Capitolo I


Efeso, Meryem Ana: la memoria di Maria ad Efeso

L’omelia della messa a Meryem Ana, celebrata dinanzi alla “Casa della Madonna”, situata sul monte Solmisso, a 9 chilometri da Efeso, non è stata registrata. Mettiamo a disposizione on-line un testo di p.Ignace de la Potterie che riguarda questo luogo. Il testo è tratto dall’articolo Maria è stata a Efeso? tratto da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.43-48.

Se Maria è stata a Efeso, vorrebbe dire che ha seguito fin qui l’apostolo al quale suo Figlio l’aveva affidata dalla croce. L’apostolo che, come ricorda proprio nel suo Vangelo, “da quel momento la prese nella sua casa”. E’ infatti storicamente accertato che Giovanni ha soggiornato a Efeso. All’unanimità i grandi vescovi del II secolo, da Papia a Policarpo a Ireneo, attestano che l’evangelista è morto a Efeso, dove aveva scritto il suo Vangelo...
Papia, vescovo di Gerapoli verso gli anni 130-140, dice che nel suo tempo alcuni cristiani erano ancora alla ricerca di quegli anziani che avevano sentito parlare il vecchio Giovanni. Perché, dicevano, era più importante quella voce viva del Vangelo di tutti i libri che potevano leggere. E anche Ireneo, che è vissuto attorno al 200 a Lione, racconta che quando era ancora ragazzo aveva ascoltato il vecchio Policarpo, vescovo di Smirne, che raccontava di quando lui stesso era giovane e aveva a sua volta ascoltato gli apostoli che avevano visto il Signore.
Nel II secolo, insomma, c’è stato un netto spostamento dell’interesse da Paolo a Giovanni. Che è durato anche nei secoli successivi. Ma, accanto a questo, deve essersi anche affermata una devozione verso Maria. Lo attesta il fatto che esisteva a Efeso, già prima del 431, data in cui si svolse il terzo Concilio ecumenico, una chiesa dedicata a Maria. E proprio in questa “grande chiesa chiamata Santa Maria” si radunarono i vescovi che parteciparono al Concilio. Questa basilica, la prima del mondo a essere dedicata a Maria, il culto della quale si sviluppò proprio dopo la solenne definizione del Concilio, testimonia di una speciale e antica devozione degli Efesini verso la Vergine. Ma da dove proveniva questa devozione? Perché dedicarle una grande chiesa, proprio come a san Giovanni che ci aveva vissuto a lungo, se Maria non ha mai soggiornato a Efeso? L’enigma può forse essere svelato da un brano del Concilio di Efeso che per lungo tempo non ha ottenuto una corretta interpretazione filologica. Il Concilio di Efeso era stato convocato a causa di Nestorio, che rifiutava a Maria... l’appellativo di Theotokos, Madre di Dio. Nella lettera ufficiale inviata dal Concilio alla città di Costantinopoli, dove Nestorio era vescovo, manca il verbo riferibile a Giovanni e a Maria. Vi si legge infatti: “Nestorio, il rinnovatore dell’eresia empia [l’arianesimo], dopo essere giunto nella terra degli Efesini, là dove il teologo Giovanni e la Theotokos Vergine, la Santa Maria..., dopo una terza convocazione..., è stato condannato”. Per molto tempo ci si è arrovellati sul significato di questa proposizione subordinata senza verbo. Ma in uno studio dal titolo La venue de Marie à Ephèse d’après le témoignage du Concile de 431, pubblicato in una miscellanea in onore del mariologo francese Théodore Koehler, Mater fidei et fidelium (University of Dayton, Dayton, 1991, pp. 218-235), pensiamo di aver mostrato, attraverso una stringente esegesi filologica, che il verbo è sottinteso, ed è lo stesso che i vescovi del Concilio avevano riferito a Nestorio.La frase va dunque così intesa: “Nestorio, il rinnovatore dell’eresia empia, dopo essere giunto nella terra degli Efesini, là dove erano giunti il teologo Giovanni e la Theotokos Vergine, la Santa Maria..., dopo una terza convocazione..., è stato condannato”.
Tutto è cominciato con una mistica tedesca, suor Kathrin Emmerick, morta nel 1824. Stimmatizzata, è già iniziata la sua causa di beatificazione[1]. Uno dei massimi scrittori del romanticismo tedesco, Clemens von Brentano, si convertì al cattolicesimo e divenne il suo fedele segretario. Raccolse le sue “visioni” in un libro molto noto, la Vita di Maria, pubblicato nel 1865. Questo libro venne tradotto anche in francese, e una copia arrivò nel convento dei padri lazzaristi di Smirne. Poiché erano vicino a Efeso, si stupirono molto che una contadina tedesca potesse descrivere con esattezza quei luoghi che non aveva mai visto. Uno di loro, Eugène Poulin, ironizzò a lungo con i confratelli su questa stramberia. Poi, per curiosità, organizzò una spedizione per esaminare la montagna e vedere se c’era un posto che corrispondesse alla descrizione fatta dalla Emmerick. Sorprendentemente, lo trovarono: in una foresta sul monte Solmisso, tra Efeso e il mare, scoprirono un punto che concordava perfettamente con la descrizione offerta dalla mistica tedesca. Si vedeva la città vecchia di Efeso e, nel mare, le due isole che la fronteggiano. E c’era una sorgente d’acqua che scendeva dal fianco della montagna. E proprio lì, sul pendio del monte, in un punto da cui si vedeva il mare, trovarono le rovine di una casa. E’ facile immaginare il loro stupore quando più tardi, chiedendo a dei contadini del posto cosa fossero quelle rovine, si sentirono rispondere: “E’ la casa della Madre Maria”. Seguendo un’antica tradizione, infatti, quei contadini ortodossi abitanti in un villaggio a 17 chilometri di distanza, vi si recavano tutti gli anni in pellegrinaggio, e proprio nel giorno dell’Assunzione...

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La cappella costruita sulla "Casa di Maria"

Lo scettico Poulin era diventato ormai un convinto assertore del soggiorno di Maria in quella casa, tanto che scrisse un favorevole libretto con lo pseudonimo di Gabrielovich. Il vescovo di Efeso informò Roma. Una suora francese organizzò una raccolta di fondi per comprare il terreno. Si creò un’associazione per salvaguardarlo. Io, con quattro compagni, passai per Efeso negli anni Cinquanta, e il vescovo, monsignor Giuseppe Descuffi, interessato a questi fatti, ce ne parlò a lungo. Nel ’52 e nel ’53 fece compiere delle campagne di scavi. Il professor Adriano Prandi di Bari, che guidò gli scavi, presentò la relazione in un congresso mariano che si svolse in Portogallo. “Questi ruderi” disse “sono resti di una chiesa bizantina”. Gli archeologi avevano infatti individuato che il vestibolo di quella piccola costruzione risaliva al VII secolo, l’abside al IV, e la parte centrale era stata trasformata in cappella in un’epoca imprecisata. Ma sotto la chiesa è stata trovata una casa molto più antica. Le ricerche archeologiche avevano infatti rivelato una casa risalente al I secolo dopo Cristo. E le ricerche compiute di fronte al piccolo edificio portarono alla scoperta di tre tombe, due delle quali “orientate”: i corpi cioè erano stati sepolti con il capo rivolto verso la cappella. Nelle mani stringevano delle monete risalenti agli imperatori Costante (morto nel 350), Anastasio I (morto nel 518) e Giustiniano (morto nel 565). Indice che la devozione per questo luogo era già viva in quei tempi. Due anni fa, nel 1991, poiché ricorrevano i cento anni dalla scoperta di quella Casa, i vescovi della Turchia hanno proclamato un Anno mariano per tutta la Turchia. La Casa è diventata un luogo di pellegrinaggio dove vengono anche molti musulmani. Certo, la questione dell’autenticità della Casa di Maria è ancora aperta. Ma gli scavi, che furono interrotti per i problemi inerenti al governo turco, andrebbero ripresi e continuati.

Efeso, nel teatro: S.Paolo e la Chiesa di Efeso

Paolo passa ad Efeso alla fine del secondo viaggio apostolico, prima di tornare ad Antiochia, che era città importantissima a quel tempo – Antiochia, nell’odierna Turchia, ha perso poi molta della sua importanza, nel corso della storia successiva fino ad oggi. Passa di nuovo vicino ad Efeso nel terzo viaggio: decide però di passare al largo della città “per non subire ritardi” (tutte le persone care lo avrebbero sicuramente trattenuto) e, a Mileto, manda a chiamare gli anziani di Efeso per poterli salutare, come vedremo.
Il racconto di questi due passaggi è proprio ai capitoli 18, 19-21 e poi al cap.19 degli Atti degli Apostoli. Paolo, quando giunge la prima volta ad Efeso, proviene da Cencre, il porto di Corinto. Sta tornando indietro, in direzione della città di Antiochia, dalla quale è partito per il suo secondo viaggio missionario. Arriva in nave dal porto di Cencre e sbarca appunto proprio qui davanti a noi, dove appunto c’era il porto che, come sapete, nei secoli si è poi insabbiato, portando all’abbandono della Efeso antica..

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Le rovine del Tempio di Domiziano, persecutore, secondo la tradizione, dell'evangelista Giovanni

La prima volta arriva ad Efeso con Aquila e Priscilla, i due coniugi scacciati da Roma a causa dell’espulsione dell’imperatore Claudio. Sappiamo di questo evento da una notizia riportata dallo storico romano Svetonio. Svetonio ci dice appunto che Claudio espulse gli ebrei da Roma, poiché c’erano tumulti nelle sinagoghe della città per un motivo che viene precisato da questa espressione latina in ablativo assoluto “impulsore Chresto”, “a causa di un agitatore di nome Cresto”. Per il fenomeno linguistico dello iotacismo (il passaggio dal suono “i” al suono “e” e viceversa, tipico, per esempio, del passaggio da greco antico al greco moderno, dove l’antico “Amen” si pronuncia oggi “Amin”) “Cresto” si equivale a “Cristo”. Gli studiosi affermano – e noi siamo d’accordo con questa interpretazione – che Svetonio si riferisca a delle tensioni causate dalla predicazione di Cristo e del suo vangelo, ad opera dei primi cristiani. Questo provoca tumulti a Roma, nella preesistente comunità ebraica romana e l’imperatore – che non è bene informato delle questioni religiose relative al rapporto fra ebrei e cristiani – taglia la testa al toro, con un decreto di espulsione di un gran numero di persone, dai suoi funzionari identificati indistintamente come “ebrei”. Non dimentichiamo che gran parte dei primi cristiani appartengono appunto all’ebraismo e che, probabilmente, solo nel 90 avverrà l’espulsione definitiva dei cristiani dalle sinagoghe, decisione che è attribuita al cosiddetto concilio rabbinico di Jamnia, in Israele. Claudio decreta questa espulsione perché, evidentemente, meno di 10 anni dopo la morte e la resurrezione di Cristo, nell’anno 41 – datazione appunto dell’espulsione di Claudio – già il nome di Cristo era così famoso, fuori della terra di Israele, che era motivo di discussioni e tensioni a Roma, all’interno delle sinagoghe, al punto da destare la preoccupazione imperiale.
Aquila e Priscilla sono famosi perché la loro casa diventa un luogo dove si raduna la comunità cristiana e dove viene annunziato il vangelo. Sono una coppia, una famiglia, non sono solo un lui ed una lei, a differenza di altri evangelizzatori neotestamentari. E proprio come marito e moglie, offrono la loro relazione, perché diventi un luogo di evangelizzazione. La condizione dei nuclei familiari, come quella del cristiano che, da solo, incontra nell’ambiente lavorativo tanti non credenti è una delle situazioni più adatte all’annunzio del vangelo! Anche Charles de Foucauld, questo cristiano francese che è il fondatore spirituale delle Piccole Sorelle, nate senza che piccola sorella Madeleine lo abbia mai conosciuto personalmente, diceva che essere soli è la situazione migliore per annunziare il vangelo. Se uno fonda un grande monastero, poi non riesce facilmente a conoscere le persone di quel luogo. De Foucauld diceva che è cosa buona – e non situazione da disprezzare – quella di essere soli, come lui, o di essere come Aquila e Priscilla, marito e moglie. Questo permette di fare la stessa vita degli altri, di abitare in una certa casa, in un certo quartiere. Pian piano tutti ti conoscono nella condivisione della stessa vita quotidiana, gli stessi negozi dove si fa la spesa, gli stessi luoghi di lavoro, pian piano ti stimano e, attraverso questo rapporto personale, nasce la possibilità di annunzio della fede. Fra l’altro, a differenza di alcune interpretazioni restrittive di Charles de Foucauld, lui teneva tantissimo all’annunzio esplicito della fede e si rendeva conto che il cristiano viene posto naturalmente in relazione con i non credenti, dalla vita stessa, oltre a poter scegliere di andare missionario in luoghi dove Cristo non è conosciuto. Queste occasioni erano da vivere in profondità, proprio come motivi di annuncio del Signore.

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Museo archeologico di Efeso: frammenti della statua dell'imperatore Domiziano

Allora Aquila e Priscilla restano ad Efeso, per annunciare il vangelo, Paolo, invece, va via da qui quasi subito. Tutto è descritto nei pochi versetti di At 18, 19-21, nei quali c’è anche un’espressione molto bella al versetto 21:

19Giunsero a Efeso, dove lasciò i due coniugi, ed entrato nella sinagoga si mise a discutere con i Giudei. 20Questi lo pregavano di fermarsi più a lungo, ma non acconsentì. 21Tuttavia prese congedo dicendo: “Ritornerò di nuovo da voi, se Dio lo vorrà”.

Questa è un’espressione molto bella che i cristiani ripetono sempre. L’Islam l’ha ripresa dal cristianesimo: “Inshallah”, “Se Dio lo vuole”. Anche la lettera di Giacomo dice: “Non dire: domani farò questo, domani andrò lì, ma devi dire sempre: se Dio lo vorrà, domani farò questo, se Dio lo vorrà, domani andrò in quel posto” (Gc 4,15). Paolo dice: “Se Dio vorrà, ritornerò ad Efeso e spiegherò il vangelo”. Gli Atti ci raccontano che, successivamente alla partenza di Paolo, arriva ad Efeso un giudeo chiamato Apollo (At 18,24), nativo di Alessandria, e Priscilla e Aquila che ormai sono rimasti soli, perché appunto S.Paolo se n’è andato, lo prendono con loro e gli spiegano il vangelo e poi anche Apollo comincia a predicare con loro. Dopo pochi versetti lo troviamo, addirittura, predicatore del vangelo a Corinto, secondo gli insegnamenti di Aquila e Priscilla. E’ proprio allora che Paolo, per la seconda volta, questa volta via terra, giunge ad Efeso. Fra l’altro è proprio da Efeso che Paolo, durante questa seconda permanenza, scriverà la I lettera ai Corinti, nella quale si parla anche di Apollo, perché i corinti, al posto di vivere l’unità della Chiesa si dividono in base ai maestri umani che hanno avuto, dicendo: “Io sono di Paolo” ed “Io invece sono di Apollo”, ”Ed io di Cefa” (ICor1,12). Proprio alla fine della prima lettera ai Corinti, Paolo scriverà: “Mi fermerò ad Efeso, fino a Pentecoste, perché mi si è aperta una porta grande e propizia, anche se gli avversari sono molti” (ICor16,8-9).
Ma leggiamo il cap. 19 degli Atti:

1Mentre Apollo era a Corinto, Paolo, attraversate le regioni dell'altopiano, giunse a Efeso. Qui trovò alcuni discepoli 2e disse loro: «Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede?». Gli risposero: «Non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo». 3Ed egli disse: «Quale battesimo avete ricevuto?». «Il battesimo di Giovanni», risposero.

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Museo archeologico di Efeso, statua di Artemide

E’ interessante l’importanza dell’acqua come simbolo nel pensiero umano. In questo testo degli Atti vediamo proprio uno dei passaggi che ci mostra l’evoluzione decisiva apportata dal cristianesimo. Il purificarsi con l’acqua era una cosa che esisteva nell’ebraismo, come esiste nelle altre religioni. L’acqua è un simbolo per tante religioni, è talmente bella. Anche Giovanni aveva detto: “Battezzatevi nell’acqua”, ma per lui l’acqua era solo un segno di penitenza. Uno si lavava con l’acqua, perché doveva attendere la persona più importante, il Messia, e doveva purificarsi dal peccato per questa attesa. Giovanni diceva: “Verrà uno, lui sì che vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”. L’acqua del battesimo cristiano è il segno non più di un semplice perdono dei peccati, ma, ora, della vita nuova di Dio stesso che viene donata ai credenti. E’ il segno dello Spirito di Dio e dello Spirito del Figlio di cui l’uomo diviene partecipe.
Questi cristiani di Efeso erano quindi già credenti, ma non avevano ancora capito bene cos’era il cristianesimo. Allora usavano solamente delle abluzioni purificatorie, ma non ricevevano ancora lo Spirito di Gesù. Paolo li battezza con il battesimo cristiano:

4Disse allora Paolo: «Giovanni ha amministrato un battesimo di penitenza, dicendo al popolo di credere in colui che sarebbe venuto dopo di lui, cioè in Gesù». 5Dopo aver udito questo, si fecero battezzare nel nome del Signore Gesù 6e, non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano in lingue e profetavano. 7Erano in tutto circa dodici uomini.

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Museo archeologico di Efeso, statua di Artemide, particolare

E’ molto interessante la convinzione che lo Spirito Santo ci rende uguali a Cristo, la grande caratteristica del battesimo cristiano è questa unità con Lui, con la sua vita che riceviamo.

8Entrato poi nella sinagoga, vi poté parlare liberamente per tre mesi, discutendo e cercando di persuadere gli ascoltatori circa il regno di Dio. 9Ma poiché alcuni si ostinavano e si rifiutavano di credere dicendo male in pubblico di questa nuova dottrina, si staccò da loro separando i discepoli e continuò a discutere ogni giorno nella scuola di un certo Tiranno. 10Questo durò due anni, col risultato che tutti gli abitanti della provincia d'Asia, Giudei e Greci, poterono ascoltare la parola del Signore.

Come ad Efeso c’era la biblioteca di Celso che abbiamo appena visitato, così c’era, da qualche parte negli scavi che stiamo visitando – il luogo non è stato ancora individuato – questa scuola di Tiranno, dove probabilmente si insegnava la filosofia, la dialettica, la retorica, ecc.
Questo Tiranno gli diede il permesso di stare lì e di spiegare il vangelo. Quindi Paolo si ferma due anni qui. Possiamo immaginarlo passeggiare per le stesse strade che stiamo percorrendo. Chissà quante volte avrà fatto in su ed in giù queste bellissime strade lastricate in marmo.

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Efeso, via dei Cureti

Succede subito dopo un altro fatto divertente che gli Atti ci raccontano. Paolo comincia a fare dei miracoli. Allora dei giudei che sono esorcisti dicono: “Se lui è così bravo, usiamo le stesse parole che usa lui”. E’ la mentalità magica! La magia ha l’idea che ripetendo delle parole anche senza capirne il senso si possano ottenere dei risultati.
Leggiamo questo episodio in At20,11ss.:

11Dio intanto operava prodigi non comuni per opera di Paolo, 12al punto che si mettevano sopra i malati fazzoletti o grembiuli che erano stati a contatto con lui e le malattie cessavano e gli spiriti cattivi fuggivano.
13Alcuni esorcisti ambulanti giudei si provarono a invocare anch'essi il nome del Signore Gesù sopra quanti avevano spiriti cattivi, dicendo: «Vi scongiuro per quel Gesù che Paolo predica». 14Facevano questo sette figli di un certo Sceva, un sommo sacerdote giudeo. 15Ma lo spirito cattivo rispose loro: «Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?». 16E l'uomo che aveva lo spirito cattivo, slanciatosi su di loro, li afferrò e li trattò con tale violenza che essi fuggirono da quella casa nudi e coperti di ferite.

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Efeso, Tempio di Adriano

Qui c’è il tentativo di usare il cristianesimo senza diventare cristiani, senza accogliere la verità della fede. Questi esorcisti pensavano che usando le parole cristiane come formule magiche avrebbero potuto ottenere dei risultati. Lo spirito cattivo capisce benissimo invece che loro non hanno la forza di Gesù e li aggredisce.
Continuiamo ancora a leggere At20,21:

21Dopo questi fatti, Paolo si mise in animo di attraversare la Macedonia e l'Acaia e di recarsi a Gerusalemme dicendo: «Dopo essere stato là devo vedere anche Roma»

Questo è un altro aspetto bellissimo, soprattutto per noi romani: Paolo decide proprio qui ad Efeso di venire a Roma. I nostri antenati romani poi lo uccideranno, ma è Paolo che decide di venire a Roma a predicare, ad annunziare il vangelo - lo spiegherà poi nella lettera ai Romani. Paolo conosceva tante persone di Roma, per averne sentito parlare o perché le aveva incontrate. Il suo grande desiderio è di predicare il vangelo a tutti; per questo vuole arrivare fino a Roma. Per questo dovrà tornare a Gerusalemme per poi partire per il quarto viaggio, quello verso l’Italia. Non sarà più un viaggio missionario come gli altri, poiché Paolo sarà portato in catene per essere processato a Roma. Paolo ha appena maturato il desiderio di visitare anche Roma quando scoppia ad Efeso una sommossa contro di lui:

23Verso quel tempo scoppiò un gran tumulto riguardo alla nuova dottrina. 24Un tale, chiamato Demetrio, argentiere, che fabbricava tempietti di Artèmide in argento e procurava in tal modo non poco guadagno agli artigiani, 25li radunò insieme agli altri che si occupavano di cose del genere e disse: «Cittadini, voi sapete che da questa industria proviene il nostro benessere; 26ora potete osservare e sentire come questo Paolo ha convinto e sviato una massa di gente, non solo di Efeso, ma si può dire di tutta l'Asia, affermando che non sono dei quelli fabbricati da mani d'uomo.

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Efeso, la Biblioteca di Celso

Quindi questo signore, Demetrio, fabbricava questi tempietti per il culto di Artemide, questa dea dalle molte mammelle, la dea Terra, che nutre tutti quelli che vanno a lei.
Paolo, con la sua predicazione, toglie fedeli a queste divinità pagane e allontanando le persone, indebolisce anche l’aspetto commerciale, togliendo clienti ai fabbricanti di idoli di Artemide. Una volta abbiamo riflettuto insieme su di una bellissima relazione di d. P.Sequeri che usava proprio l’immagine di divinità simili ad Artemide, per pensare alla Chiesa! Diceva che alcuni considerano la Chiesa proprio così, vorrebbero una Chiesa dalla quale succhiare continuamente il latte. E commentava: alla Chiesa non si va solo a chiedere, si deve dare. Dopo anni di cammino deve arrivare un momento in cui le persone dicono: “Io adesso non voglio ancora avere altro: è giunto il momenti di impegnarsi, di dare, di ricambiare tutto il bene che mi è stato fatto” - avrete sentito tante volte alcuni dire: “La Chiesa, questo gruppo o quest’altro gruppo, non mi dà più stimoli, me ne vado”. In realtà le persone dopo un po’ di tempo dovrebbero imparare a giocarsi. Diceva Sequeri: “Se tutti vanno a succhiare come si va da queste divinità orientali, poi quando arriva uno che ha veramente bisogno non trova nessuno che abbia portato qualcosa”.
Comunque Paolo, pian piano “mette in minoranza” - per usare un’espressione attuale – i fedeli di questa divinità che rappresentava la fertilità, a cui tutti chiedevano, a cui tutti quanti andavano per attingere nuovo latte, nuova vita, nuovi figli e così via.

27Non soltanto c'è il pericolo che la nostra categoria cada in discredito, ma anche che il santuario della grande dea Artèmide non venga stimato più nulla e venga distrutta la grandezza di colei che l'Asia e il mondo intero adorano».
28All'udire ciò s'infiammarono d'ira e si misero a gridare: «Grande è l'Artèmide degli Efesini!». 29Tutta la città fu in subbuglio e tutti si precipitarono in massa nel teatro, trascinando con sé Gaio e Aristarco macèdoni, compagni di viaggio di Paolo. 30Paolo voleva presentarsi alla folla, ma i discepoli non glielo permisero. 31Anche alcuni dei capi della provincia, che gli erano amici, mandarono a pregarlo di non avventurarsi nel teatro. 32Intanto, chi gridava una cosa, chi un'altra; l'assemblea era confusa e i più non sapevano il motivo per cui erano accorsi.

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Efeso, il teatro

Lo scenario è ora proprio quello del teatro in cui siamo. Possiamo proprio precisare il luogo ed averlo dinanzi agli occhi. Come sempre, ci sono i capipopolo. Io scherzo sempre su questo, quando qualcuno viene da me e mi dice: “Sa, padre, molti pensano che...”. Ho imparato benissimo che in realtà i “molti” sono tre persone, lui, sua moglie e il suo più caro amico! In questi casi basta far presente che ci sono altri tre – e spesso molti di più - che pensano esattamente il contrario e che sono molto contenti di quello che si sta facendo! Il problema è che alla maggioranza delle persone non importa nulla di quello che succede. Nel caso di questa disputa di Efeso, la gente sta lì senza sapere neanche bene di cosa si debba parlare. Ad un certo punto interviene il cancelliere che riesce a calmare la folla:

33Alcuni della folla fecero intervenire un certo Alessandro, che i Giudei avevano spinto avanti, ed egli, fatto cenno con la mano, voleva tenere un discorso di difesa davanti al popolo. 34Appena s'accorsero che era Giudeo, si misero tutti a gridare in coro per quasi due ore: «Grande è l'Artèmide degli Efesini!». 35Alla fine il cancelliere riuscì a calmare la folla e disse: «Cittadini di Efeso, chi fra gli uomini non sa che la città di Efeso è custode del tempio della grande Artèmide e della sua statua caduta dal cielo? 36Poiché questi fatti sono incontestabili, è necessario che stiate calmi e non compiate gesti inconsulti. 37Voi avete condotto qui questi uomini che non hanno profanato il tempio, né hanno bestemmiato la nostra dea. 38Perciò se Demetrio e gli artigiani che sono con lui hanno delle ragioni da far valere contro qualcuno, ci sono per questo i tribunali e vi sono i proconsoli: si citino in giudizio l'un l'altro. 39Se poi desiderate qualche altra cosa, si deciderà nell'assemblea ordinaria. 40C'è il rischio di essere accusati di sedizione per l'accaduto di oggi, non essendoci alcun motivo per cui possiamo giustificare questo assembramento». 41E con queste parole sciolse l'assemblea.

