Natale (da Joseph Ratzinger)

Natale
da Chi ci aiuta a vivere? Su Dio e l’uomo, Queriniana, pagg.97-103
di Joseph Ratzinger


Le luci del natale risplendono nuovamente nelle nostre stra­de, l'operazione natale è in pieno svolgimento. Per un momen­to, anche la chiesa viene resa partecipe, per così dire, della con­giuntura favorevole: nella notte santa le case di Dio si stipano di tutte quelle persone che poi, per molto tempo, passeranno nuo­vamente dinanzi alle porte delle chiese come davanti a qualcosa di molto lontano ed estraneo, che non li riguarda. Ma, in questa notte, chiesa e mondo sembrano per un istante riconciliati. Ed è davvero bello! Le luci, l'incenso, la musica, lo sguardo delle persone che riescono ancora a credere e, infine, il misterioso e antico messaggio del bambino, nato molto tempo fa a Betlem­me e chiamato il redentore del mondo: «Cristo, il salvatore, è qui!». Questa idea ci commuove. Eppure, i concetti che ora udiamo di ‘redenzione’, ‘peccato’, ‘salvezza’ risuonano come parole provenienti da un mondo da tempo ormai passato; forse questo mondo era bello, ma, in ogni caso, non è più il nostro. O lo è, invece? Il mondo in cui sorse la festa di natale era domina­to da un sentimento che è molto simile al nostro. Si trattava di un mondo in cui il ‘crepuscolo degli dèi’ non era uno slogan, ma un fatto reale. Gli antichi dei erano a un tratto divenuti irreali: non esistevano più, la gente non riusciva più a credere ciò che per generazioni aveva dato senso e stabilità alla vita. Ma l'uomo non può vivere senza senso, ne ha bisogno come del pane quoti­diano. Così, tramontati gli antichi astri, egli dovette cercare nuove luci. Ma dov'erano? Una corrente abbastanza diffusa gli offriva come alternativa il culto della ‘luce invitta’, del sole, che giorno dopo giorno percorre il suo corso sopra la terra, sicuro della vittoria e forte, quasi come un dio visibile di questo mon­do. Il 25 dicembre, al centro com'è dei giorni del solstizio inver­nale, doveva essere commemorato come il giorno natale, ricor­rente ogni anno, della luce che si rigenera in tutti i tramonti, ga­ranzia radiosa che, in tutti i tramonti delle luci caduche, la luce e la speranza del mondo non vengono meno e da tutti i tramonti si diparte una strada che conduce a un nuovo inizio.

Le liturgie della religione del sole avevano molto abilmente assunto un'angoscia e una speranza originarie dell'uomo. L'uo­mo primitivo che, in passato, nelle notti sempre più lunghe d'autunno e nella forza sempre più debole del sole, aveva avver­tito l'arrivo dell'inverno, si era chiesto ogni volta con angoscia: muore davvero il sole dorato? Ritornerà? O finirà, quest'anno o un altr'anno, con l'esser vinto dalle forze maligne delle tenebre, così da non ritornare mai più? Il sapere che ogni anno ritornava il solstizio d'inverno garantiva in fondo la certezza della rinno­vata vittoria del sole, del suo sicuro e perpetuo ritorno. È la fe­sta in cui si compendia la speranza, anzi, la certezza dell'indi­struttibilità delle luci di questo mondo. Quest'epoca, nella qua­le alcuni imperatori romani avevano cercato di dare ai loro sud­diti, in mezzo all'inarrestabile caduta delle antiche divinità, una fede nuova con il culto del sole invitto, coincide col tempo in cui la fede cristiana tese la sua mano all'uomo greco-romano. Essa trovò nel culto del sole uno dei suoi nemici più pericolosi. Tale segno, infatti, era posto troppo palesemente davanti agli occhi degli uomini, in maniera molto più palese e allettante del segno della croce, col quale procedevano gli araldi cristiani. Ciononostante, la fede e la luce invisibile di questi ultimi ebbe­ro il sopravvento sul messaggio visibile, col quale l'antico paga­nesimo aveva cercato di affermarsi.

