La Basilica di San Pietro in Ciel d’oro a Pavia, custode del corpo di Sant’Agostino: un caso emblematico per ricostruire la storia degli edifici di culto - e del cristianesimo in genere - durante il periodo napoleonico e risorgimentale

Dinanzi all’interesse storico, artistico e spirituale di un luogo come la Basilica di San Pietro in Ciel d’oro a Pavia, con le sue memorie agostiniane (le reliquie del corpo), dell’età barbarica e longobarda (le tombe di Severino Boezio e di Liutprando), romaniche (l’architettura secondo lo stile romanico-lombardo) e gotiche (l’arca di Sant’Agostino commissionata nel 1362), rischia di rimanere in ombra un altro frammento di storia che la riguarda, il periodo che va dalla Repubblica Cisalpina all’Unità d’Italia. Le penose vicende cui fu sottoposta in questo periodo la basilica, insieme ai due annessi conventi, manifestano l’esplicita e intenzionale volontà di recare danno alla fede cristiana del tempo. Sono due le ondate che si abbatterono, a distanza di circa 50 anni, su questa Basilica. E’ un brano di storia poco conosciuta nel nostro Paese, ma che pure ne fa parte. La storia di San Pietro in Ciel d’oro è emblematica e rappresenta visivamente ciò che è documentabile per molti degli edifici artistici cristiani d’Italia fra il 1799 e la fine del Risorgimento. Il testo che mettiamo a disposizione on-line per conoscere questa vicenda è tratto da F.Gianani, La Basilica di S.Pietro in Ciel d’oro di Pavia nella storia e nell’arte, Pavia, Fusi, 1983, pagg. 75-79 e si caratterizza per il tono aulico con cui riporta le memorie cittadine.

Il Centro culturale Gli scritti (26.11.2006)


I Padri Agostiniani, come i Canonici Lateranensi, cacciati da Ciel d'oro nel 1785 e da Pavia, definitivamente, nel 1799, prima di abbandonare un luogo così caro ad essi, affidarono con atto pubblico, alla Città, le Ossa preziose di S.Agostino e di S.Severino Boezio, e inoltre la stessa Arca marmorea, le quali vennero accolte dapprima nella chiesa del Gesù; poi, nel 1799, passarono alla Cattedrale, dietro istanza del vescovo Mons. Bertieri che era della Religione Agostiniana.

L'Arca, scomposta e disfatta, raccolta in casse di legno, giacque in un deposito, abbandonata. Peggio: L'Amministrazione francese, narra Defendente Sacchi, la quale aveva l'incarico di alienare i beni e le cose nazionali, negoziò la vendita dell'Arca e anche dell'Altare, sul quale essa era stata collocata nel 1728, ad alcuni mercanti i quali già pensavano di disperderla e valersi delle statue e dei bassorilievi per usi profani; e già erano stati tolti i bronzi dall'altare e passati in altre mani così che questi andarono perduti.

In questo frangente, il Capitolo della Cattedrale presieduto dal Vicario Generale - il Vescovo era momentaneamente assente - con premure veramente meritevoli di essere ricordate, chiese al Governo l'Altare e l'Arca, e allegando come argomento, di possedere già le Ossa del Santo e, più ancora, valendosi di private sollecitudini, ottennero finalmente l'uno e l'altra. Noteremo qui, tra le cose allora miseramente disperse, una splendida tavola, di Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone - il grandissimo pittore della Scuola Lombarda del sec. XV - rappresentante la Madonna in trono, col bambino, fiancheggiata da Santi e Sante. Un gioiello che ora trovasi a Milano, presso la Pinacoteca Ambrosiana...

Con decreto del 3 Termidoro dell'anno XI della Rivoluzione - 1803 - il Convento dei Lateranensi venne destinato da Napoleone a Palestra e Scuola tecnico-pratica di Artiglieria; e la basilica, come le altre chiese soppresse, posta in vendita, venne acquistata da un privato il quale, affittatala, la vide convertita dall'affittuario in magazzino di combustibili e deposito di foraggi per le truppe.