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Efeso, la via Arcadiana, che conduceva al porto

Il cancelliere fa un discorso molto tecnico: in questo caso non c’è alcun problema giuridico, Paolo non ha fatto nulla di illegale. Se la gente se ne va e abbandona il culto di Artemide, è un problema vostro, è un problema di sfiducia verso le antiche divinità, non è un caso legale o politico. Tutti, dopo che il cancelliere ha sciolto l’assemblea, se ne vanno a casa. Paolo, sapendo che il rimanere sarebbe un pericolo ed avendo già compiuto l’annuncio del vangelo, decide di partire per andare prima a Gerusalemme e poi a Roma.

Efeso, nella Basilica del Concilio: Maria Madre di Dio e la reale umanità e divinità di Gesù

Qui siamo in un luogo della Efeso bizantina. Ho chiesto alla guida turca dove potrebbe essere il luogo della sinagoga dove Paolo predicava e mi ha risposto che, siccome a volte le sinagoghe sono diventate chiese, potrebbe anche darsi che questo sia il luogo iniziale della predicazione paolina, prima che Paolo si spostasse in un posto come la scuola di Tiranno.
Comunque questa era una grande chiesa, ne vedete davanti a voi l’abside. Qui ha celebrato anche Paolo VI. E’ la grande chiesa dove si è tenuto il Concilio di Efeso del 431 d.C.

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La Basilica del Concilio di Efeso del 431

Qual era il problema teologico che ha dato origine al concilio che qui si è tenuto? Voi sapete che la fede della Chiesa è sempre la stessa, ma insieme deve sempre spiegarsi meglio dinanzi a problemi nuovi che vengono via via posti. E’ evidente, ad esempio, sin dall’origine che Gesù è il Figlio di Dio. E’ lui stesso ad affermarlo - pensate solo alla parabola in cui Gesù racconta che Dio ha mandato tante volte tanti servi a chiedere frutti alla sua vigna, fino a che gli è rimasta solo la possibilità di inviare il Figlio stesso, con quelle parole bellissime che esprimono il pensiero di Dio: “Che farò ora? Manderò mio figlio, avranno rispetto di lui!”. A Nicea, che visiteremo fra qualche giorno, è, però, venuto il momento di affermare solennemente quello che la Chiesa ha sempre creduto, perché c’era chi negava questa verità.
Ecco che una cosa analoga è avvenuta, ponendo i presupposti della convocazione del concilio di Efeso. Il Patriarca di Costantinopoli, Nestorio, negli anni 429-430, ha cominciato a dire: “Sì, è vero, Gesù è Figlio di Dio, ma noi non possiamo dire che Maria è la madre di Dio - come diceva tutto il popolo - perché Dio non ha madre; Dio è lui padre di tutti e viene prima di tutti, senza essere generato da nessun essere umano”. Dire che Dio ha una madre – cercava di insinuare - significa tornare al paganesimo antico, dove gli dei si generavano tra di loro. Con queste argomentazioni Nestorio pensava di aver convinto il popolo che in realtà era sbagliato dire che Maria era la madre di Dio. La sua proposta è che Maria fosse chiamata semplicemente madre di Gesù. I vescovi, però, si riunirono proprio qui e decretarono che quello che il popolo aveva sempre detto, cioè che Maria è la Theotokos (Θεοτόκος), la Madre di Dio, era invece l’espressione più giusta della fede cristiana e che era eretico chiunque la rifiutava. Spiegarono che Madre di Dio è una espressione tipicamente cristiana, che esprime splendidamente la nostra fede. Dire che Maria è la Madre di Dio non vuole dire che Maria ha generato la Trinità ma che, essendo Gesù al contempo vero Dio e vero uomo, colei che genera in terra il Figlio dell’uomo - e Maria ha veramente fatto nascere Gesù in terra - è Madre anche del Figlio di Dio in questa terra. L’affermazione della Theotokos è l’esatto corrispettivo nella vita di Maria dell’unità, nell’unica persona divina della natura umana e della natura divina in Cristo. Gesù è uno, vero Dio e vero uomo, e sua Madre in terra è Madre in terra del vero uomo e del vero Dio. Chiaramente il concilio di Efeso non vuole affermare che Maria è la madre nell’eternità del Figlio; il Figlio di Dio nasce solo dal Padre nell’eternità.
Questo è proprio l’annunzio anche dell’evangelista Giovanni, che fra poco mediteremo: in Gesù la carne umana e la divinità sono unite, non si possono più separare. Allora, proprio per affermare questo il Concilio di Efeso, radunatosi in questa basilica nel 431, ha stabilito che affermare solo che Maria è Madre di Gesù, rifiutandole il titolo di Madre di Dio, è un impoverimento, perché vuol dire negare che Gesù è veramente Figlio di Dio. Se Gesù è davvero Figlio di Dio – e chiaramente lo è - non si può allora non dire anche che Maria è la Theotokos, la Madre di Dio. Il Concilio afferma così che questo termine - già usato nei secoli precedenti - non può essere rifiutare, è parte essenziale della fede della Chiesa.

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La Basilica del Concilio, presbiterio ed abside

La prima chiesa che nacque a Roma, in omaggio al Concilio di Efeso - molti di voi lo sanno certamente - è S.Maria Maggiore. La sua costruzione fu iniziata probabilmente un anno dopo il concili, nel 432, proprio come ringraziamento e come accoglienza profonda del dogma mariano, da Sisto III. Fu, fra l’altro, la prima grande basilica romana costruita per esplicita decisione del pontefice, essendo le altre state iniziate per volontà anche dell’imperatore Costantino e di sua madre Elena. Il Papa fu all’origine anche dell’iconografia dei mosaici della Basilica di S.Maria Maggiore.
Ma la questione dogmatica non si chiuse con il concilio del 431. Lo stesso problema, con termini solo apparentemente diversi, si ripropose nel 449.
Eutiche, un monaco di Costantinopoli, affermò, in quegli anni: “E’ vero che Gesù è vero uomo e che il Figlio di Dio è vero Dio, ma quando avviene l’incarnazione, in realtà non si può più parlare di due nature. Dio è molto più grande dell’uomo, la natura umana è quasi come se scomparisse e rimane in Gesù solo la divinità. E’ talmente forte la presenza di Dio in Gesù che la natura divina si impossessa a tal punto di lui che non resta più l’umanità”. Eutiche cercò di far valere questa dottrina proprio qui ad Efeso. Avvenne, infatti, proprio qui quello che è chiamato il “latrocinio di Efeso”, un concilio indetto nel 449. A rappresentare il papa, Leone Magno, era stato inviato un diacono di Roma, Ilaro, che diventerà in seguito Papa. Ilaro che difendeva la dottrina della Chiesa che affermava in Cristo una completa divinità ed una completa umanità dovette scappare perché rischiava di essere ucciso dai partigiani di Eutiche. Cercò rifugio presso la tomba dell’apostolo Giovanni che fra poco visiteremo e solo per poco sfuggì alla morte. Fu questo, fra l’altro, il motivo per il quale, Ilaro, una volta divenuto papa, sciolse il voto di dedicare una cappella all’evangelista Giovanni, in ringraziamento della salvezza ottenuta per sua intercessione, all’interno del Battistero Lateranense. E’ il motivo per cui la Basilica del Laterano si chiamerà poi anche Basilica di S.Giovanni Evangelista (oltre che di S.Giovanni Battista; vedi su questo l’articolo che ho scritto questo stesso sito dal titolo La dedicazione della Basilica del Laterano ai Santi Giovanni Battista ed Evangelista, nella sezione Roma e le sue Basiliche)
Il “latrocinio di Efeso” fu subito condannato a Calcedonia due anni dopo, nel 451, nel famoso Concilio di Calcedonia. I vescovi lì riuniti affermarono la grande professione di fede: Gesù è una sola persona, ma in due vere nature, umana e divina, non confuse.
Gesù è completamente uomo, è libero come ogni uomo, pensa come un uomo, ama come un uomo, dorme, ha bisogno di mangiare, ma attraverso questa umanità tutta la pienezza di Dio, tutto Dio, è presente in quell’uomo ed ogni gesto di Gesù è anche espressione della sua divinità. Giovanni – continuiamo a contemplarlo - è proprio l’evangelista che sempre ci conduce a passare dalla reale umanità di Gesù, alla sua reale divinità. Giovanni chiama i “miracoli” di Gesù “segni”. Ogni gesto di Gesù non è mai solo un gesto umano, ma in esso si cela e si manifesta la sua divinità. Se Gesù parla dell’acqua con la samaritana, è per parlare della sete - non solo di un acqua che disseta e della quale si torna poi ad avere sete – di un’acqua che zampilla per la vita eterna e che solo il Signore può dare e che, in fondo, è lui stesso.
Gesù fa risorgere Lazzaro, ma questo è segno che Lui è “la Resurrezione e la Vita”. Gesù compie un gesto umano, terreno, ma è il Figlio di Dio che lo compie in mezzo a noi. E d’altro canto, il Figlio di Dio, compie quel gesto – e tutta intera la sua presenza – proprio nella umanità realmente presente e viva di Gesù.
Questi che abbiamo visto sono, allora, i due eventi più importanti avvenuti proprio in questa chiesa: quello decisivo del Concilio del 431 e quello che sarà a ragione rifiutato dal successivo concilio di Calcedonia. Ed entrambi si riferiscono alla reale umanità ed alla reale divinità di Cristo.
Uno dei motivi, come abbiamo già visto, per cui si parla della presenza di Maria ad Efeso, di una sua permanenza in questi luoghi, è proprio perché il Concilio di Efeso così afferma: “In questo luogo, dove è giunto Nestorio... dove anche Giovanni e Maria”, senza il verbo. Da questo gli studiosi moderni hanno dedotto che la frase voglia dire: “In questo luogo, Efeso, dove giunse Nestorio, dove già giunsero nel passato anche Giovanni e Maria”. E quindi questa chiesa dedicata a Maria, la ricorda.

Efeso: appunti sulla lettera agli Efesini da testi di R.Penna

I brevi testi che seguono erano stati preparati in vista di una introduzione alla lettera agli Efesini da presentare nel corso della visita degli scavi, che poi, per ragioni di tempo, non è stato possibile fare. Il primo è tratto da R.Penna, Lo scopo della lettera agli Efesini, in L.Padovese (a cura di), Atti del II Simposio su S.Giovanni Evangelista, Istituto Francescano di Spiritualità, Pontificio Ateneo Antonianum, Roma 1992, pagg. 29-39. Il secondo è tratto da R,Penna, Il “mysterion” paolino, Paideia, Brescia, 1978, pagg.87-89. Nel primo, a partire, dal rapporto fra quelli che l’articolo chiama etnico-cristiani e quelli che chiama giudeo-cristiani (cioè i cristiani provenienti dal paganesimo ed i cristiani di origine ebraica), si analizza la realtà della novità di vita dell’uomo nuovo generato da Cristo. Nel secondo si sintetizzano i dati della ricerca sul concetto di “mistero” in S.Paolo e, specificamente, nella lettera agli Efesini, sottolineando che, nell’epistolario dell’Apostolo, il termine “mistero” non vuol dire tanto ciò che è incomprensibile, ciò che non si può capire, ma piuttosto ciò che l’uomo da solo non può conoscere se Dio non lo rivela, ma che appunto, in Gesù, finalmente è stato donato agli uomini di conoscere.

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Efeso, Museo archeologico, il Fregio di Traiano

Lo scopo della lettera agli Efesini

C’è un concetto che a mio parere costituisce l’elemento di coagulo dell’insieme della tematica epistolare e che tradisce il motivo di fondo per cui Efesini è stata scritta. Esso viene espresso nella formula kainòs ànthròpos, «uomo nuovo», che, pur essendo, di risonanza paolina, letteralmente nel NT si trova solo nella nostra lettera. Per di più la formula ricorre due volte, in due punti per così dire strategici, a formare il punto focale di entrambe le parti della lettera: in 2,15, dove essa condensa il tema dell’unione ecumenica tra etnico-cristiani e giudeo-cristiani, e in 4,24, dove esprime la nuova identità individuale del battezzato a livello ontologico ed etico. E’ come se la doppia ricorrenza di questa espres­sione rappresentasse i due occhi della lettera agli Efesini, con i quali essa vede non soltanto teoricamente il mistero cristiano in se stesso, ma anche concretamente la situazione storica dei suoi destinatari etnico-cristiani. Lo stesso concetto ricorre pure, in una formulazione analoga, in 3,16 (eis ton iso ànthropon) circa la vita di fede e di carità, e nella sezione 4,1-16 che fa da ponte fra le due grandi parti epistolari, per dire che anche i mi­nisteri ecclesiali hanno il compito di condurre tutti i cristiani alla statura dell’«uomo perfetto» (4,13: eis àndra téleion).
In primo luogo, i lettori etnico-cristiani hanno bisogno che venga loro ricordato insistentemente il nuovo status sociale di cui sono entrati a far parte: la chiesa, comunità di battezzati e credenti in Cristo, non è una setta basata sull’apartheid nei confronti dei cristiani di provenienza giudaica; questi anzi hanno obiettivamente un posto d’onore, poiché «per primi hanno sperato nel Messia» (cf. 1,12), hanno goduto di una cittadi­nanza che ora viene condivisa per grazia dai nuovi venuti (cf. 2,12.19) e sono stati portatori di una promessa di cui i pagani diventano solo ora immeritatamente partecipi (cf. 3,6). La chiesa perciò è la realizzazione di un insieme ecumenico, interreligioso e interculturale. Proprio questo significa diventare «uomo nuovo» (cf. l’esegesi di 2,15) in senso collettivo: i cristiani, non importa di quale provenienza siano, sono chiamati a for­mare in Cristo un solo corpo e un solo spirito. La lettera intende richia­mare i suoi destinatari etnico-cristiani, non tanto al fatto che essi non de­vono allontanare da sé i giudeo-cristiani, ma piuttosto al fatto che non devono separarsi e isolarsi da essi, poiché senza Israele non esisterebbe nemmeno la chiesa. Efesini suppone una forma di anti-semitismo più teorico che pratico, basato più sulla dimenticanza che sull’intolleranza, comunque non meno grave, perché consistente in un tentativo (non sap­piamo quanto consapevole) di rimozione d’Israele dall’orizzonte della propria identità. Uomo nuovo, dunque, è la comunità cristiana in quanto sa e deve assolutamente integrare in se stessa anche l’antico: non per un mero ripescaggio storico, ma per una semplice necessità strutturale[2]. Al fine di rimarcare inequivocabilmente questo stato di cose, l’autore di Efesini fa ricorso al concetto di «mistero», desunto dalla teologia apoca­littica: in quanto tale, da una parte esso dice che l’unione di giudei e pa­gani in Cristo e nella chiesa è fondata nella volontà di Dio, quindi non è riducibile ad una pura contingenza storica, e, dall’altra, esso dice pure che la sua realizzazione reca il segno della novità escatologica, quindi è un dato tanto inedito quanto definitivo (cf. soprattutto 3,5-6).
In secondo luogo, gli originari lettori di Efesini vengono esortati a vivere coerentemente ogni giorno la loro novità personale. Col batte­simo, infatti, ciascuno è diventato individualmente «uomo nuovo» (e “luce nel Signore”: 5,8); e il nostro autore si dilunga in una parenesi anche dettagliata, che traccia un cammino etico molto concreto e sfaccet­tato. L’annuncio, che caratterizza la prima parte della lettera, nella se­conda diventa esigenza: l’evangelo fonda e stimola un adeguato comportamento morale. Ma queste non sono soltanto dichiarazioni di principio. E’ importante invece cogliere il nesso tra i due elementi proprio a livello della nostra lettera e dei suoi destinatari. Infatti, lo sganciamento di co­storo da Israele implicava inevitabilmente una ricaduta nel paganesimo, non solo ideale ma morale (cf. soprattutto 4,17-19). Ritorna qui il tipico concetto dell’apologetica giudeo-ellenistica (cf. Sap. 13s; Rm 1,18-32), se­condo cui la falsa conoscenza di Dio ingenera una aberrante moralità. Al contrario, “apprendere il Cristo” (cf. 4,20) conduce a vivere “nella giusti­zia e nella santità della verità” (4,24). L’autore di Efesini vede i suoi lettori correre il rischio di essere riassorbiti dall’uomo vecchio e dalla tene­bra dell’immoralità, e la sua insistenza sugli avverbi di contrapposizione tra il passato e il presente (“una volta, adesso”; “non più”), non solo nella prima parte della lettera (cf. 2,2.11.13.19; cf. 3,5) ma anche nella seconda (cf. 4,14.17.28; 5,8), rivela quanto fosse presente il richiamo a vivere in pienezza la loro acquisizione battesimale, facendo soprattutto dell’amore reciproco il proprio contrassegno (cf. il frequente, tipico complemento “en agapéi” in 1,4; 3,17; 4,2.15.16; 5,2). La parenesi scende fino a interessarsi, e ampiamente, dei rapporti interni alla vita domestica (cf. 5,21-6,9), men­tre l’allegoria finale dell’armatura sottolinea tutta la serietà della posta in gioco (cf. 6,l0ss). Per Efesini, dunque, non basta che l’uomo nuovo sia stato creato al momento del battesimo, poiché occorre l’impegno a diventarlo ulteriormente giorno per giorno. Evidentemente i suoi lettori avevano bisogno di sentirselo raccomandare.
Infine, il tema della novità antropologica è presente anche nella se­zione 4,1-16, dove il concetto dell’unità ecclesiale si combina dialettica­mente con quello della diversità ministeriale. Lo scopo dei vari ministeri è di condurre tutti «all’uomo perfetto, alla statura della pienezza di Cri­sto, affinché non siamo più bambini...» (4,13s), ed era già preparato dalla preghiera del mittente per il rafforzamento dei suoi lettori “nell’uomo in­teriore” (3,16). La posizione di questo brano nella struttura della lettera gli conferisce la funzione di trait-d’union fra la sezione teologica (1,3-3,21) e quella più propriamente parenetica (4,17-6,20). Ciò equivale a ri­conoscere agli stessi ministeri ecclesiali un compito di mediazione, quasi maieutico, tale da favorire la crescita dell’ “uomo nuovo” verso l’età adulta, sia nel senso di promuovere e mantenere l’unione ecumenica tra i giudeo-cristiani ed etnico-cristiani (cf. la funzione paradigmatica di Paolo in 3,1-9), sia nel senso di istruire i battezzati nella traduzione della loro fede in vita etica (cf. la funzione dei «pastori e maestri» in 4,11 con 4,20-1). Soprattutto, appare sufficientemente chiaro che questo compito mi­nisteriale si innesta e prosegue quello degli «apostoli e profeti» (2,20; 3.5: 4,11), di cui i primi appartengono ormai ad un passato relativamente lontano, mentre i secondi garantiscono il nesso tra di essi e le più recenti forme di ministero ben conosciute nelle comunità dei destinatari di Efesini...
I lettori di Efesini sono in una particolare condizione di rischio, anche se non risulta provocata dall’esterno e non è descritta in termini espliciti, visto che l’autore non fa riferimento ad alcun oppositore speci­fico, come avviene invece nelle altre lettere paoline (cf. Rm 3,8; 16,17s; 2Cor 11,5.13; Gal 1,7; Fil 3,2.18s; lTs 2,14)23. Solo in 5,6s si legge un gene­rico accenno a dei vuoti disturbatori della vita morale, che si possono in­tendere al meglio come semplici tentazioni provenienti dall’ambiente pa­gano in cui i cristiani vivono. Ciò che caratterizza la chiesa efesina in so­stanza non è una positiva dottrina eretica, ma la mancanza di un appro­fondimento della novità ecclesiologica e morale e di un autentico radica­mento della parola annunciata nella vita (cf. Mc 4,16-17!). Per questo l’autore insiste, come abbiamo detto, sulle caratteristiche dell’ “uomo nuovo” (2,15; 4,24), «interiore» (3,16) e «perfetto» (4,13): i lettori devono prendere fortemente coscienza di ciò che col battesimo sono diventati, sia collettivamente che individualmente, e tradurlo in vita vissuta, in una co­stante crescita verso «l’intero pléroma di Dio» (3,19)24. La lezione che egli intende dare è che per vivere in pienezza l’identità cristiana non è necessario attendere l’occasione di un’esplicita minaccia, ben configura­bile nei lineamenti di specifici avversari; normalmente infatti il cristiano non deve confrontarsi con «la carne e il sangue» ma con «i padroni di questo mondo tenebroso» (6,12), insieme generici e reali. Tuttavia, Efe­sini non è comandata da un pessimistico e ansioso atteggiamento di di­fesa; al contrario, la sua atmosfera di serena contemplazione e la esuberante proclamazione di una vittoria già conseguita in Cristo, tale da porre fin d’ora «nei cieli» l’esistenza del cristiano (cf. 2,4-7), conferisce ai lettori la costante certezza di «un libero accesso in piena fiducia» a Dio padre (cf. 3,12;2,18). E l’agiografo, appunto, intende ricordare alla sua chiesa che cristiani autentici si può e si deve essere, non per una pole­mica opposizione a ben individuate persone avverse, ma neanche in un inerte e comodo adagiarsi conformistico all’originario stile pagano di vita, poiché invece il semplice battesimo (cf. 1,13;4,30) e l’appartenenza ad una originale comunità di credenti (cf. 2,19-22) recano in sé tutta la forza necessaria e la ragione sufficiente per impostare e condurre una vita nuova, pacifica e non polemica, ma anche ben distinguibile e non confor­mistica, la quale comunque sta tutta intera sotto il segno della ricca, tra­boccante e multiforme grazia di Dio (cf. 1,7.18.19; 2,7; 3,10.19.20). Dalle pagine della nostra lettera si sprigiona la gioia tranquilla dell’essere cri­stiani e di esserlo intensamente, in un atteggiamento profondamente positivo, sia nei confronti del mondo (poiché tutto il cosmo ha ormai Cristo come capo; cf. 1,10.20-23; 4,6.10), sia nei confronti della storia (poiché da una parte, Israele appartiene strutturalmente al piano salvifico di Dio, e, dall’altra, tutte le genti sono ordinate a condividere la stessa grazia del Vangelo: cf. 2,11-3,12). Di qui nasce anche l’inderogabile impegno della testimonianza, se non proprio della missione, che deve investire tutta la chiesa ed essere a raggio universale (cf. 3,10), con una partenza molto concreta tra le pareti domestiche (cf. 5,21-6,9).
Questo, a grandi linee, è l’insegnamento che l’autore vuole impartire, e di cui la comunità necessita. Che esso poi venga espresso in uno stile particolarmente solenne e parzialmente condizionato da un’atmosfera culturale pregnostica, ciò dipende rispettivamente dal genio personale del mittente e dal clima ambientale che egli respira...
L’intento pastorale dell’autore di Ef si potrebbe anche vedete compendiato in tre verbi che qualificano i tre livelli della vita cristiana: 1) eìdénai, “conoscere, intendere” (1,18;cf.1,8; 3,18.19; 5,17), esprime l’aspetto intellettivo della fede e comunque la componente sapienziale dell’identità cristiana; 2) krataiothénai, “essere rinvigoriti” (3,16; cf. 1,13; 4,23.30; 5,18; 6,10; e l’allegoria della panoplia in 6,11-17), esprime l’aspetto di gratuità divina e insieme di dinamismo della vita cristiana mediante la pienezza dello Spirito; 3) peripatésai, “cammi­nare” (2,10; 4,1.17; 5,2.8.19; cf. 2,10; 5,9.11), esprime l’aspetto pratico e vissuto dell’essere cri­stiani, punto d’arrivo e di verifica dei due gradi precedenti. Nessuno dei tre momenti può sussistere da solo, né in coppia con uno solo degli altri due.

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Museo archeologico di Efeso, Leone dal Mausoleo di Belevi, forse per il re Seleucida Antioco II, morto vicino ad Efeso nel 246 a.C.

Il “mysterion” paolino

Nel N.T., il tema del μυστήριον riceve un trattamento unita­rio soltanto da Paolo. In tredici passi del suo epistolario (1Cor2,1-7; Rom. 16,25; Col. 1,26.27; 2,2; 4,3; Ef.1,9; 3,3.4.9; 5,32; 6,19; ad essi si può attrarre Apoc10,7) è dato individuare la presenza di un Mistero dalla profonda valenza teologica (di norma qualificato semplicemente come ‘il’ Mistero), il quale, mediante lo schema nascondimento-rivelazione, ci introduce fino all’intimo se­greto della sapienza di Dio e alle sue più profonde intenzioni sulla storia. Già quest’ultima osservazione è distintiva, poiché deli­mita il campo semantico del Mistero, distanziandolo dalle specu­lazioni cosmologiche proprie di alcune sezioni della letteratura sa­pienziale, o comunque dando ad esse un valore secondario.
L’esposizione precedente ha inteso mettere in luce i due livelli diversi e complementari, che ci permettono di accostarci adeguata­mente al tema.
Il primo livello, forse il più evidente, è quello del suo divenire, cioè del suo passaggio dal nascondimento alla manifestazione e rea­lizzazione progressiva fino alla consumazione finale; l’individuazio­ne di queste varie fasi ci dice che il Mystêrion ha un percorso, un tragitto da compiere e che quindi esso ha a che fare con la storia. Non si tratta dunque di una pura nozione astratta, conoscibile solo per rapimento mistico o ispirazione diretta disgiunta da ogni precomprensione. E’ invece dalla concreta e oggettiva esperienza storica, oltre che dai documenti letterari che ce l’attestano, che si può accedere alla sua identificazione. In qualche modo perciò la stessa traiettoria del Mistero condiziona la sua definizione.
Il secondo livello è quello delle varie componenti intrinseche, che ci permettono di definirne l’essenza. L’analisi fatta ce lo ha squadernato nei suoi quattro aspetti costituivi: teologico, cristologico, ecclesiologico, antropologico, per terminare con l’ammet­tere un largo margine di eccedenza quanto alla sua comprensibili­tà. Ne risulta una natura complessa e ricca.
Comunque, sullo sfondo dell’apocalittica giudaica (qumrania­na), abbiamo riconosciuto che il Mystèrion affonda le sue radici in un piano d’intervento e quindi in una decisione operativa di Dio; esso anzi, propriamente parlando, non solo si fonda ma con­siste e si identifica appunto con l’eudokía (ebr. rāzôn) dell’insin­dacabile volontà divina, la quale si esercita nel vivo della storia. e della convivenza umana, e della quale le varie componenti indivi­duate non sono che prolungamenti e concrezioni. Rimane quindi essenziale, al fine di rendere conto preciso del linguaggio paolino, mantenere alla base della sua polivalenza semantica il concetto apo­calittico-sapienziale di un ‘disegno’ (lat. consilium) di vasto respiro storico e costitutivo. Fondamentalmente il Mistero riguarda ciò che si può variamente denominare θέλημα (= ‘volontà’: Ef. 1,9), σοφία (= ‘sapienza’: ib.3,10: ‘multiforme’!), βουλή (= ‘deci­sione’: Is. 46,10), πρόθεσις (= ‘proposito’: 2 Tim. 1,9), mahǎšè­bèt (= ‘progetto’: 1 QS 11,19) di Dio. Non solo la Chiesa e l’uomo nuovo, ma anche Cristo stesso, oltre che il divenire storico, fanno parte, ciascuno al suo livello, di questo unico Mistero germinale: «tutto ciò che sarà fu nel tuo beneplacito» (1 QS 11,18: kô1 han­nihjâ birsône kâ hājâ).
Adottando il paragone di una clessidra, possiamo dire che il passaggio dallo stadio di nascondimento-progettazione a quello di rivelazione-realizzazione avviene in tutte le sue parti attraverso una strozzatura obbligata che, fuor di metafora, è rappresentata da Gesù Cristo. Egli perciò sta al centro del Mystêrion divino, a par­tire dal suo concepimento pretemporale fino alla sua esecuzione storica (cfr. Ef. 1,9-10). Soltanto attraverso di lui acquistano poi rilevanza sia la componente ecclesiologica sia quella antropologi­ca: non solo la loro conoscenza, ma anche la loro esperienza vissu­ta (cfr. anche 1Cor. 2,16: «chi mai conobbe il pensiero del Si­gnore-Dio così da istruirlo? ma noi abbiamo il pensiero di Cri­sto», che ci media appunto quello di Dio). Il Mistero di Dio ha poi un destinatario ultimo ben preciso, anzi inevitabile: l’uomo, sia egli ebreo o pagano; ambedue le parti (come esponenti delle divisioni più stratificate esistenti nell’umanità) sono chiamate proprio a dar vita, a livello di Chiesa, ad un nuovo modo di rap­portarsi comunionalmente, sulla base di un autentico rinnovamen­to personale-interiore e in una prospettiva di speranza.
Tutto questo è compreso nel concetto paolino di Mystérion, il quale pertanto viene ad assumere un valore di cifra per indicare il contenuto sostanziale del messaggio cristiano, connotato particolarmente nell’aspetto fontale del ‘santo disegno’ (1 QS 11,19) di Dio. Può essere interessante notare che tale formulazione te­matica, iniziata a partire da 1Cor. 2,1.7 in una cornice di riflessio­ne sapienziale sulla divina stoltezza del messaggio della Croce, vie­ne poi ripresa e sviluppata più tardi nelle due lettere gemelle di Col-Ef. (unitamente alla chiusa di Rom.) ed estesa ad orizzonti semantici più vasti. Se ne può dedurre onestamente che l’Apostolo, nella maturità della sua vita e della sua teologia, ha finalmente scoperto ed elaborato un concetto unico e sintetico per la sua riflessione sul messaggio cristiano. Volendone tentare, in conclusio­ne, una definizione compendiosa, potremmo dire così: il Mystê­rion è l’imperscrutabile beneplacito salvifico di Dio che, facendo perno sulla ineguagliabile statura personale di Gesù Cristo croci­fisso-risorto, si realizza linearmente nella storia e nell’éschaton secondo una duplice dimensione comunitaria (= ekklesía) e indi­viduale (= uomo nuovo)[3]. Il Mistero paolino ci conferma che il Dio biblico, in momenti e forme diverse, πολυμερως χαί πολυτρόπως!: Ebr 1,1) è pur sempre un Dio «per noi» (Rom. 8,31) e «con noi» (Mt. 28,20).

