Antonello da Messina: il senso di una umanità divina

da Ecce homo: umano e divino in un ritratto
di Lucetta Scaraffia (da Avvenire)
e da Antonello, il genio lieve
di Giuseppe Frangi (da 30giorni)


L.Scaraffia

Hegel se n'era accorto, e l'ha scritto con chiarezza: la scomparsa dell'immagine di Dio comporta la fine dell'arte occidentale quale era stata fino ad allora. Se Dio scompare dall'immagine, l'immagine abbandona l'arte: ecco allora l'affermarsi di tutti i movimenti artistici contemporanei, dal surrealismo all'astrattismo, che rifiutano di rappresentare con realismo il volto umano. Tutto questo si capisce bene visitando la mostra romana di Antonello da Messina alle Scuderie del Quirinale, dove questo impareggiabile maestro del ritratto ci fa quasi toccare con mano - nei soggetti sacri ma anche in quelli profani - come i suoi volti umani così intensi e speciali nascano dall'umanità dei suoi «Ecce homo» e delle sue Madonne. Per interpretare il volto specifico di un uomo specifico e farci cogliere la sua personalità unica e irripetibile al di fuori di ogni tipizzazione data da ruolo sociale ed età - operazione riuscita ad Antonello con una intensità forse ineguagliata - bisogna prima avere meditato sul volto di Dio incarnato. La capacità di raccontare il volto umano in Antonello nasce infatti - lo si comprende proprio dalle sue opere raccolte in un'unica esposizione - dalla sua maestria nel raffigurare con pietà e realismo l'umanità del volto di Cristo straziato dal dolore: volto di un uomo come tanti, di chi soffre nel modo umanamente più disperato. Nasce dalle sue Madonne, così siciliane, che esprimono l'amore materno, e nasce dallo sguardo dell'Annunziata, in cui si legge la consapevolezza che proprio la sua umiltà e la sua obbedienza di giovane donna qualsiasi permettono il realizzarsi dell'Incarnazione. Solo quando un Dio si fa uomo i tratti e le emozioni normali di un essere umano - in sostanza la sua storia sempre uguale e sempre diversa - possono diventare interessanti al punto da venire raffigurati. Se ogni essere umano è immagine di Dio, ogni essere umano nella sua unicità è anche infinitamente interessante e la sua vita, anche banale, assume un senso. Questo fa capire la mostra di Antonello ai visitatori che si affollano, attratti anche dalla modernità delle piccole dimensioni di quasi tutte le opere, destinate a una devozione privata in stanze dalle dimensioni ridotte, unico luogo in cui l'uomo moderno riesce a pensare di vivere il sentimento religioso. Oggi infatti ci identifichiamo più facilmente con i possessori della tavoletta dell'«Ecce homo» di New York - tutta consunta per l'intensissimo uso devozionale a cui è stata sottoposta - piuttosto che con i devoti inginocchiati davanti a grandi pale d'altare. Ma soprattutto questa mostra ci fa capire che il ritratto - questa forma d'arte così poco diffusa al di fuori dell'Occidente, cioè dei paesi di matrice culturale cristiana - nasce proprio da una tradizione religiosa che si fonda sull'Incarnazione, su un Dio che ha preso fattezze e debolezze umane. È un'altra prova, se ce ne fosse bisogno, che la cultura europea è impensabile senza l'apporto del cristianesimo e del suo Dio fatto uomo.

G.Frangi

Antonello è un pittore chiaro, pacificato. È un pittore intellettualmente irreprensibile, ma mai intellettualistico. Ha uno sguardo rigoroso, e mai mentale. La sua pittura chiude ogni spazio all’ambiguità. A qualsiasi ambiguità: a quella sentimentale come a quella gnostica, a quella psicologica come a quella esoterica.
Ci aveva visto giusto il giovanissimo Roberto Longhi, quando, affrontando la questione dei debiti di Antonello nei confronti di Jan Van Eyck, il grande protagonista della pittura fiamminga di inizio Quattrocento, mise subito in chiaro una differenza fondamentale, nella comune ricerca della rappresentazione dei particolari più infinitesimali della realtà: quella di Van Eyck era “una plasticità illusoria”. Antonello era andato oltre, perché aveva reso tutto vero. Dalla “plasticità illusoria” era passato a quello che la critica definisce, con termine oggi stereotipato, “incarnato”. In realtà l’incarnato di Antonello è un “farsi carne” della pittura; è un soffio che gli guida la mano...