Molto presto i cristiani rivendicarono per loro il 25 dicem­bre, il giorno natale della luce invitta, e lo celebrarono come na­tale di Cristo, come giorno in cui essi avevano trovato la vera lu­ce del mondo. Essi dissero ai pagani: il sole è buono e noi ci ral­legriamo non meno di voi per la sua continua vittoria, ma il sole non possiede alcuna forza da se stesso. Può esistere e aver forza solo perché Dio lo ha creato. Esso ci parla quindi della vera lu­ce, di Dio. E il vero Dio che si deve celebrare, la sorgente origi­naria di ogni luce, non la sua opera, che non avrebbe alcuna for­za da sola. Ma questo non è ancora tutto, non è ancora la cosa più importante. Non vi siete accorti forse che esistono un'oscu­rità e un freddo, nei riguardi dei quali il sole è impotente? È quel freddo che sorge dal cuore ottenebrato dell'uomo: odio, ingiustizia, cinico abuso della verità, crudeltà e degradazione dell'uomo... A questo punto, ci accorgiamo, come d'improvviso, che tutto questo è per noi stimolante e attuale, sentiamo che il dialogo del cristiano con gli adoratori romani del sole è, al tempo stesso, il dialogo del credente di oggi col suo fratello in­credulo, è il dialogo incessante tra fede e mondo. Ma, si dice, la paura primitiva che il sole potrebbe un giorno morire, da tempo ormai non ci preoccupa più. La fisica, col fresco alito delle sue chiare formule, l'ha da tempo uccisa. È vero, l'angoscia primiti­va è passata, ma si può dire che l'angoscia sia con questo davve­ro scomparsa? O, forse, non è sempre l'uomo un essere d'ango­scia, a tal punto che la filosofia odierna indica l'angoscia addi­rittura come ‘esistenziale fondamentale’ dell'uomo? Quale periodo della storia dell'umanità ha sperimentato, più del nostro, un'angoscia maggiore di fronte al proprio futuro? Forse l'uomo di oggi si accanisce nel presente solo perché non riesce a guar­dare in faccia il futuro: il solo pensarvi gli procura degli incubi. In altre parole, non abbiamo più paura che il sole possa esser vinto un giorno dalle tenebre e non ritorni più. Ma noi temiamo l'oscurità che viene dagli uomini. Abbiamo così scoperto la vera tenebra e, in questo secolo di inumanità, la avvertiamo più spa­ventosa di quanto poterono pensare le generazioni che ci hanno preceduto. Abbiamo paura che il bene divenga davvero impo­tente nel mondo, che a poco a poco non abbia più senso sfor­zarsi a praticare verità, purezza, giustizia, amore, perché ormai nel mondo vale la legge di chi meglio sa farsi strada a gomitate, perché il cammino del mondo dà ragione a chi è senza scrupoli, ai brutali, non ai santi. Infatti, vediamo dominare il denaro, la bomba atomica, il cinismo di coloro per i quali non esiste nulla di sacro. Sovente ci sorprendiamo in preda al timore che, alla fi­ne, non vi sia alcun senso nel caotico corso di questo mondo, e ci pare che, in definitiva, la storia del mondo non distingua altro che gli stolti e i forti... Regna la sensazione che le forze oscure aumentano, che il bene è impotente. Alla vista del mondo, ci co­glie d'improvviso quel sentimento che, in passato, le persone dovettero provare quando, in autunno e inverno, il sole sembra­va combattere la sua agonia. Vincerà, il sole, questa battaglia? Il bene otterrà senso e forza nel mondo? Nella stalla di Betlemme ci è offerto il segno che ci fa rispondere lieti: sì. Infatti, questo bambino - il Figlio unigenito di Dio - è posto come segno e ga­ranzia che, nella storia del mondo, l'ultima parola spetta a Dio, a lui che è la verità e l'amore. Questo è il senso vero del Natale: è il «giorno in cui nasce la luce invitta», il solstizio d'inverno della storia mondiale. In mezzo all'altalena di questa storia ci è data la certezza che la luce non morirà, ma tiene già nelle sue mani la vittoria finale. Il Natale allontana da noi la seconda, più grande angoscia, che nessuna fisica può disperdere, la paura per l'uomo e dell'uomo stesso. Noi possediamo la certezza divina che la luce ha già vinto nella profondità occulta della storia e che tutti i progressi del male nel mondo, per grandi che essi siano, non possono assolutamente cambiare le cose. Il solstizio invernale della storia si è irrevocabilmente verificato con la nascita del bambino di Betlemme.

