potentemente persuasivo per l'amore del marito verso sua moglie: un motivo che, per quanto concisamente indicato, invita tuttavia a meditarlo e ad applicarlo fin nei minimi particolari. “Nessuno odiò mai la propria carne; anzi la nutre e ne prende cura come Cristo fa per la Chiesa”. Non è certo necessario prendere il verbo “odiare” nel duro significato che ha la parola nella nostra lingua: nella lingua semitica, infatti, già “odia” chi ama qualcuno meno di un altro. Naturalmente, tanto più “odia” chi non ama per niente, chi trascura qualcun altro che dovrebbe amare o lo tratta con freddezza e indifferenza; solo questo caso estremo è espresso dal nostro “odiare”: una vera e propria avversione che giunge a desiderare per l'altro il male. Dunque, non ci vorrebbe altro, davvero, se non che ogni marito si prendesse cura della moglie così come ciascuno ha cura del “proprio corpo”, cioè del proprio benessere fisico, della propria salute, ed evita con premura ogni dolore, medica con attenzione ogni ferita, toglie di mezzo ogni disagio. E di nuovo è Cristo il modello di questo custodire e curare il “proprio corpo” (che nel caso di Gesù è la Chiesa). Per la terza volta risuona insistente: “come anche Cristo”, con la motivazione “poiché anche Cristo...” A che cosa pensi Paolo con questo “nutrire e prendersi cura”, si può trovare nel versetto 4,16. “L'intero corpo viene tenuto unito da lui...”: in ogni atto di carità che unisce e che aiuta è lui all'opera, intento soltanto a far sì che in ogni cosa questo corpo cresca e maturi nella carità. Dal momento che si parla anche di “nutrire”, non è possibile che resti troppo lontano il pensiero di Cristo che nutre il “proprio corpo” con se stesso, con la sua carne e il suo sangue eucaristico - questa espressione visibile e tangibile di quell'unica linfa vitale che scorre in tutti noi, “poiché siamo membra del suo corpo”.
 
31 “Per questo l'uomo lascerà il padre e la madre e si unirà alla sua donna, e i due saranno una sola carne”.32 Questo mistero è grande; ma io lo dico riferendomi a Cristo e alla Chiesa. Comunque anche ognuno di voi ami sua moglie come se stesso e la moglie rispetti il marito.

Senza una formula introduttiva, come Paolo fa invece di solito quando riferisce un testo della Sacra Scrittura, si cita immediatamente il passo del Genesi: “Per questo l'uomo lascerà il padre e la madre...” (Gen 2,24). Dinanzi a questo passo, si è soliti pensare prima di tutto al matrimonio naturale. Non così Paolo; egli vede qui espresso un profondo mistero (“questo mistero è grande”) e spiega perché lo trova grande: “Dico però (che è grande) considerando Cristo e la Chiesa”. Il che equivale a dire: io intendo questa parola di Dio come riferentesi a Cristo e alla Chiesa. A dire il vero la frase si riferisce direttamente alla prima coppia umana; Adamo è però per Paolo tipo del Cristo, il secondo Adamo, e ciò che vale per il primo Adamo deve trovare nel secondo la sua elevazione e il suo compimento. Così dunque, secondo Paolo, il passo del Genesi intende veramente Cristo e il suo matrimonio con la Chiesa, il che è perciò davvero un “grande mistero”.
Il nostro testo parla con certezza anche del matrimonio umano, ma di ciò in quanto è interiormente dipendente dal matrimonio fondamentale di Cristo con la sua Chiesa, e, come reale partecipazione, essenzialmente riferito ad esso. Certo, se deve esser di questo veramente partecipazione, allora il matrimonio umano è più di una semplice copia, allora nel matrimonio che avviene fra membra di Cristo deve verificarsi qualcosa dell'unione di Cristo con la sua Chiesa, un'unione dispensatrice di vita. Così il matrimonio viene introdotto, non solo per similitudine, ma per partecipazione in ciò che Paolo chiama il grande mistero fondamentale: Cristo, lo sposo, che forma un sol corpo con la Chiesa, sua sposa. E' qui ciò che ci fa capire il matrimonio come mezzo di grazia, e quindi come sacramento.
Da questo profondo sguardo nel mistero del matrimonio cristiano - poiché in fin dei conti è solo ad esso che si guarda - Paolo ritorna e conclude la sua iniziale e principale raccomandazione per gli sposi. Dopo tutto ciò che ha preceduto, ci si aspetterebbe l'esortazione finale introdotta da un “perciò” o un “dunque” per essere presentata come risultato o conclusione. L'apostolo, invece, introduce la frase finale con un inatteso “comunque”. Si ha così, in certo modo, un distacco da ciò che precede, quasi Paolo voglia dire: che ora abbiate capito o no, la cosa principale è che voi facciate ciò che è giusto. “In ogni caso, anche ognuno di voi deve amare sua moglie come se stesso; e la moglie deve rispettare il marito”.
 
