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"Pelagio andava diffondendo con successo una dottrina 
  di impegno sul piano morale fondata sulla convinzione che l'uomo, in forza del 
  suo libero arbitrio, aveva capacità di salvarsi con le sue sole forze, 
  solo esteriormente e accessoriamente soccorso dalla grazia divina, poiché 
  il peccato di Adamo non aveva integralmente corrotto la natura umana fino al 
  punto di impedirle di fare il bene: di conseguenza Pelagio, e più apertamente 
  il suo discepolo Celestio, negavano l'esistenza del peccato originale trasmesso 
  da Adamo a tutti i suoi discendenti e combattevano la pratica del battesimo 
  degli infanti, allora già abbastanza diffusa. Agostino era chiamato direttamente 
  in causa perché Pelagio aveva fatto riferimento ad affermazioni antimanichee 
  di Agostino contenute nel De libero arbitrio, e poi per la presenza di Celestio 
  in Africa: ma soprattutto erano i presupposti della dottrina di Pelagio che 
  egli non poteva condividere perché la sua riflessione e la sua stessa 
  esperienza lo avevano portato gradualmente ad accentuare l'indegnità 
  dell'uomo rispetto a Dio, la sua radicale incapacità di bene operare 
  e di conseguire la totale dipendenza dalla grazia divina nel volere e nell'agire: 
  "da quod iube et iube quod vis" ("da ciò che prdini ed 
  ordina ciò che vuoi")" Così M.Simonetti in La letteratura 
  cristiana antica greca e latina, Sansoni/Accademia, Firenze, 1969, sintetizza 
  il problema che la Chiesa si trovava dinanzi. Anche Melania, come tutto il monachesimo 
  del suo tempo, ci appare profondamente attenta a tutte le questioni teologiche 
  allora dibattute e si rivela protagonista della lotta fra la grande Chiesa e 
  l'eresia. Nella Vita di Geronzio, ne vediamo l'accesa tensione anti-nestoriana, 
  attraverso l'opera agostiniana intravediamo, invece, la sua partecipazione alla 
  polemica pelagiana. 
  Pelagio, un monaco di origine britannica (solo Girolamo indica 
  un origine irlandese), giunse a Roma intorno al 390 d.C. e subito si conquistò, 
  soprattutto presso l'aristocrazia romana, un grande seguito di persone dedite 
  con lui alla vita ascetica (fra di esse, spicca, appunto, il suo discepolo Celestio). 
  Giustamente Agostino presenta la posizione pelagiana come la "nuova eresia 
  della cristianità" (Retract. II, 33). 
  Pelagio si recò in Palestina nel 412-413 e, quando 
  Melania, Piniano ed Albina, giunsero lì, lo conobbero personalmente. 
  Così il grande studioso agostiniano Agostino Trapé ricostruisce 
  il successivo svolgersi dei fatti, a partire dai testi agostiniani: 
  "L'occasione di scrivere La grazia dfi Cristo e il peccato 
  originale gliela offrirono i tre nobili e pii romani Albina, Piniano e Melania, 
  i quali si erano trasferiti da poco dall'Africa, dove avevano passato alcuni 
  anni alla scuola di Alipio e dello stesso Agostino, in Palestina. Qui s'incontrarono 
  con Pelagio. Sembra che l'iniziativa dell'incontro fosse loro. In questo caso 
  ne fu motivo il desiderio di aiutare lo stimato maestro degli ambienti spirituali 
  della capitale a chiarire le sue idee e a sottrarsi al sospetto o alla condanna 
  di eterodossia. Se poi l'iniziativa partì da Pelagio fu certamente suggerita 
  dal desiderio di riavvicinarsi, tramite amici comuni, al vescovo d'Ippona. In 
  ogni modo l'intento per i nostri tre era chiaro: indurre Pelagio "a condannare 
  per iscritto quanto si diceva contro di lui”. Ne ebbero due dichiarazioni riguardanti 
  i due punti essenziali della controversia, la grazia e il peccato originale. 
  La prima, a proposito della grazia, suonava cosi: "Anatematizzzo 
  chi pensa o dice che la grazia di Dio, in virtù della quale il Cristo 
  è venuto in questo mondo per salvare i peccatori, non è necessaria 
  non solo nelle singole ore o nei singoli momenti, ma anche per le nostre singole 
  azioni; e coloro che tentano di eliminare la grazia finiscano nelle pene eterne". 
  La seconda, riguardante il peccato originale, diceva "che 
  i bambini si devono battezzare con le medesime parole del rito sacramentale 
  con le quali si battezzano anche i grandi". 
  Le risposte sembrarono loro sufficienti, e se ne rallegrarono; 
  ma intesero il bisogno di consultare 1'amico e il maestro. La lettera raggiunse 
  Agostino quand'era a Cartagine. Rispose subito, nonostante gli impegni che, 
  soprattutto in quella città, lo tenevano occupato.
  La risposta si rivolge insieme ai due aspetti del problema 
  posti dall'insegnamento di Pelagio: il primo riguardava il suo vero pensiero 
   e su questo Agostino era stato consultato; il secondo riguardava la compatibilità 
  di questo pensiero con la fede cattolica  e su questo Agostino entra per 
  suo conto allo scopo di dissipare un pericoloso equivoco. In ambedue i casi 
  la risposta è netta ed inequivocabile. 
  Il contenuto della prima si raccoglie in due affermazioni 
  connesse e inseparabili: le dichiarazioni di Pelagio, per chi non conosca da 
  altre fonti il suo pensiero, sono accettabili, cioè possono avere un 
  significato conforme all'insegnamento della verità cattolica; ma per 
  chi conosce questo pensiero e le confronti con esso appaiono apertamente equivoche. 
  "Chiunque ascolta queste parole  si riferisce alla prima dichiarazione 
   ignorando il senso che Pelagio con sufficiente evidenza ha espresso nei 
  suoi libri... crede senz'altro che il suo pensiero collimi con il pensiero della 
  verità. Chi invece sta attento a ciò che Pelagio dice più 
  esplicitamente in quei libri, deve ritenere sospette anche queste sue parole". 
  Lo stesso vale per la seconda dichiarazione (sul peccato originale): 
  "Chi dopo tale dichiarazione penserebbe di dover muovere ad essi una qualche 
  questione su questo argomento? Oppure, se lo facesse, a chi non sembrerebbe 
  calunniosissimo, qualora non si leggessero i loro testi espliciti, dove negano 
  che i bambini contraggono il peccato originale e sostengono che son nati tutti 
  senza nessun vizio?". 
  Agostino, che ha letto tutte le opere di Pelagio, tutte o 
  quasi tutte, e le cita e le invia ai suoi interlocutori perché possano 
  farsene un'idea, è convinto che in esse, se si parla di grazia, non se 
  ne parla come ogni cristiano, per essere e restare tale, deve parlarne, cioè 
  della grazia quale "ispirazione dell'ardentissima e luminosissima carità", 
  della grazia ,con la quale Dio "con intervento interiore ed occulto, mirabile 
  ed ineffabile opera negli animi degli uomini non solo rivelazioni vere, ma anche 
  volontà buone". 
  Questa grazia è necessaria non soltanto per poter osservare 
  più facilmente la legge divina, ma semplicemente per poterla osservare, 
  anzi da questa grazia dipende sia il posse che l'operari in quanto "non 
  solo rivela la sapienza, ma la fa pure amare, non solo fa opera suasiva verso 
  quanto è buono, ma anche opera persuasiva". "Questa è 
  la grazia - esclama Agostino dopo aver citato Gv 6, 44. 66 - che Pelagio deve 
  riconoscere se vuole non solo chiamarsi, ma essere cristiano". 
  Con la stessa fermezza e univocità, anzi quasi con 
  le stesse parole risponde al secondo aspetto del problema. Pelagio col suo insegnamento 
  non solo propone una dottrina erronea, ma nega una verità cristiana fondamentale, 
  intacca la regula fidei qua Christiani sumus. Lo dimostra di proposito in quest'opera, 
  specialmente nella sezione 2, 23, 26-29,34; e spesso altrove. 
  Ciò non vuol dire che gli altri modi di parlare della 
  grazia, che Pelagio usa e Agostino ricorda  dono del libero arbitrio, 
  conoscenza della legge, remissione dei peccati - non entrino nell'insegnamento 
  cristiano; vi entrano certamente, ma non sono sufficienti per averne quella 
  nozione piena che permette di chiamarsi e di essere cristiani". 
 
