Incompiutezza e promessa

dall’articolo di p. Antonio Spadaro S.I., Il mistero e il male. Flannery O’Connor e la storia della piccola Mary Ann (La Civiltà Cattolica 2005 II 323-335, quaderno 3718)


Nella primavera del 1960, la scrittrice Flannery O’Connor riceve una richiesta da suor Evangelist, la superiora della casa per malati di cancro «Nostra Signora del Perpetuo Soccorso» di Atlanta. La congregazione religiosa di suor Evangelist è quella fondata dalla serva di Dio Rose Hawthorne Lathrop, la figlia del grande scrittore Nathaniel Hawthorne, convertita con suo marito dal puritanesimo al cattolicesimo. Coraggiosa nella sua scelta, — che provocò a lei e al marito commenti di sdegno da parte della società puritana dell’East Coast, persino sui giornali — lo fu ancor di più quando, rimasta presto vedova, fondò con alcune amiche la congregazione domenicana delle «Serve del Sollievo del Cancro Incurabile (The Servants of Relief for Incurable Cancer)», oggi «Suore Domenicane di Hawthorne.

Ecco il senso della lettera di suor Evangelist nel racconto della scrittrice: “Questa è una strana richiesta”, diceva, “ma cercheremo di esporre la nostra storia il più brevemente possibile. Nel 1949 una bimba di tre anni, Mary Ann, venne accolta come paziente nella nostra casa. Si rivelò una bambina straordinaria, e visse fino all’età di dodici anni. Di questi nove anni molto merita di essere raccontato. Pazienti, visitatori, suore, tutti furono in qualche modo influenzati da questa bambina malata, anche se nessuno pensava a lei come a una malata. È vero, era nata con un tumore che le copriva un lato del viso; un occhio le era stato tolto, ma l’altro brillava, ammiccava, danzava birichino, e dopo averla vista una volta non ci si rendeva più conto del suo difetto fisico, ma si riconosceva soltanto il suo spirito splendidamente coraggioso e si provava gioia per averla incontrata. Dunque la storia di Mary Ann deve essere scritta, ma chi potrebbe farlo?”.

La O’Connor prese carta e penna e scrisse a Suor Evangelist che, se qualcosa andava scritto su quella bambina, doveva essere «un resoconto fattuale (factual story)» e che dunque a farlo potevano essere soltanto le suore stesse che l’avevano conosciuta e assistita. Ne era sicura. Lei, da parte sua, sarebbe stata felice di aiutarle, apportando le eventuali correzioni che si sarebbero rese necessarie.

(Pensava così di dissuaderle...) invece il manoscritto arrivò nel giro di poco tempo, il successivo primo agosto. Era un disastro di forma e di stile: nessuna drammatizzazione, pochi punti forti, espressioni vaghe... Eppure, finita la lettura, la O’Connor rimane a lungo a pensare al «mistero di Mary Ann (the mistery of Mary Ann)»: le suore, nonostante tutto, erano riuscite a trasmetterglielo.

La O’Connor pone un parallelismo geniale tra lo scritto delle suore, così imperfetto, e il suo oggetto, cioè il volto imperfetto e sfigurato della piccola Mary Ann. Entrambi risultano ai suoi occhi non «deturpati», «brutti», come se la loro fosse una condizione oggettiva, data e chiusa in se stessa irrimediabilmente. No, essi sono «incompiuti»: «Il racconto era incompiuto come il volto della bambina. Entrambi sembravano lasciati, come la creazione al settimo giorno, perché altri li finissero. Il lettore era chiamato a fare qualcosa del racconto come Mary Ann aveva fatto qualcosa del suo viso». L’incompiutezza richiama una dinamica di compimento, la messa in moto di energie sopite, la capacità di far fruttare quella negatività di cui sia il volto della bambina sia quel racconto erano testimonianza evidente.

Così, intuisce la O’Connor, il compimento di una vita umana, ancor più evidentemente incompiuta (unfinished) a causa di una grave malattia, è fuori di essa e dunque «l’azione creativa della vita del Cristiano consiste nel preparare la propria morte in Cristo. È un’azione continua in cui i beni di questo mondo sono utilizzati al massimo, sia quelli positivi sia quelli che Père Teilhard de Chardin chiama “diminuzioni passive”. La diminuzione di Mary Ann era estrema, ma lei era preparata, grazie a una naturale intelligenza e a una educazione appropriata, non solo a sopportarla, ma a costruire su di essa». La condizione di incompiutezza, resa drammatica dalla malattia, la sua personale e quella di Mary Ann, non è per la O’Connor motivo di angustia né occasione propizia per meditazioni dolenti — per quanto legittime — sulla debolezza e sulla fragilità dell’esistenza.