Efeso-Selçuk, Basilica di S.Giovanni: per leggere ed amare l’evangelista Giovanni. Appunti tratti dagli studi di p.Ignace de la Potterie (di d.Andrea Lonado).

La meditazione su S.Giovanni Evangelista, nella basilica di S.Giovanni ad Efeso, non è stata registrata. Mettiamo a disposizione on-line una selezione di brani di p.I.de la Potterie – oltre ad un breve testo di notizie patristiche su S.Giovanni di D.Mollat, in Appendice - che erano stati raccolti in vista di quella meditazione. P.Ignace de la Potterie, gesuita belga, professore del Pontificio Istituto Biblico di Roma, è stato chiamato a sé dal Signore all’età di 89 anni, l’11 settembre 2003. Questa antologia di suoi brani vuole essere anche un omaggio al valore della sua ricerca nel campo della Scrittura ed, in particolare, negli studi sul IV vangelo.

Nel presentare alcune delle ricchissime riflessioni di p.de la Potterie sul vangelo di Giovanni, vogliamo innanzitutto partire da quello che, a ragione, il gesuita belga considera il versetto centrale dell’Evangelo giovanneo. Dinanzi alla realtà dei segni compiuti da Gesù e dal segno supremo che è Gesù stesso, Giovanni non perde mai di vista la realtà storica, sensibile, terrena, umana, dell’evento che gli è dinanzi agli occhi, ma sa vedere in essa la realtà divina, eterna, che è presente. La compresenza del divino e dell’umano nella vicenda dell’evangelo è così al cuore di tutta la sua testimonianza. Così risponde p. de la Potterie alle domande di Antonio Socci[4]:

Nell’ultima cena Gesù dice: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (14,9). E’ il versetto centrale del quarto Vangelo. Vedere fisicamente Gesù non bastava, ovviamente: anche i suoi nemici lo vedevano eppure lo ritenevano semplicemente un uomo di Nazareth, anzi un impostore. Ma vedere e udire fisicamente Gesù, un uomo con un volto, una carne, era indispensabile, per pervenire progressivamente a contemplare in lui, con l’occhio della fede, il Figlio di Dio, cioè a scoprire in lui il Verbo fatto carne. E’ Gesù, con le parole, i gesti, i miracoli, con tutta la sua presenza, che introduce al Mistero e conduce dal “vedere” un uomo di carne al riconoscere, in quella carne, il Verbo di Dio. Il “vedere” fisico, per tutto il Vangelo, è la via d’accesso al Mistero. Questa pedagogia del vedere diventa esplicita – è Gesù stesso che la spiega – nel capitolo 20. E pochi finora sembrano averlo capito.
Dunque cosa è possibile scoprire?
Il punto di partenza è ciò che si vede con questi nostri occhi di carne: si comincia dai segni, come il sepolcro vuoto o il giardiniere, un uomo reale in cui s’imbatte Maria Maddalena, che poi riconosce in lui Gesù... E’ una progressione. Anche del verbo vedere: prima il verbo greco βλέπω, che vuol dire scorgere, notare qualcosa. Poi θεωρειν che troviamo per la Maddalena e vuol dire guardare attentamente, osservare. Poi il verbo οραν, al perfetto greco che esprime la forma perfetta del verbo vedere e che io tradurrei qui “ora vedo perfettamente, contemplo il senso profondo di ciò che vedo”. Dunque dall’accorgersi di qualcosa alla contemplazione del Mistero di Dio nella realtà visibile, questa è la dinamica della prima fede cristiana, secondo i Vangeli. E’ una storia raccontata attraverso gli occhi degli apostoli. Certo. L’evangelista però cerca di descrivere, nei primi testimoni della risurrezione, l’approfondimento progressivo del loro sguardo su Gesù. Il semplice βλέπειν (accorgersi) dell’inizio, diventa uno sguardo attento, scrutatore (θεωρειν), ma la pienezza della fede pasquale è espressa solo dal verbo al perfetto. “Ho visto il Signore” come annuncia la Maddalena ai discepoli. L’evangelista ha curato tutti i particolari di questo capitolo? Il capitolo è costruito in maniera concentrica. Primo episodio: i due apostoli, Pietro e Giovanni, al sepolcro (vv. 1-10). Secondo: l’apparizione alla Maddalena (vv. 11-18). Terzo: l’apparizione ai discepoli senza Tommaso (vv. 19-25). Infine, quarto: l’apparizione in presenza di Tommaso (vv. 26-29). Il primo episodio è parallelo al quarto e il secondo al terzo. Questa struttura sottolinea che la fede in Cristo risorto si basa sulla testimonianza “di quelli che hanno visto il sepolcro vuoto e il Signore vivo”. Sono parole di padre Donatien Mollat. Non si parla più, spesso, in questo modo oggi...
Dunque, cosa riferisce il testimone Giovanni?
Limitiamoci alle apparizioni pasquali. Il primo episodio, Pietro e Giovanni al sepolcro, la tomba vuota, le bende e Giovanni che “cominciò a credere” (non “credette” come recita la traduzione normale, perché subito dopo aggiunge: “Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura”). E’ la fede iniziale del discepolo che Gesù amava. Anche per la Maddalena è molto chiara la purificazione progressiva del suo sguardo. Quando riconosce quell’uomo dice “Maestro, sei tu!”. No, non è più il maestro di prima. Maria è legata alla vecchia immagine che aveva di lui. Ma poi accetta il riconoscimento della fede: è il Signore risorto. E’ lui stesso che glielo dice. Allora capisce: Gesù non è più come prima pur essendo sempre la stessa persona.
Poi l’apparizione ai discepoli senza Tommaso.
I discepoli sono pieni di gioia “alla vista del Signore”. Diranno a Tommaso: “Abbiamo visto il Signore”. Lo avevano riconosciuto prima che aprisse bocca, perché avevano accettato la testimonianza della Maddalena. E’ molto importante saper accettare una cosa su testimonianza. Ciò che Tommaso non fa. Lui diffida della testimonianza dei suoi amici. Gesù voleva educare il loro sguardo così: la prima tappa è il vedere fisico, i segni, quindi il vedere su testimonianza, infine vedere e contemplare con lo sguardo trasformato dallo Spirito che permette di cogliere il senso delle cose, tutta la profondità della realtà[5].

La gloria del crocifisso innalzato in Giovanni

Lo sguardo di Giovanni coglie in profondità così ciò che si realizza nell’evento della croce. Non solo la resurrezione è glorificazione di Gesù, ma già la sua crocifissione partecipa dello splendore della gloria. Così spiega p. de la Potterie[6]:

Nei Sinottici, Gesù predice che dovrà soffrire molto; annuncia che “sarà schernito, flagellato e crocifisso” (Mt 20,19) e che il terzo giorno risorgerà. Giovanni, invece, annunciando la passione di Gesù la presenta come una “esaltazione”. Lo fa nei capitoli 3 (versetti 14-15), 8 (versetto 28) e 12 (versetto 32). L’ultimo è il brano più esplicito: “Quando io sarò innalzato [exaltatus] da terra attirerò tutti a me”. Nel versetto precedente Gesù aveva detto: “Ora è il giudizio di questo mondo, ora il principe di questo mondo [satana] sarà cacciato fuori”. Gesù, innalzato da terra, prenderà il suo posto, divenendo re e attirando tutti a sé. Ma, come si vedrà più avanti, l’esaltazione di Gesù non avviene in paradiso, ma sulla croce...

Giovanni non nega la realtà. La materialità degli avvenimenti che racconta rimane intatta. Giovanni però mette in rilievo, a differenza dei Sinottici, l’aspetto di regalità, di trionfo, di vittoria sul male, di valore salvifico, che è insito nella passione e nella morte subita da Gesù Cristo; indica il senso degli eventi. Questi aspetti emergono anche durante la sua crocifissione. Alla fine del processo fatto dai Romani, Pilato conduce Gesù di fronte alla folla e dice: “Ecce homo”, ecco l’uomo (Gv 19,5). Gesù indossa i simboli della regalità: oltre alla corona (di spine) ha ancora il mantello (i Sinottici, invece, dicono che la porpora gli è stata tolta). Leggendo Giovanni si ha addirittura l’impressione (erronea) che Gesù vada alla croce indossando la porpora e la corona (di spine). E c’è un impressionante parallelismo, anche letterario, tra la scena avvenuta nel pretorio nel luogo chiamato Gabbatà (Gv 19, 13-16), e quanto accade ai piedi della croce, sul Golgota (Gv 19, 17-22). In entrambi i casi Giovanni pone l’accento sul tema della regalità, e in entrambi i casi è Pilato, cioè il detentore del più alto potere civile, che rende gli onori a Gesù. “Ecco il vostro re” dice alla folla radunata davanti al pretorio (Gv 19,14); poi sopra la croce egli scrive: “Il re dei Giudei” (Gv 19,19). E’, di fronte al mondo, una proclamazione della regalità di Cristo fatta in tre lingue: in ebraico (la lingua di Israele), in greco (la lingua della cultura) e in latino (la lingua del potere civile). Questo episodio viene raccontato solo da Giovanni. E non è un caso se nella tradizione cristiana la Via crucis, ispirata principalmente al racconto di Giovani, diventa una via trionfale. Giovanni scrive che Gesù esce dalla città “baiulans sibi crucem”. Abitualmente viene tradotto: “Portando la croce da sé”. In realtà la traduzione corretta è: “Portando la croce per sé”, cioè portandola come strumento della sua vittoria. San Tommaso d’Aquino conferma questa traduzione. Dice: “Cristo portò per sé la croce, e per gli empi era un grande ludibrio ma per i fedeli un grande mistero. Cristo porta la croce come un re porta il suo scettro, come segno della sua gloria, della sua sovranità universale su tutti. La porta come un guerriero vittorioso porta il trofeo della sua vittoria”. E nei primi secoli san Giovanni Crisostomo aveva già usato un’espressione analoga: “Egli portò sulle proprie spalle il segno del trionfo”.
La croce in Giovanni non è più solo un patibolo, diventa “la croce di Gesù”: è una formula che altrove nel Nuovo Testamento viene usata solo da Paolo per parlare del mistero salvifico della croce di Cristo (cfr 1Cor 1,17).
Insomma, in tutto il racconto di Giovanni ogni piccolo dettaglio attira l’attenzione su questo diverso livello di lettura. Per esempio, solo i Sinottici parlano di due ladroni, Giovanni si limita a parlare di altri due in mezzo ai quali viene crocifisso Gesù (“medium autem Jesum”): la centralità di Cristo è un altro segno della sua dignità.
Un altro esempio: Giovanni sta vicino a Maria, ma ella sola sta vicino alla croce di Gesù. E’ Maria la più coinvolta con la croce di Gesù, Giovanni è in secondo piano. E Maria per la seconda volta viene chiamata da Gesù, come era già accaduto a Cana, “donna”. E’ questo il termine usato nell’Antico Testamento per designare la Figlia di Sion. Nei profeti Isaia e Baruch “la figlia di Sion” è la donna che dopo l’esilio richiama a casa tutti i dispersi. Sotto la croce Maria, la madre di Gesù, una donna concreta, realizza quella prefigurazione scritturistica: Maria, ricevendo il discepolo come figlio, attua nella realtà l’immagine della Figlia di Sion, cioè la Chiesa, che vede tornare i suoi figli dall’esilio. Per Giovanni, è il momento in cui nasce la Chiesa, nelle due persone presenti sotto la croce: la madre di Gesù rappresenta già la Chiesa-Madre; e il discepolo che Gesù amava rappresenta tutti i discepoli: diventando figli di Maria (“Ecco tua madre”) diventano tutti figli della Chiesa. La croce, in Giovanni, è vista in prospettiva ecclesiale.
Un altro elemento proprio soltanto a Giovanni nel racconto della crocifissione è rappresentato dal sangue e dall’acqua che escono dal costato di Gesù Cristo morto, quando viene perforato dalla lancia del soldato (Gv 19,34): l’acqua simboleggia lo Spirito Santo dato da Gesù Cristo alla Chiesa (Gv 19,30) e il sangue attesta la realtà del sacrificio, il dono della vita di Cristo, col quale “tutto è compiuto” (Gv 19,28).
Anche nella sepoltura di Cristo emerge un dettaglio “regale”. I circa trenta chili di balsamo (cento libbre di mirra e aloe) che, secondo Giovanni, sono stati utilizzati, eccedevano una misura media. E’ una quantità che poteva essere utilizzata per un re. Si apre già qui la prospettiva sulla Pasqua (Gv 19,31-42).
E’ indubbio, alla luce di quanto abbiamo detto, che Giovanni dà una visione della croce differente da quella degli autori dei tre Vangeli sinottici. Per Giovanni, certo, la croce non viene annullata, non ci presenta una visione gnostica; ma quell’avvenimento è letto nella sua valenza gloriosa. E’ ciò che ha ben presente la Chiesa nella sua liturgia.

Ci sono solo due precetti e due peccati

Al centro del pensiero di p. de la Potterie, stanno le sue considerazioni sul concetto di “verità” in S.Giovanni. A questo tema il gesuita aveva dedicato la sua ponderosa testi di laurea (per una presentazione di questo tema vedi la sintesi elaborata dallo stesso p. de la Potterie e pubblicata on-line sul nostro sito nella sezione Approfondimenti con il titolo: “Che cos’è la verità? Verità biblica e verità cristiana”). E’ dalla “verità” che è Gesù che discendono gli unici due precetti che S.Giovanni sembra avere in mente: la fede e l’amore. Così ancora p. de la Potterie[7]:

Partiamo... dalla dichiarazione di Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno va la Padre se non attraverso di me”. Nessun uomo della storia ha mai parlato così di se stesso. Per comprendere bene queste parole bisogna metterle in relazione con il mistero del­l’incarnazione ossia del fatto che, in Gesù, si realizza il mistero di “Dio con noi” (Mt 1, 23). L’unicità dell’incar­nazione del Figlio di Dio, che è Gesù Cristo è la ragione fondamentale dell’unicità della verità cristiana. Un altro testo fondamentale è quello del Prologo: «La grazia della verità accadde in Gesù Cristo» (Gv 1, 17). L’incarnazione è evento unico nella storia delle religioni: quell’uomo della storia, Gesù, era il Figlio di Dio venuto da presso il Padre. Perciò dobbiamo sempre dire con un apoftegma dei Padri del deserto: «Colui che persevera nella memoria di Gesù, costui è nella verità». Così viveva anche san Paolo: «Per me, vivere è Cristo e il morire un guada­gno» (Fil 1, 21); tutta la sua opera missionaria consisteva in questo: «Far conoscere tra i Gentili la splendida ricchez­za di questo mistero: Cristo in voi, la speranza della gloria» (Col1, 27).
Ma se la verità cristiana è un avvenimento che è miste­ro, si comprende che abbia una relazione intima con lo Spirito Santo. La verità è un evento, sì, ma un evento rivelatore, un mistero che deve essere sempre approfondito dal di dentro. E proprio qui che è necessaria la funzione dello Spirito. Se Gesù Cristo è la verità, è anche vero che «lo Spirito è la verità» (1 Gv 5, 6); Giovanni è l’unico autore del Nuovo Testamento che usa l’espressione «lo Spirito della verità». Contrariamente a ciò che pensava Gioacchino da Fiore nel XIII secolo, lo Spirito non porta una verità nuova, diversa da quella di Gesù: al contrario, lo Spirito della verità ci a ricordare tutto ciò che ha detto Gesù, per insegnarcelo dal di dentro, così ci fa entrare “in tutta inte­ra la verità”) (Gv 16, 13).
Scrive monsignor Luigi Giussani nel libro Il cammino al vero è un’esperienza: «Ha veramente incontrato Cristo solo chi possiede il suo Spirito: “Se uno non ha lo Spirito di Cristo non è dei suoi”, cioè è un estraneo, un incapace di sorprenderne l’intima fattura, la natura segreta, di diventa­re familiare del suo mistero».
Questo doppio rapporto della verità con Cristo e con lo Spirito ci apre una prospettiva veramente nuova per la nostra vita cristiana, per la morale cristiana. Per compren­derlo ancora meglio, partiamo adesso da un altro celebre testo giovanneo: «Dio è amore» (1 Gv 4, 8. 16). Qui di nuovo dobbiamo insistere sull’assoluta novità di una tale affermazione. Nelle altre religioni si parla per esempio della profondità del mistero di Dio, della sua grandezza, della sua eternità, della sua giustizia, ecc. Ma solo il cristianesi­mo ci insegna: “Dio ha tanto amato il mondo che ha man­dato il suo Figlio unigenito affinché chiunque crede in lui [...] abbia la vita eterna” (Gv 3, 16).
Una tale rivelazione trasforma la morale cristiana. Gesù ci ha lasciato un solo comandamento, che è un comandamento nuovo, quello di amarci gli uni gli altri, come lui ha amato noi (Gv 13, 34). Solo così si spiega il fatto, a prima vista paradossale, che tutta la morale giovannea è praticamente “una morale della verità”. Si compendia in due pre­cetti fondamentali: la fede (che ci apre al Mistero) e l’amore (che ci fa vivere nel mistero della rivelazione).

Per converso Giovanni sembra conoscere, nella sua essenzialità e semplicità ricchissime, solo due peccati: il rifiuto della fede in Gesù e l’odio del fratello. Ecco come il gesuita belga presenta, dopo l’Incarnazione, il peccato del mondo (è significativo che il Battista, in Giovanni, chiami così Gesù: l’Agnello di Dio che toglie “il” peccato del mondo)[8]:

Prima di imbattersi personalmente nella novità del cristianesimo è soggettivamente ancora possibile una religiosità umana o persino una posizione di indifferenza non menzognere e inique. Ma l’incontro col fatto cristiano rivela l’apertura o la chiusura del cuore di ognuno di fronte alla scelta di Dio, di fronte al modo storico in cui il Mistero ha scelto gratuitamente di rivelarsi. Per questo, per Giovanni l’unico peccato mortale è l’incredulità, che si trasforma in odio. Un’incredulità che non è più indifferenza di fronte a ciò che non si conosce, ma rifiuto e negazione di ciò che si è visto. Può odiare il cristianesimo solo chi in qualche modo lo ha incontrato, chi ha visto e odia ciò che ha visto. Lo dice Gesù stesso, sempre nel capitolo 15, dopo la frase da lei citata: “Chi odia me, odia anche il Padre mio. Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessun altro ha mai fatto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio” (Gv 15,23-24).
Qual è la radice di questo odio?
Ci sono molti passi che illuminano. Quando Gesù identifica se stesso con il pane disceso dal cielo, i Giudei mormorano: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?” (Gv 6, 42). Quando Gesù va ad insegnare al tempio, alcuni dicono, rivolti ai capi farisei: “Non è costui quello che cercate di uccidere? Ecco, egli parla liberamente e non gli dicono niente. Che forse i capi abbiano riconosciuto davvero che egli è il Cristo? Ma costui sappiamo da dov’è, il Cristo invece quando verrà nessuno saprà da dove sia” (Gv 7,25-27). Lascia spiazzati il fatto che Gesù era un uomo come tutti, un uomo di cui si conosce il nome, la data di nascita e il paese dove aveva vissuto. Eppure pretende di identificarsi col Mistero, di “farsi Dio” (Gv 10,33). Lo scandalo davanti a questa pretesa, che coincide col mistero stesso dell’incarnazione, diventa obiezione rabbiosa nei Giudei che non accettano la libertà assoluta del Mistero nello scegliere come gratuitamente comunicarsi. Per questo ci sono i tentativi di lapidarlo (Gv 8,59; Gv 10,31). Dalla parte opposta c’è la posizione della folla dei semplici, che crede ai segni e che Giovanni descrive poco più avanti: “Molti della folla invece credettero in lui, e dicevano: “Il Cristo, quando verrà, potrà fare segni più grandi di quelli che ha fatto costui?” (Gv 7,31). Eppure anche il “successo” della missione pubblica di Gesù, i frutti della sua predicazione, diventano insopportabili e scatenano la reazione ostile.
Soprattutto dei capi religiosi...
Davanti alle folle che seguono Gesù, i capi del sinedrio s’inquietano: “Che facciamo? Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione” (Gv 11, 47-48). Ma più avanti c’è una frase ancora più rivelatrice: “I farisei allora dissero tra loro: “Vedete che non concludete nulla? Ecco che il mondo gli è andato dietro!” (Gv 12,19). Questo è importante. Se il cristianesimo fosse una cosa totalmente estranea alle attese ultime del mondo, cioè di ogni uomo, non susciterebbe alcuna reazione. Se Gesù fosse stato un predicatore di idee religiose e morali, anche elevatissime, lo avrebbero lasciato fare. E invece la sorpresa è che il mondo subisce il fascino della sua presenza, che non è del mondo ma che risponde alle attese del mondo. L’odio e l’ostilità sono così cattivi solo perché carichi del rinnegamento di questo fascino verso qualcosa che il potere del mondo non riesce a tenere sotto controllo...

Ma all’inizio, la ragione era più profonda, anche perché il cristianesimo non veniva ridotto a una mera morale. Gesù dice che non è lui a giudicare il mondo, ma che il mondo stesso, rifiutandolo, si autocondanna. Gesù lo spiega a Nicodemo: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio” (Gv 3,17-18). Gesù è venuto per salvare il mondo, ma questa salvezza non è un automatismo meccanico. Davanti al fatto cristiano che entra nel mondo, il mondo si divide. Gesù lo ripete dopo l’episodio del cieco nato: “Io sono venuto in questo mondo per dividere” (Gv 9,39). Una frase che molte edizioni dei Vangeli, sbagliando, traducono: “Io sono venuto nel mondo per giudicare”. Non giudicare, ma dividere. Una divisione che non è voluta da Gesù: egli viene e propone se stesso. Davanti a questa proposta c’è chi lo segue, e chi lo rifiuta e si autocondanna. L’immagine di questa divisione è proprio l’epilogo dell’episodio del cieco nato. Il cieco è il discepolo che accetta di seguire Gesù, il punto più drammatico del rifiuto dei farisei è l’espulsione del cieco dal tempio. Da questa divisione nasce visibilmente la Chiesa. Da una parte la folla, che, alla fine, sobillata dai capi, chiederà la condanna di Gesù; e dall’altra i suoi, pochi, che escono dal tempio e lo seguono. Per questo Gesù usa subito dopo l’immagine del Buon Pastore: “Egli chiama le sue pecore ad una ad una e le conduce fuori” (Gv 10,3).

La parola “anticristo” è fra i termini propri del corpus ioanneum (cioè l’insieme degli scritti del Nuovo Testamento attribuiti all’evangelista Giovanni). E’ espressione originaria di Giovanni, proprio perché l’evangelista vede concretizzarsi, in opposizione alla presenza del Cristo, la possibilità di opporsi a Lui, a Gesù. L’opposizione alla fede cristiana è l’apice del male possibile. Ecco un breve testo di p. de la Potterie al riguardo[9]:

Il problema affrontato da Giovanni appare molto simile a quello odierno: come discernere gli spiriti per vedere se provengono effettivamente da Dio? La risposta fondamentale di Giovanni è che il riferimento a Gesù Cristo è la misura su cui basarsi. “Da questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio” (1 Gv 4,2). E’ interessante notare che è precisamente in questo contesto che Giovanni introduce, primo fra tutti, il termine “anticristo” (1 Gv 2, 18); come altrettanto interessante è considerare qual è la situazione storica che Giovanni ha di fronte. Il fatto è molto attuale: c’è uno scisma all’interno della comunità giovannea, alcuni sono andati via. L’evangelista non ne fa una questione sociologica – sul genere dei discorsi sulla secolarizzazione così in voga nel nostro tempo – bensì colloca questo evento nella prospettiva teologico-escatologica: “Come avete udito che deve venire l’anticristo, di fatto ora molti anticristi sono apparsi” (1 Gv 2, 18). Questi anticristi sono appunto coloro che, pur appartenendo esteriormente alla comunità, non possedevano più lo Spirito di Cristo. “Non erano dei nostri” dice Giovanni; perciò è bene che se ne siano andati, perché “doveva rendersi manifesto che loro, tutti quanti, non sono dei nostri”. Dunque il pericolo di uno spirito separato da Cristo, il pericolo dell’anticristo, è un pericolo eminentemente interno alla comunità dei credenti, cioè alla Chiesa. Anche se Giovanni parla di “spirito del mondo” (“il mondo giace sotto il potere del maligno”), è quel “mondo” penetrato nel seno della Chiesa a costituire la vera insidia per la fede.