Il mistero è una chiave per capire Antonello; anche se è un mistero sempre pienamente oggettivato. È un mistero trasparente, che non gioca a nascondersi, ma si rende visibile sin nei particolari più infinitesimali. Qui sta la differenza tra lui e la grande pittura nordica che certamente doveva aver visto e studiato e che doveva averlo affascinato negli anni del suo apprendistato giovanile a Napoli presso Colantonio, l’artista della corte di Alfonso d’Aragona. I pittori di Gand e di Bruges in quello scorcio di Quattrocento avevano molto più mercato dei grandi italiani; erano loro a dettare il gusto con quella capacità di rappresentare una realtà lenticolare nelle loro tavolette votive dipinte con una tecnica messa a punto nelle Fiandre: la pittura a olio. Ma in Van Eyck e negli altri la tecnica si trasformava in realtà in una formula alchemica, quasi fossero i nuovi “maghi” dell’arte; in loro la passione per i particolari evocava una sapienza nascosta: più scendevano nella rappresentazione minuziosa e straordinariamente abile dei dettagli, più li sottraevano alla conoscenza e al possesso di chi guardava. Più coglievano la realtà nel suo tessuto molecolare, più la allontanavano e la rendevano paradossalmente irreale.
Antonello invece compie un’operazione esattamente opposta. Svela tutto, rende tutto pubblico e partecipato. Prendete i suoi paesaggi, dipinti come sfondo di molti soggetti sacri, dal San Gerolamo di Reggio Calabria alla sequenza di alcune Crocifissioni sino alla Pietà veneziana: la rappresentazione di Messina e del suo golfo è sempre esatta, a volte precisa sin nel dettaglio topografico. È l’esatto opposto della tentazione di nascondere o di decontestualizzare: davanti ai suoi quadri, per quanto carichi di mistero, ci si ritrova, non ci si sente mai estranei.
Oppure prendete la sua famosa Madonna Annunziata (ne ha dipinte due: a Roma è arrivata solo la versione conservata a Palermo, per altro la più stupefacente). È un quadro senza una sbavatura, giusto in tutto: verrebbe da definirlo perfetto, se la categoria della perfezione non inducesse alla tentazione di un’“irrealtà”. Invece la perfezione stilistica di Antonello fa i conti con un’assoluta esattezza psicologica, per cui quello che dipinge corrisponde in modo totale a un “vero”. «Non può non essere andata che così», verrebbe voglia di dire guardando questo quadro che racconta l’attimo cruciale della storia della salvezza («in quello puncto che la Vergine concepì Christo», per usare le parole di uno dei predicatori più ascoltati di quegli anni in quelle terre, fra Roberto Caracciolo). Maria guarda davanti a sé piena di una dolcezza che non trova corrispettivo in nessuna parola, con una luce stupenda, tutta meridionale, che le scalda il volto. Ma il cuore del quadro è nella mano alzata, in un gesto impercettibile ma decisivo (sempre Longhi scriveva che quella era la più bella mano della storia della pittura: e il suo non era certo un giudizio soltanto estetico). È un gesto decisivo, ma pieno di apprensione. È un’adesione a una «possibilità delicatissima» (don Giussani). Se dovessimo cercare di descriverlo per negazioni, diremmo che è l’esatto opposto di un raptus. La pittura di Antonello infatti è una pittura calma e che agisce sempre in piena coscienza. È pittura alla luce del sole (e questa è un’altra grande differenza con i maestri nordici); è pittura che scantona dalle ombre, nel senso che le ombre, come quelle che cadono sul volto di Maria, sono sempre funzionali a un soprassalto di certezza.

Ma la delicatezza di Antonello in questo quadro, come anche nell’altra bellissima Annunciazione di Palazzolo Acreide, si spinge anche oltre. Ci dice che quello che sta accadendo non ha nulla di ineluttabile; che, al contrario, è una cosa che accade in assoluta gratuità e che quindi si rende palese con assoluta discrezione. Che non s’impone, ma arriva come un suggerimento. Che non ha nessun clamore. Che suscita stupore perché non solo non era prevista, ma sopravanza ogni previsione e ogni possibilità pensata. Perché non era iscritta da nessuna parte e in nessun cromosoma della realtà.
Per arrivare a questo punto di pudore e di equilibrio, Antonello lavora sulla dimensione tempo. I suoi quadri non si astraggono mai dal fluire del tempo, come accade al suo grande contemporaneo, Piero della Francesca, ma accettano di immergersi nel formicolio degli attimi che passano e che si consumano. Nei suoi quadri c’è sempre un senso della vita che scorre in completa normalità, un senso del quotidiano mai banale: non sono parentesi aperte dentro il tempo, ma punti di tempo dentro lo scorrere del tempo. La dolcezza della sua pittura si origina tutta da qui, non da una concessione al sentimentalismo, per quanto sublime, che aveva caratterizzato l’arte di un altro grande, conosciuto durante la sua breve e travolgente parentesi veneziana, Giovanni Bellini. La sua dolcezza consiste in quella sua capacità di sottrarsi al passato e di essere contemporaneo a noi. Di toccare ancora oggi il cuore, suggerendo la possibilità di una felicità più grande.  

 

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