Ciò che però più colpisce è il fatto che non ci sia spazio neanche per naturali e profonde domande sul dolore innocente né per quelle riflessioni sulla morte, che hanno caratterizzato il Novecento letterario in alcune sue altissime espressioni. La cifra del male non è la détresse, né l’angoscia, né la «gettatezza» — termine heideggeriano — dell’uomo nel mondo, ma l’incompiutezza, la condizione di essere in attesa di un compimento, che però mobilita un’azione creativa (creative action) e continua (continuous action) per la quale tutto, beni e mali, sono risorse.

Una coscienza formata al mistero e al suo insondabile fascino, giunta a questo punto, avrebbe potuto immergersi in riflessioni dense e alte, ardite e profonde, su come vivere la sofferenza e sulla preparazione alla morte, come attesa di un compimento. La O’Connor invece preferisce dare spazio semplicemente al «resoconto fattuale» e scrive di Mary Ann in maniera del tutto prosaica: «La sua fu un’educazione alla morte, ma non condotta in maniera invadente. Le sue giornate furono piene di cani e di vestitini per la festa, di suore e di sorelle, di coca-cola e panini, e dei suoi molti e diversi amici – da Mr. Slack e Mr. Connolly a Lucius, il giardiniere; da pazienti malati come lei a bambini portati alla Casa per farle visita […]». Di certo l’amore per la vita una volta aveva spinto la bambina a stringere «con tanta forza un hamburger da precipitare all’indietro dalla sedia senza lasciarlo cadere».

La O’Connor è consapevole che coi propri modi bruschi sta toccando le corde profonde e sensibili di grandi scrittori, giungendo a un confronto con il loro modo di vedere la vita. E non ha remore a scrivere: «La morte è il tema di tanta letteratura moderna: Morte a Venezia, Morte di un commesso viaggiatore, Morte nel pomeriggio, Morte di un uomo. Quella di Mary Ann era la morte di una bambina. Più semplice di ognuna di queste, ma infinitamente più rivelatrice (infinitely more knowing)». Cioè, posta sul mero piano della capacità di conoscenza, la vicenda della morte di Mary Ann, che a lei giunge attraverso il racconto di un gruppo di suore che tutto sono tranne che scrittrici di professione, è infinitamente maggiore delle «morti» descritte da autori quali Thomas Mann, Arthur Miller ed Ernest Hemingway. La O’Connor è talmente consapevole di ciò che sta dicendo da citare quegli autori che più e meglio di altri, forse, hanno saputo interrogarsi in maniera viscerale col dramma del dolore, cioè Camus e Dostoevskij: «Una delle tendenze della nostra epoca — scrive — è di usare la sofferenza dei bambini per screditare la bontà di Dio, e una volta scredidata la sua bontà, aver chiuso il conto con lui. […] Intenti a tagliar via l’umana imperfezione stanno facendo progressi anche sulla materia prima del bene. Ivan Karamazov non può credere finché ci sia un bambino che soffre; l’eroe di Camus non può accettare la divinità di Cristo per via del massacro degli innocenti».

La riflessione che consegue è sconcertante, forse, ma di raro coraggio, reso con lo stile essenziale, chiaro, immediato e diretto che caratterizza la prosa della scrittrice: «In questa pietà popolare si guadagna in sensibilità e si perde in visione. Se sentivano meno, altre epoche vedevano di più, anche se vedevano con l’occhio cieco, profetico, insensibile dell’accettazione, vale a dire della fede. Ora in assenza di questa fede siamo governati dalla tenerezza. Una tenerezza che da tempo, staccata dalla persona di Cristo, è avvolta nella teoria. Quando la tenerezza è separata dalla sorgente della tenerezza, la sua logica conseguenza è il terrore. Finisce nei campi di lavoro forzato e nei fumi delle camere a gas».

Lette queste righe, tremano vene e polsi, si resta col fiato sospeso e si avverte la necessità di rileggerle, tanto appaiono ovvie e, insieme, sconcertanti. I passaggi sono velocissimi. Forse troppo. Ci si chiede se esse siano frutto di un freddo cinismo o di una fede talmente calda da ustionare. Non una parola è dedicata alla «giustificazione» di Dio, della sua immobilità davanti al dolore innocente e incomprensibile: nessuna ribellione e nessuna facile teodicea. Non si cercano (e non si trovano) risposte al problema del male. Non si fa neanche alcun rinvio alla responsabilità dell’uomo come alibi per «assolvere» Dio e per aiutare l’uomo ad essere più responsabile. Nulla di tutto questo. La O’Connor giunge persino a polemizzare in maniera sottile ma evidente persino col vescovo, mons. Hyland che, celebrando i funerali della bambina, si era chiesto perché fosse morta. Secondo la O’Connor, invece, avrebbe dovuto chiedersi piuttosto perché fosse nata, cioè interrogarsi sul mistero della sua esistenza! E così, dunque, che il termine «mistero» nelle righe della «Introduzione» non è attribuito al male o alla morte, ma alla persona stessa della piccola Mary Ann. Lei è il vero mistero di imperfezione e di attesa di compimento, non il più generale «male del mondo».