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Efeso, il presbiterio della Basilica di S.Giovanni, con il ricordo della sua tomba

“Diventare figli” in Giovanni

Possiamo ora considerare altri termini caratteristici del linguaggio giovanneo. Ognuno di essi ci rimanda alla comprensione di fondo che egli ha del mistero di Gesù, il Verbo. Innanzitutto l’insistenza sul “diventare” figli di Dio, reso possibile dall’Incarnazione[10]:

Questa concezione (N.d.C. cioé che non sia necessario diventare figli di Dio, ma che lo si sia in partenza, per il semplice fatto di essere nati come uomini) pretende trovare un avallo nell’affermazione di san Tommaso d’Aquino secondo cui “considerando la generalità degli uomini, per tutto il tempo del mondo, Cristo è il capo di tutti gli uomini, ma secondo gradi diversi” (Summa theologica III, 8, 3) ripresa dalla costituzione pastorale Gaudium et spes gli incisi “secondo gradi diversi” e “in certo modo” non si rispetterebbero tutti i dati della fede cattolica. E infatti lo stesso Concilio, nella costituzione dogmatica Lumen gentium (13), seguendo fedelmente la Tradizione, distingue chiaramente tra la chiamata di tutti gli uomini alla salvezza e l’appartenenza in atto dei credenti alla comunione di Gesù Cristo. Secondo il metodo proprio di tutta la rivelazione biblica. Se, con l’incarnazione del Verbo, la figliolanza divina fosse attribuita immediatamente a ogni uomo, il mistero della scelta o elezione e quindi la fede, il battesimo e la Chiesa non avrebbero più alcun ruolo costitutivo per la salvezza già presente nella profondità di ognuno. Insomma, ogni uomo, in virtù dell’incarnazione del Verbo, acquisirebbe automaticamente, anche se inconsapevolmente, “l’esistenza in Cristo” ricevendo così, in virtù della sua trascendenza come persona umana, gli effetti salvifici della redenzione operata da Gesù Cristo. Sarebbe un “cristiano anonimo”...

Basta tornare al Nuovo Testamento e al modo in cui san Giovanni, il discepolo prediletto, descrive la figliolanza divina, per mostrare come tale figliolanza non è un immediato possesso naturale ma sempre un dono gratuito che il Signore elargisce a chi sceglie, e che si accoglie nella fede (“Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”, Gv 15,16). Sono soprattutto tre i testi di Giovanni che trattano della figliolanza divina promessa da Gesù e sperimentata dal cristiano: un versetto del Prologo (Gv 1,12) che parla del nostro potere di diventare figli di Dio; la prima parte del dialogo con Nicodemo (Gv 3,1-8), che descrive tutto ciò che compie lo Spirito Santo in noi per realizzare la nostra generazione e la nostra nascita come figli di Dio; infine due passi della prima lettera (1 Gv 3, 6-9; 1 Gv 5, 18-19) dove vengono descritti gli effetti spirituali e morali nella vita concreta del cristiano, quando egli vive la sua divina figliolanza e diventa così “impeccabile”. Per l’argomento che stiamo trattando, sono significativi soprattutto i primi due passi sopra citati. Nel Prologo (Gv 1,12-14), Giovanni scrive: “A quanti lo accolsero, diede il potere di divenire figli di Dio, a coloro [cioè] che credono nel suo nome: [il nome di colui che] da Dio è stato generato [έγεννήθη]. Sì, la Parola si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, e noi abbiamo contemplato la sua gloria, la gloria dell’unigenito [μονογενους] venuto da presso il Padre [παρά πατρός] pieno della grazia della verità”.
E’ importante notare in questo brano del Prologo innanzitutto l’uso del verbo divenire (γίυεσθαι), sul quale i commentari non dicono quasi niente. Proprio questa scelta linguistica testimonia come intende Giovanni la figliolanza divina: figli di Dio si diventa, non si è ab initio solo in virtù della propria natura umana. La figliolanza divina non è un dato acquisito a priori, un possesso statico, implicito nella propria nascita naturale. Si diventa figli di Dio – come Gesù dice nel dialogo con Nicodemo – quando si è “generati dall’acqua e dallo Spirito”. E ciò accade quando un avvenimento, il battesimo e la fede ci introducono in una nuova dinamica dell’essere, e mettono un dinamismo nuovo nella nostra esistenza. Questo tesoro fa di tutta la vita un cammino, un progredire, sempre preceduti e accompagnati da quei fatti di grazia operati dal Signore che tornano a sorprendere il cuore nutrendo così la fede. Insomma la figliolanza divina non è un marchio metafisico impresso nel destino di ognuno, lo sappia o non lo sappia, lo voglia o non lo voglia. E’ piuttosto un dono che si riconosce e si accoglie nella fede. Che interpella la nostra libertà, tanto che Dio stesso, secondo l’immagine stupenda di san Bernardo, ha atteso con trepidazione il sì di Maria. L’altro termine chiave del brano del Prologo è la parola potere (έξουσίαυ), che indica anch’essa non un possesso, ma un dinamismo. Non si diventa figli di Dio in maniera automatica, per legge di natura, ma per la fede. E’ la fede il potere dato per diventare figli di Dio: non una fede vaga e anonima, mero anelito religioso, comune almeno in alcune occasioni della vita a tutti gli uomini, ma la fede di chi “crede nel suo nome”. Un’espressione che troviamo più volte in Giovanni: la vera fede consiste nel “credere nel nome del Figlio unigenito di Dio” (Gv 3,18). Ne segue che la nostra figliolanza non può che essere una partecipazione alla figliolanza di colui che si è manifestato tra noi come “il Figlio unigenito venuto da presso il Padre”. Questo potere di diventare figli di Dio, questa fede sorge, rimane e cresce come accadde alla fede dei primi discepolI. Proprio ciò che è accaduto ai primi discepoli resta per sempre l’esperienza paradigmatica di come si diventa figli di Dio. Perché la stessa presenza, che ha suscitato la fede nei primi che ha scelto, continua ad operare nel presente, così da stupire e destare la fede anche oggi nel cuore degli uomini che il Padre gli dà (cfr. Gv 17,2). Il dialogo con Nicodemo costituisce il brano più lungo ed esplicito per il tema della figliolanza divina. Dei vari aspetti qui toccati, occorre sottolineare soprattutto l’insistenza sull’azione dello Spirito Santo nell’esperienza della figliolanza divina. Gesù spiega a Nicodemo: “Se uno non è stato generato dall’acqua e dallo Spirito non può entrare nel regno di Dio” (Gv 3,5). Quindi la via d’accesso al diventare “figli nel Figlio” è possibile solo a chi viene generato dallo Spirito nella fede e nel battesimo (indicato da Gesù in questo passo col segno dell’acqua). Anche le teorie che riducono la figliolanza divina a un automatismo, quasi fosse un marchio di dominio acquisito impresso da Dio su ogni uomo, indicano spesso lo Spirito quale artefice di questa operazione. Secondo queste teorie gli uomini sarebbero per natura titolari della figliolanza divina, a prescindere dalla fede, dal battesimo e dal proprio libero acconsentire, proprio perché lo Spirito, nella sua illimitata libertà, applica a ognuno, lo sappia o no, lo voglia o no, i frutti della redenzione. Proprio il Vangelo di Giovanni testimonia che lo Spirito Santo non è un’entità separata e indipendente, che opera nell’intimo segreto delle coscienze con un’azione parallela all’azione di Gesù Cristo Figlio di Dio. Tutta la missione dello Spirito Santo nella storia della salvezza può essere espressa con le parole di san Basilio, lette nella liturgia del tempo di Natale: “Come il Padre si rende visibile nel Figlio, così il Figlio si rende presente nello Spirito”. E Basilio aggiunge che ciò lo si apprende da quanto Gesù ha detto alla Samaritana: “Bisogna adorare nello Spirito e nella verità” (Gv 4,23) chiaramente definendo se stesso “la verità”. Basta leggere le promesse che Gesù stesso fa ai discepoli riguardo al Paraclito nel Vangelo di Giovanni. Lo Spirito “insegnerà”, facendo ricordare quello che ha detto Gesù (Gv 14,26); “renderà testimonianza” a Gesù (Gv 15,26); “non parlerà da se stesso, ma dirà quello che ascolta” (Gv 16,13). Lo Spirito Santo non è dunque un’entità arbitraria: egli possiede una chiara benché misteriosa intenzionalità (“Lo Spirito ispira dove vuole”; Gv 3,8), opera certe cose, che sono sempre in relazione con la missione e l’insegnamento di Gesù. Siccome lo Spirito è “lo Spirito della verità” (Gv 15,26; Gv 16,13), quale altra verità potrebbe farci conoscere lo Spirito se non la verità di colui che ha detto: “Io sono la verità” (Gv 14,6)? Lo Spirito guida il cristiano verso Gesù Cristo, verso la verità intera (Gv 16,13); lo aiuta a scoprire sempre meglio il mistero di Gesù Cristo e a rimanere nella sua memoria. C’è un brano della costituzione dogmatica Lumen gentium che può riassumere quanto abbiamo detto: “Cristo, infatti, innalzato da terra, attirò tutti a sé; risorto dai morti, inviò sui discepoli il suo Spirito vivificante e per mezzo di lui costituì il suo corpo, la Chiesa, quale universale sacramento di salvezza; assiso alla destra del Padre, opera incessantemente nel mondo per condurre gli uomini alla Chiesa e per mezzo di essa unirli più intimamente a sé e renderli partecipi della sua vita gloriosa nutrendoli con il suo corpo e il suo sangue”.
Se figli di Dio non si nasce, ma si diventa, va da sé che ciò non è mai spunto di presunzione e di condanna per gli altri. Come ha ricordato Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris missio “la fede che abbiamo ricevuto” è un “dono dall’Alto senza nostro merito”.

“Vedere” in Giovanni

Abbiamo già incontrato, all’inizio di questa nostra rapida rassegna, l’importanza del “vedere”. A più riprese p.de la Potterie è tornato nei suoi scritti a manifestare l’importanza di una corretta comprensione di questa famiglia semantica, nelle sue diverse sfumature[11]:

(Dice) una frase suggestiva di Hans Urs von Balthasar: “Vedere non è tanto il contemplare di Platone, quanto lo stare di fronte all’evidenza dei fatti”. Il cristianesimo non è quindi un idealismo di tipo platonico, non è un deismo di marchio razionalista come quello in voga due secoli fa, ma è fondamentalmente il fatto dell’incarnazione che rimane presente: la venuta del Figlio di Dio tra noi. Il cristianesimo è quindi una storia reale con eventi accaduti. Eventi che noi contempliamo nella fede cercando, come diceva Gregorio Magno, di alzarci dalla storia al mistero, di scoprire il mistero all’interno di quella storia così umana.

Ciò che era fin da principio”... Quell’inizio, l’inizio del cristianesimo, quando Gesù si è manifestato a Giovanni e agli altri, si può trasmettere e comunicare? Giovanni, nella sua lettera, dice ai credenti che non hanno conosciuto Gesù (sono la seconda generazione di cristiani della Chiesa in Asia Minore) che anche loro partecipano a quell’inizio. Un inizio di cui Giovanni aveva potuto fare esperienza sensibile. Alla domanda che evidentemente anche quei cristiani, come noi oggi, si ponevano, Giovanni risponde: “Ciò che noi abbiamo visto e udito lo comunichiamo anche a voi, affinché anche voi abbiate comunione con noi”. Così si comunica e si trasmette l’inizio dell’avvenimento cristiano. “Ciò che era fin da principio”. Questa è la formula perfetta per definire la Tradizione cristiana: all’inizio c’erano dei testimoni che hanno trasmesso la loro esperienza a quelli della seconda generazione, facendola arrivare, adesso, fino a noi. Infatti Giovanni usa l’espressione “fin da principio” altre volte, riferendola ai discepoli della seconda generazione. “Voi avete conosciuto colui che è fin da principio” (1 Gv 2,13); “L’annuncio che voi avete udito fin da principio” (1 Gv 3,11): si vede bene che per Giovanni quelli a cui egli comunica il messaggio cristiano partecipano all’esperienza dei primi testimoni pur non essendo stati, come lui, presenti ai fatti.
Anche rileggendo il Vangelo, in cui riecheggia la parola dei testimoni, noi partecipiamo all’esperienza fondante del cristianesimo. Il Vangelo di Giovanni finisce con le parole rivolte da Gesù a Pietro: “Se io voglio che lui [cioè Giovanni] rimanga finché io venga a te che cosa importa?”. Quelle parole avevano fatto credere ai discepoli che Giovanni non sarebbe morto fino al ritorno di Cristo. Ma Gesù non dice questo. Il senso delle sue parole si comprende dal versetto seguente: “E’ lui che rende testimonianza”. Giovanni rimarrà sì presente nel mondo fino al ritorno di Cristo, ma non fisicamente: rimane presente nella Chiesa per mezzo della testimonianza lasciata nel suo Vangelo. E, anche attraverso la sua testimonianza scritta nel Vangelo, permette a noi, cristiani contemporanei, una cosa straordinaria: ci permette cioè di rifare l’esperienza che hanno fatto i primi e che è raccontata nel Vangelo. La stessa, identica esperienza compiuta da Giovanni e dai suoi amici quasi duemila anni fa.

P.de la Potterie a partire non solo dall’esegesi degli incontri dei discepoli con Gesù risorto, che già abbiamo visto, ma anche attraverso il ricorrere delle diverse sfumature utilizzate dall’evangelista, ha studiato come questa attenzione al “vedere” senza escludere la realtà di ciò che è stato visto, anzi prendendo inizio e fondamento proprio da esso, giunge ad essere sguardo di fede. In tutto lo sviluppo del vangelo è presente questa dinamica[12]:

C’è... in Giovanni, e questo ci porta nel cuore del nostro discorso, un vero e proprio cammino del vedere..

  1. Il verbo più neutro è scorgere, βλέπειν. Lo troviamo per la scena iniziale del battesimo al Giordano. Giovanni Battista scorge Gesù che viene a lui e dice: “Ecco l’agnello di Dio” (Gv 1,29). Ma si nota già in questo episodio un passaggio da scorgere (Gv 1,29) a contemplare (Gv 1,32) e poi a ho visto (Gv 1,34 come in Gv 14,9).
  2. Un verbo usato più spesso nel quarto Vangelo è Θεωρειν (donde deriva teoria). Questo verbo descrive lo sguardo scrutatore di colui che osserva attentamente. Viene usato quando si tratta di cose straordinarie, come i segni che Gesù faceva (Gv 2,23; Gv 6,29); anche qui questo guardare attento è giustapposto due volte al credere in Gesù (Gv 6,40; Gv 12,45): questo osservare attento è già uno sguardo di fede. Lo stesso verbo viene usato nell’ultima cena per i discepoli che guardavano attentamente Gesù che stava per lasciarli (Gv 16,10. 16.17.19).
  3. Terzo verbo è Θεασθαι (da cui deriva teatro). Con questo verbo facciamo un passo più avanti: possiamo tradurlo con contemplare. Che, come nota von Balthasar, non è il contemplare platonico, ma lo stare di fronte all’evidenza dei fatti. E’ infatti uno sguardo che riconosce stupito la bellezza dell’oggetto e quindi cerca di penetrarne il mistero. Quando viene applicato a Gesù, viene chiaramente indicato che nella realtà che i discepoli vedevano con gli occhi del corpo riconoscevano stupiti “la gloria dell’unigenito venuto dal Padre” (“Abbiamo contemplato la sua gloria, la gloria dell’unigenito, venuto da presso il Padre”, Gv 1,14). Lo sguardo attento e stupito – contemplativo – dei discepoli su Gesù scopre in lui la sua venuta da presso il Padre.
  4. Arriviamo così alla forma verbale più completa, quel­la che troviamo anche in Gv 14, 9: il verbo comune «vede­re», ma usato al perfetto έώρακα Applicato a Gesù, descrive ciò che lo sguardo attento e stupito ha scoperto in lui, e di cui si conserva nella memoria la scoperta. Possiamo osservare che ogni volta che Giovanni usa questo verbo ho visto (e ne conservo la memoria) Gesù viene riconosciuto come il luogo santo dove Dio si manifesta, il tempio della presenza divina, la casa ovvero la dimora in cui Dio stesso abita. In un tale contesto diventa chiaro il senso del nostro versetto 14, 9: “Chi ha visto me ha visto il Padre”. Aver visto Gesù e conservarne la visione interiore nella memoria vuol dire riconoscere Gesù come il luogo di inabitazione del Padre, presente nel suo Figlio come in una dimora. Qui si constata tutta l’importanza in san Giovanni del dimorare: il tema corre come un filo rosso attraverso tutto il quarto Vangelo, arricchendosi progressivamente. Proviamo a tirare le fila del nostro discorso: lo stesso evan­gelista in 1, 14 ci invita a comprendere che nell’uomo Gesù — il Verbo fatto carne «pieno della grazia della verità» in cui i testimoni hanno «contemplato la gloria dell’unigenito — c’era un mistero, «insondabilmente nascosto» ma che ci viene manifestato «simbolicamente» (san Massimo il Confessore). È il mistero dell’»unigenito venuto da presso il Padre», che «è venuto a mettere la sua tenda in mezzo a noi». Così egli diventa la dimora del Padre (Gv 14, 10), il nuovo tempio della presenza di Dio (Gv 2,21; cfr. Cv 4,20-24). Un bellissimo brano di san Massimo il Confessore, sep­pur difficile, dice l’essenziale: «Il Signore [...] è diventato precursore di se stesso; è diventato tipo e simbolo di se stesso. Simbolicamente fa conoscere se stesso attraverso se stes­so. Cioè conduce tutta la creazione, partendo da se stesso in quanto si manifesta, ma per condurla a se stesso in quanto è insondabilmente nascosto».

“Rimanere” in Giovanni

Quest’ultimo contributo ci mostra già il passaggio dal “vedere al “rimanere”, al “dimorare”, un altro caposaldo del discorso giovanneo. Già nella testimonianza del Battista si affermava che colui sul quale vedrai “scendere e rimanere” lo Spirito, questi è colui che battezza in Spirito Santo (Gv 1, 33). P de la Potterie così commenta il tema del “rimanere”[13]:

Il verbo rimanere (μένειν) s’incontra 118 volte nel Nuovo Testamento, di cui soltanto 12 nei Vangeli sinottici, 17 in Paolo e ben 67 nel Vangelo e nelle Lettere di Giovanni. Il termine appare il più delle volte (43 dei 67 casi) nell’espressione composta rimanere in. Direi che si possono distinguere tre modalità dell’uso del verbo rimanere e delle espressioni ad esso collegate: innanzitutto l’uso semplicemente biografico-spaziale, connesso alla descrizione degli spostamenti di Gesù nella sua missione pubblica. In secondo luogo le espressioni che ricorrono nei racconti degli incontri evangelici, come quelli con Giovanni e Andrea (Gv 1,38-39) e con i samaritani (Gv 4,40-42). E infine le formule contenute nei discorsi di Gesù o nelle Lettere: si tratta di inviti ai discepoli a rimanere in Lui, rimanendo nella sua parola e nel suo amore. Vi sono affermazioni in cui è indicato insieme il rapporto di Gesù con i discepoli e il rapporto di Gesù con il Padre e la comunione con il Padre e con il Figlio che viene sperimentata dai discepoli.
Che cosa collega questi diversi modi di usare l’espressione rimanere?
C’è un passaggio ab extra ad intra. Da un uso esteriore si passa a un uso interiore. Il rimanere, come il guardare e il vedere, in Giovanni descrive la dinamica della fede dei discepoli. Ma proprio il fatto che il medesimo e identico verbo rimanere è usato sia in senso esteriore sia in quelle che vengono chiamata formule di immanenza, impedisce ogni possibilità di interpretazione dualistica. Anche quando si procede da un uso esteriore a un uso interiore, il rimanere giovanneo, pur negli aspetti più interiori, ha origine ed è sempre in rapporto col manifestarsi storico e visibile di Gesù, il Verbo fatto carne. Da un rimanere preso di Lui a un rimanere in Lui; Egli dice che possiamo venire a Lui perché il Padre che lo ha mandato ci attira a Lui (Gv 6,44; cfr. 12,32).
Lei ha citato gli incontri evangelici. Che ruolo gioca il rimanere in questi episodi?
Prendiamo l’incontro di Gesù con Andrea e Giovanni (il secondo discepolo, qui non nominato, è probabilmente il discepolo amato, che verrà designato per la prima volta in 13,23). E’ l’inizio della missione di Gesù e, in un certo senso, in quelle poche parole c’è tutto il cristianesimo. C’è l’incontro, l’impatto imprevisto con una presenza umana che percuote i sensi e stupisce: “Maestro, dove rimani?” (tradotto meno bene nella Vulgata “ubi habitas?”). “Venite e vedete”. E subito c’è di nuovo il rimanere: “Andarono a vedere dove rimaneva, e quel giorno rimasero presso di lui. Era circa l’ora decima” (Gv 1,39). In poche battute il verbo μένειν compare tre volte. E’ da quel rimanere stupiti a guardarlo parlare quel giorno (era circa l’ora decima, ricorda Giovanni) che nasce nei due discepoli un’immediata certezza. Una certezza ancora iniziale, ma che crescerà man mano che, rimanendo, il loro stupore dell’inizio si rinnova. “Abbiamo trovato il Messia”, dirà subito Andrea al fratello Simone. Ma quell’impressione iniziale indimenticabile si prolunga e si conferma rimanendo presso di Lui...
Ma dove nasce questa necessità del rimanere?
Il rimanere è la condizione che identifica i discepoli di Gesù. Non sono i più bravi, i più religiosi o i più morali. Sono semplicemente quelli che rimangono presso di Lui e in Lui. Il cristianesimo è sempre così: innanzitutto un incontro, occasione data, assolutamente gratuita. Lo stupore e l’attrattiva dell’incontro steso sollecitano la libertà a rimanere, a starci a quell’incontro. E’ in questa convivenza, nel temo dato a questa convivenza, che lo stupore iniziale e la scoperta crescono, proprio perché le occasioni per stupirsi ancora di quella presenza si moltiplicano. Se Giovanni e Andrea, che pur lo riconobbero quel giorno come Messia, non l’avessero più visto, pur conservando per sempre l’impressione della sua eccezionalità, si sarebbero nella vita come dimenticati di Lui. Invece, riaccostandolo, si approfondiva l’impressione originale. Per questo dopo i miracoli ritorna l’espressione “i discepoli credettero in lui”. Non che prima non credessero, ma la convivenza e il constatare ogni giorno l’eccezionalità della sua presenza accresceva la loro certezza.
In che cosa consiste questa crescita?
Gesù stesso, per dare un’immagine del rimanere, usa la metafora della vite e dei tralci (Gv 15,4-8): “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla [...]. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”. Il rimanere non è sterile, si riconosce dal fatto che porta frutti. Cioè dal cambiamento che lo stesso rimanere gratuitamente provoca. Come ha detto don Giovanni, accennando al rimanere di Giovanni e Andrea quel pomeriggio presso di Lui: “Che cos’è avvenuto in loro? Non è stata in primo piano la soluzione dei problemi, ma uno stupore hanno cambiato anche la vita”. E ancora: “L’incontro con Cristo fa venire voglia di seguire, non immediatamente di cambiare la vita. Se il termine fosse cambiare la vita, l’attenzione si sposterebbe inevitabilmente su di sé invece che sulla Presenza. Neanche uno iota della legge viene eliminato da questa impostazione, anzi, viene reso possibile, viene compiuto.
Anche il cambiamento morale è frutto del rimanere...
Senza dubbio, perché la morale giovannea è una morale della verità (cfr. la Veritatis splendor). Nella crescente consapevolezza che “senza di me non potete far nulla”, le conseguenze dell’essere cristiano, anche a livello morale, vengono collegate in Giovanni al tema del rimanere. Il rimanere con Gesù implica (come dovere a livello di coerenza, ma prima e innanzitutto come conseguenza a livello dell’essere) vivere come Gesù: “Chi dice di dimorare in Lui, deve comportarsi come Lui si è comportato” (1 Gv 2,6). “Chiunque rimane in Lui non pecca; chiunque pecca non lo ha visto né l’ha conosciuto” (1Gv 3,6). Se il cristiano, come Giovanni e Andrea, rimane stupito a guardarlo, anzi se veramente rimane in Lui, allora non pecca più. In quanto rimane in quello stupore e in quella grazia, non può peccare. E’ bellissimo, nella sua sinteticità, il commento di Agostino a questo versetto: “In quantum in ipso manet, in tantum non peccat”. Una percezione comune soprattutto tra i padri della Chiesa orientale. Anche Ecumenio (un teologo della tradizione antiochena di Crisostomo), nel suo commento alla Prima lettera di Giovanni, scrive: “Quando colui che è nato da Dio si è completamente dato a Cristo che abita in lui mediante la filiazione, egli resta fuori della portata del peccato”. Diventiamo impeccabili in quanto ci abbandoniamo totalmente a Gesù Cristo, in quanto rimaniamo in Lui.
Che cosa succede a chi non rimane?
La folla non rimane e semplicemente dimentica l’impatto con Cristo. Ma anche nelle descrizioni dell’Anticristo ricorre la terminologia del rimanere. “Sono usciti da mezzo a noi ma non erano dei nostri, altrimenti sarebbero rimasti con noi” (1 Gv 2,19). L’Anticristo è proprio per definizione colui che non rimane nel luogo dell’incontro, nello stupore dell’incontro, ma “va oltre” (cfr. 2 Gv 9). Invece il vero discepolo è colui in cui rimane ciò che ha udito dal principio: “In voi [in contrasto proprio con l’Anticristo] ciò che udiste dal principio, anche voi rimarrete nel Figlio e nel Padre” (1 Gv 2,24). Il rimanere non è una semplice premessa per poi poter fare altro. Non è uno spunto per giungere finalmente alla conoscenza. Invece è l’inizio e la piena maturazione della conoscenza e della vita cristiana. Gesù, dopo aver usato l’immagine del rimanere in Lui come i tralci nella vite, aggiunge: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11).
Lei ha detto che il rimanere rende possibile anche un conoscere.
In diverse espressioni c’è una connessione di successione tra il rimanere e il conoscere (vedi Gv 8,31-32; 14,17; 2 Gv 2). Il tema del conoscere compare 141 volte nel Vangelo di Giovanni, ma nella maggioranza dei casi, ben 85, esso viene indicato col verbo οίδα (so), in cui è la radice del verbo ιδειν, vedere. Questo verbo è diverso da γινώσκειν. Significa so perché ho visto, esprime l’aspetto più esistenziale, meno astratto della conoscenza, il suo aspetto di esperienza vissuta. Se si aggiunge che in Giovanni non compare mai il termine γνωσις, conoscenza, come sostantivo astratto, soprattutto per evitare equivoci con l’uso che ne facevano le sètte gnostiche, si intuisce a che tipo di conoscenza allude Giovanni e perché la condizione stessa di questa conoscenza sia il rimanere presso Gesù e in Lui. Questa conoscenza è infatti soprattutto un gustare, un fare esperienza, un accorgersi di crescere, rimanendo nel luogo dove lo stupore si rinnova.