Per arricchire ulteriormente la riflessione sul senso del testo di Ef 5, 21-33, trascriviamo le parole di p. Raniero Cantalamessa in Amare la chiesa. Meditazioni sulla Lettera agli Efesini, Milano, Ancora, 2003, pp. 92-97:

Leggendo con occhi moderni le parole di Paolo, una difficoltà balza subito agli occhi. Paolo raccomanda al marito di “amare” la propria moglie (e questo ci sta bene), ma poi raccomanda alla moglie di essere “sottomessa” al marito e questo, in una società fortemente (e giustamente) consapevole della parità dei sessi, sembra inaccettabile. Infatti è vero. Su questo punto san Paolo è, in parte almeno, condizionato dalla mentalità del suo tempo. Tuttavia la soluzione non sta nell'eliminare dai rapporta tra marito e moglie la parola “sottomissione”, ma semmai nel renderla reciproca, come reciproco deve essere anche l'amore. In altre parole, non solo il marito deve amare la moglie, ma anche la moglie il marito; non solo la moglie deve essere sottomessa al marito, ma anche il marito alla moglie. Amore reciproco e sottomissione reciproca. Ma, a guardare bene, è proprio l'esortazione con cui comincia il nostro testo: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo”. La sottomissione non è allora che un aspetto e un'esigenza dell'amore. Per chi ama, sottomettersi all'oggetto del proprio amore non umilia, ma rende anzi felici. Sottomettersi significa, in questo caso, tener conto della volontà del coniuge, del suo parere e della sua sensibilità; dialogare, non decidere da solo; saper a volte rinunciare al proprio punto di vista. Insomma, ricordarsi che si è diventati “coniugi”, cioè, alla lettera, persone che sono sotto “lo stesso giogo” liberamente accolto. San Giovanni Crisostomo sa trarre delle conseguenze molto belle dal confronto tra il matrimonio umano e quello tra Cristo e la Chiesa. Rivolgendosi ai mariti dice:

”Vuoi che la tua sposa ti ubbidisca come la Chiesa a Cristo? Abbi cura anche tu di lei, come Cristo della Chiesa... Come il Cristo non con minacce né con sevizie né incutendo timore né in alcun modo simile, bensì con la sua grande sollecitudine portò ai suoi piedi colei che gli volgeva le spalle..., così comportati anche tu verso tua moglie... Uno, con il timore, potrebbe legare a sé un domestico, ma la consorte della propria vita, la madre dei propri figli, colei in cui si ha tutta la propria felicità, non la si deve legare a sé con il timore e le minacce, bensì con l'amore e l'intimo affetto. Che matrimonio sarebbe infatti quello in cui la moglie tremasse davanti al marito? E di che piacere potrebbe godere il marito coabitando con la sua sposa come con una schiava e non con una donna libera?” [1]

Per comprendere la bellezza e la dignità del rapporto di coppia, dobbiamo risalire alla Bibbia. E' scritto: “Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” (Gn 1,27). Viene stabilito, come si vede, un rapporto stretto tra l'essere creati “a immagine di Dio” e il fatto di essere “maschio e femmina”. Ma che rapporto ci può essere tra le due cose? In che senso l'essere maschio e femmina - la coppia umana – è un'immagine di Dio? Dio non è né maschio né femmina!
La somiglianza consiste in questo. Dio è unico e solo, ma non è solitario. L'amore esige comunione, scambio interpersonale; richiede che ci siano un “io” e un “tu”. Per questo il Dio cristiano è uno e trino. In lui coesistono unità e distinzione: unità di natura, di volere, di intenti, e distinzione di caratteristiche e di persone. Proprio in questo la coppia umana è immagine di Dio. La famiglia umana è un riflesso della Trinità. Marito e moglie sono infatti una carne sola, un cuore solo, un'anima sola, pur nella diversità di sesso e di personalità. Nella coppia si riconciliano tra loro unità e diversità. Gli sposi stanno di fronte, l'uno all'altro, come un “io” e un “tu” e stanno di fronte a tutto il resto del mondo, cominciando dai propri figli, come un “noi”, quasi si trattasse di una sola persona, non più però singolare ma plurale. “Noi”, cioè “tua madre ed io”, “tuo padre ed io”. Alla dignità e bellezza che viene al matrimonio dalla creazione, si aggiunge quella che gli viene dalla redenzione, dall'essere cioè segno dell'unione tra Cristo e la Chiesa...
Ecco una descrizione della felicità coniugale fatta dal grande scrittore Dostoevskij:

“Se una volta c'è stato l'amore, se per amore ci si è sposati, perché dovrebbe passare l'amore? E' forse impossibile alimentarlo? Il primo amore coniugale passa, è vero, ma poi viene un amore ancora migliore. Allora ci si unisce nell'animo, tutti gli affari si decidono in comune; non si hanno segreti l'uno per l'altro. E quando vengono i figli, ogni momento, anche il più difficile, sembra una felicità... Come potrebbero allora il padre e la madre non unirsi ancora più strettamente? Dicono che avere bambini sia gravoso. Chi lo dice? E' una felicità celeste. Sai un piccino tutto roseo, che ti succhia il petto; e quale sarà il marito che prenderà in odio la moglie, a vederla così col proprio bambino?”. [2]


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Note

[Nota 1] Giovanni Crisostomo, Sulla Lettera agli Efesini, 20 (PG 62,137).

[Nota 2] F.Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, Milano 1988, p. 99 ss.


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