Cominciarono ben presto a manifestarsi i segni dello sfacelo. Il Demanio francese demolì il chiostro bellissimo degli Agostiniani che si trovava a destra della basilica, comprendendo nella distruzione, insensatamente, anche il porticato... che era divenuto, col tempo, sostegno necessario della navata destra: così che poco dopo - gli scrittori non precisano l'anno, il quale tuttavia fu dei primi di quel secolo - la navata stessa miseramente crollò, lasciando scoperta da questo lato e pericolante la stessa navata maggiore!

Trascorsa la vicenda napoleonica e tornata l'Austria, il vescovo Mons.Tosi, profittando di una visita dell'imperatore Francesco I a Pavia, gli chiese personalmente, a tu per tu, e con viva insistenza, il convento lateranense di S. Pietro in Ciel d'oro come sede del Seminario diocesano e l'ottenne subito, con grande gioia, sua e della Diocesi. Era il giugno 1825.

Allogatosi dunque il Seminario Diocesano nell'antica sede dei Canonici Lateranensi, era tuttavia di grande disturbo giornaliero la continua ressa di soldati di cavalleria che venivano a rifornirsi alla vicina infelice basilica convertita, come si è detto, in magazzino militare di fieno, paglia, avena e legna. A liberarsi da questa servitù che tornava a danno soprattutto degli alunni esterni, il Vescovo Tosi, che aveva ottenuto anche l'antica spaziosa sagrestia già dei Lateranensi e la officiava come chiesa del Seminario, si propose di acquistare la stessa Basilica rovinata e, dopo molte trattative, ottenne di concluderne il relativo contratto; ma poiché si richiedeva - per talune clausole - l'assenso dell' I. R. Governo, questo lo concesse, sì, ma subordinandolo alla condizione di rivendere più tardi la basilica, affinché venisse demolita e il ricavo dello spoglio passasse al Seminario «visto che essa non darebbe alcuna rendita se fosse conservata».

Quale fosse il pensiero del vescovo nel sentirsi intimare una così rovinosa condizione, si può comprendere: egli si trovava tra l’imposizione del Governo e la necessità di una somma - che non aveva - per procedere ad un restauro immediato. Rivolgendosi, intanto, alla Congregazione Municipale, dalla quale sperava qualche sussidio, le ricordava quello che egli aveva fatto e - ottenuto - per salvare la Chiesa di S.Teresa fuori città, già dei Carmelitani Scalzi.

Ricordava cioè che, dopo la cacciata di quei Religiosi, la Chiesa di Santa Teresa, venduta a un salnitraio e passata poi da costui a un altro privato che in appalto l'aveva comprata per demolirla - addio, allora, agli affreschi del Montalto e dei Fiammenghini - e utilizzarne i mattoni, egli il Vescovo l'aveva a sua volta comprata, salvandola dalla distruzione e, cosa inaudita nel mondo degli affari, l'appaltatore gliel'aveva ceduta al medesimo prezzo che aveva sborsato, cioè senza farvi guadagno alcuno! E la Chiesa fu salva per sempre.

Mentre intanto, a proposito della basilica di Ciel d'oro, il Vescovo Mons. Tosi, cercava di prender tempo, ci fu pure chi si fece innanzi quale eventuale assuntore dell' impresa di demolirla, offrendosi di comperare il materiale che ne sarebbe risultato - pietre e mattoni -; il tutto per milanesi L. 2.200. E così, per l'illustre Basilica di Agostino, di Boezio e di Liutprando sembrò che stesse per suonare l'ultima ora.

Ma, come mai non avvenne? Come mai la vediamo tuttora in piedi e splendente? Fu per un caso - o una provvidenza - analogo a quello della chiesa di S.Teresa. Si dice dunque che quell'appaltatore assuntore di tanta impresa - lasciamo il nome nella penna - provatosi a battere col martello sopra un blocco informe della rovinata ala destra, per calcolare, così all'ingrosso, quanti mattoni intieri ne potesse ricavare per gli usi suoi, si avvide che neppur uno se ne sarebbe potuto salvare: tanto tenacemente mattoni e calcina in quel blocco aderivan tra loro. Questa volta era la Basilica stessa che invocava pietà. Eran gli antichi Maestri, perfetti muratori di sette secoli prima, che da quel semplice blocco di prova insorgevano a difender l'opera costruita dalle loro mani. Per quell'uomo l'«affare» non tornava più. Così la Basilica, le cui sorti erano dipese ultimamente dall'apprezzamento materiale, brutale, d'un semplice capomastro, fu salva.