Questo “rimanere” ha una profonda valenza antignostica. Si tratta di “rimanere” in Gesù, si tratta di rimanere nella comunione ecclesiale, si tratta di rimanere nella comunione sacramentale: Come dice in maniera splendida la 2Gv 7-9: “Poiché molti sono i seduttori che sono apparsi nel mondo, i quali non riconoscono Gesù venuto nel mondo. Ecco il seduttore e l’anticristo... Chi va oltre e non si attiene alla dottrina di Cristo, non possiede Dio. Chi si attiene alla dottrina possiede il Padre e il Figlio”. Ecco ancora p. de la Potterie[14]:

I sacramenti e la morale. Come tratta Giovanni questi argomenti? Ci possono essere confusioni con la concezione gnostica?
Ovviamente per gli gnostici non esistono i sacramenti, questi atti del corpo ecclesiale con cui Gesù Cristo tocca e salva la nostra vita. E’ ovvio: come potrebbero per gli gnostici delle cose materiali essere strumento di salvezza, per loro che considerano la materia come la pienezza del male? In Giovanni abbiamo accenni al battesimo, nell’episodio di Nicodemo, e all’eucarestia, nel discorso alla sinagoga di Cafarnao. In quell’episodio il suo realismo (“Chi mangia la mia carne e beve i mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”) scandalizza i giudei e anche i suoi discepoli. Tanto che Gesù poi aggiunge: “Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me se non gli è concesso dal Padre mio”. Sbarrando la strada a chi interpreta la redenzione come un automatismo fisico trasmesso attraverso i sacramenti. Riguardo alla morale, la posizione gnostica è tutta determinata dal non riconoscimento del peccato originale e dalla concezione negativa della materia. Chi è già salvo per natura non deve riconoscere alcuna morale. Le conseguenze paradossali vanno dal libertinismo sfrenato all’ascetismo rigoroso: una volta deciso che il mio profondo non ha nulla a che vedere con il corpo, posso indifferentemente disporre della realtà materiale senza remore etiche o cercare di farmi condizionare il meno possibile da questa gabbia infetta. Invece in Giovanni la fede non elimina i comandamenti. “Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed Egli in lui”, scrive nella Prima lettera. La morale cristiana di Giovanni riconosce due virtù fondamentali, la fede e la carità, e due vizi capitali, l’incredulità e l’odio che ne deriva. Tutte le formule del comportamento morale vengono sempre connesse alla parola verità. Bisogna amare, pregare, santificarci nella verità. Ma la verità non è l’illuminazione gnostica, è lo sguardo sempre rivolto a Gesù. Come dice un testo anonimo dei Padri del deserto: “Chi persevera nella memoria di Gesù è nella verità”. Il modello morale è imitare quello che ha fatto Gesù Cristo. Per questo nella sua Prima lettera Giovanni aggiunge che “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa”. Malgrado le debolezze e i peccati, Dio vede il cuore dell’uomo, giudica l’apertura e la domanda che è nel cuore. La morale di Giovanni è una morale della verità della misericordia, dell’essere abbracciati dal Signore...
In che cosa consiste questo antignosticismo?
Nel fatto che quello di Giovanni è per eccellenza il Vangelo del vedere e l’oggetto del vedere è Gesù stesso. Tutta la fede nasce e cresce come uno sviluppo del vedere. Nel capitolo 20, quello delle apparizioni del Risorto, l’evangelista ripete in poche righe 23 volte questo verbo. Si parte sempre dal vedere e udire fisicamente Gesù, un uomo con un volto e una carne reale, dall’accorgersi dell’eccezionalità della sua presenza per riconoscere stupiti che è il Figlio di Dio, il Verbo fatto carne. Il vedere fisico per tutto il Vangelo è la via d’accesso al Mistero presente nella carne. Per questo Gesù nell’ultima cena può dire: “Chi ha visto me ha visto ha visto il Padre” (14,9). E si badi bene, questa possibilità di vedere Dio nella carne non era affatto sentita dai cristiani come una debolezza, ma era anzi motivo di vanto anche nei confronti degli gnostici.

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Efeso, Porta di ingresso alla Basilica di S.Giovanni

Il Paraclito

Nel breve saggio dal titolo Il Paraclito[15], p.de la Potterie ha analizzato tutti i testi giovannei nei quali Gesù designa lo Spirito Santo come il Paraclito, al fine di comprendere il senso pieno di questa espressione greca. Nell’introdurre al tema il gesuita si sofferma innanzitutto sull’uso del termine “paraclito” nella letteratura contemporanea o comunque vicina al NT:

Il termine «Paraclito» nel Nuovo Testamento è pro­prio a Giovanni; esso è di formazione greca[16], ma nei testi profani è appena attestato. Viene utilizzato di solito in un contesto giuridico per designare chiunque venga in aiuto di qualcuno, insomma l’assistente, il difensore, l’avvocato. Il giudaismo tardo assunse questo termine dal mondo greco, tut­tavia conferendogli ormai un significato più preciso: quello d’intercessore. In effetti i testi rabbinici l’usano esclusiva­mente per designare tutti coloro che intercedono in favore degli uomini davanti al tribunale di Dio: ad esempio, la legge (personificata), gli angeli, le buone opere degli uo­mini, i loro meriti, e così via. Nella prima Lettera, Giovanni applica il titolo di «Pa­raclito» al Cristo Gesù glorificato:

Se qualcuno poi commette peccato,
come avvocato rivolto verso il Padre
noi abbiamo Gesù Cristo, il Giusto (1 Giovanni 2,1)[17].

In qual modo il Cristo Gesù esercita questa funzione di Paraclito presso il Padre? Lo spiega il contesto. Anche nel suo stato di gloria, Gesù sta alla presenza del Padre come vittima di propiziazione per i nostri peccati » (v. 2). E’ il tema descritto dalle visioni dell’Apocalisse, dove contem­pliamo «l’Agnello sgozzato» mentre sta ritto davanti al Trono di Dio (Apocalisse 5,6.9.12; 13,8). Tutta l’opera d’espiazione che il Cristo Gesù ha realizzato qui in terra, nel cielo diventa come una grande preghiera d’intercessione che come un «avvocato», un «intercessore», egli rivolge al Padre. Altrove Giovanni applica il termine «Paraclito» costan­temente allo Spirito Santo, tuttavia non per descriverne la funzione d’intercessione presso Dio, ma per caratteriz­zare la funzione d’assistenza ch’egli esercita quaggiù pres­so i credenti. Tali testi appartengono tutti ai discorsi dopo la Cena, i quali costituiscono come il testamento di Gesù prima del suo ritorno al Padre. Dopo una promessa for­male della venuta del Paraclito, Gesù indica chiaramente i tre principali aspetti dell’attività di questo: la sua fun­zione d’insegnare, la testimonianza ch’egli rende a Gesù, e correlativamente la sua parte d’accusatore in faccia al mondo.

Giovanni mostra come ci sia già stato “un primo” Paraclito, Gesù stesso, e come lo Spirito sia un “altro” Paraclito:

Nell’ultima Cena il cuore dei discepoli si turba all’annun­cio imprevisto della partenza di Gesù (Giovanni 14,1). Finora egli era restato con loro (16,4; 14,25); ma adesso egli annuncia che resterà con loro soltanto per poco tempo (13, 34): ben presto essi non lo vedranno più (16,11) perché egli va al Padre (16,10). Tuttavia Gesù tornerà subito presso i suoi (14,18) non solo al momento delle apparizioni pasquali, ma per una presenza tutta spirituale ed interiore: allora sol­tanto i discepoli saranno capaci di vederlo, in una contem­plazione di fede (14,19). E questo sarà opera dello Spirito Santo, il quale viene chiamato «un altro Paraclito» (14,16) perché continuerà presso i discepoli l’opera che ha iniziato Gesù: nel grande conflitto che oppone Gesù ed il mondo, lo Spirito avrà il compito di difendere la causa di Gesù presso i discepoli e di confermarli nella loro fede. E’ interesse dei discepoli che il Cristo Gesù se ne vada, poiché senza questa dipartita il Paraclito non verrà presso di loro (16,7). Il Padre donerà loro il Paraclito dietro richiesta di Gesù e nel Nome di Gesù (14,16.26); il Cristo Gesù stesso da presso il Padre invierà loro il Paraclito (15,26). Questo Spirito che proviene dal Padre resterà coi discepoli per sempre (14,16), cioè fino alla fine dei tempi: durante tutta la sua permanenza qui in terra, la vita della Chiesa sarà caratterizzata dall’assistenza dello Spirito di verità.
Gesù enuncia un principio molto netto: egli non si ma­nifesterà al mondo (14,22); il Paraclito, il quale dovrà at­tuare la sua presenza spirituale in mezzo agli uomini,

il mondo non può ricever(lo)
perché esso non lo percepisce e non lo riconosce (14,17).

Questa formula «non può», frequente nel quarto Van­gelo, denota un’incapacità radicale del mondo davanti ai beni della Salvezza: abbandonati a loro stessi, gli uomini sono incapaci di giungere al Cristo Gesù (6,44.43), di ascoltare la sua parola (8,43), di credere (12,39).

Il Paraclito, infatti, non è dato al mondo, ma ai discepoli:

Il Padre donerà il Paraclito proprio a loro, ai discepoli, (14,16) e proprio a loro si manifesterà Gesù (14,21). A differenza del mondo, i discepoli potranno ricevere il Paraclito perché essi vi sono preparati fin d’adesso:

Voi invece lo riconoscete
perché egli dimora presso di voi (14,17).

Queste espressioni si riferiscono di nuovo alla condizione presente dei discepoli, prima che Gesù se ne torni via. Lo Spirito era già presente nella persona e nell’opera di Gesù durante il suo ministero. Nel Cristo Gesù, che re­stava «presso» i suoi discepoli (v. 25), lo Spirito già era in azione; e dunque anche egli stava «presso» di loro. E questi, malgrado la loro ridotta intelligenza, già avevano ade­rito a Gesù: essi credevano, e sapevano ch’egli era il Santo di Dio (6,64). Perciò si comprende come il Maestro nell’Ultima Cena possa dir loro che essi ormai hanno im­parato a riconoscere lo Spirito: questa esperienza dello Spi­rito, questa conoscenza ancora rudimentale ed implicita che essi ne hanno, è una condizione sufficiente perché possano a loro volta ricevere il dono dello Spirito. La vera e propria promessa per il tempo avvenire viene espressa in due membri di frase tra loro diversi. Anzitutto Gesù dice ai discepoli: il Padre vi donerà lo Spirito
perch’egli resti con voi per sempre (v. 16),

e poi alla fine del v. 17:

ed egli starà in voi.

In questa prima promessa si deve notare con cura il gioco delle preposizioni. Finora lo Spirito non era presente che presso i discepoli (par’hymin), nella persona stessa di Gesù. Ma più tardi egli starà con loro (meth’hymôn) e starà anche dentro di loro (en hymin). Queste tre preposizioni segnano un reale progresso: esse descrivono magnificamente il carattere via via più interiore dell’azione del Paraclito.
Egli starà «con loro». Questa formula non indica sem­plicemente una presenza familiare dello Spirito «presso» i discepoli, simile a quella di Gesù «presso» i suoi durante la sua vita terrena. Invece vi si deve vedere piuttosto il concetto dell’aiuto, dell’assistenza. Con ciò il testo contiene un’allusione discreta alle difficoltà che verranno e che sa­ranno sperimentate dai discepoli, come pure all’opposizione di cui essi sapranno trionfare. Perciò fin da questo momento lo Spirito riceve anche il titolo di Paraclito, cioè di «Di­fensore».
Egli starà anche «in essi». Qui Gesù promette ai di­scepoli un nuovo modo di presenza e d’azione dello Spirito: questi ormai agirà nei loro cuori. E secondo questa piena effusione del Paraclito, da quest’azione in profondità che lo Spirito conduce dal momento della glorificazione del Cristo Gesù, va compreso il testo di 7,39 a proposito dello Spirito che avrebbero ricevuto tutti coloro che avevano creduto in Gesù.

P.de la Potterie mostra come due delle promesse ulteriori dello Spirito riguardino la sua missione di insegnamento:

Delle altre quattro promesse sul Paraclito, due sono dedicate a presentarcelo nel suo compito di Dottore: la seconda e la quinta (14,26; 16,13ss). Per Giovanni il compito dello Spirito di verità presso i discepoli consiste anzitutto nell’insegnamento. Il primo testo suona:
Io vi ho detto queste cose quando mi trovavo con voi. Tuttavia il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre invierà nel mio Nome, vi insegnerà (tutto) e vi farà ricordare tutto quello che io vi ho detto (14,25s).

Questo insegnamento ha uno strettissimo rapporto con quello di Gesù che deve essere posto in rilievo:

Il Padre invierà lo Spirito Santo “nel Nome di Gesù”. Gesù stesso stava sulla terra “nel Nome di suo Padre” (5,43), in stretta comunione col Padre; egli dunque stava tra gli uomini per far conoscere il Nome del Padre, per rivelare il Padre (cfr 17,6). Di qui si comprende meglio quel che intende dire Gesù quando annuncia che il Paraclito sarà inviato “nel suo Nome”. Questo non significa semplicemente che il Padre invierà lo Spirito dietro richiesta del Figlio, oppure in luogo o come rappresentante del Figlio, o ancora per continuare l’opera del Figlio. il «Nome» esprime quel che di più profondo esiste nella persona del Cristo Gesù, la sua qualità di Figlio: il Figlio precisamente in quanto Figlio avrà una parte attiva nell’invio dello Spirito. Per questo motivo nei discorsi d’addio si trovano le due formule complementari: il Padre invierà lo Spirito nel Nome di Gesù (14,26); il Figlio stesso invierà lo Spi­rito da presso il Padre (13,26). La formula «nel mio Nome» indica dunque chiaramente la comunione perfetta tra il Padre ed il Figlio quando inviano lo Spirito. Senza dub­bio l’origine di questa «missione» è il Padre: perciò il Figlio invierà lo Spirito «da presso il Padre». Tuttavia anche il Figlio è principio di questo invio: e perciò il Padre invierà lo Spirito «nel Nome del Figlio». Il Padre ed il Figlio sono entrambi principio di questa missione del Paraclito. Pertanto, se lo Spirito è inviato nel Nome del Cristo Gesù, la sua missione sarà di rivelare il Cristo Gesù, di far conoscere il suo vero Nome, questo Nome di Figlio di Dio che esprime il mistero della sua persona; il Para­clito dovrà suscitare la fede in Gesù Figlio di Dio.
La seconda metà del versetto descrive il Paraclito «nel­l’ufficio di maestro di dottrina» (M.-J. LAGRANGE). Tale azione viene designata da due differenti verbi: «Egli vi insegnerà (tutto) e vi farà ricordare tutto quel che io vi ho detto» (14,26). Alcuni studiosi hanno proposto di vedere là due uffici distinti; in altre parole, l’espressione «tutto quel che io vi ho detto» non indicherebbe che l’oggetto del secondo verbo: in questo caso, quando lo Spirito ci «inse­gna», egli ci farebbe apprendere realtà diverse da quando ci «fa ricordare» semplicemente le parole di Gesù. Tuttavia ad un’interpretazione siffatta ostano la costruzione ed il mo­vimento della proposizione; inoltre essa potrebbe condurre a una conclusione teologica pericolosa: quella di postulare un insegnamento del Paraclito indipendente da quello di Gesù; è la sempre rinnovantesi tentazione d’introdurre nella Chiesa nuove rivelazioni dovute allo Spirito, una tentazione per nulla illusoria se ci ricordiamo il montanismo agli inizi della Chiesa, e la corrente spiritualista di Gioacchino da Fiore nel Medio Evo. H. DE LUBAC ha scritto magnificamente: « Esistono due modi egualmente mortali di separare il Cristo dal suo Spirito: quello di sognare un Regno dello Spirito che porterebbe al di là del Cristo, e quello d’imma­ginare un Cristo che riporterebbe costantemente al di qua dello Spirito». Il Paraclito ai discepoli non porterà un Vangelo nuovo: nella vita e nell’insegnamento di Gesù infatti è contenuto tutto quel che dobbiamo conoscere in vista della costituzione del Regno di Dio e per attuare la nostra Salvezza. La funzione dello Spirito resta essenzial­mente subordinata alla Rivelazione già portata dal Cristo Gesù. «Insegnare» secondo Giovanni è quasi un verbo di ri­velazione. Il Padre ha insegnato al Figlio quel che questi ha rivelato al mondo (8,28). Ma più spesso Gesù mede­simo viene presentato come colui che insegna (Giovanni 6,59; 14.28,35; 8,20; 18,20). Tuttavia questa dottrina del Cri­sto Gesù non deve rimanere estrinseca al credente: Giovanni ha insistito fortemente sulla necessità di renderla interiore con l’accoglierla mediante una fede sempre più viva. Tale è il significato delle espressioni tipicamente giovannee «restare nella dottrina del Cristo» (2 Giovanni 9), «restare nella sua parola» (Giovanni 8,31: cfr 15,7s). Precisamente qui si pone l’azione dello Spirito: anch’egli «insegna». Egli insegna esattamente quello che è già stato insegnato da Gesù, ma per farlo penetrare nei cuori. Dunque la Ri­velazione ha una perfetta continuità: provenuta dal Padre, essa ci viene comunicata dal Figlio e tuttavia non raggiunge il suo termine che quando è penetrata nel più intimo di noi stessi, e questo avviene per opera dello Spirito.
La natura esatta di questo insegnamento del Paraclito viene precisata da un altro verbo ancora: egli «farà ricor­dare» tutto quel che Gesù ha detto. Questo tema del «ri­chiamo» o del «ricordo» viene fortemente sottolineato dal quarto Vangelo. Giovanni osserva più d’una volta che dopo la partenza di Gesù i discepoli «si ricordarono» di que­sta o quell’altra parola o azione di Gesù, cioè essi ne colsero il vero significato e tutta la portata soltanto dopo la Resurrezione (2,17.22; 12,16). Proprio qui si pone la fun­zione dello Spirito Santo: nel «ricordare» tutto quel che Gesù aveva detto, egli non si limiterà soltanto a riportare alla loro memoria un insegnamento che altrimenti avrebbero rischiato di dimenticare. Il suo vero compito sarà di far comprendere nella loro interiorità le parole di Gesù, di farle afferrare alla luce della fede, di farne percepire tutte le virtualità, tutte le ricchezze, per la vita della Chiesa.
Dunque attraverso l’opera segreta del Paraclito il messag­gio di Gesù non rimane più per noi esteriore ed alieno; lo Spirito Santo l’interiorizza in noi e ci aiuta a penetrarlo spiritualmente perché noi vi scopriamo una parola di vita. Questa parola di Gesù, assimilata nella fede sotto l’azione dello Spirito, è quel che nella sua prima Lettera Giovanni chiama «l’olio d’unzione» che rimane in noi (1 Giovanni 2,27); l’insegnamento di Gesù presente nel credente, con­ferisce a questo un senso intimo della verità (vv. 20s) e lo istruisce su tutte le realtà; il cristiano è ormai «nato dallo Spirito» (Giovanni 3,8). Giunto a questo grado di maturità spirituale egli non ha più necessità d’essere istruito (1 Giovanni 2,27): ormai importa unicamente ch’egli resti in Gesù e che si lasci istruire da Dio (cfr Giovanni 6,45).

Cosa significa, allora, la “pienezza della verità” che lo Spirito donerà se il suo insegnamento e quello di Gesù sono identici?

Nella quinta ed ultima promessa, Gesù riprende e svi­luppa la medesima dottrina:

Ho ancora molte cose da dirvi ma adesso voi non potete portarle. Quando verrà Lui, lo Spirito di verità, egli vi guiderà verso la verità integrale; poiché egli non parlerà da se stesso; ma tutto quel ch’egli ascolterà lo dirà e vi rivelerà le cose future. Egli mi glorificherà, poi­ché egli riceverà del mio e ve lo rivelerà. Tutto quel che il Padre possiede appartiene a me. Ecco perché ho detto: egli riceverà del mio e ve lo rivelerà (16.12-15).

Anche qui Gesù ci indica quale sarà la funzione dello Spirito riguardo alle sue parole. A prima vista anzi Gesù sembra contraddirsi: in 15,15 aveva affermato che tutto quel che aveva appreso dal Padre ormai l’aveva fatto conoscere ai suoi discepoli; qui invece egli dichiara che restano an­cora da dire molte cose. Ma questa volta si tratta d’un complemento di rivelazione, che è riservato allo Spirito. Questi non proporrà una nuova dottrina ma darà un’intelli­genza più profonda del mistero di Gesù, della sua vita, dei suoi atti, delle sue parole. Col dare rilievo all’avverbio adesso alla fine del v. 12 — «ma adesso voi non potete portarle » — viene stabilito un contrasto tra il momento presente, ch’è quello della vita terrena di Gesù, ed il tempo che verrà, l’epoca che giungerà dopo la Resurrezione e la venuta dello Spirito (cfr 13,7; 16,30s). Le realtà nume­rose che ancora mancano ai discepoli non sono altri punti dottrinali che Gesù dovrebbe ancora aggiungere; è invece la piena comprensione della persona e del messaggio di Gesù. Lo Spirito di verità, come una guida dall’assoluta sicu­rezza, deve «guidare» i discepoli verso la verità integrale. Questo verbo «guidare» è più ricco del semplice docebit (insegnerà) che usa la Volgata. La metafora sembra sia stata improntata direttamente dal Salmo 25,5 (24,5 del testo greco): «Guidami verso la tua verità ed insegnami». Il Salmista domandava a Dio una più perfetta conoscenza della sua verità, dei suoi precetti, della sua Legge. Secondo il testo di Giovanni, la verità verso cui ci deve guidare lo Spirito Santo è la verità di Gesù, quella del suo inse­gnamento, della sua opera, di tutta la sua persona. Lo Spirito, aggiunge il versetto, deve farci compenetrare di questa verità fin dentro il nostro cuore e deve farcela scoprire nella sua pienezza: lo Spirito svela progressivamen­te alla fede della Chiesa ed al cuore dei credenti tutte le ricchezze di vita, tutte le virtualità nascoste della parola di Gesù.

Così ulteriormente si precisa la rivelazione propria del Paraclito:

Nella seconda parte dell’ultima promessa (16,13b-14) vengono date ancora nuove precisazioni: Gesù vi insiste tanto sull’aspetto ministeriale dell’opera dello Spirito in rap­porto al Figlio ed al Padre, quanto sulla novità grandiosa che costituirà questa illuminazione del Paraclito.
La stessa idea ritorna in tre ondate: «Egli non vi par­lerà da se stesso ma tutto quel ch’egli ascolterà lo dirà»; poi per due volte: « Egli riceverà del mio ». Queste for­mule sono equivalenti, poiché «il mio» ossia ciò che è proprio al Cristo Gesù è la medesima realtà che lo Spirito «ascolta» su di lui. Il testo sottolinea vigorosamente que­sto punto dottrinale: la Rivelazione che apporterà lo Spi­rito, egli non l’attinge in se stesso, egli non ne è l’origine. E come Gesù Cristo non aveva parlato da se stesso (7, 17s; 12,49; 14,10), non aveva parlato altro che di quel che gli aveva insegnato il Padre (8,28; 12,50), quel che egli aveva udito dal Padre (8,26.38), così lo Spirito non par­lerà da se stesso ma dirà quel che avrà ascoltato. Ma ascol­tato da chi? Dal Figlio certamente, poiché al Figlio que­sto bene propriamente appartiene (è «il mio» che ricorre più volte); però anche dal Padre, poiché tutto quel che possiede il Padre appartiene anche al Figlio (cfr v. 15a). Dunque la Rivelazione ci introduce al centro stesso del Mistero trinitario: «La Rivelazione è perfettamente una: essa prende la sua origine nel Padre, viene operata dal Figlio e si perfeziona nello Spirito». Un’altra espressione viene ripetuta tre volte durante que­sta promessa: anangelei hymin. Essa ne costituisce l’elemento più importante poiché precisamente da esso Gesù spiega co­me lo Spirito ci introduce fino al centro della verità. Per lo più la formula viene tradotta seguendo la Volgata: «Egli vi annuncerà», come se l’azione dello Spirito fosse sempli­cemente una proclamazione kerigmatica. Essa invece ap­partiene a tutt’altro ordine di cose. Il verbo anangellein qui ha la sfumatura precisa che vi si scopre normalmente nella letteratura apocalittica: «rivelare, svelare»; esso si trova frequentemente nel testo greco di Daniele dove ha il significato di «svelare o far conoscere il significato d’un sogno, d’una visione, d’una profezia». In tal senso va compreso il verbo in san Giovanni. Così la Samaritana confi­da a Gesù quel ch’ella si attende dal Messia: «Quando giungerà, egli ci rivelerà tutte le cose » (4,25); ugual­mente in 16,25 Gesù oppone l’insegnamento «in parabole» come lui stesso ha praticato, alla spiegazione palese che darà più tardi per mezzo dello Spirito: «Verrà l’ora in cui... vi darò sul Padre una rivelazione perfettamente chiara».
Lo stesso verbo anangellein viene usato da Giovanni con insistenza in 16,13 ss per caratterizzare l’opera futura del Paraclito. Nella tradizione letteraria da cui deriva, questo verbo non significa «apportare una rivelazione del tutto nuova», ma piuttosto «dare un’interpretazione d’una ri­velazione antecedente restata fin allora oscura e misteriosa». Precisamente questa è la funzione dello Spirito: egli avrà come compito d’interpretare per la Chiesa la Rivelazione che ha portato Gesù e che fin allora era rimasta incompresa. Ed insieme, aggiunge il testo «egli vi svelerà le realtà fu­ture»: qui il Cristo Gesù non promette ai discepoli il dono di profezia; il significato è piuttosto che lo Spirito, alla luce delle parole e dell’opera di Gesù, darà ai disce­poli l’intelligenza dell’ordine escatologico, della nuova Eco­nomia della Salvezza, cioè del «nuovo ordine di cose iniziato con la Morte e con la Resurrezione del Cristo» (D.Mollat). Insomma, com’è stato detto assai felicemente: «Dare il senso cristiano della storia, far scoprire in tutte le realtà le tracce del disegno divino (Atti 20,27), gettare su ogni avvenimento, su ogni epoca, la luce viva della Ri­velazione: questa è la missione dello Spirito presso i di­scepoli». E questo è « condurre alla pienezza della verità», in questo consiste la Rivelazione del Paraclito. E’ dunque palese che nell’economia generale della Rivelazione la funzione dello Spirito rimane essenzialmente subordinata a quella del Cristo Gesù, l’Unico Rivelatore. Il compito dello Spi­rito di verità sarà quello di far penetrare il messaggio di Gesù nel cuore dei credenti affinché questi ne vivano.