Per comprendere appieno il tentativo di Melania, Piniano ed Albina dobbiamo considerare 
un altro aspetto del problema. Alcuni personaggi del tempo rifiutavano chiaramente 
la posizione pelagiana, ma insieme esprimevano dei dubbi sul modo in cui la difesa 
della grazia veniva talvolta formulata da Agostino stesso (ed, infatti, non ogni 
singolo aspetto della posizione agostiniana venne poi canonizzata dal magistero 
della Chiesa). Conosciamo la figura di Paolino di Nola che, pur rifiutando la 
posizione pelagiana, esitava sull'interruzione totale dei rapporti con lui. Così 
M.Simonetti si esprime a suo proposito e le sue riflessioni possono valere, in 
parte, anche per il tentativo dei tre nobili romani presso Pelagio: "Mi limito 
a due considerazioni:  
1) se da una parte Pelagio enfatizzava all'eccesso, rispetto alla tradizione, 
la capacità della natura umana di operare la propria salvezza, dall'altra 
Agostino deprimeva tale capacità in termini che a quella tradizione erano 
largamente estranei;  
2) è semplicistico e, in definitiva, non esatto limitarsi a caratterizzare 
la posizione di Agostino in modo generico come quella che difendeva, contro Pelagio, 
i diritti della grazia divina nell'opera di salvezza dell'uomo: Agostino infatti 
non si limitava ad affermare l'indispensabilità di tale grazia, ma si spingeva 
molto più in là, arrivando a sostenere che essa veniva accordata 
soltanto a pochi predestinati indipendentemente da loro eventuali meriti, per 
giudizio imperscrutabile di Dio. Formulata in questi termini, la dottrina della 
grazia risultava per gran parte estranea alla tradizione cattolica, quale si era 
precisata soprattutto nella lotta contro lo gnosticismo. Se si tengono presenti 
questi due punti, risulta chiaro l'atteggiamento di Paolino e dei tanti che condividevano, 
più o meno, il suo punto di vista. Non basta affermare apologeticamente 
che Paolino, uso a richiamarsi costantemente alla grazia divina, non poteva condividere 
le idee di Pelagio; bisogna infatti anche aggiungere che egli non condivideva 
neppure quelle di Agostino: giustamente è stata rilevata, in proposito, 
la frequenza con cui Paolino ha occasione di citare 1 Tim 2,4: "Dio vuole 
che tutti gli uomini si salvino": infatti questo passo, assunto nel suo ovvio 
significato letterale, come faceva appunto Paolino, contrastava nel modo più 
diretto il rigido predestinazionismo di Agostino, il quale percio' è tornato 
su di esso più volte, con diverse e quanto mai forzate interpretazioni, 
perché non lo poteva accettare nel suo significato immediato". La 
citazione è da M.Simonetti, Cultura e religiosità in Italia attraverso 
l'epistolario di Paolino in Anchora Vitae. Atti del II convegno paoliniano nel 
XVI centenario del ritiro di Paolino a Nola, a cura di G.Luongo, Napoli-Roma, 
1998, LER.  
 E' possibile datare con precisione lo scritto La grazia di 
  Cristo e il peccato originale al giugno-luglio 418. 
 