Ma qualcosa sorprende certamente in questa nascita della lu­ce, in questo ingresso del bene nel mondo, e ciò potrebbe tor­nare a riempirci di un'inquietante certezza e farci chiedere se il fatto grande di cui parliamo sia realmente avvenuto lì, nella stal­la di Betlemme. Il sole è grande, magnifico e potente; nessuno può ignorare la sua annuale corsa trionfale. Il suo creatore non dovrebbe essere ancora più potente e più inconfondibile nella sua venuta? Questo sorgere del sole della storia non dovrebbe inondare il volto della terra di indicibile splendore? E invece... Quanto è misero tutto ciò di cui ci parla il vangelo! O, forse, de­v'essere proprio questa povertà, l'insignificanza per il mondo, il segno con cui il Creatore manifesta la sua presenza? A prima vi­sta, questa sembrerebbe un'idea inconcepibile. Eppure, chi ap­profondisce il mistero del governo divino, quale appare soprat­tutto negli scritti dell'antica e della nuova Alleanza, capisce sempre più chiaramente che esiste un duplice segno di Dio. Vi è, anzitutto, il segno della creazione, che, tramite la sua gran­dezza e magnificenza, ci fa presentire colui che è ancora più grande e magnifico. Ma, accanto a questo segno, si fa avanti sempre più fortemente l'altro, il segno costituito da ciò che è in­significante per il mondo: con esso Dio si afferma come total­mente altro nei confronti di tutto il mondo, per farci così capire che egli non può essere misurato con i criteri di questo mondo, che egli sta al di là di ogni sua dimensione. Forse, il miglior mo­do per comprendere questa singolare opposizione dei due se­gni, in cui Dio si afferma, e per capire la natura del secondo se­gno, del segno dell'umiltà, è quello di guardare all'opposizione che esiste tra la predicazione messianica di Giovanni Battista e la realtà messianica di Gesù stesso. Giovanni aveva descritto co­lui che doveva venire secondo le concezioni veterotestamenta­rie, in modo grandioso, come colui che pone la scure alla radice dell'umanità, come giudice pieno di collera santa e di potenza divina. Come è diverso quando viene! Egli è il Messia che non grida e non fa chiasso per le strade, che non spezza la canna in­crinata e non spegne lo stoppino dall'esile fiamma (Is 42,2s.). Giovanni aveva saputo che sarebbe stato più grande di lui, ma non aveva conosciuto la natura della sua grandezza: essa consi­ste nell'umiltà, nell'amore, nella croce, in quei valori della se­gretezza e del silenzio che Gesù stabilisce nel mondo come su­premi valori. La vera grandezza non risiede, in definitiva, nella grandezza delle dimensioni fisiche, ma in ciò che non risulta più misurabile per mezzo di esse. In verità, ciò che secondo le misu­re fisiche è grande, è solo una forma molto provvisoria di gran­dezza. In questo mondo i veri e supremi valori si presentano proprio sotto il segno dell'umiltà, della segretezza, del silenzio. Ciò che è essenzialmente grande nel mondo, ciò da cui dipende il suo destino e la sua storia, è quello che appare piccolo ai no­stri occhi. A Betlemme Dio, il quale aveva scelto come suo po­polo il piccolo e dimenticato popolo d'Israele, ha posto definiti­vamente il segno della piccolezza come distintivo essenziale del­la sua presenza in questo mondo. Ecco la decisione - la fede - della notte santa: noi lo dobbiamo accogliere in questo segno e fidarci di lui senza mormorare. Accoglierlo significa porre se stessi sotto questo segno, sotto la verità e l'amore, che sono i va­lori più alti e più simili a Dio e, al tempo stesso, i più dimenticati e più silenziosi.

Mi sia concesso, a conclusione, di narrare una storia della mi­tologia indiana, che ha presentito in maniera davvero sorpren­dente questo mistero della piccolezza divina. In uno dei miti che circondano la figura di Visnu si dice che gli dèi sarebbero stati sopraffatti dai demoni e avrebbero dovuto stare a guardarli mentre essi si dividevano tra loro il mondo. Escogitarono allora un sotterfugio: chiesero ai demoni solo tanta terra quanta il mi­nuscolo corpo nano di Visnu riusciva a coprire. Gli spiriti mali­gni acconsentirono. Una cosa però non avevano sospettato: Vi­snu, il nano, era il sacrificio che compenetrava il mondo intero e così, per mezzo suo, il mondo fu restituito agli dèi. Questo rac­conto può sembrare a qualcuno come un sogno, che, attraverso appunto la confusa prospettiva del sogno, fa sospettare la figura del reale. In effetti, è la minuscola realtà del sacrificio, dell'amo­re vicario, che alla fine si dimostra più forte di ogni potenza dei forti e che, alla fine, compenetra e trasforma il mondo con la sua misera insignificanza. Nel bambino di Betlemme, tale potenza invincibile dell'amore divino è entrata in questo mondo. Que­sto bambino è l'unica vera speranza del mondo. E noi siamo chiamati a metterci dalla sua parte; ad affidarci a Dio, il cui se­gno sono divenute la piccolezza e la bassezza. Ma, in questa notte, il nostro cuore dev'essere riempito di grande gioia, per­ché, malgrado tutte le apparenze, è e rimane vero che Cristo, il nostro salvatore, è qui.

 

TORNA ALL'INDICE