La terza e la quarta promessa del Paraclito fanno, invece, riferimento alla testimonianza di Gesù che è propria dello Spirito:

Fino a questo punto si trattava unicamente della missione d’insegnamento propria allo Spirito. Le due promesse del Paraclito che esamineremo adesso evidenziano un altro aspetto della sua attività: la sua funzione di testimone. In tal modo siamo improvvisamente introdotti nel contesto d’un processo. Viene largamente riconosciuto — e vi tor­neremo sopra — che Giovanni presenta la vita di Gesù assegnando un posto essenziale alla nozione di processo. Inoltre qui occorre richiamare quanto all’inizio abbiamo anticipato sull’origine giuridica del titolo di Paraclito; al­lora si comprenderà perché Giovanni ha dato tale impor­tanza a questo tema dello Spirito-Paraclito, Difensore di Gesù. Ma leggiamo il testo della terza promessa:

«Ma quando verrà il Paraclito, che vi invierò da presso il Padre, lo Spirito di verità che proviene dal Padre, egli mi renderà testimo­nianza. Ma anche voi testimonierete, poiché voi siete con me fin dall’inizio » (Giovanni 15 ,26s).

P.de la Potterie mostra come qui si inserisca il grande tema dell’ “odio del mondo”:

Un esame attento del contesto aiuta notevolmente l’in­terpretazione del passo. La sezione precedente (15,18-25) e la sezione seguente (16,1-4) trattano ambedue dell’odio del mondo e delle persecuzioni. Un tale contesto di ostilità spiega la funzione di testimone che deve esplicare lo Spi­rito di verità.
Allora spontaneamente risaltano nella memoria i versetti dei Vangeli sinottici nei quali Gesù promette ai suoi di­scepoli l’assistenza dello Spirito durante le persecuzioni che verranno. Si pensi ai passi del discorso di missione di Matteo. dove si descrivono i maltrattamenti dei discepoli davanti ai tribunali (10,17-25); inoltre, si pensi ad un passo molto simile nella sezione del grande viaggio in Luca (12,1ls), e soprattutto ad un passo del grande discorso escatologico (Matteo 24,9-14 e suoi paralleli). In tali testi si trovano i paralleli a quasi tutti i temi di Giovanni 15,18; 16,4, e cioè: l’odio del mondo (Giovanni 15,18s.23ss: cfr Matteo 20,22; 24,9 e paralleli); il richiamo alla mas­sima: «Il servitore non è più grande del suo maestro» (Giovanni 15,20: cfr Matteo 10,24; Luca 6,40); l’annuncio delle persecuzioni (Giovanni 15,20: cfr Matteo 10,23; Luca 21,12), che saranno scatenate a causa del Nome di Gesù (Giovanni 15,21: cfr Matteo 10,22; 24,29 e paralleli); l’av­vertimento contro lo scandalo (Giovanni 16,1: cfr Matteo 24,10); i maltrattamenti davanti le sinagoghe (Giovanni16,2: cfr Matteo 10,17; Marco 13,9; Luca 12,11; 21,12); la testimonianza dei discepoli (Giovanni 15,27: cfr Matteo 10,23; Luca 21,13). I Sinottici in tali testi sottolineano po­tentemente l’azione dello Spirito Santo presso i discepoli durante le persecuzioni: quand’essi saranno trascinati da­vanti ai tribunali dei re, egli parlerà per loro mezzo o in essi (Marco 13,11; Matteo 10,20). Luca arriva a precisare che lo Spirito Santo stesso insegnerà loro quel che dovranno dire (Luca 12,12). Tuttavia mai i Sinottici considerano lo Spirito Santo come un testimone. Invece nel quarto Van­gelo, Gesù dice esplicitamente: «Egli mi renderà testimonianza». Ecco dunque un particolare del Vangelo di Gio­vanni che sarà nostro compito spiegare...
Questa testimonianza del Paraclito non è de­stinata al mondo, ma direttamente ai discepoli: «il Paraclito che io vi invierò» (v. 26); egli sarà loro inviato preci­samente a motivo delle persecuzioni che essi subiranno. Inoltre, la testimonianza dello Spirito qui viene formalmente distinta da quella propria ai discepoli (cfr v. 27): essa dun­que non può essere ricondotta alla testimonianza esteriore che i discepoli perseguitati saranno chiamati a rendere da­vanti ai tribunali; essa è anteriore a quest’ultima, e so­prattutto è di un’altra natura. Il suo scopo vero non è come nei Sinottici di ispirare direttamente la difesa o la te­stimonianza vera e propria dei discepoli, ma di preservarli dallo scandalo nel momento stesso in cui la loro fede sarà pericolosamente posta alla prova. Perciò si deve insistere soprattutto sull’aspetto interiore di questa testimonianza del Paraclito: ufficio dello Spirito di Dio sarà quindi quello di illuminare la coscienza degli Apostoli in mezzo alle avver­sità, di confermarli nella loro fede. Nel momento in cui essi sperimenteranno la tentazione del dubbio, il Paraclito agirà segretamente in loro: egli stesso davanti alle loro coscienze testimonierà in favore di Gesù.

C’è, infatti, un processo di Gesù che si deve compiere:

Perché, in ragione della sua operazione illuminatrice, lo Spirito viene considerato come un testimone di Gesù? La risposta è netta: perché il Paraclito svolge una funzione decisiva in quel che si è chiamato «il grande processo» della vita di Gesù. Ma una testimonianza non ha un ne­cessario carattere pubblico? Occorre tener presente che in Giovanni la maggior parte delle grandi nozioni teologiche hanno subito una trasformazione, e quindi l’hanno subita anche i temi del processo e della testimonianza. I diversi testimoni di cui parla il quarto Vangelo non debbono de­porre su fatti storici davanti a tribunali umani; essi testi­moniano quasi sempre sulla persona stessa di Gesù: lo scopo per cui testimoniano è di far accettare Gesù, di con­durre gli uomini a credere in lui. Qui esiste pertanto una notevole interiorizzazione e spiritualizzazione della nozione di testimonianza. La nozione di processo porterà a constatazioni analoghe. Secondo i Sinottici Gesù annuncia che i discepoli saranno coinvolti in reali processi davanti agli uomini: essi saranno consegnati ai sinedri, saranno trascinati davanti a gover­natori ed a re (Matteo 10,17s; Marco 13,9). Giovanni non dà altri dettagli su questi tribunali o sui loro giudici. Il gran processo al quale pensa l’Evangelista è di tutt’altro ordine: è il grande conflitto teologico che fa da sfondo alla vita di Gesù; è il processo che pone alle prese Gesù Cristo ed il mondo, e che si conclude con la condanna del mondo e l’esaltazione di Gesù Cristo sulla croce. A Giovanni importa meno quali siano, nel corso della storia, le corti di giustizia che condanneranno i discepoli; questi tri­bunali scompaiono completamente dietro una potenza unica, misteriosa e senza volto: il mondo. Questo tema del mon do fa percepire tutta l’estensione della causa che in esso si svolge in favore di Gesù o contro di lui. Questa opposi­zione trascende sconfinatamente l’opposizione dei Giudei contro Gesù durante la sua vita terrena; essa si prolunga ben oltre, nella Chiesa.
In questo immenso processo religioso in cui Gesù ed il mondo vengono posti a confronto, la testimonianza del Pa­raclito assume il suo vero significato: davanti all’ostilità del mondo i discepoli di Gesù saranno esposti allo scandalo momento per momento, saranno portati a defezionare, co­nosceranno il dubbio, lo scoraggiamento. Precisamente allora interverrà lo Spirito di verità, il Difensore di Gesù: egli stesso nell’interna coscienza dei discepoli renderà testimo­nianza su Gesù; egli stesso li confermerà nella loro fede e renderà loro tutta la sicurezza cristiana.
Compresa in tal modo, la terza promessa del Paraclito re­sta in perfetta continuità con le altre promesse che abbiamo esaminato finora. Secondo 14,26 e 16,13 l’opera dello Spi­rito deve consistere in un insegnamento; egli deve far comprendere le parole di Gesù e deve condurre i discepoli verso la pienezza della verità. Il testo esaminato adesso precisa ulteriormente quest’attività dello Spirito quando av­verranno le crisi: l’ufficio del Paraclito consiste nel fare da testimone a Gesù; egli svelerà interiormente ai disce­poli la vera portata del messaggio di Gesù e li inviterà a restare incrollabilmente fedeli ad esso, malgrado le perse­cuzioni da cui saranno travolti. In ogni caso si tratta sem­pre di un’opera interiore del Paraclito presso i discepoli: essa è essenzialmente ordinata allo sviluppo e all’afferma­zione della loro fede.

Il Paraclito non solo è testimone di Gesù, ma è anche, in questo processo, accusatore del mondo:

La terza e la quarta promessa del Paraclito formano un dittico. Anche qui osserveremo che il Paraclito adempie il suo ufficio di testimone, ma in questo caso in una visuale complementare alla precedente: egli sarà il teste a carico contro il mondo peccatore.
All’annuncio della partenza di Gesù il cuore dei suoi di­scepoli si riempie di tristezza (16,6). Però Gesù li conforta annunciando loro che verrà il Paraclito:

Io vi dico la verità: è meglio per voi che io parta; poiché se non
parto il Paraclito non giungerà a voi; ma se io parto ve lo invierò
E quando egli verrà, confermerà la colpevolezza del mondo in ma­teria di peccato, in materia di giustizia e in materia di giudizio; di peccato perché essi non credono in me; di giustizia perché io vado al Padre e voi non mi vedrete più; di giudizio perché il Principe di questo mondo ormai è condannato (16,7-11).

Il Paraclito accusa il mondo dimostrando il torto del mondo:

In questa promessa, Gesù precisa l’attività futura del Paraclito in rapporto al mondo. Il termine elenchein qui usato, in sé può assumere significati vari, e perciò il testo è abbastanza oscuro.
Le differenti accezioni del verbo sono strettamente impa­rentate tra loro: 1.«eseguire un esame, una ricerca»; 2. «interrogare, domandare con insistenza, mettere alla pro­va»; 3. può anche indicare il risultato dell’inchiesta: «porre in luce un fatto, esporlo palesemente, svelarlo»; 4. se si tratta di persone, il verbo significa piuttosto: «convincere qualcuno d’errore, dare la prova della sua colpevolezza»; 5. vi sono anche alcuni significati derivati: «biasimare», «ammonire», «punire».
Per Giovanni 16,8 la maggior parte degli interpreti am­mettono rettamente il significato: il Paraclito dimostrerà il torto del mondo. Tuttavia questa formula resta ancora ambigua, poiché si può pensare sia ad una semplice pre­sentazione oggettiva degli argomenti contro il mondo, sia anche ad una persuasione soggettiva creata nello spirito dell’accusato; questo significherebbe che sotto l’azione con­vincente del Paraclito i peccatori riconosceranno finalmente il loro peccato e si convertiranno. Ma se il verbo viene preso unicamente neI significato oggettivo come usano i com­mentatori, si pone un’altra questione: questa prova della colpevolezza del mondo davanti a chi sarà data? Normal­mente l’elenxis si pratica alla presenza del colpevole; allora si dovrebbe comprendere che il Paraclito confermerà il torto del mondo davanti a questo stesso e per bocca degli Apostoli: per mezzo della loro intrepida testimonianza questi confonderanno il mondo in modo che questo nulla più avrà da obiettare. Però questo tema della confusione dei pecca­tori non è tipicamente escatologico? Non trova il suo vero posto nel contesto del giudizio finale? Nella vita quotidiana della Chiesa i discepoli di Gesù sono in costante contatto col mondo e quindi un’azione cosi drastica del Paraclito non sembra adatta; e poi essa non corrisponde per nulla ai fatti. Tuttavia il testo non richiede simile spiegazione. In sé l’elenxis indica soltanto l’esposizione oggettiva delle prove; e soltanto dal contesto si desume se il colpevole è presente o contumace, se la dimostrazione della sua colpa avviene pubblicamente, e se infine sia diretta a lui. In ogni modo questo particolare resta alieno dal significato del verbo preso in se stesso.
Nel caso nostro, nulla nel contesto fa pensare ad una re­quisitoria pubblica. Il Paraclito dimostrerà l’iniquità del mondo ma lo farà nella coscienza intima degli Apostoli. Infatti secondo il versetto d’introduzione, il Paraclito verrà a loro e per loro: «Se io non parto, il Paraclito non giungerà a voi; ma se io parto, ve lo invierò» (v. 6). An­che nei versetti che seguono si tratta soltanto dei disce­poli di Gesù: «... Egli vi guiderà verso la verità integrale» (v. 13). E infine, nella nostra stessa pericope anche il v. 10 mostra che si tratta soltanto di credenti: « Poiché... voi non mi vedrete più ».
Ecco dunque il senso della promessa: quando dimostrerà la colpevolezza del mondo, il Paraclito agirà in un modo del tutto interiore, nel segreto della coscienza dei discepoli. Nella prova alla quale sarà sottoposta la loro fede, il Pa­raclito darà loro la certezza che il mondo è peccatore e che la verità sta dalla parte di Gesù. E se tale è il preciso si gnificato della promessa fatta da Gesù, allora per gli Apo­stoli essa diverrà eminentemente pratica:

Espulsi dalla comunità ebraica a causa del loro attaccamento al Mae­stro, considerati come talmente empi che la loro esecuzione capi­tale sarà guardata come un atto di culto verso Dio, gli Apostoli, da Giudei devoti quali sono, troveranno in questo la loro più grave tenta­zione di scandalo. Ma precisamente su tale punto sarà loro utile in particolare questo Difensore che rimarrà sempre presso di loro ed in loro.. - poiché proprio lui darà la sicurezza incrollabile ch’essi si tro­vano realmente nella verità e che la loro fede è gradita a Dio, proprio cosi porterà la luce totale sulle ingiuste pretese del mondo persecutore[18].

Anche qui allora l’azione del Paraclito consisterà nel con­fermare i discepoli nella loro fede al momento della crisi: positivamente, facendoli aderire sempre di più a Gesù; ne­gativamente, dando loro la certezza che proprio il mondo sta nell’errore. La loro fede in tal modo risulterà pugnace ed i discepoli potranno trionfare sullo scandalo che li at­tende all’agguato, insomma vinceranno il mondo: «E que­sta è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede» (1 Giovanni 5,4). La dimostrazione che darà a loro lo Spi­rito di verità consumerà la vittoria dei credenti sui mondo peccatore; ma sarà una vittoria perfettamente interiore e spirituale: nell’opera segreta del Paraclito i discepoli po­tranno trovare la forza necessaria per non lasciarsi travol­gere dalla menzogna del mondo e per restare fedeli al Cristo Gesù.
Come si vede, riappare ancora la nozione giovannea del grande processo, che abbiamo incontrato nella terza pro­messa. Mentre sul piano storico i discepoli di Gesù sono condannati dai tribunali degli uomini, sul piano della fede invece e nei confronti con Dio essi giudicano il mondo e il mondo risulta condannato:

Il giudizio avviene sulla terra ma avviene nella coscienza di coloro ai quali viene inviato lo Spirito. Davanti a questi viene introdotta la causa di Gesù e dietro l’indicazione del Paraclito che rivela loro il significato dei fatti, essi si schierano con colui che il mondo ha condannato e vanno a far parte dei suoi discepoli. Il mondo perciò perseguita anche loro; essi diventano accusati davanti ai tribu­naIi del mondo, pur continuando ad essere i giudici del mondo nel­l’interno della loro coscienza. In tal modo avvengono come due giu­dizi contemporaneamente: il giudizio dei cristiani davanti ai tribu­na1i umani costituiti dal mondo, il giudizio del mondo nel cuore dei cristiani sotto la luce dello Spirito[19].

Il giudizio del mondo avviene dinanzi a tre grandi temi, il peccato, la giustizia, il giudizio:

Secondo il v. 8, una tale dimostrazione della colpevolezza del mondo, operata dal Paraclito, deve avvenire per via di una triplice dimensione: «In materia di peccato, in ma­teria di giustizia ed in materia di giudizio». Durante la sua vita terrena Gesù era stato respinto dai Giudei ed ora stava per essere condannato durante i fatti della Passione.
Il Paraclito però condurrà la revisione di questo processo e mostrerà ai discepoli che il peccato sta dalla parte del mondo, che la giustizia sta dalla parte di Gesù e che il vero condannato in questo confronto religioso è il Principe di questo mondo. Ognuno dei tre aspetti dell’accusa che aI mondo rivolgerà il Paraclito viene ripreso e spiegato nei particolari dai versetti che seguono.

In materia di peccato,
perché essi non credono in me.

Nel pensiero di Giovanni ecco dunque l’essenza dei pec­cato: il mondo ha rifiutato di credere in Gesù, Messia e Figlio di Dio.

In materia di giustizia,
perché io vado al Padre
e voi non mi vedrete più.

Qui la giustizia non è quella dei cristiani ma del Cristo Gesù stesso. Spesso si comprende come se «giustizia» fosse la santità personale di Gesù, la sua amicizia con Dio, o anche il suo buon diritto nella contesa che l’oppone al mondo. Però la spiegazione che ne dà Gesù nella pro­posizione che segue, richiede piuttosto un’altra esegesi: «giustizia» deve prendersi nel significato di «trionfo», di vittoria o di gloria, significato che talvolta essa ha nei testi biblici. La giustizia di Gesù è la sua giustizia trion­fante, che esploderà al momento della sua Glorificazione celeste, quando sarà tornato dal Padre. Dando ai discepoli la certezza che Gesù sta nella gloria, il Paraclito contri­buirà potentemente a mostrar loro il tragico errore del mondo.

In materia di giudizio,
perché il Principe di questo mondo
è ormai condannato.

Nel processo che avviene tra il Cristo Gesù ed il mondo, la conclusione storica si trova all’ora della Passione e della Morte di Gesù: la sua esaltazione sulla croce ed il rifiuto del mondo peccatore a credere in lui, costituiscono preci­samente la condanna di questo mondo e del suo capo, il demonio. L’azione illuminatrice dello Spirito Santo permet­terà agli Apostoli di scoprire dietro agli avvenimenti della Morte del Cristo Gesù, colui che ne è il vero istigatore, il Principe di questo mondo; il Paraclito denuncerà l’azione di questo davanti al tribunale della coscienza degli Apo­stoli:

Agendo veramente da « Paraclito », cioè da Difensore, da Avvocato, lo Spirito Santo per cosi dire ha ricelebrato il processo di Gesù; egli, lo Spirito di verità, ha ristabilito la piena verità in questo ter­ribile dramma[20].

Così conclude p.de la Potterie la sua riflessione sul Paraclito:

Ormai si comprende meglio come il Paraclito possa ricevere qui, a più riprese, il titolo di Spirito di verità (14,17; 15,26; 16,13). Il determinativo “di verità” serve a caratterizzare il dominio in cui si esercita l’opera dello Spirito: la sua funzione secondo la teologia di Giovanni è di comunicarci la verità, cioè la rivelazione di Gesù, d’insegnarcela interiormente, di introdurla sempre più profondamente nel cuore dei cristiani. In tal modo in virtù dell’opera segreta del Paraclito, nella Chiesa è assicurata per sempre la permanenza e l’efficacia della Parola di Gesù.

immagine
Efeso, Battistero della Basilica di S.Giovanni

Il discepolo che Gesù amava

In un altro studio[21] p.de la Potterie cerca di penetrare alcuni aspetti dell’identità stessa del “discepolo amato”. Perché questo modo di autodefinirsi, in cosa consiste la differenza con gli altri apostoli?
P.de la Potterie presenta innanzitutto i due titoli che Giovanni riceve nella tradizione patristica: “il teologo” e l’ “episthetios”.

(«Il teologo») è precisamente il titolo che (incontriamo) nella lettera mandata dal Concilio di Efeso alla chiesa di Costantinopoli, dopo la con­danna di Nestorio. Si legge anche, in forma rozza e popolare, su un graf­fito molto pio di un pellegrino nella basilica di S. Giovanni, qui ad Efeso:

«Signore, tu, Dio e Salvatore nostro, e tu, santo Giovanni, evangelista suo e teologo, vieni in aiuto a me, tuo servo peccatore, Nicolao».

Però, il ti­tolo «il teologo» è probabilmente di origine alessandrina: appare per la prima volta nel commentario di Origene a S.Giovanni. Si comprende tuttavia che sia stato ripreso qui ad Efeso, nella lettera del Concilio nel 431, perché si trattava lì, contro Nestorio, di legittimare l’uso del titolo Theotókos dato a Maria, e quindi di difendere la teologia dell’Incarnazione del Figlio di Dio, che sta proprio al centro del pensiero teologico di Gio­vanni (questo spiega forse anche che, nella lettera che parla di Nesto­rio, «il rinnovatore dell’eresia empia», di Ario, venga ricordata la venuta qui di Giovanni e di Maria: è la venuta del theológos dell’Incarnazione; ora l’Incarnazione si è fatta nella Theotòkos Maria). Però bisogna tener presente che l’autore di quella lettera era un alessandrino, S.Cirillo, un grande commentatore di Giovanni; egli, in quel momento presiedeva il Concilio. Altri alessandrini ancora, prima o dopo, hanno usato questo ti­tolo «il teologo»: S.Atanasio al tempo di Nicea, più tardi Didimo il Cieco e S.Anastasio Sinaita ma si ritrova poi anche nella tradizione occidentale, fino al medioevo latino. Secondo l’interpretazione più comune, la ragione per cui Giovanni veniva chiamato «il teologo» era che egli aveva scritto il prologo, in cui veniva proclamata la divinità di Cristo. Scriveva per esempio S.Atanasio: «Il Logos era ed è Dio, come dice il teo­logo Giovanni»(si osservi qui il bel gioco di parole: θεòς ην ό Λόγος, detto da Giovanni, per Cristo; ό θεο-λόγος, detto da Atanasio, per Gio­vanni). Aggiungiamo un esempio della tradizione occidentale, il com­mentario al Prologo di Giovanni Scoto. grande teologo del tempo caro­lingio, ma profondamente penetrato dalla tradizione alessandrina. In questa celebre omelia, che comincia con le parole: «La voce dell’aquila spirituale risuona all’orecchio della chiesa» (1, 1), egli usa diverse volte il titolo theologus; citiamo il testo di 5, 13-18: «Il santo teologo, trasmutato in Dio, partecipe della verità, afferma con la sua parola che il Dio Verbo sussiste nel Dio Principio, cioè il Dio Figlio sussiste nel Dio Padre: In principio, dice, era il Verbo. Ecco il cielo si è aperto, ecco rivelato al mondo il mistero della suprema e santa Trinità nella sua unità». Tuttavia la spiegazione del titolo «il teologo» con un riferimento a Cristo-Dio del prologo, veniva talvolta anche messa in relazione con l’e­pisodio dell’ultima cena di cui parliamo subito, il fatto cioè che Giovanni era chinato sul petto di Gesù; così p. es. in un testo liturgico della chiesa bizantina: «Riposando sul petto di Gesù, tu, come discepolo, hai avuto l’audacia di chiedere: chi è il traditore, Signore? E perché tu eri molto amato, egli te l’ha mostrato con un pezzo di pane. Iniziato così alle cose ineffabili, tu hai intravveduto l’Incarnazione del Verbo e tu l’insegni, o teo­logo apostolo; intercedi per noi, che celebriamo con amore la tua santa memoria, intercedi presso Cristo Dio affinché ci conceda il perdono delle nostre colpe».

Epistethios è l’espressione greca che significa «colui che si era chinato sul petto del Signore».

A differenza del titolo precedente, questo non ci invita a volare in alto con «l’aquila spirituale» fino al Logos in Dio; questa nuova espressione, che ebbe una larghissima diffusione in tutta la tradizione patristica e medievale, ci rimanda ad un dettaglio preciso della vita terrestre di Gesù, nel racconto dell’ultima cena (Gv 13, 23.25). Ne riparleremo nella seconda parte al livello esegetico; ma vorremmo prima esaminare quale risonanza ha avuto quell’episodio nella tradizione. Ricordiamo che, sul discepolo che Gesù amava, il IV vangelo descrive per quella circostanza due particolari: per rivolgere a Gesù la domanda sul traditore, viene detto prima che il discepolo era «in sinu Iesu» (13, 23), e un po’ dopo che egli «recubuisset... supra pectus Iesu» (13, 25). Da un versetto all’altro, c’è quindi un doppio cambiamento, sia per i verbi sia per i sostantivi: per il discepolo, si passa da «adagiato» a «chinatosi» (in dietro); per Gesù, il testo parla prima del suo «seno» poi del suo «petto». Questi due fatti sono stati fortemente allegorizzati e simbolizzati nella tradizione e hanno lasciato delle tracce molteplici anche nelle raffigurazioni di Giovanni nell’arte cristiana.
Molti anni prima, il P.VACCARI e J.MEHLMANN avevano ana­lizzato il fatto suggestivo che dal nostro versetto di Gv 13, 25 (dove si parla del «petto» di Gesù) era nato l’uso nella patristica greca, di dare al­l’apostolo Giovanni il soprannome di epistêthios: «(colui che ha riposato) sul petto di Gesù (επί τò στηθος τον ‘Іησον)». Ma al punto di partenza di tutte queste ricerche moderne, sta un articolo di H.RAHNER nel 1931 sullo sfondo patristico dell’antifona liturgica per la festa di san Giovanni: «De Dominici pectoris fonte potavit». Presentiamo qui, sulla base di questo materiale, una breve sintesi di tutta quella tradizione. Diversamente da altri autori, pensiamo, in questo caso, che bisogna risalire non solo ad Origene, ma più in alto, alla tradizione asiatica ed efesina del secondo secolo. Andando a ritroso, citeremo qui quattro nomi di vescovi dell’Asia: Ireneo, Policrate di Efeso, Policarpo di Smirne, Papia di Gerapoli, per raggiungere così Giovanni l’Apostolo, all’inizio della tradizione. Nel testo di Ireneo, a cui abbiamo già accennato, si legge questa testimonianza: «Giovanni, il discepolo del Signore, che si era pure chinato sul suo petto, ha pubblicato anch’egli il Vangelo, durante la sua perma­nenza ad Efeso, in Asia». Si descrivono qui, nella vita di Giovanni, tre tappe, che si susseguono in ordine cronologico: prima, Giovanni fu disce­polo del Signore; poi, all’ultima cena, si chinò sul suo petto; finalmente scrisse il Vangelo a Efeso. Si direbbe che Ireneo ha voluto suggerire un progresso: che il discepolo di Gesù abbia scoperto il mistero del Signore, viene suggerito dal suo gesto alla cena, ed è proprio ciò che ha voluto far conoscere nel suo vangelo. Possiamo qui forse fare un confronto col modo in cui fu proprio la tradizione efesina, e specialmente Ireneo, a leggere in senso cristologico il passo di Gv 7,37-38: «Dal suo intimo sca­turiranno fiumi d’acqua viva». Fra «l’intimo» (κοιλία) di Gesù in 7, 38 e il suo «petto» (στηθος) in 13, 25, non sembra che la tradizione abbia fatto grande differenza, anche se non abbiamo nessun testo di Ireneo per mostrare che egli abbia sottolineato il parallelismo tra i due passi.

