Aids, dall’Africa il grido di dolore. Un colloquio con il dott.G.Morino
di Giulio Albanese (da Avvenire del 26.11.2004)


Teresa è una ragazza minuta, non è mai andata a scuola, e dorme in una catapecchia fatta di cartoni con i suoi fratellini, nella baraccopoli di Mutumba, alla periferia di Nairobi. Le circostanze della vita l'hanno costretta a diventare adulta con largo anticipo, prima che sviluppasse il suo esile corpicino. Dall'età di sei anni ha battuto le strade della capitale keniana, chiedendo l'elemosina assieme ad altri street children (bambini di strada). Appena diventata orfana di madre e di padre, falciati impietosamente dall'Aids nel giro di pochi mesi l'uno dall'altra, Teresa, che oggi ha 15 anni anche se non li dimostra, è stata costretta a prostituirsi per guadagnare qualche scellino, con il "benestare" dell'unico parente stretto che abbia a Mutumba, un vecchio zio alcolizzato. E, inevitabilmente, è diventata sieropositiva. «Storie come questa sono, purtroppo, all'ordine del giorno nelle periferie di Nairobi», dice Gianfranco Morino, medico chirurgo, 46 anni, originario di Aqui Terme (Alessandria), da oltre 15 anni volontario in Kenya. Lo spettacolo è agghiacciante negli slum della capitale, in mezzo a miriadi di tuguri immersi nel fango e inframmezzati da fetidi rigagnoli e malsane fogne a cielo aperto. In questo inferno, si uccide per un paio di scarpe e gli episodi di cronaca nera sono all'ordine del giorno. Parlare di qualità della vita è un'utopia. L'indicatore di riferimento è ben sotto lo zero. Solo a Korogocho, fazzoletto di terra spoglia, senza arbusti, con una superficie poco oltre il chilometro quadrato, sopravvivono 150mila persone, delle quali più della metà sono malate di Aids. Secondo i dati ufficiali - afferma Morino - il 20 per cento della popolazione in Kenya è sieropositivo e i decessi giornalieri sono circa 700; detto questo, le baraccopoli di Nairobi sono i posti peggiori, dove la pandemia schizza alle stelle». D'altronde, l'Aids è tra quelle malattie per le quali la gente non può permettersi di acquistare alcun tipo di farmaco, considerando il reddito della stragrande maggioranza, meno di un dollaro al giorno. Posto che quasi il 55% della popolazione di Nairobi vive in baraccopoli, lo scenario è tragico. Frank Otieno ha 20 anni ed è magro allampanato; abita a Korogocho e dire che ha una casa è esagerato: in tutto 15 metri quadrati ricoperti da mabati (ondulati di lamiera), sorretti da tavole di legno fatiscenti recuperate chissà come. Qui il terreno è proprietà del governo; ma, a differenza di altri slum dove la gente è almeno proprietaria della baracca in cui vive, oltre il 65 per cento dei residenti paga l'affitto e il 40 per cento dei proprietari delle case non vive nel quartiere. Per sbarcare il lunario, Frank ha fatto fin da bambino il venditore ambulante per un mercante indiano. Il suo nemico è l'Aids. In otto anni, a causa di questa malattia, la sua famiglia è stata decimata, a partire dal padre. Alla domanda: «Hai mai fatto il test?», risponde d'essere sieropositivo. Quest'anno è stato ricoverato in un ospedale governativo, il Kenyatta Hospital, nel quale, dice lui, i medici sono corrotti e la sporcizia è ovunque. «Se vuoi essere curato lì dentro devi pagare e, se non stai attento, sono capaci di prenderti i soldi e di rispedirti a casa peggio di prima». Nella capitale keniana, sede peraltro di rinomate agenzie umanitarie internazionali, esistono due categorie d'ospedali spiega Morino: «Quelli statali, generalmente fatiscenti e mal organizzati; e poi le cliniche private, poco importa se religiose o laiche, adeguate spesso agli standard occidentali; comunque strutture ben al di sopra delle possibilità di chi vive in baraccopoli. Tranne qualche eccezione, anche quelle cattoliche sono a pagamento». Una cosa è certa: si è soliti pensare che in un ospedale di un Paese come il Kenya la patologia con cui si viene più frequentemente a contatto sia quella cosiddetta tropicale. Questo è vero solo in parte, poiché una minima quota delle patologie diffuse ai tropici trova la sua u nica spiegazione nel fattore climatico. «È stato dimostrato - dice Morino - che il termine "medicina tropicale" molte volte maschera quella che invece sarebbe più giusto chiamare medicina del sottosviluppo, del mancato sviluppo, o ancora, meno eufemisticamente, medicina della povertà. Infatti, il tragico stato di salute delle popolazioni della fascia tropicale è sintomatica non di fattori climatici, bensì della terribile mancanza di risorse, soprattutto economiche, ma anche sociali, culturali, professionali. Come altrimenti si potrebbe spiegare l'altissima frequenza di lesioni perineali da parto, dovute alla mancanza d'adeguata educazione e assistenza, oppure la presenza di pazienti con ernie inguinali strozzate che giungono all'ospedale in condizioni generali disperate, con ritardi di giorni o settimane, a causa della mancanza di trasporti o peggio ancora di soldi?». Morino spiega che, comunque, le prime vittime della moderna "peste" sono i bambini. «Il problema è gravissimo per i casi in età pediatrica. Questi piccoli pazienti, se non debitamente curati, cominciano ad avere infezioni che si aggiungono l'una all'altra; nel giro di un anno, massimo due, muoiono. Dall'altra parte c'è il dramma degli orfani: quelli che non si sono ammalati, oggi hanno sette, otto, nove anni e hanno visto scomparire la famiglia intorno: prima il papà, poi la mamma e i fratellini più piccoli». Un'infanzia, questa, che rimpingua la già numerosa schiera dei senza diritti del Terzo Millennio.


[Carita']