Non già che si pensasse subito a provvederne il restauro. No, dovevano venire altri momenti difficili per essa; però, di così tristi, non più. Il pericolo supremo era ormai superato; gli uomini deposero per sempre il proposito di demolirla.
Ne furono lietissimi il Nob. Pio Folperti Podestà di Pavia e discendente da quel Benedetto Folperti, che tanto si era reso benemerito, nel secolo precedente, della costruzione del Duomo; il Dott. Luigi Maggi, assessore municipale, il Cav. Giuseppe Marozzi, che aveva ceduto la Basilica al Seminario, e soprattutto il vescovo Tosi, che nel 1845 poté provvedere, se non a restaurare la Basilica, almeno a puntellarla.

La Basilica rimase al Vescovo sino al 1859, quando cioè il Ministero della Guerra - in dipendenza dai fatti militari importanti di quell'anno - adibì il Convento lateranense a Ospedale militare e destinò la Basilica - sottratta al Vescovo - al deposito, purtroppo, di proiettili e di materie incendiarie.

I primi atti del nuovo governo non furono, dunque, troppo favorevoli alla Basilica. Passata, poco dopo, alle dipendenze del Ministero delle Finanze e, per le premure di qualche nostro cittadino pavese, fatta dichiarare, dal Ministero della Pubblica Istruzione «Monumento Nazionale», essa venne, senza riguardo a questa distinzione, affittata a un privato appaltatore, come magazzino di fieno e di stramaglie. Che odissea!

Vani furono, per allora, i richiami di generosi cittadini, come il Brambilla, il Terenzio, il Dell'acqua, a un rispetto maggiore. Ma peggio avvenne poco dopo: il giorno 4 dicembre 1877, poiché la nave destra era crollata da mezzo secolo e si era resa vana l'opera di pochi puntelli alla nave maggiore rimasta - a destra - senza sostegni, questa a sua volta crollò in quella parte dove essa forma come l'atrio interno, d'ingresso, mettendo a pericolo la stessa facciata la quale vi si appoggiava, e producendo, inoltre, danni alle volte delle altre campate, le quali, manifestatesi larghe lesioni, si resero pericolanti. Tutto congiurava ancora contro la Basilica infelice.

Intanto però, per opera ancora di generosi e colti cittadini pavesi, si era costituita, l'anno 1875, la Società conservatrice dei Monumenti dell'Arte Cristiana presieduta da Camillo Brambilla, da Carlo Dell'Acqua, e da Carlo Magenta e la sua attività iniziale fu tutta consacrata alla salvezza e al restauro della nostra insigne Basilica. Si fece strada il pensiero che il modo unico per ottenere di farla rispettare, riparare e conservare, fosse quello di restituirla al culto. Il vescovo Riboldi ottenne che la Fabbricieria della Parrocchia di S.Maria del Carmine, cedendo all'Università il locale della profanata chiesa del Gesù, assumesse e facesse officiare, come sua Chiesa sussidiaria, la Basilica di Ciel d'oro, curandone, insieme con la Società anzidetta, il restauro. Vennero pure interessati - e stavolta con frutto - i Ministeri della Pubblica istruzione e delle Finanze, così che le cose cominciarono ad avviarsi a buon fine.

Il giugno 1884 segnò l'inizio dei restauri: si ricostruì l'intiera navata destra, che era crollata circa ottant'anni prima, e quell'altra parte della nave centrale che era ruinata nel 1877. Nell’anno seguente, 1885, si ripristinarono le mezze colonne d'arenaria incastrate nei grandi pilastri, coi relativi capitelli, usandosi, dice il Brambilla, l'arenaria di Viggiù (Varese), la quale, essendo di diversa granitura e colore, spiccava per soverchia lindura e finitezza e tinta chiara. Il pavimento venne rifatto all'antico livello, rimettendosi così in vista il poderoso basamento dei grandi pilastri reggenti la volta.

Rimaneva da restaurare e decorare il presbiterio e le due absidi minori; e da ricostruire la cripta. intanto, tutto il resto della Basilica, ossia le tre navate, ormai in perfetto ordine, potevansi bene officiare.
La riapertura della Basilica al culto - dopo quasi un secolo di abbandono e di rovina – ebbe luogo il 15 giugno 1896 e fu un avvenimento di primo ordine.


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