Risalendo ancora più in alto, incontriamo finalmente la figura del misterioso Papia, vescovo di Gerapoli in Frigia (verso il 130), mezzo se­colo prima di Ireneo, e solo trent’anni dopo la morte di Giovanni. Ma, come Policarpo, anche lui aveva bene conosciuto l’Apostolo. Dai dati fa­ticosamente raccolti dall’erudizione moderna, ecco ciò che sappiamo su di lui: era ‘stato «uditore di Giovanni», dice Ireneo; un’altra tradizione del II secolo lo presenta come «un discepolo molto caro di Giovanni» e un testimone posteriore, Anastasio Sinaita, che rappresenta la tradi­zione alessandrina, si riconnette anche lui a Papia; lo chiama: «il famoso Papia di Gerapolì, che frequentò come maestro l’Epistêthios» (cioè l’Apo­stolo che aveva chinato il capo «sul petto» del Signore). Si sente ancora in Papia, «uditore di Giovanni», la preoccupazione di riconnettere la vita della sua Chiesa con la testimonianza dei primi discepoli del Signore; vo­leva conoscere «i precetti dati dal Signore alla fede e scaturiti dalla stessa Verità» (cioè da Cristo); infatti aggiungeva: «Non pensavo che le cose (conosciute) dai libri mi giovassero tanto, quanto le cose che vengono da una voce che vive e che rimane». Questa ultima espressione di Papia esprime ottimamente il clima teologico e spirituale che dominava nelle chiese dell’Asia al secondo secolo: rimaneva nell’alveo della teologia del IV vangelo; perciò è stata un’intuizione felice di L.CERFAUX di scegliere questa espressione di Papia come titolo del suo prezioso libretto “La voix vivante de l’évangile au début de l’Eglise”. Possiamo ora compendiare in poche parole l’essenziale di quella tra­dizione asiatica su S.Giovanni. I vescovi dell’Asia, Policrate di Efeso, Policarpo di Smirne, Papia di Gerapoli, a cui si deve aggiungere Ireneo di Lione, che veniva dall’Asia, sono l’eco unanime di una tradizione che risale a Giovanni. E la ragione era che l’apostolo Giovanni era stato un testimone, un discepolo del Signore, un maestro; attraverso di lui le chiese dell’Asia volevano risalire «alla stessa Verità», secondo la bella formula di Papia. Come non ricordare qui che, nel IV vangelo, Gesù stesso aveva detto: «Io sono la verità» (Gv 14, 6)? Ciò che simboleggiava l’importanza della testimonianza di Giovanni era il fatto che egli «aveva chinato il capo sul petto di Gesù»: questo fatto, col suo simbolismo, è stato tramandato attraverso tutta la tradizione cristiana, ed è anche la ra­gione per cui è stato dato a Giovanni il soprannome «ho Epistêthios».
Ora — fatto sconcertante — su questo gesto del discepolo amato i commentatori moderni non trovano quasi niente da dire. A.JAUBERT però osserva giustamente: «L’insistenza dell’evangelista (su questo gesto) all’ultima cena (13, 23-25) e il ricordo che ne fa al cap. 21 mostrano che questo particolare è significativo ad un livello più profondo (...). La pros­simità fisica tra Gesù e il discepolo che egli amava mira a manifestare che il discepolo penetra in un modo particolare il messaggio di Gesù e che può trasmettere il suo senso profondo (...); così diventa il “testimone” a cui (i cristiani) possono far riferimento». Ma in che cosa consisteva quel «penetrare» nel messaggio di Gesù? Non viene spiegato.

Infine p.de la Potterie si rivolge ad analizzare le cinque ricorrenze dell’espressione “il discepolo che Gesù amava” ed, attraverso questa analisi, ci guida, come vedremo, a comprendere ulteriormente il titolo stesso di “epistethios”.
“Il discepolo che Gesù amava” viene nominato esplicitamente innanzitutto nel racconto dell’ultima cena, proprio nel luogo dove si dice, insieme, del suo “chinarsi sul petto di Gesù”. Per il gesuita belga l’espressione è qui da mettere in relazione con il valore rivelativo dell’essere Gesù stesso rivolto verso il seno del Padre. L’evangelista dall’intimità del petto di Gesù ha accesso all’intimità del seno del Padre. Ed in questa rivelazione del mistero si trova dinanzi all’aspetto più intimo e sconvolgente della rivelazione cristiana: il Figlio è colui che ama con l’amore di Dio dinanzi al male che si manifesta nella sua forma più totale, nel tradimento di Giuda che si fa servitore del Maligno stesso. Questo è l’amore di Dio, amante non amato, che si manifesta nella pienezza del suo amore che non cessa di essere se stesso neanche dinanzi al rifiuto più radicale del non amore.
Nell’introdurci a questo p. de la Potterie analizza innanzitutto il problema della lettura simbolica, e non solo realistica – siamo nuovamente dinanzi alla continuità giovannea fra la verità storica da lui “vista” in prima persona e l’approfondimento contemplativo che “vede” dentro ciò che è già stato visto – del “chinarsi sul petto di Gesù”:

A prima vista, non c’è nessun fondamento per l’interpretazione simbolica che tanti autori antichi propongono per questi due versetti. S.Tommaso p.es. dice per il primo: “... quel seno di Gesù (...) indica in secondo luogo la conoscenza dei segreti che Cristo gli rivelava, e specialmente per mezzo della redazione di questo vangelo; perciò dice che era “adagiato nel seno di Gesù”: seno infatti significa segreto”; e per il versetto 13,25, ecco un commento di sant’Agostino: «Attingeva dal petto del Signore i segreti di alti misteri; attingendo dal suo petto, fu lui a por­tare in luce la Divinità del Signore: In principio era il Verbo ed il Verbo era presso Dio». Ma niente nel nostro brano fa pensare al Verbo oppure a Dio! Quel tipo di interpretazione non è puro allegorismo? Rileggiamo attentamente il testo. Che si tratti della delucidazione di un segreto, non si può negare; però viene rivelata qui, non l’identità del Verbo, ma quella del traditore. Ma è solo al discepolo amato che Gesù ha spiegato il senso del gesto simbolico che stava per compiere: la consegna di un boccone ad uno dei commensali. Quindi, solo il discepolo amato comprese in quel momento che il traditore era Giuda. Bisogna partire da lì. Ma attraverso il fatto esteriore della designazione del traditore, si apre un ampio orizzonte teologico su tutta la missione di Gesù e sul senso del fatto che uno dei suoi lo tradì.

Al centro del testo giovanneo, nel chinarsi del discepolo su Gesù, sta la questione su chi sia il traditore:

Giovanni è l’unico evangelista che, più volte du­rante la vita pubblica, parla di Giuda, presentandolo sempre come il tra­ditore di Gesù: «colui che lo avrebbe tradito» (6, 64; cfr. 6, 71; 12, 4); e all’inizio della Passione: «Giuda che lo stava tradendo» (18, 2.5). All’ultima cena, prima ancora del versetto sull’annuncio (13,21), due volte già Gesù aveva accennato al tradimento che stava per compiersi (13, 11.18). Ma per comprendere quale ampia dimensione simbolica e storico-salvi­fica il tradimento di Gesù aveva preso agli occhi di Giovanni, bisogna ri­salire all’introduzione solenne che egli premise al racconto dell’ultima cena; in questi tre versetti, l’atto di tradire Gesù viene inquadrato in una visione quasi apocalittica su tutto il mistero dell’incarnazione, sul fatto cioè che Gesù era uscito da Dio e adesso a Dio tornava; ecco il testo, con al centro proprio il versetto su Giuda:

A

«Prima della festa di Pasqua
sapendo Gesù che era venuta la sua ora
per passare da questo mondo AL PADRE,
avendo amato i suoi che erano nel mondo,
li amò fino al segno supremo.

 

 

B

E durante la cena, avendo già il DIAVOLO
messo in cuore a GIUDA di Simone
Iscariota di TRADIRLO,

 

 

A’

sapendo che IL PADRE
gli aveva dato tutto nelle mani,
e che, uscito da Dio, A DIO tornava,
si alza da tavola...» (13, 1-4).

...Ultimo dettaglio da notare sulla persona di Giuda: l’insistenza del­l’evangelista a presentare il tradimento di Giuda come qualcosa di diabolico. Già dopo il discorso eucaristico, Gesù diceva: “Non vi ho scelto io, voi Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo» (6,70). E l’evangelista com­menta: «Parlava di Giuda... Infatti, stava per tradirlo, proprio lui, uno dei Dodici» (6,71). E al centro di 13,1-3: «...Quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda di Simone Iscariota di tradirlo...» (13,2). Infine, nel nostro brano, quando il traditore viene designato e sta per iniziare la sua opera, nuova insistenza: «E dopo il boccone, allora entrò in lui Sa­tana» (13,27), versetto che corrisponde a quello finale: «Preso dunque il boccone, costui uscì subito: era notte» (13,30). Non c’è dubbio, quindi:
Giuda, che tradisce Gesù, personifica per Giovanni il potere delle tenebre; personifica il diavolo, il principe di questo mondo; rappresenta «il mondo (che) non lo riconobbe» (1,10), dunque tutto il polo negativo del dualismo escatologico.

P.de la Potterie invita a cogliere qui il collegamento proprio con il Prologo del Vangelo, con l’essere Gesù sempre rivolto al seno del Padre:

Nella costruzione del IV vangelo, questo brano. col quale comin­cia il libro della Passione (13, 1-4), ha diversi punti di contatto col prologo di tutto il vangelo; ivi, nel versetto centrale sull’Incarnazione del Verbo, l’evangelista lo aveva designato come «l’Unigenito venuto da presso il Padre» (1,14), ma poi, nel versetto finale, come «il Figlio unigenito tornato nel seno del Padre» (1,18); similmente, nell’introduzione all’ultima cena vengono presentati quei due grandi momenti dell’Incarnazione, ma sta­volta attraverso la profonda coscienza che ne aveva Gesù: «sapendo (...) che da Dio era uscito» (13,3); «sapendo che era venuta la sua ora di pas­sare da questo mondo al Padre» (13,1).

Di fronte al tradimento, proprio dinanzi ad esso, sta all’opposto l’amore del discepolo che comprende fino in fondo cosa sia l’amore di Gesù e cosa significhi accoglierlo:

Ma è tempo ormai di vedere nel nostro brano tutto ciò che di fronte a Giuda c’è di positivo, particolarmente in relazione al discepolo che Gesù amava. Non potendo entrare nei dettagli, dobbiamo acconten­tarci di far osservare brevemente diversi parallelismi tra due brani di­stanti che abbiamo chiamato i due prologhi, quello dell’ultima cena (13,1-3) e quello di tutto il vangelo (1,1-18).
In primo luogo c’è il tema dei discepoli, legato al tema dell’amore di Gesù per loro. La formula «i suoi» si trovava già nel prologo (1,11). Si legge anche in 13,1: «...avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine (= fino al segno supremo)»; e in 13,23, il versetto precisa­mente dove appare per la prima volta la formula che stiamo analizzando:
«uno dei suoi discepoli (...), quello che Gesù amava». La tecnica dell’anonimato, cara all’evangelista, serve a far comprendere che il discepolo che Gesù amava ha anche lui un valore rappresentativo; per Gesù stesso, egli simbolizza tutti «i suoi che erano nel mondo» e che egli «amò fino alla fine». E’ anche significativo che nel brano seguente, Gesù riprenda due temi della pericope di apertura: il suo ritorno presso Dio e il suo amore per i suoi. Poi viene il testo famoso sul comandamento nuovo dato ai discepoli: «Un comandamento nuovo do a voi: che vi amiate gli uni gli altri; come io ho amato voi, che anche voi vi amiate gli uni gli altri» (13,34).
In secondo luogo si deve sottolineare con diversi commentatori il parallelismo suggestivo ma audace tra 13,23 e 1,18: all’ultima cena il disce­polo amato era «adagiato nel seno di Gesù»; secondo la fi­nale del prologo, Gesù stesso ormai è «tornato nel seno del Padre». Come si deve comprendere questa analogia? Sentiamo la spie­gazione recente di J. KÜGLER nella sua grande tesi: «Viene data al di­scepolo rispetto a Gesù la posizione che Gesù occupa presso il Padre. Gesù come Figlio (...) è amato dal Padre. Pertanto, se la caratteristica es­senziale del discepolo è l’amore di Gesù per lui, ne segue che egli viene messo nella medesima relazione con Gesù, quanto Gesù con il Padre». Ma questo commento non può soddisfare: suppone che la vita di Gesù nel seno del Padre sia già a noi conosciuta, e venga presentata poi come modello della relazione del discepolo con Gesù; ma così, si va dal­l’alto in giù. Bisogna invece fare proprio l’inverso: il movimento ci porta dal basso verso l’alto, dal visibile all’invisibile; vale a dire che la situa­zione storica del discepolo «nel seno di Gesù», alla cena, è diventata un modello, un simbolo per descrivere la vita misteriosa, trascendente di Gesù «nel seno del Padre»...
Che il movimento vada dal basso verso l’alto appare da tre grandi testi giovannei; l’uno, alla fine del prologo: «Egli ha aperto la via» (1,18); l’altro, nella dichiarazione di Gesù alla cena: «Nessuna va al Padre se non attraverso di me» (14,6); il terzo è all’inizio di tutta la nostra sezione: «era venuta la sua ora per passare da questo mondo al Padre» (13,1).

Così conclude, allora, p.de la Potterie l’analisi di questo primo brano sul discepolo amato:

Si vede da una parte la novità di questa interpretazione, ma dall’altra anche una certa continuità con la tradizione antica. L’elemento più nuovo è l’insistenza su un fatto storico: ciò che fu dato di scoprire al discepolo amato era l’identità del traditore. Ma quello svelamento di Giuda – in cui “entrò Satana” (v.27), e perciò si poteva dire di lui: “era notte” (v.30) – apre largamente la prospettiva su tutto il misetro di Cristo, che era venuto da Dio e che tornava nel seno del Padre... Al centro di questa visione allo stesso tempo storica e teologica sta il mistero, non direttamente quello di Gesù, il Verbo in Dio, ma quello del Verbo incarnato, “pieno della grazia della verità” (Gv 1, 14), che però non è stato accolto dai suoi (cfr. 1, 12), come lo ha mostrato drammaticamente Giuda. Quello è il dramma che ha così fortemente colpito il discepolo che Gesù amava.

In un secondo passaggio il gesuita si sofferma dinanzi al testo della crocifissione, sotto la quale stanno Giovanni e la Madre. L’esegesi lo porta a concludere che Giovanni comprende il suo essere amato non solo nell’essere a lui donata la Madre di Gesù, ma - ancora una volta con uno slittamento di piani - nel ricevere in questo anche “l’essere figlio della Chiesa”. Così p. de la Potterie argomenta:

Prima cosa da notare: oltre Gesù e il discepolo, che erano già in dialogo alla cena, è presente qui una terza persona, la madre di Gesù (per abbreviare, chiamiamola Maria). Osserviamo attentamente le loro posizioni rispettive; formano quasi un triangolo:

 

Gesù in croce
 
sua madre
«presso la croce di Gesù»
 
il discepolo
«presso di lei»

Secondo questa disposizione, Maria si trova in una posizione inter­media tra Gesù e il discepolo: da una parte occupa «presso la croce» un posto subordinato rispetto a Gesù in croce; ma dall’altra esercita in un certo senso una funzione più alta di quella del discepolo. Lo stesso risulta dal fatto che Gesù, usando un titolo, si rivolge prima a sua madre che sta presso la sua croce: «Donna, ecco il tuo figlio»: poi al discepolo, che sta presso sua madre, dandogli semplicemente il suo programma dì vita: «Ecco la tua madre».

Seconda osservazione: l’evangelista adopera qui il cosiddetto «schema di rivelazione», di cui si era già servito all’inizio del vangelo per parlare di Giovanni Battista, il testimone di Gesù. Questo schema consta dì quattro elementi: 1) una persona (A) scorge un’altra persona (B); 2) la persona A dichiara qualcosa a proposito di B; 3) dicendo que­sto, A designa B con «ecco...»; 4) poi segue un titolo, che contiene la rive­lazione. Quel caso parallelo di Giovanni Battista è molto chiaro: «Fis­sando lo sguardo su Gesù che passava egli dice: “Ecco l’agnello di Dio”» (1,36). Poco prima, il precursore aveva detto che era venuto proprio per rivelare il Messia ad Israele (1,31). Infatti, lo rivela, dicendo a proposito di Gesù che gli viene incontro: «Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (cfr. 1,29). Nel nostro episodio del Calvario, c’è un altro esempio di questo schema, anzi viene raddoppiato. Perciò le parole di Gesù: «Ecco il tuo figlio, ... ecco la tua madre» sono veramente una rive­lazione: i due titoli «tuo figlio», «tua madre», indicano che, per volontà di Gesù in croce, ci saranno ormai nuove relazioni tra quelle due per­sone, tra Maria e il discepolo.

Terzo, ritroviamo anche qui il fenomeno dell’anonimato: sia per la madre di Gesù sia per il discepolo, l’evangelista evita di designarli con il loro nome, per mettere piuttosto in luce il loro valore rappresentativo e l’importanza della loro funzione. Per il titolo «Donna», usato già a Cana (2,4), ma ripreso qui alla croce (19,26), sono state proposte diverse spiegazioni. La migliore sembra essere di vedere in quell’appellativo un riferimento alla Figlia di Sion, quella donna simbolica che nella tradi­zione profetica rappresentava Israele nei suoi rapporti di Alleanza con Dio. Siamo qui all’inizio della nuova Alleanza, al momento in cui nasce il nuovo popolo di Dio, il popolo messianico, che diventerà la Chiesa. Giovanni, interpretando la profezia di Caifa, aveva detto che Gesù doveva morire «per radunare nell’unità i figli di Dio dispersi» (11,52). Quel ra­duno messianico si realizza nelle due persone presenti alla croce. Maria rappresenta qui il popolo escatologico nella sua funzione materna, ma di­venta nello stesso tempo icona della Chiesa. Come ha detto ottimamente un autore medievale a proposito di Maria presso la croce: ella è «Con­summatio Synagogae et Ecclesiae sanctae nova inchoatio».
Ma dobbiamo fermarci specialmente al titolo «madre» che è la pa­rola tematica del brano. Il sostantivo «madre» viene cinque volte in tre versetti (sei volte, se si aggiunge il pronome personale del v. 27c). Ma proprio l’uso dei pronomi è sorprendente: al v. 25 si tratta due volte della «madre di Gesù» (o «sua madre»); al v. 26 invece, il greco (non le ver­sioni!) menziona due volte «la madre» (senza possessivo); al v. 27 invece troviamo «la madre tua». L’idea dominante, certo, è quella della funzione materna di Maria, ma c’è una dinamica nel testo: va dalla sua funzione materna rispetto a Gesù, alla sua maternità verso il discepolo. Qui co­mincia la maternità spirituale di Maria: da madre di Gesù, per volontà dello stesso Gesù, diventa madre del discepolo, di tutti i discepoli.

Ma se l’anonimato suggerisce il valore rappresentativo di una persona, chi è rappresentato dal discepolo che Gesù amava? Si può ri­spondere con una parola: tutti i discepoli, tutti i credenti nella Chiesa. Lo ha detto in termini precisi il protestante M.DIBELIUS: «il discepolo che Gesù amava» è «il tipo stesso del discepolo (...). (Egli) è l’uomo di fede che non ha bisogno di prove (20, 8). Egli è testimone del mistero della croce (19,35) e ai piedi della croce diviene il figlio della madre di Gesù, cioè il rappresentante dei discepoli che, nella loro relazione con Dio, sono divenuti i fratelli di Gesù (20,17)».

Dobbiamo ancora chiederci che cosa significhi la frase di conclu­sione dell’episodio; siccome il suo senso e la sua traduzione sono state oggetto di lunghe controversie, citiamo provvisoriamente il testo della Vulgata: «Et ex illa hora accepit eam discipulus in sua» (19,27b).
Di solito si traduce: «Da quel momento il discepolo la prese in casa sua». Ma quella versione è inesatta per diversi motivi: il verbo λαμβάνειν, applicato a una persona, non significa «prendere» o «ricevere», ma «accogliere» (cfr. per es. 1,12). L’espressione είς τά ιδια (in sua), altrove nel IV vangelo, è sempre presa in senso spirituale. Ha intuito bene il senso il card. Toledo (XVII sec.): «Accepit eam discipulus in sua, id est inter spiri­tualia bona». Il testo significa che il discepolo ha perfettamente eseguito la volontà di Gesù: ha accolto la madre di Gesù nella propria vita di fede, l’ha accolta come sua madre. «Da quell’ora» è cominciata la maternità spirituale di Maria nella comunità cristiana. Però Maria non è soltanto la madre dei discepoli, la madre della Chiesa; in quanto «Donna», «Figlia di Sion», Maria stessa è la Chiesa. «Tutta la Chiesa è mariana», diceva il card. Journet. E perciò H.URS VON BALTHASAR ci ha invitato a risco­prire «il volto mariano della Chiesa».
Come si vede, «il discepolo che Gesù amava» non viene presentato qui come apostolo o come testimone di Gesù, ma come figlio di Maria, quindi anche figlio della Chiesa. Anche sotto questo aspetto, il discepolo amato è la personificazione di tutti i discepoli e un modello per tutti.

Nell’articolo che stiamo analizzando p.de la Potterie, dopo aver toccato gli altri due versetti in cui si parla del “discepolo che Gesù amava”, nei brani degli incontri degli apostoli con il Risorto – e che già abbiamo visto precedentemente in questa nostra rassegna – si sofferma, infine, sulla misteriosa espressione del capitolo finale del IV evangelo: il discepolo che Gesù amava è il discepolo “che rimane”. La sua riflessione tende sottolineare come la presenza e la testimonianza dell’evangelista Giovanni non si esaurisca nelle parole che ha scritto nel suo Vangelo, ma come egli “rimanga”, dopo aver scritto, come l’invito ad un approfondimento ulteriore della divino-umanità del Figlio:

Ed eccoci arrivati all’ultimo brano del vangelo (21, 20-25): all’ini­zio, paradossalmente, l’evangelista fa un richiamo a ciò che era accaduto all’ultima cena; è come un elemento interpretativo; poi viene ancora una parola di Gesù (21,22), l’ultima del vangelo, in cui egli annuncia un mi­sterioso «rimanere» del discepolo amato.
E’ molto utile leggere almeno i vv. 20-23:

20 «Pietro, voltatosi vide che gli veniva dietro
il discepolo che Gesù amava.
quello che nella cena si era chinato
sul petto di lui e gli aveva domandato:
Signore, chi è che ti tradisce?
21 Ora, vedutolo, Pietro chiese a Gesù:
Signore, e di lui che ne sarà?”
22 Gesù gli rispose:
Se voglio che lui rimanga, finché io vengo,
che te ne importa?”
23 Si sparse perciò tra i fratelli la voce
che quel discepolo non doveva morire.
Però, Gesù non aveva detto che non doveva morire,
ma:
Se voglio che lui rimanga, finché io vengo,
che te ne importa?”»

Concentriamoci su una sola domanda: cosa significa quel «rimanere» del discepolo? L’evangelista ci avverte che un’interpretazione sbagliata si era sparsa tra i fratelli: che quel discepolo non doveva morire. Però, dopo aver scartato quella interpretazione, l’evangelista si limita a ripetere con una certa insistenza la frase dì Gesù; non si tratta dunque dì un rimanere vivo in senso fisico (così sono nate diverse leggende, specialmente ad Efeso). Però, in un certo qual modo, il discepolo che Gesù amava deve veramente «rimanere», quindi rimanere «vivo». Ma come bisogna comprendere quelle parole misteriose? La risposta si trova negli ultimi due versetti, dove si parla del discepolo che ha scritto queste cose; e la conclusione aggiunge che se si dovesse scriverle ad una ad una, ci vorrebbe quasi un’infinità di libri. In che senso? Nella storia dell’esegesi troviamo due interpretazioni. Quella di Origene è la più giusta e la più profonda: l’impossibilità per il mondo di contenere tutti i «libri» che si dovrebbero scrivere non è dovuta alla quantità dei fatti» che sarebbero da raccontare, ma alla loro «gran­dezza» spirituale; ecco la spiegazione di Origene, in un testo della Filoca­lia (si osservi l’assonanza tra le due formule messe in contrasto; sono state indicate in corsivo). «Se “il mondo non può contenere i libri che si dovrebbero scrivere”, non è, come lo pensano alcuni a ragione dell’abbondanza dei testi, ma della grandezza delle realtà: la grandezza della realtà non solo non può essere consegnata per iscritto, ma non può nemmeno essere proclamata dalla lingua di carne, né essere espressa con... parole umane».
Si comprende adesso in che senso il discepolo che amava deve «ri­manere»: egli, l’uomo della fede, rimane, anzi rimane vivo, ma attraverso le cose che ha scritte, nelle quali egli si presenta come il testimone di ciò che ha fatto Gesù; la sua testimonianza rimane, come un invito costante a cogliere la profondità di ciò che ha fatto Gesù e di cui egli rende testimonianza nel vangelo scritto da lui.
È forse lecito fare di nuovo qui un confronto con Papia di Gerapoli, che era stato uditore e caro discepolo di Giovanni, e che 30 anni più tardi userà una formula sorprendentemente simile a questa finale del IV vangelo: ciò che al vescovo della chiesa di Gerapoli premeva di fare era di raccogliere le cose che venivano «dalla voce viva e permanente». Quella voce, anche per noi, è quella del discepolo che Gesù amava; egli aveva visto e aveva creduto; aveva colto «la grandezza delle cose» fatte e dette dal Signore; nel suo vangelo, ne rendeva testimonianza, ed egli stesso ci ammonisce di aver scritto queste cose affinché «crediamo» (cf. 20,31).
In questo senso, «il discepolo che Gesù amava» rimane vivo anche tra noi; però, dopo aver reso testimonianza e dopo aver scritto, rimane vivo, ma come «il teologo in silenzio»... Quest’ultima espressione è allusione a una delle rappresentazioni più espressive e delicate dell’iconografia russa: “Giovanni il teologo in silenzio”; egli veniva chiamato “il teologo”, perché aveva descritto gli evento della vita di Gesù in una luce tale da far vedere in lui il Figlio di Dio, ed aveva, più degli altri evangelisti, cercato di far comprendere il significato profondo delle parole di Gesù. Però viene raffigurato con l’indice ed il dito medio della mano destra sulla bocca, in segno di meditazione: egli ormai ha reso la sua testimonianza, ha terminato il suo vangelo; adesso gli resta solo il silenzio, e il suo gesto ci invita a fare come lui: ci invita a leggere e a contemplare...