Presentiamo, a seguire, l'inizio di questo scritto agostiniano con gli espliciti 
riferimenti a Melania, Piniano ed Albina:  
1) Quanto goda della vostra salute corporale e principalmente della vostra salute 
spirituale, o fratelli sincerissimi amati da Dio, Albina, Piniano e Melania, essendomi 
impossibile dirlo, lo lascio pensare e credere a voi, per poter subito parlare 
piuttosto delle questioni sulle quali mi avete consultato. Poiché era prossima 
la partenza del messaggero, ho dettato, come ho potuto e come Dio si è 
degnato concedermi, queste pagine in mezzo alle nostre occupazioni, molto più 
fitte qui a Cartagine che in tutti gli altri luoghi.  
2) Mi avete informato d'esservi adoperati con Pelagio perché condannasse 
per scritto tutti gli errori di cui è accusato e che ha risposta davanti 
a voi: “Anatematizzo chi pensa o dice che la grazia di Dio, in virtù della 
quale il  Cristo è venuto in questo mondo per salvare i peccatori, 
non è necessaria non solo nelle singole ore o nei singoli momenti, ma anche 
per le nostre singole azioni; e coloro che tentano di eliminare la grazia finiscano 
nelle pene eterne”. Chiunque ascolta queste parole ignorando il senso che Pelagio 
con sufficiente evidenza ha espresso nei suoi libri, non in quelli che dice essergli 
stati sottratti prima di poterli correggere o in quelli che nega assolutamente 
essere suoi, ma in quelli che ricorda nella sua lettera mandata a Roma, crede 
senz'altro che il suo pensiero collimi con il pensiero della verità. Chi 
invece sta attento a ciò che Pelagio dice più esplicitamente in 
quei libri, deve ritenere sospette anche coteste sue parole. Infatti, sebbene 
faccia consistere nella sola remissione dei peccati la grazia di Dio, in virtù 
della quale il  Cristo è venuto nel mondo a salvare i peccatori,  
può aggiustare la sua dichiarazione di sopra ai limiti della remissione 
dei peccati dicendo: la grazia è necessaria nelle singole ore, nei singoli 
momenti e per le nostre singole azioni, perché, tenendo noi sempre in mente 
e richiamandoci alla memoria che ci sono stati rimessi i peccati, non dobbiamo 
peccare ulteriormente, aiutati non dalla somministrazione di un qualche potere, 
ma dalle sole forze della nostra propria volontà memore nelle singole azioni 
di quanto le è stato elargito con la remissione dei peccati. Similmente 
poiché i pelagiani sono soliti dire che il Cristo ci ha prestato il suo 
aiuto a non peccare per il fatto che ci ha lasciato un bell'esempio vivendo egli 
stesso con giustizia ed insegnando con giustizia, possono aggiustare la dichiarazione 
di sopra anche ai limiti dell'esemplarità di Gesù e dire che nei 
singoli momenti e per le singole nostre azioni è necessaria a noi una grazia 
siffatta, quella cioè di saper guardare in ogni nostro comportamento al 
comportamento esemplare del Signore. Si accorge benissimo la vostra fede quanto 
sia da distinguere questo riconoscimento della grazia da parte di Pelagio dal 
riconoscimento della grazia sul quale verte la questione. Eppure può esser 
coperta la differenza dall'ambiguità di coteste parole.   
    
  
   
   [Melania la Santa] - [Testimoni diretti]
  
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