La risposta è secca. Che cosa, dunque, ci vuol dire la scrittrice, essa stessa segnata nel fisico dal dolore e dalla malattia? Non intende negare che il calore del sentimento e della sensibilità sia importante e debba avere il proprio spazio. Tuttavia la fraternità, la solidarietà della O’Connor è totalmente non sentimentale. Lei vuole aggiungere, anzi, che l’alta temperatura del sentimento, paradossalmente, rischia di appannare gli occhi e di far perdere in «visione». Soltanto una grande capacità di visione riesce a mettere a fuoco, in qualche modo, la prospettiva lontana delle imperfezioni e delle assurdità umane, decifrandole come incompletezze in attesa di compimento. Ma senza questa visione resta l’assurdo della incomprensione e del sentimento tragico. Non ci sono vie di uscita. Quest’occhio capace di «visione» può essere rozzo, primitivo, insensibile, cieco, e tuttavia è certamente «profetico». E per la narrativa, come per la fede, un occhio profetico vale molto di più di un occhio sensibile.

Avere fede significa avere un occhio profetico sulla vita e sul mondo.

La O’Connor riconosce nelle Serve del Sollievo del Cancro Incurabile non una generica attitudine alla tenerezza sentimentale nei confronti di una bambina malata, ma un occhio profetico, che sa vedere nel dramma la traccia di un destino. Se invece prevale l’occhio sensibile, allora prevale anche una vaga «tenerezza», una compassione priva di radici lontane, la cui logica conseguenza, scrive la O’Connor, sono il terrore, i campi di lavoro forzato e i fumi delle camere a gas.

Perché questa affermazione così drastica e irritante? Perché il rischio è la trasformazione della carità in idea o, meglio, in ideologia del bene per l’umanità. La carità che non sa accettare l’incompletezza (e non solamente la debolezza) della condizione umana rischia di rimanere cieca, imbrigliata in un confronto con l’utopia di un uomo e di un mondo perfetto e ideale, in cui non c’è più dolore e male. E, in effetti, in nome del maggior bene dell’uomo e della società umana, in nome della realizzazione di paradisi in terra, sono stati commessi nella storia atroci delitti.

Serve dunque un occhio profetico per guardare il male e la sua dimensione grottesca. Ma serve un simile occhio anche per guardare il bene e per riconoscerlo. Pochi, a giudizio della O’Connor, «l’hanno fissato abbastanza a lungo da accettare il fatto che anche il suo aspetto è grottesco (its face too is grotesque)». Pure quest’affermazione può apparire paradossale, se non ben intesa. Il bene è grottesco? No, non il bene in se stesso, ma il suo aspetto nel mondo. In genere, le forme del bene «devono accontentarsi di un cliché o di una lisciatina che ammorbidisce il loro aspetto reale (a smoothing down that will soften their real look)». Il bene, infatti, spesso è rappresentato in maniera dolce, tenera, delicata. E invece la sua realtà è di essere anch’esso «in corso d’opera (under construction)», e dunque incompiuto. Esso dunque può avere un look — per usare alla lettera il termine della O’Connor — non del tutto piacente e gradevole. È questa, in fondo, la chiave di lettura di tutti i suoi racconti. Così, quando «guardiamo in faccia il bene possiamo trovarci di fronte a una faccia come quella di Mary Ann, piena di promessa». Sì, la faccia deturpata della piccola malata è full of promise.

Ecco il punto per accettare il quale è necessaria una grande fede: dietro una grande imperfezione (dolore, malattia, tribolazione…) umana c’è una incompiutezza che resta assurda, monca, tronca, se non intesa come luogo di una promessa di pienezza. Tutte le necessarie azioni umane, tutti gli sforzi contro il male e la sofferenza, ricevono luce all’interno di questa prospettiva lunga e ampia. Anche il bene, dunque, può assumere un volto non sempre «esteticamente» gradevole, proprio perché promessa non ancora realizzata pienamente. È sempre possibile dunque che si presenti sub contraria specie. La realtà umana, vista così, assume una grande plasticità e un forte dinamismo: nulla è possibile guardare con occhio formato alle categorie cristallizzate dall’abitudine, che non servono più. Questa visione è possibile soltanto all’occhio profetico, ovviamente, che diventa il vero e radicale (per quanto invisibile) criterio per leggere ciò che ci accade sotto gli occhi.

N.B. L’articolo di p.Antonio Spadaro è una riflessione sul testo di F.O’Connor, Il mistero di Mary Ann, in il Giornale, 3 ottobre 2004. La traduzione italiana è di Chiara Martini e Benedetta Scafa con la collaborazione del prof.Gaetano Prampolini. Il testo originale è in F.O’Connor, Collected Works, New York, The Library of America, 1988, 822-831. L’edizione originale del volume è A memory of Mary Ann, New York, Farrar Straus and Cudhay, 1961.


 

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