In un diverso contributo p.de la Potterie richiama a questo proposito le due figure complementari di Pietro e Giovanni, come immagini di due modi complementari di essere nella Chiesa[22]:

Il capitolo 21 di Giovanni... indica due atteggiamenti nei confronti di Gesù, entrambi validi per la vita su questa terra. Perciò altri autori osserveranno che nel brano giovanneo sono contenute in nuce le due vite della Chiesa: la vita attiva nella sequela di Gesù (Pietro) e quella contemplativa, adorante (Giovanni), un po’ come per Marta e Maria secondo Lc 10,38-42...

Leggiamo la traduzione autorizzata dalla Cei: “Quando ebbero finito di mangiare, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?”. Gli rispose: “Signore, tu lo sai che io ti amo”. Notiamo: “Tu più di costoro”, ecco, la versione classica; ma c’è un rilievo critico da fare. Chi sono infatti “costoro”? E’ il gruppo degli altri discepoli? Per giustificare questo contrasto (tu-costoro) sarebbe necessaria, la presenza formale, nel testo greco, del pronome σύ (tu), che invece non c’è. Mantenendo questa traduzione poi, in un capitolo in cui si cita esplicitamente Giovanni, “il discepolo amato da Gesù” (che “ha scritto queste cose”!), suonerebbe strana. Il testo greco ci viene in aiuto: la domanda richiede un paragone, sì, ma non tra due soggetti: tu (che non compare) e costoro, bensì tra due oggetti, me e queste cose. Propongo quindi di tradurre così: “Simone di Giovanni, ami me più di queste cose?”. Queste cose, vale a dire ciò che Pietro, con tanto impegno, ha fatto fino a quel momento. Pietro ha preso l’iniziativa di pescare, ha condotto la barca in acqua, ha riempito le reti. Che cosa implica questa domanda? Gesù chiede a Pietro di passare ad un altro livello di interesse: amare innanzitutto Gesù. Subito dopo infatti gli affiderà l’incarico di pascere il suo gregge e questo compito nasce come il frutto della sequela e dell’amore di Gesù Cristo. La missione di Pietro è dunque la sequela di Gesù Cristo; la missione pastorale di Gesù, il Buon Pastore, continua nella Chiesa attraverso il suo vicario, il suo rappresentante.

Vogliamo concludere questa nostra rapida rassegna con un ultimo tratto dell’esegesi giovannea di p.de la Potterie, relativa al Prologo del vangelo. Decisa è l’affermazione che il “principio” di cui si parla, non è l’inizio storico, sebbene esso sia illuminato a sua volta, ma il principio eterno della relazione del Padre e del Figlio. E’ per questo che il Figlio è, dall’eternità, rivolto nell’amore verso il Padre[23]:

(E’) il tema dei vv. 1-2, dove si dice due volte che il Verbo di Dio era εν αρχη: queste parole non rinviano all’inizio del racconto della creazione (Gn 1,1), ma alla tradizione sapienziale (Pro 8,22-23; Sir 24,9; 4 Esd 6,1-6), dove “il principio” è preso in senso assoluto, e designa il livello della preesistenza, dell’eternità. Non si tratta evidentemente di questo per Giovanni Battista. Nondimeno un’analogia esiste, a motivo dell’εγενετο enfatico del v. 6; deve essere inteso in senso forte, da cui la traduzione: “Apparve un uomo...”. L’ “apparizione” del Battista, nel vangelo di Giovanni, non è preparata da niente; essa ha qualcosa di inaspettato, di improvviso, essa è come un “principio”, un punto di partenza assoluto. Più chiaramente ancora che i sinottici, il IV vangelo si apre immediatamente sulla testimonianza di Giovanni Battista: questi versetti del prologo annunciano e preparano la sezione 1,19-34. Con questa testimonianza, si può dire, “comincia” l’economia cristiana: a quello che era il principio assoluto della vita del Verbo in Dio corrisponde un principio storico, la testimonianza di colui che è venuto per “rivelare il Messia a Israele”, per rivelare colui che era “prima di lui”, nella trascendenza (1,30-31): è l’inizio della rivelazione di Cristo nella storia, che prepara la rivelazione di Cana, “l’inizio dei segni” (2,11). Si possono ancora osservare altri contatti tra le tre colonne a questo primo livello. Del Verbo l’evangelista scrive due volte che “era rivolto verso Dio” (vv. 1-2); di Giovanni Battista, per una curiosa inversione, dice che “era inviato da Dio”, o più esattamente: “...da presso Dio”. E’ il solo passaggio in tutto S. Giovanni in cui queste parole sono applicate a un uomo ordinario; sono invece usate frequentemente per il Cristo. L’evangelista sembra dunque aver voluto mettere questo versetto in parallelo con i vv. 1-2: se il Verbo, che era “rivolto verso Dio”, è diventato “la luce degli uomini” (cfr. i vv. 3-5), la missione storica di Giovanni Battista, il primo “testimone della luce” (cfr. il v. 7), viene ugualmente “da presso Dio”, perché essa ha “la sua origine in una decisione di Dio”, come spiega molto bene J.Radermakers. Così si delinea, come hanno giustamente percepito certi commentatori medievali, una specie di tipologia tra Giovanni Battista e Gesù...
Ai vv. 1-2 Giovanni ci introduce alla fonte stessa della Vita divina del Verbo che sarà rivelata e comunicata agli uomini. Il “principio” si ricorderà, è quello dell’eternità, come nella tradizione sapienziale; ma è descritto qui dal punto di vista del Logos: dall’eternità “il Verbo era rivolto verso Dio”), espressione che si può precisare con il passo parallelo della prima lettera: “la Vita eterna (...) era rivolta verso il Padre” (1Gv 1,2). Fin da questo momento possiamo dire che questo orientamento del Verbo “verso Dio” è la sua relazione vivente al Padre. D’altra parte Giovanni afferma anche che il Verbo “era Dio”. “Doppia affermazione, commenta il P.Lacan, che ci introduce in seno alla vita trinitaria”.

Appendice. Notizie patristiche su S.Giovanni da D.Mollat “Giovanni maestro spirituale”, Borla, Roma, 1984, pp.17-18.

Più di un autore cristiano del II secolo afferma che Giovanni si stabilì a Efeso, da dove governò le chiese della provincia romana d’Asia. Alle testimonianze già citate riguardanti questo soggiorno, bisogna aggiungere quella – più antica (155-161) – di Giustino, nel suo Dialogo con Trifone. Si può situare la data della venuta di Giovanni, con qualche verosimiglianza, tra il 67 e il 70, dopo l’apostolato di Paolo e Timoteo a Efeso e – se si vuol dar credito ad Eusebio – prima della guerra giudaica. Tornato a Efeso dopo la morte di Domiziano, avrebbe diretto le chiese d’Asia fino alla sua morte. Gerolamo lo descrive, alla fine della sua vita, così decrepito per la vecchiaia, che bisognava portarlo di peso nelle assemblee. Troppo debole per tenere lunghi discorsi, si limitava a ripetere: “Figlioli miei, amatevi gli uni gli altri!”. Poiché i fedeli talvolta si stancavano di questa ripetizione, egli rispondeva: “E’ il comandamento del Signore e, se viene osservato, ciò è sufficiente”. Elemento forse leggendario, ma espressione fedele del pensiero giovanneo. Giovanni morì a Efeso in età avanzata, sotto il regno di Traiano (98-117). L’episodio del martirio che avrebbe subito a Roma in una caldaia di olio bollente, prima del suo esilio a Patmos, riposa sulla sola testimonianza di Tertulliano, ripresa due volte da Gerolamo. Non si può non sottoscrivere le riserve degli storici: nessuno scritto patristico, né alcun calendario antico garantiscono il valore storico di questo episodio.

Efeso-Selçuk, Basilica di S.Giovanni: "Egli, chinandosi così, sul petto di Gesu'" (Gv, 13, 25). Chi è Giovanni, l'evangelista? Perchè "il discepolo che Gesù amava"? di d.Achille Tronconi

(N.d.R. Un altro testo che abbiamo utilizzato per presentare l’evangelista Giovanni – come già detto tale incontro non è stato registrato - è la meditazione tenuta da d.Achille Tronconi ad un campo della parrocchia di Noli ad Andalo, il 21/04/1992. Il testo è stato trascritto dalla viva voce dell'autore e non è stato da lui rivisto. Sono stati omessi i riferimenti personali alla parrocchia ed ai giovani per i quali la meditazione era stata preparata).

Il parlarvi di Giovanni questa mattina lo ritengo uno dei regali più belli che possa farvi.
E' una riflessione che nella mia vita dura da 20 anni, è un tormento che non ha preso soltanto la testa, ma mi ha attraversato la vita, tante volte, togliendomi il sonno, qualche volta togliendomi anche la ragione; aprendo ferite, consolando attese, sostenendo fatiche; sempre c'è stato con Giovanni un rapporto di conflitto, di desiderio, il volerlo capire.
Tutto ciò che ho letto su Giovanni mi ha sempre lasciato molto insoddisfatto, perché suggeriva, dava qualche nozione in più, qualche criterio esegetico, qualche parola spiegata meglio, qualche struttura, ma non riuscivo a trovare Giovanni. E allora mi sono accorto che quello che cercavo era la sua esperienza di Dio, forse la più alta, volevo arrivarci vicino, attingere ad essa. E' questo che mi interessava; e mi interessava come chi resta affascinato fin da ragazzo da questa amicizia di Giovanni con Gesù - penso che sia la più bella che abbia mai visto la terra e i dati sono molto profondi. Pochi, ma abissali. Quante volte certe espressioni, certi incontri, certe parole del Vangelo che fanno riferimento a questa amicizia ci sbalestrano proprio completamente perché sei tu che devi fare lo sforzo di aderire, di riuscire a trovare il sentiero che ti porta a capire. Non è facile, è sconquassante, ma così - sono convinto - deve essere l'accostamento alla parola di Dio. Deve essere un tormento, un tormento d'amore. Non ci si arriva facilmente. A me fa impressione come certi esegeti o certe persone avvicinano la parola di Dio senza mai essere bruciati, senza mai essere sconvolti.
Ecco io questo l'ho provato soprattutto con il Vangelo di Giovanni. Non posso dire di amarlo pienamente, perché non si può amare il ferro rovente che ti segna il cuore: questo è il Vangelo di Giovanni, è il roveto ardente, è un'esperienza di Dio che continua a bruciare, un'amicizia che non ha mai avuto fine, ma è anche l'impresa grande, splendida che sento dentro alla mia vita, questa esperienza di Giovanni. Quindi è sicuramente uno dei doni più grandi che posso farvi: voi vedrete cosa farne.
Questo dice anche qual è l'approccio, quale sarà la spiegazione. Non sarà certo una lezione, ma un'esperienza.
Partiamo da quello che è stato il tormento nel tormento e per il quale solo un mese fa sono riuscito a trovare una risposta per ora soddisfacente. So già che non basterà, però, per ora, è soddisfacente e ve la voglio comunicare.
Mi sono chiesto più volte, con la libertà di chi ha fatto esperienza di materie profane come la psicologia, la filosofia e altre, mi sono chiesto con questa spigliatezza, che cosa significava questo discepolo che Gesù "amava di più" e non ho scartato nessuna ipotesi: ho voluto proprio essere molto libero, molto critico, molto insoddisfatto, di chiedermi perché c'è questa insistenza, questa definizione che sostituisce addirittura il nome. Lo hanno motivato come umiltà, nascondimento, oppure hanno ipotizzato che questa immagine del discepolo sia il cristiano, la figura collettiva, la figura individuale… Mi sembrano tutte delle grandi arrampicate sui vetri, tutto per non entrare nel cuore del discorso, per mancanza di libertà, di spigliatezza, forse per mancanza di tanto desiderio: per entrare in Giovanni ci vuole un desiderio incredibile.
Io ho trovato soddisfacente questa risposta: l'errore di fondo, che non mi faceva vedere per tutti questi anni, è che per capire questo amore maggiore per Giovanni da parte di Gesù bisognava non guardare a Gesù ma a Giovanni.
Questo Giovanni che si nasconde continuamente, questo Giovanni che lo trovi soltanto quando guardi l'amicizia di Cristo - cioè in un rapporto - questo Giovanni che esiste solo in rapporto al Padre. Guardando Giovanni ho capito cos'è questo amore maggiore; è una risposta facilissima - lo si dice spesso che la risposta è facilissima quando ci si arriva! Giovanni è colui che corrisposto all'amore di Cristo: questa è la risposta.
E' l'unico che fin dall'inizio ha deciso di amarlo anche quando non lo capiva. Solo a cent'anni forse ha capito, ma quando ne aveva pochi e ha incontrato Gesù il suo cuore ha deciso di amare quel maestro, di amarlo comunque - questa persona così strana, incomprensibile, pericolosa - lui ha deciso di amarlo. Ed è per questo, ed è in questo la differenza: che un amore corrisposto è molto di più di una amore semplicemente donato. Giovanni è colui con cui Gesù ha avuto un'amicizia, perché l'amicizia, lo sappiamo, vuole necessariamente corrispondenza, come la figura di Maria di Magdala, l'altra grande amica che ha deciso di amarlo. Giovanni ha potuto vivere l'amicizia con Cristo e Cristo ha trovato in lui l'amicizia umana, un'esperienza profonda, vera, di amicizia.
Nel capitolo 13, a quello splendido e tremendo versetto 25, una di quelle cose che più mi ha segnato la vita, troviamo questo Giovanni che si stende sul cuore di Gesù. Esegeticamente non è certo il cuore del Vangelo - sappiamo che il punto massimo è la gloria di Cristo in croce, "Colui che hanno trafitto" - ma lo è nell'esperienza dell'apostolo Giovanni. Ed è rimasto nel Vangelo per questo, molto nascosto, messo lì in qualche modo, quasi forzatamente messo lì, nonostante lui. Ma per fortuna è rimasto, come piccolo segnale, nel senso di visibilità, di questo grande sentiero, di questa grande esperienza dell'amicizia di Gesù con Giovanni. Giovanni ha potuto aderire con tutta la sua vita al cuore di Cristo, un dono riservato a lui, ma certo non solo in quel momento. Penso che lo facesse d'abitudine, quando non capiva questo maestro, quando non capiva il suo comportamento, quando soprattutto lo sentiva distante, perché Gesù continuava ad essere colui che è altro. Quando lo sentiva impossibile da possedere, da trattenere - lo stesso gesto che fa Maria di Magdala - quando lo sentiva amore, ma un amore che ribaltava, che rimandava ad altro, un amore che faceva esplodere fuori, che non teneva lì, che non diceva questo è il Paradiso e facciamo tre tende, fermiamoci qui. Ma quando capiva che colui che gli era accanto era il Cielo e che quindi la sua amicizia, il suo tentativo di comunione, era continuamente messo a rischio, messo in forse proprio da questo, dalla stessa persona di Cristo, cosa faceva Giovanni? Quando viveva tutto questo e non capiva e soffriva e gemeva e non sapeva più che cosa inventare per il Suo Maestro, sicuramente, cosa faceva? Si sdraiava sul cuore, raggiungeva Gesù in questo suo amore. E' questo che faceva. Aveva, come ogni amico, scoperto che c'è una via unica dove risolvere tutto e arrivare a Gesù che è questo cuore aperto, diventare la vittima di questo amore, il cuore che non avrebbe mai respinto nessuno
Ed è per questo che Giovanni non ha lasciato Gesù a differenza degli altri apostoli e discepoli.
Se Giovanni è presente nei momenti più importanti è perché c'era sempre. Non è come Pietro o Giacomo o Andrea, che erano chiamati a vivere i momenti solenni e ufficiali. Lui c'era sempre, era sempre col suo Signore e non pensava di scappare, perché sceglieva sempre questo sentiero d'amore, sempre percorribile, sempre, anche sotto la croce. Gli altri per rimanere avevano bisogno di capire, a lui bastava amare e lo sceglieva continuamente. Ed è per questo, io credo, che Gesù ha affidato sua madre a lui: perché parlavano lo stesso linguaggio. Anche Maria non capiva Gesù, ma sceglieva di amarlo. Anche Maria non possedeva Gesù, pur vivendo tutta questa dimensione di madre-figlio, questo dramma come l'amico. Questo dramma dove c'è una comunione di vita, ma la carne vuole riunirsi alla carne, vuole tornare ad essere una, non vuole che vi sia diaframma, separazione, in una comunione di vita. Quindi tutta la fatica, il dramma di percorrere questa comunione anche dentro alla carne con i suoi desideri di possesso, con le sue pazzie di gelosia, di rifiuto e di ricerca, capricci, con le debolezze, con la sua sessualità.
E' un altro grande capitolo che Balthasar aveva bene intuito, qual era il rapporto di Giovanni con Maria, ma che è ancora tutto da vedere. Giovanni con Maria, quindi tutta la realtà della Chiesa, che loro giustamente rappresentano, perché hanno fatto la scelta di amare il Cristo e il Cristo sulla croce, il Cristo del Sabato Santo, il più difficile da amare, dove si è proprio vagliati, come dice la Scrittura: "passare al vaglio". E' lì che sei vagliato perché devi amare senza la presenza dell'altro, amare nell'assenza, amare colui che muore, colui che è morto, amare colui che non è rimasto per amor tuo. Pensatelo lo sforzo di Giovanni nel vedere il maestro andar via, lui che ha sempre creduto di essere amato - e quante volte Gesù glielo ha dimostrato!
Ma come? Muori e mi dici di amare, mi dici di amarmi e muori? Te ne vai e mi dici di amarti, te ne vai e sai che ti amo?! Sabato Santo!
Giovanni è diventato grande proprio in questo suo cammino travagliato di amicizia con il Cristo, in uno sforzo costante di amarlo comunque, continuamente. Ha tentato di essere fedele come è fedele Dio, fedele ad un amore deciso, scelto.
Egli ha capito bene il Padre, perché ha capito questa fedeltà d'amore.
Il momento del vaglio quando ti viene chiesto di amare ciò che ti sembra assente e che solo l'amore ti dà la certezza che c'è, che non è il nulla ciò che ami. E' veramente quell'esperienza che ti fa restare solo con l'amore e nient'altro; tutto ti viene tolto.
Lì sul Calvario ci sono tre persone che si amano e nient'altro. Ma è tutto: si stanno perdendo vicendevolmente, ma, ostinatamente, per un dono di grazia infinita, si stanno amando. Gesù compie ancora un gesto d'amore per loro due, e loro due altrettanto tra di loro nei confronti del Maestro e del Figlio.
Certo il Calvario è il culmine, ma proprio per questo, perché ci sono tre persone che si amano, le quali non hanno quasi più nessun motivo umano per farlo, anzi, tutto è contro, tutto è buio. Allora fanno l'esperienza della forza dell'amore, quando questo amore è Dio stesso, è amore divino e un amore che sarà il meccanismo stesso della Risurrezione, un amore che non può essere fermato da niente. Ma per arrivare a vivere tutto questo, nella propria carne umana, sia per Maria che per Giovanni ci vuole tutta una vita di allenamento, di fatica, di ascesi perché altrimenti non ce l'avrebbero fatta, perché a loro è chiesto di vivere questo amore divino, questo amore vagliato, questo amore da risorto. E' chiesto di viverlo non nonostante la loro carne, ma dentro alla loro carne, la carne che non è capace di questo amore, ma che esplode dentro a questo amore, la carne che non si sa contenere, la carne che va verso la trasfigurazione, una carne che geme, stride. Tutto viene tirato, tutto è inadeguato ad un'esperienza così d'amore. E allora il massimo livello della Grazia è proprio questo renderti capace di questo amore, senza polverizzare la tua umanità, la tua storia, la tua persona.
E' veramente il velo di Mosè, per non morire nell'esperienza di Dio. E' lo stesso Dio che ti preserva dall'esplosione, facendo questa esperienza che di per sé non sarebbe sostenibile. Un Dio quindi da amare, ma che ti dà la capacità di farlo, andando contro ad ogni misura, ad ogni regola, perfino contraddicendo se stesso - se questa è una contraddizione.
Maria e Giovanni sono riusciti a fare della proprio vita una preparazione continua di questa esperienza d'amore che sarà per tutti noi in Paradiso. Ecco, Giovanni è riuscito a fare della propria identità, la stessa identità dell'amico di Cristo, di colui che ha continuamente aderito. Lui non è altro che questo continuo tentativo di aderire al suo cuore - questo cuore impossibile - a questo cuore infinito. Non ha mai mollato Giovanni! Questa è fede! Credere continuamente che è possibile essere amici di Cristo, di quel Gesù lì, di quel Maestro.
Possiamo dire anche noi che ci chiamiamo amici, perché ci raccontiamo le cose udite dal Padre. Dov'è allora che si è veramente amici, soprattutto per noi, se non proprio quando ostinatamente stiamo col Padre nella preghiera, nell'ascolto, nella vita crocefissa, nell'obbedienza piena di gioia. E' lì che noi siamo amici, è lì che risuona il comandamento: Amatevi gli un gli altri. La nostra amicizia parte dall'esperienza del Padre e di questo sapore di Padre sempre deve averne l'evidenza.
Chiediamo che questo sia vero, nonostante la nostra voglia di essere servi, non amici - servi indubbiamente meno bello di cristiani, preti - ma Gesù continua a dirci: "Ma io vi ho chiamati amici"
Dov'è la nostra risposta, dov'è il nostro cuore, lì impareremo la compassione, la preghiera di intercessione, la preghiera di benedizione per tutti gli uomini, per tutte le creature. Lì impareremo dallo sguardo di Maria.


Per altri articoli e studi sulle lettere di S.Paolo presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici


Note

[1] (N.d.C.) Anna Katharina Emmerick è stata beatificata da S.S.Giovanni Paolo II il 3 ottobre 2004.

[2] Suggestiva è la rilettura della parabola del figliol prodigo (cf. Lc 15,11-32) alla luce di Ef, proposta da M.Barth, Israel and the Church, Richmond VI 1969, pp. 83-85, 99,104: diversamente da Lc, Ef prende in considerazione non la reazione del fratello più anziano ma quella del più giovane, il quale deve abituarsi a vivere con quello, senza pretendere statuti speciali, poiché è insieme che formano la varietà della casa paterna. Tuttavia, scrivendo che in Ef non viene detto nulla né contro l’antica alleanza né in favore di un impegno missiona­rio nei confronti di Israele (cf. pp. 108-109), Barth non sembra tenere conto della grave affer­mazione di 2,14d-15a (Cristo “ha annullato nella sua carne l’inimicizia, la Legge fatta di pre­cetti e decreti”), secondo cui la Torah è stata ormai tolta di mezzo, almeno come motivo di divisione.

[3] L’avv. ‘linearmente’ non allude necessariamente ad una linea retta; come si sa, la linea può essere anche curva e spezzata. L’importante è di non dire “puntualmente” (co­me se tra la storia e l’éschaton ci fosse totale discontinuità) e neppure ‘ciclicamente’ (come se tutto fosse destinato ad un eterno ritorno).

[4] Guardare per credere, Intervista a padre Ignace de la Potterie di Antonio Socci, da Il cristianesimo invisibile. Attualità di antiche eresie, I libri di 30giorni, Ed. SEI, Torino 1997, pp.31-39.

[5] Cfr. su questo brano nel nostro sito, alla sezione Approfondimenti, il testo dal titolo: Brani di difficile interpretazione della Bibbia VII, Gv 20,29 “Gesù disse a Tommaso: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto hanno creduto” di Ignace de la Potterie.

[6] I.de la Potterie, Il trofeo della sua vittoria, da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.33-37.

[7] I.de la Potterie, La verità del cristianesimo da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.159-161.

[8] I.de la Potterie, Perché l’odio del mondo? da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.103-107.

[9] I.de la Potterie, Lo spirito dell’Anticristo da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, p.6.

[10] I.de la Potterie, Figli di Dio non si nasce, si diventa da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.169-175.

[11] I.de la Potterie, La stessa esperienza dei primi testimoni, da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.80-84.

[12] I.de la Potterie, Lo sguardo e la memoria da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.93-94.

[13] Gianni Valente, Rimanere per crescere. Intervista a padre Ignace de la Potterie, da Il cristianesimo invisibile. Attualità di antiche eresie, I libri di 30giorni, Ed. SEI, Torino 1997, pp.49-54.

[14] Gianni Valente, Il Vangelo antignosi. Intervista a de la Potterie, da Il cristianesimo invisibile. Attualità di antiche eresie, I libri di 30giorni, Ed. SEI, Torino 1997, pp.44-46.

[15] Il Paraclito di I.de la Potterie (da I.de la Potterie-S.Lyonnet, La vita secondo lo Spirito. Condizione del cristiano, Editrice AVE, Roma, 1992, pp.99-123).

[16] Dal greco parakaleô, chiamare accanto a qualcuno.

[17] La Bible de Jérusalem traduce: «come avvocato presso il Pa­dre». Poiché qui la proposizione greca pros conserva la sua sfuma­tura di direzione, d’orientamento, abbiamo tentato di conservare quest’aspetto suggestivo del testo traducendo a preferenza: «come avvocato rivolto verso il Padre».

[18] M.-F.Berrouard, Le Paraclet, Défenseur du Christ devant la conscience du croiyant (Jo. XVI, 8-11), in RSPT 33 (1949) 361-389.

[19] Ibidem, p.373.

[20] G.-M.Behler, Les paroles d’adieux du Seigneur, Coll.Lectio divina, n.27, Paris, 1960, p.187.

[21] I.de la Potterie, Il discepolo che Gesù amava, in Atti del I simposio di Efeso, L.Padovese (a cura di), Roma, 1991, 33-55.

[22] I.de la Potterie, Seguire ed essere prediletti, in I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.67-73.

[23] I.de la Potterie, Struttura letteraria del Prologo di S.Giovanni, in I.de la Potterie, Studi di cristologia giovannea, Marietti, Genova, 1986, pp.31-57.


[Turchia e Patmos]